Vivi pur figlia mia vergine, e casta,
Le disse il padre; ma veggio in effetto,
Che al desiderio, c’hai troppo contrasta
Cotesto vago tuo leggiadro aspetto.
Febo l’ama, e la mira, e non gli basta,
Vorria sposarla, e far comune il letto,
La spera, e ne compiace à i desir sui,
Ma gli oracoli suoi mentono à lui.
Come l’arida stoppia accende il foco,
Ó secca siepe, e manda in aria il vampo,
Comincia in una parte, e à poco à poco
Rinforza intorno, e rende maggior lampo;
Si sparge al fin l’incendio in ogni loco,
E tien tutta la siepe, e tutto ’l campo:
Così il foco di Apollo al cor ridutto,
Al fin si sparse, e l’infiammò, per tutto.
Vede à la Ninfa inculti i suoi crin d’oro,
E che sarian (disse egli) essendo ornati,
Raccolti in qualche vago, e bel lavoro,
Fra gemme, et oro, in piu fogge intrecciati?
Loda la maestà, loda il decoro,
De’ santi modi suoi leggiadri, e grati,
Ma più quel vago lume il tira, e alletta,
Onde il folgora amor sempre, e saetta.
D’ogni parte del viso adorna, e piena
Di gratia, e di beltà, diletto prende.
Di speme il pasce l’aria sua serena,
E la benignità, ch’ivi risplende.
Loda la dolce bocca, e duolsi, e pena,
Che i frutti suoi non prova, e non intende.
Le braccia mezze ignude ammira, e quelle
Parti, che ascose son, crede più belle.
Vede l’accorta Ninfa il bello Dio,
Che così intento, e fiso la riguarda,
E perche ha ’l cor contrario al suo desio,
Prende una fuga subita, e gagliarda:
Ma non sì tosto il corso i piedi aprio,
Che la mossa di lui non fu men tarda.
Fugge ella, ei segue, e ’n queste dolci note
Le parla, nè perciò fermar la puote.
Deh non fuggir, vaga fanciulla, e bella
Dal gaudio d’ambedue, dal piacer nostro,
Come fugge colomba, ò tortorella
De l’Aquila crudel, l’artiglio, e ’l rostro,
Come dal lupo la timida agnella,
Come si fugge un spaventoso mostro:
Ben’e’l dover, se’l nemico si fugge,
Ma non chi per amor segue e si strugge.
Guarda quei pruni, oime, ferma i tuoi passi,
Che non t’involin l’aureo sparso crine.
Oime s’in qualche tronco t’intoppassi
Fra sì precipitose, alte ruine,
Et io fossi cagion, che dirupassi,
Per aspri scogli, e fra pungenti spine,
Qual mal potrei trovar sì duro, e forte,
Che potesse ad un Dio porger la morte?
Deh non gir sì veloce, et habbi mente
Se qualche acuta spina in terra siede,
Che con la punta sua dura, e pungente,
Non fesse oltraggio al tuo tenero piede,
Ó serpe, ò d’altro, insidioso dente,
Che s’asconde fra l’herba, e non si vede.
Và Ninfa và, con passo men gagliardo,
Et anchor’io ti seguirò più tardo.
Cerca, e discorri, à cui non porti amore,
Chi fuggi, e chi sia quel, di cui paventi.
Io non son montanar, non son pastore,
Non guardo rozzo qui gregge, od armenti:
Deh volgi un poco à me la fronte, e ’l core,
Tien nel mio volto i tuoi begli occhi intenti,
Non sai stolta, non sai chi fuggi; e credi
Forse molto veder, ma nulla vedi.
Huom terrestre io non son, ma dio del cielo,
Ben che’n terra ho domino illustre, e raro;
Che son signor di Tenedo, e di Delo,
E di Delfo, e di Patara, e di Claro:
Toglio à la notte il tenebroso velo,
E rendo al mondo il dì splendido, e chiaro.
Quel ch’è, ciò che già fu, quanto poi fia,
Si può saper per la scientia mia.