Adone/Canto XX
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ALLEGORIA
I Giuochi Adonii instituiti da Venere nell’essequie d’Adone, sono per farci intendere che quegli amici, i quali veramente di cuore amano, non lasciano con tutte l’ufficiose dimostrazioni possibili d’onorare eziandio dopo la morte la memoria di coloro che hanno amati in vita. Nella giostra, che dopo il tirar dell’arco, il ballo, la lotta e la scherma de’ due precedenti, è lo spettacolo del terzo ed ultimo giorno, oltre i Cavalieri Barbari, che v’intervengono, sono adombrate molte famiglie principali d’Italia. Tra le Romane ve n’ha primieramente quattro, che vengono da Pontefici, come Farnesi, Peretti, Aldobrandini, e Borghesi. L’altre che seguono, sono Colonnesi, Orsini, Conti, Savelli, Gaetani, Sforzi. Cesarini, Cesi, Crescenzii, Frangipani, Molari, Cafarelli, Santacroci, e Mattei. Vi si aggiugne di piú il giovane sposo Lodovisio, nipote di Papa Gregorio il decimoquinto, congiunto ultimamente in matrimonio con la Gesualda, Prencipessa di Venosa. Per la persona di Sergio Carrafa s’intende il Prencipe di Stigliano, che cosí (per quanto dicono) si chiamò il primo capo di quella casa. Ne’ tre fratelli che vengono appresso, si figurano i tre figliuoli secolari del Serenissimo Duca di Savoia. L’uno è detto Doresio della Dora, fiume del Piemonte; l’altro Alpino dall’Alpi, presso alle quali è il dominio di que’ Prencipi; il terzo Leucippo, che vuol dire Cavallo bianco, il quale è la divisa antica di quelle Altezze. I due che sono gli ultimi a comparire, rappresentano Spagna, e Francia. Austria si nomina la Guerriera, ch’è il cognome dell’una; Fiam- madoro il Cavaliere, cioè Oriflamma, ch’è l’istoria nota dello scudo
dell’altra. A quella si dánno e il Leone e l’Aquila; l’uno per esser Tarme di Castiglia, l’altra per la possessione dell’Imperio, e l’uno e l’altra come geroglifici della magnanimitá. A questo si dánno il Giglio e il Gallo; l’uno per significare il sú detto scudo, l’altro perché allude al nome della Gallia, ed è dedicato a Marte, che predomina quella nazione. Nella battaglia che passa tra loro, si accennano le guerre passate; e negli amori che succedono tra amendue, si dinota il maritaggio seguito tra questa Corona e quella. Il pronostico d’Apollo sopra lo scudo di Vulcano, contiene le lodi del Re Lodovico, ed in breve compendio tutti i
progressi della guerra mossa contro gli Ugonotti.ARGOMENTO
Dopo l’essequie nobili e pompose
Venere instituisce i giochi estremi;
e compartiti ai vincitori i premi,
il vel si squarcia a le future cose.
Ed ecco alfín dopo camin sí lungo
scorge la meta il mio corsier giá stanco,
onde con maggior fretta io sferzo e pungo
al pigro ingegno il travagliato fianco.
Giá la voce vien men, ma mentr’io giungo
presso a l’estremo, augel canoro e bianco,
vorrei purgando il rauco spirto alquanto
far vie piú dolce, e non mortale il canto.
Qual volubile ordigno, il cui volume
misura quel che dá misura al moto,
giunto al tocco de l’ora, oltre il costume
veloci i giri accelerando io roto.
Quasi lucerna, in cui s’estingue il lume
quando il vasel d’ogni alimento è vóto,
svegliando il vigor languido mi sforzo
raddoppiar lo splendor, mentre l’ammorzo.
3.Somiglio peregrin, che ’nfermo e fioco
trascorsa giá quella contrada e questa,
del patrio tetto, e del paterno foco
scoprendo i fumi, i voti al tempio appresta.
Sembro nocchier, che fatto un tempo gioco
per l’immenso Ocean de la tempesta,
tosto che de la riva arriva al segno,
ripiglia il remo, e dá la spinta al legno.
4.Son Leandro novello, a cui tra Tonde
mostra lucida lampa eccelsa rocca.
Ma mentre da vicin mira le sponde,
mentre ch’ad or ad or la terra tocca,
in guisa il mar orribile il confonde.
che gli manca tremante il fiato in bocca,
e lasciar teme pria ch’attinga il Udo,
tra gli scogli sommerso, il debil grido.
5.Pur tale e sí benigna è la mia scorta,
sí chiara splende, e sí serena e bella,
che dal polo reai mi riconforta
in sí dubbiosa e torbida procella;
né tem’io giá che mi sia spenta o morta,
perché mai non tramonta Artica stella;
e può piú tosto il Sol perder la luce,
che quel raggio immortai che mi conduce.
6.Dunque che fai? rinfranca ed avalora,
ahi lento nuotator, le forze oppresse!
Ben ha tanto il tuo stil di lena ancora
che ti basta a compir l’alte promesse.
Ecco giá desta in Ciel sorge l’Aurora,
sorga la Musa al bel lavor che tesse.
Giá con l’ultimo fil Febo la chiama
de la gran tela a terminar la trama.
7.L a Ninfa d’Oriente aprendo il grembo
tra nuvoletti candidi e vermigli,
dolce versava ed odorato nembo
di pura manna e di celesti gigli.
Garriano intorno al rugiadoso lembo
i dipinti de l’aria alati figli,
e per l’ampio seren Favonio e Clori
scoteano i vanni, e precorrean gli albori.
8.Sereno il Ciel, d’un’aurea luce viva
fregiava l’aere puro e cristallino,
e d’odor molli, mentre il Sole usciva,
seminava le vie del suo camino;
ed a la funeral pompa festiva
apria da l’uscio d’oro e di rubino,
da mille trombe salutato intorno,
di mille lampi incoronato il giorno.
9.Tranquillo il mar, de l’onde sue facea
senz’alcun monte una pianura eguale,
e quasi una gran tavola parea
tinta di schietto azurro Orientale;
e come in specchio di zaffir, v’ardea
in tal guisa del Ciel l’oro immortale,
che detto avresti — O che nel mar profondo
sommerso è il Sole, o c’ha duo Soli il mondo.
10.Verdeggiante la terra, e di bei fiori
vestito il prato, e di color novelli,
richiamava ridendo i suoi Pastori
a le ghirlande, ai pascoli gli agnelli.
Spandea liet’ombre il bosco, e spettatori
de’ bei certami i venti e gli arboscelli
taceano intenti al nobile apparato
fermando il moto, e sospendendo il fiato.
11.Tratta i Zefiri a volo e l’aria scorre
del celeste Senato il messo eterno;
e non fa sol le Deitá raccòrre
c’han de la terra o c’han del Ciel governo,
ma chiamata vi tragge e vi concorre
del pelago la turba, e de ITnferno.
Sol Marte irato, e sol Vulcan dolente
non vòlse ai propri scorni esser presente.
12.Ad onorar le dolorose feste,
instituite al funeral d’Adone,
da lo stellante suo trono celeste
col consorte immortai scese Giunone.
Per sí nove mirar pompe funeste
la cieca reggia abbandonò Plutone.
E per far quell’onor vie piú sollenne
il gran Giove de Tacque anco vi venne.
13.Oltre Cerere e Bacco, oltre la madre
del forte Achille, e ’l figlio di Latona,
d’altri Dei, d’altre Dee v’ha varie squadre,
Berecinthia con Cinthia, Isi e Bellona.
Themi e Vesta vi son, né men leggiadre,
Iride ed Hebe, e Flora èvvi, e Pomona.
Giano, Como, Thalassio, indi s’asside
tra gl’immortali immortalato Alcide.
14.L’ordin non si confonde, a ciascun dassi
secondo il proprio merito la sede;
e Mercurio il mazzier, dispon le classi
e d’onor pari al grado altrui provede.
A tutti gli altri Dei che stan piú bassi,
con l’alta Sposa il gran Motor precede,
e giú deposto il fulmine, tra loro
eminente si mostra in soglio d’oro.
15.Dopo colui che l’Universo regge,
ponsi il Signor che sovra Tonde regna.
Ai Principi minor’, c’han da lui legge,
loco non lunge inferíor s’assegna.
Tien presso al gran Nettun le prime segge
Xereo con Forco, e gente altra piú degna.
Stan con milTaltri poi cerulei Numi,
degli umid’antri usciti, i vecchi Fiumi.
16.Segue terzo la serie il Re profondo,
genero de la Dea che ’n Etna impera,
e seco ha quella che dal nostro mondo
discese ad abitar la cittá nera.
Succede setoloso e rubicondo
10 Dio d’Arcadia con la roza schiera.
Corna e piante ha salvatiche e caprigne,
e di minio le guance ognor sanguigne.
17.V’è di ferula cinto e di ginestra
Silvan. de l’ombre l’arbitro canuto,
che Pale a manca, ed ha Vertunno a destra,
dintorno un folto essercito cornuto,
rustica gioventú, plebe silvestra,
11 Satiro lanoso, e ’l Fauno irsuto;
e presso a questi in non sublime scanno
Genii, Lari, Cureti assisi stanno.
18.Gran piano innanzi a la superba entrata
del bel Palagio, ove Ciprigna alloggia,
spazioso vestibulo dilata
sotto balte finestre e l’ampia loggia,
che s’allarga e distende in piazza ovata,
quasi di circo o di teatro a foggia.
Ha la tela nel mezo, e come s’usa,
di palancati e di bertesche è chiusa.
19.Scena è di lieti giochi, e par steccato
fatto per diftínir risse e duelli,
tra ben salde colonne incatenato
di graticci per tutto, e di cancelli;
ed ha da’ capi a l’un e l’altro lato
due porte con barriere e con rastelli,
per cui passando poi denno i campioni
rappresentar pacifiche tenzoni.
20.Non sol di Cipro i popoli e i vicini
sono a l’alto spettacolo presenti,
ma da vie piú remoti altri confini
vi convengono ancor straniere genti.
Paesani non men che peregrini,
stan su i balconi a le bell’opre intenti.
Parte occupano intorno i catafalchi,
le sbarre il vulgo, e ’l baronaggio i palchi
21.Poi che giá pieno il campo in ogni parte
scorge la bella Dea nata di Giove,
appresta i premi ai giochi, e gli comparte
per dispensargli a le future prove.
Fa varie spoglie sue porre in disparte,
e tutte rare e preziose e nove,
e l’inalza e sospende, acciò che sproni
sieno de la virtute i guiderdoni.
22.In alto tribunal stassene assisa
per poter piú spedita aver la vista
e mentre in giú lo sguardo intenta affisa,
giudicar meglio chi piú loda acquista.
Intanto con l’insegna a la divisa
di porpora e d’argento a lista a lista,
l’Araldo con tre suoni intima il bando,
poi publica il cartel cosí gridando:
23.— La Dea del terzo Cielo in rimembranza
del morto Adon, c’ha tanto amato in vita,
de’ sacri onori la pietosa usanza
per tre giorni continui ha stabilita.
Oggi, ch’è il primo, a l’arco ed a la danza
con bella pugna i concorrenti invita.
Negli altri duo vuol che si venga in mostra
a la lotta, a la scherma, ed a la giostra.
24.Ben fian de la vittoria i pregi tali
che non saranno invan sparsi i sudori,
né poveri di palme trionfali
invidia avranno i vinti ai vincitori.
Chiunque in guisa indrizzerá gli strali
che riporti in colpire i primi onori,
o per valore, o per Fortuna avegna,
ricompensa de l’opra avrá ben degna.
25.Quella faretra avrá che colá pende
e di sagrí vermiglio ha l’ornamento,
con quell’arco di bosso, a cui risplende
l’un capo e l’altro di polito argento.
Chi piú vicino al primo il segno offende
d’un nobil dardo rimarrá contento.
D’ebeno è l’asta, e ’l ferro è di tai tempre
che qualvolta ferisce, uccide sempre.
26.Barassi al terzo d’immortale alloro,
degna non pur d’Arcier, ma di Poeta,
ghirlanda, che le fronde ha messe ad oro,
attorta a un cordoncel di verde seta.
Pia poscia di colui ch’avrá tra loro
l’ultimo grado in accertar la meta
spiedo di duro e noderoso cerro,
ch’arma la punta di lucente ferro. —
27.Qui tace, e risonar fanno l’agone
cent’altre trombe, e nacchere, e cornette.
Allor quivi legato ad un troncone
lontano alquanto un Cavriuol si mette.
Questo per ordin de la Dea s’impone
ch’esser deggia bersaglio a le saette.
Ed ecco al saettar destra e leggiadra
arciera in punto e faretrata squadra.
28.Tempo distruggitor d’ogni bell’opra,
ch’affondi i nomi entro l’oscuro oblio,
consenta il tuo rigor ch’io narri e scopra
i piú degni tra lor nel canto mio.
O Fama e tu, ch’impero eterno hai sopra
le forze invitte del Tiranno rio,
tu mel rammenta e da l’etate avara
l’offuscate memorie a me rischiara.
29.Fassi avante Arabin, che ’n Guba nacque,
de l’Arabia petrea nobil cittate,
ma per le selve essercitar gli piacque
contro le fere la robusta etate.
Vien Silvanel, che colá dove Tacque
sen va col Tigri a mescolar l’Eufrate,
crebbe in Apamia, avezzo a ferir solo
le folighe del mar, che vanno a volo.
30.Havvi Foresto, il Troglodito Arciero,
che ’l deserto per patria ebbe nascendo,
selvaggio cacciator piú che guerriero,
agli Elefanti ed ai Leon tremendo.
V’è Ferindo d’Arsacia, il Partilo fiero,
che combatter non sa se non fuggendo,
e ’l cavo arnese al tergo e ’n pugno l’arco
di saettarne avelenato ha carco.
31.Ermanto v’ha, di cui giá mai piú dotto
non ebbe in quel mestier l’Indica terra.
E Fartete il Pigmeo, che fu prodotto
ad aver con le Gru perpetua guerra.
E v’è Fulgerio ancor, ch’è Cipriotto,
e di mille un sol colpo unqua non erra.
E ’l superbo Medonte il Battilano,
che d’acciaio lunato arma la mano.
32.S’accinge a l’opra e cinge al fianco Ordauro
pien di ferrate penne aureo turcasso.
Il figliuol d’Euro Eurippo, il gran Centauro,
tal gloria ambisce, e ’I Sericano Urnasso.
Xé men di lor Brimonte ed Albimauro
la brama, Hircano l’un, l’altro Circasso.
Chiedela a prova Ucciuffo ed Anazarbo:
quegli è di Thracia allievo, e questi Alarbo.
33.E Tirinto e Filinno, i duo fratelli,
mostran d’entrar nel numero desire,
nati in Thessaglia, e di ferine pelli
vestiti, e molto esperti a ben ferire.
Voglion cento e cent’altri, e questi e quelli
del primo gioco al paragone uscire.
Vuol per accrescer liti, Amor istesso
a la prova de l’arco esser ammesso.
34.Or per cessar gli sdegni, onde dolersi
sol de la Sorte poi deggian gli esclusi,
scriver fa Citherea nomi diversi
e porgli in urna d’òr serrati e chiusi;
e poi ch’ivi per entro alfin dispersi
son con piú d’una scossa, e ben confusi,
ad un ad un da l’agitato vaso
per la man d’un fanciul fa trargli a caso.
35.Deatro l’urna il fanciul la mano ascose,
e Mitrane n’uscí nel primo scritto,
Mitrane, che lasciate ha le famose
sponde del fiume onde s’impingua Egitto.
Fatto è l’arco ch’ei tien, di due ramose
corna d’un cervo di sua man trafitto,
ed ha nel mezo le divise punte
con bel manico eburneo insieme aggiunte.
36.D’un Dragone African macchiato a stelle
vóto scoglio squamoso ha per freccierá,
e sgangherando Torride mascelle
il teschio serpentin gli fa baviera.
Scalze ha le piante, e con la bionda pelle
de la piú brava e generosa Fera
tra quante n’ha Getulia unqua produtte,
ammanta il resto de le membra tutte.
37.Ponsi per dritto filo incontro al segno,
la faretra si slaccia e la disserra,
e traendone fuora alato legno,
s’abbassa, e posa un de’ ginocchi in terra.
Lo squadra intorno, e con industre ingegno
in un punto con l’arco il ferro afferra.
In cima il tenta, e tasta pria se punge,
indi al cordone il calamo congiunge.
38.Tien ne la manca il corno, e la saetta
con l’altra mano in su la fune incorda.
Trae fin al destro orecchio a forza stretta
col grosso dito e l’indice la corda,
ch’un angolo divien di linea retta,
e Tocchio intanto con la mano accorda:
e da l’arco incurvato in meza sfera
fa per l’aria volar Tasta leggiera.
39.Liberata la canna, ancor che fosse
la testa ita a ferir del Cavriuolo,
però ch’impaurito il capo ei mosse,
died’alto, e passò via rapida a volo.
Il tronco nondimen giunse e percosse,
dove lo ritenea stretto il lacciuolo,
e sí forte ad entrarvi andò la freccia
ch’affissa gli restò ne la corteccia.
40.Fu per sorte il secondo Arconte Armeno
che la man piieril da l’urna trasse,
di fero latte ed a le Fere in seno
nutrito in riva al sagittario Arasse,
lá ’ve Nifate d’aspre selve pieno
volge la fronte alpestra al gelid’asse,
e de la Tigre il fremito dolente,
vedovata de’ figli, ode sovente.
41.Raso il mento e la chioma, e bruno il volto,
lunga ha la giubba, e d’un tabi cangiante,
sferico lino in larghe fasce involto
gli tesse intorno al capo ampio turbante.
Di scaglie d’oro intarsiato e scolto
l’arco ha d’orribil Vipera sembiante.
Serpe rassembra, e ’n quella parte e ’n questa
chiude l’estremitá gemina testa.
42.Grossa canna Indiana, acconcia in modo
di vagina agli strali, in campo tratta,
d’un sol bocciuol da l’un a l’altro nodo
da l’istessa Natura ad arte fatta.
Prende il suo posto, e ben acuto e sodo
un ne sceglie tra molti, e poi l’adatta.
D’un anel d’osso il maggior dito cinge,
indi il calce v’appoggia, e l’arco stringe.
43.Stringe col pugno manco il legno torto,
col dritto a piú poter la corda tira,
l’un piede indietro e l’altro innanzi sporto,
curva gli omeri alquanto in su la mira,
serra il lume sinistro, e l’altro accorto
su l’asta aguzza, e ’l braccio al segno gira
sbarra alfin l’arco, e quel caccia lo strale,
fremono intorno l’aure, e fischian l’ale.
44.Lieve piú che balen, fendendo il cielo,
lo strai nel Caprio a sdrucciolar sen viene.
Noi fiede giá, né pur gli tocca il pelo,
ma nel canape dá, che preso il tiene.
Vien ne la corda ad incontrarsi il telo,
e fa tremar il cor, gelar le vene
a la Fera, che tenta a’ suoi legami
romper in tutto i giá sfilati stami.
45.Scotonsi allor gl’imbossolati brevi,
e n’escon duo, l’un prima, e l’altro dopo.
Frizzardo è l’un, con le quadrella lievi
uso a chius’occhi ad affrontar lo scopo,
natio de l’arso, e non da piogge o nevi
rinfrescato giá mai, clima Ethiòpo,
lá dove d’acque e d’ombre ognor mendica
soggiace al primo Sol Siene aprica.
46.Cotta ha la pelle, e tutto ignudo il busto,
sol cinto in mezo di listati lini.
Tinge la chioma arsiccia e ’l pelo adusto
d’odoriferi unguenti e purpurini.
Tien di piume vermiglie il capo onusto
e di folte saette impenna i crini:
e coronata di sí strania cresta,
è faretra a l’Arcier la propria testa.
47.L’ultimo è Dardiren, lá ne l’arena
nato ove nasce il solitario Oronte,
la cui serpente e flessuosa vena
ha tra ’l Libano e ’l Tauro il primo fonte.
Garzon di crespo crin, d’aria serena,
di viso grato e di modesta fronte;
non sol famoso a guerreggiar con l’armi,
ma maestro de’ suoni anco, e de’ carmi.
48.Duo archi, un da le corde, un dagli strali
usa, e con l’un e l’altro egli ferisce.
Quello stampa in altrui piaghe vitali,
questo dá morte a chi sfidarlo ardisce;
e de’ corpi e de’ cori ha palme eguali,
e la dolcezza a la fierezza unisce.
Sembra, di doppio arnese ornato il collo,
con la faretra e con la cetra Apollo.
49.L’arco guerrier che l’arma, e per traverso
da l’omero gli pende al fianco cinto,
è di tasso cornuto, assai ben terso,
con purpureo carcasso insieme avinto.
Di vario smalto e di color diverso,
sí comTride in Ciel, tutto è dipinto:
Iride sí, però che ’n guerra o in caccia
sempre pioggia di strali altrui minaccia.
50.Con lieto mormorio, con molte e molte
voci d’applauso il nome altier si lesse,
perché sapean le turbe intorno accolte
quanto in quell’arte il giovane valesse.
Sapean che ’l nibbio e l’aghiron piú volte
fe’ ch’a mez’aria in su ’l volar cadesse;
e ch’avria, non che ’n ciel giunto un augello,
diviso con lo strale anco un capello.
51.Prende allor l’arco in man prima Frizzardo,
ch’è fabricato del piú bianco dente,
e da la selva, ond’è crinito, un dardo
svelle, qual piú gli par saldo e pungente.
Il segno e ’l sito essamina col guardo,
ed al vantaggio suo volge la mente.
L’arco in mezo sostien con la sinistra,
con la destra il quadrel gli somministra.
52.Incoccato ch’ei l’ha, pria che lo scocchi,
pria che ’l forbito avorio allarghi e stenda,
piglia la mira, e studia ben con gli occhi
dove l’un drizzi, e come l’altro spenda.
La distanza misura, acciò che tocchi
in parte l’animal ch’egli l’offenda.
L’occhio, il braccio, la mano in un rassetta,
l’arco a tempo, la corda, c la saetta.
53.Tragge il gomito indietro e la pennuta
verga verso la poppa accosta insieme.
In tondo il semicircolo si muta,
vanno a baciarsi le due punte estreme,
si dischiava la noce, e l’asta acuta
salta e ronza per l’aria, e fugge e freme.
L’arco il suo sesto alfín ripiglia e torna,
giá rallentato, a dilatar le corna.
54.Ch’arrestasse la Fera alquanto il moto
l’Ethíopico Arcier non ben sostenne,
ond’ella allor, ch’ai sibilar di Xoto
sentí del novo strai batter le penne,
fatto sforzo maggior, non solo a vóto
fu cagion che la freccia a cader venne,
ma spezzato il capestro, ond’era avolta,
per la piazza fuggí libera e sciolta.
55.Per rabbia e per dolor la destra sciocca
si morde il Negro, che quel colpo ha fatto.
Ma Dardiren, che ’l dardo ha su la cocca,
piú non aspetta a scaricare il tratto.
Senz’altro indugio a sé tirando il tocca,
e lascia andarlo impetuoso e ratto.
Per l’aria, che qual fólgore divide,
striscia lo strale, e strepitoso stride.
56.Da l’arco Sorian la freccia uscita,
e da la man che l’impeto le diede,
va la Fera a trovar, che sbigottita
move, giá rotto il laccio, in fuga il piede,
e la raggiunge, e di mortai ferita
per lo fianco sinistro il cor le fiede,
e ’l colpo, onde di sangue il campo bagna,
con lieti gridi il popolo accompagna.
57.Tra i quattro allor Saettatori egregi,
che fur dal caso a gareggiar promossi,
fé’ Citherea distribuire i pregi
a suon di varii bronzii e varii bossi.
Ma Dardiren de’ piú superbi fregi,
come il piú degno e segnalato, ornossi;
onde colui che ’l volto arso ha dal Sole
sdegnoso freme, e con la Dea si dole.
58.— Non per valor — dicea — ma per ventura
m’usurpa oggi costui le glorie prime,
ché s’avess’io, qual egli ha, l’armatura,
giunto non fora a quest’onor sublime.
Di tempra è l’arco suo non molto dura,
e guernite ha di corno ambe le cime,
corno di Capro alpin, ch’agevolmente
si curva e torce, ed a la man consente.
59.Di rigid’osso è il mio, che pertinace
spezzar prima si può, che piegar mai.
Questo adoprar sogl’io, perché ferace
di tal materia è la mia terra assai.
Ma se ’l discior quell’animal fugace
error fu pur, d’impazienza errai.
Vinto fui sol perch’aspettar non vòlsi,
e per non córre il tempo, a pien noi colsi. —
60.Sotto benigno e placido sorriso
velando allora i suoi tormenti acerbi,
la Dea con lieto e mansueto viso
rispose a quegli accenti aspri e superbi:
— Ragion è ben, che del mio Adone ucciso
memoria ancor tra’ Barbari si serbi. —
E perché vide ben, ch’invidia il punse,
al giá promesso dono altro n’aggiunse.
61.— Questa sottile ed ingegnosa rete
prendi — gli disse — a piú color contesta.
Poco men ch’invisibili ha le sete,
opra Aracne non fe’ simile a questa.
Le Fere di tal fraude ingorde e liete
vi corron volentier per la foresta;
ed a l’augel che ’n si bei nodi è còlto,
il perder libertá non pesa molto. —
62.Finito il dardeggiar, con chiare note
chiama la tromba i ballatori al ballo.
Poi tace, e ’l vulgo, che tacer non potè,
fa bisbigliando al suon breve intervallo.
Ed ecco altr’armonia l’aria percote,
vie piú soave che ’l guerrier metallo,
e Dardiren tra’ musici stromenti
canta il trionfo suo con lieti accenti.
63.Follerio il ballarin fuor del drappello
degli altri tutti in prova usci primiero.
Sfrenato strale o fuggitivo augello
fora di lui men presto e men leggiero.
Questi una sua corrente agile e snello
danzò con arte tanta e magistero,
intramezata di passaggi tali,
ch’empí d’alto stupor l’alme immortali.
64.Ond’un par di coturni in premio ei n’ebbe
barbaramente a la ninfal guerniti.
Al purpureo corame il mastro accrebbe
ricchi riccami in bel tramaglio orditi;
e ’n guisa che stimar non si potrebbe,
di figure d’argento eran scolpiti.
Ei donogli a Tersilla il giorno istesso,
che ’l don pagò con mille baci appresso.
65.Passa innanzi Alibello, un che co’ salti
s’arrischia a far prodigiose prove.
Sí strani son, son sí mortali ed alti,
ch’orrore insieme e meraviglia move.
Lanciasi in aria, e con tremendi assalti
in mille fogge inusitate e nove
su la punta or d’un brando, or d’una lancia
or la schiena riversa, ed or la pancia.
66.Poi di ferro la man, di piombo il piede
carco, passeggia l’aure, e ’l ciel discorre,
e per la tesa fune andar si vede,
qual Dedalo novel, da torre a torre.
Viensi alfin con ardir ch’ogni altro eccede
col capo in giú precipitoso a porre,
e con l’estremo sol, pendente in libra
sostien se stesso, e si raggira e vibra.
67.Il seconda Aquilanio, emulo antico,
degli altri saltator capo sovrano,
e seco ha Clarineo, Delio, Laurico,
e Garbino, e Celauro, e Floriano.
Tutti congiunti allor costor ch’io dico
fan di sé l’un su l’altro un groppo estrano,
ed ergendo di membra eccelse mura,
fan di corpi intessuti alta struttura.
68.Di martora ebbe l’un rara e pregiata
zan’l0 artificioso e peregrino,
che gli occhi avea di lucida granata,
e le zanne e le zampe avea d’òr fino;
la cui morbida pelle era fodrata
d’un bel serico vello incremesino;
e con lacci di seta intorno sparsi
poteva al fianco appendersi e legarsi.
69.L’altro non men leggiadra e preziosa,
e per materia insieme e per lavoro,
con foglie di rubino ebbe una rosa,
e con spine di smalto e gambo d’oro.
Onorato ancor poi d’alcuna cosa
fu ciascun altro de’ compagni loro.
— Sú sú — Venere disse —, or basti tanto,
non si tolga al mio sesso il proprio vanto.
70.Serbinsi i cor virili a lotte, a giostre,
non s’usurpi omai l’uom l’arti donnesche.
Vengano, e scopran lor le Ninfe nostre
come sappian menar carole e tresche. —
Allor vaghe donzelle in varie mostre
coinparver con fiorite e con moresche;
e de la balleria di quelle schiere
le Grazie eran maestre e condottiero.
71.V’è Lindaura gentil, Marpesia bella,
Mirtea vezzosa e Filantea gioconda,
Albarosa la bianca, e Fioristella
la bruna, e col crin d’or Fulvia la bionda.
Ma Lilla, a cui questa bellezza e quella
di gran lunga non è pari o seconda,
la pupilla d’April sembra tra’ fiori,
o la lampa maggior tra le minori.
72.Prende con tanta grazia a danzar Lilla
il contrapasso pria, poi la gagliarda,
che d’amor langue e di dolcezza brilla
il misero Filen, mentre la guarda;
e non solo a le fiamme, onde sfavilla
l’alto Sol de’ begli occhi, è forza ch’arda,
non sol la bianca man lo lega e fiede,
ma trafiger si sente anco dal piede.
73.— Bel piè — seco dicea —, mentre che finge
la danza essercitar mobile e vaga,
ne le tue rote i circoli dipinge
dove m’incanta la mia bella Maga.
Tesse mille catene, onde mi stringe,
ed incurva mill’archi, onde m’impiaga.
Que’ giri, ch’ella in tanti modi implica,
son labirinti, ove ’l mio core intrica.
74.Oh felice il terren, che vai premendo!
Deh perché non poss’io cangiarmi in sasso?
Se ben, mentre che ’n te lo sguardo intendo,
l’anima mi calpesti a ciascun passo.
Oimè, sento il tuo moto, e noi comprendo.
Com’esser puoi cosí veloce, ahi lasso?
SI si, vola pur lieve a saettarmi,
poi c’hai l’ali d’Amor, come n’hai l’armi. —
41
75.Cosí de la sua Lilla innamorato
l’afflitto Pescator tra sé dicea;
ed ella intanto avea sí ben danzato
che l’onor riportò da Citherea.
Dono d’un bel Pavone ammaestrato
tra le mense a servir le fe’ la Dea.
Con la coda sapea ne’ Soli ardenti
scopar le mosche, e temperare i venti.
76.Uscir Clizio Pastor poscia si scorge,
ch’a ballar la sua Filli invita e prega,
Filli sua, che ritrosa alquanto sorge,
pur quel che chiede a l’amator non nega.
Levata in piè, la bella man gli porge,
la bella man, che l’incatena e lega.
Reverente e tremante egli la prende,
e si bacia la sua, mentre la stende.
77.Seco al tenor de la maestra cetra
pian pian s’aggira pria ch’abbia a lasciarla,
indi la lascia, indi da lei s’arretra,
indi rivolto a lei, torna a baciarla;
e cortese un inchino anco n’impetra,
mentre curva il ginocchio ad onorarla.
Stassi la Ninfa in mezo al cerchio immota
Clizio qual Clizia, intorno al Sol si rota.
78.De l’onesto favor fatto orgoglioso,
poi che chiusa piú volte egli ha la volta,
vassene in atto grave e grazioso
a restringer la man che dianzi ha sciolta.
Torna seco al passeggio aventuroso,
e ’ntanto egli le parla, ella l’ascolta;
e trattenendo in bassi accenti il gioco,
scopre l’un l’altro il suo celato foco.
79.La Dea traendo fuor nobil cicuta
fatta di sette canne in Siracusa,
donolla a Clizio, a la cui voce arguta
ben s’accordò la sua canora Musa.
Gaza loquace, ch’i Pastor saluta,
Filli ebbe in dono, in gabbia eburnea chiusa.
Umana lingua aver sembra e favella,
e chiunque conosce a nome appella.
80.Due coppie ancor la Dea vòlse ch’avesse
di Colombe vezzose a meraviglia,
e sí feconde che ciascuna d’esse
ben quattro volte il mese impregna e figlia.
L’una è sí bianca che le nevi istesse,
l’istesso latte nel candor somiglia.
L’altra d’un vago vezzo il collo ha cinto
di varie macchie a piú color dipinto.
81.Faunia di Citherea serva lasciva
vien dopo loro ad occupar la lizza,
e come baldanzosa ed attrattiva,
prende Ardelio per man, che ’n piè si drizza.
Incominciano in prima a suon di piva
secondo l’uso a carolar di Nizza,
Nizza, che di Provenza il bel paese
rende superbo del suo forte arnese.
82.Mossersi al paro, ed amboduo ballando
vedeansi a man a man, sola con solo
prima a passo veloce ir misurando
con giravolte e scorribande il suolo,
poscia l’un l’altra in su le braccia alzando
levarsi in aria e gir senz’ali a volo,
e ’n piú scambietti a l’ultima raccolta
serrar il giro e terminar la volta.
GLT SPETTACOLI
Cosi vid’io qualora i campi aprici
fervori su ’l fíl de la stagione adusta
ne le selve colá liete e felici
de la famosa e fortunata Augusta
danzatori leggiadri e danzatrici
a groppo a groppo in vaga rota angusta
pender girando a suon d’arpa canora,
e di plausi festanti empir la Dora.
Compito il primo ballo, ecco s’appresta
la coppia lieta a variar mutanza,
e prende ad agitar poco modesta
con mill’atti difformi oscena danza.
Péra il sozzo inventor, che tra noi questa
introdusse primier barbara usanza.
Chiama questo suo gioco empio e profano
Saravanda e Ciaccona il novo Hispano.
Due castagnette di sonoro bosso
tien ne le man la Giovinetta ardita,
ch’accompagnando il piè con grazia mosso
fan forte ad or ad or scroccar le dita.
Regge un timpano l’altro, il qual percosso
con sonaglietti ad atteggiar l’invita;
ed alternando un bel concerto doppio
al suono a tempo accordano lo scoppio.
Quanti moti a lascivia e quanti gesti
provocar ponno i piú pudici affetti,
quanto corromper può gli animi onesti
rappresentano agli occhi in vivi oggetti.
Cenni e baci disegna or quella, or questi,
fanno i fianchi ondeggiar, scontrarsi i petti,
socchiudon gli occhi, e quasi in fra se stessi
vengon danzando agli ultimi complessi.
87.Letto era un pregio esposto in quelle feste
con colonne d’elettro elette e fine,
ch’avean di Sfinge i piè, d’Arpia le teste,
e custodie di porpora, e cortine,
e vergate per tutto e quelle e queste
erano d’oro in triplicate trine.
Fatto il talamo ricco e prezioso
a la vista parea piú ch’ai riposo.
88.De le danze sfacciate ed impudiche
vòlse la Dea che per trofeo servisse.
— A le vostre dolcissime fatiche
questo sia ’l premio, e questo il campo — disse.
Qui col mio figlio ignudo entrò giá Psiche
la prima notte a le beate risse.
Qui voi dar fine al gioco, ed al difetto
potrete del ballar supplir col letto. —
89.Diana, che la guancia avea vermiglia
quegli atti abominabili mirando,
e tenea tuttavia chine le ciglia
per la vergogna del ballar nefando,
non fu lenta a chiamar la sua famiglia,
che venne al cenno del divin comando,
e senza uscir de l’onestá devuta
un riddon cominciò con nova muta.
90.Lucilia bella, che qual Sole irraggia,
Lidia gioliva, che qual fiamma sface,
Parthenia casta, Glorfana saggia,
Absinthia cruda, Antifila sagace,
Florismena solinga, Egle selvaggia,
Lesbia ritrosa, Thestili fugace,
Amaranta superba, Alteria altera,
danzan tutte raccolte in una schiera.
91.Guidato alquanto insieme il ballo tondo,
ballar vòlser divise ad una ad una,
e con error festevole e giocondo,
ma col decoro debito a ciascuna,
di quante danze ha piú leggiadre il mondo
non tralasciare in tai vicende alcuna,
qual piú per arte o per vaghezza aggrada:
del ventaglio, del torchio, e de la spada.
92.Disse la Dea d’Amor: — L’onesto e ’l bene
del meritato onor non si defraude.
Non dee vera virtú, né si conviene
senza premio restarsi, e senza laude.
Vuoisi qui dimostrar ch’a l’opre oscene
Vener non piú ch’a le contrarie applaude. —
E fattasi recar la statua d’oro
de l’istessa Virtú, la donò loro.
93.Non vuol Febo soffrir che la sorella
l’onor del ben ballar sen porti sola:
onde de le sue Muse il coro appella
e l’aureo plettro accorda a la viola.
Vien tosto, inteso il suon, la schiera bella
a l’armonia de la divina scola,
e co’ legami de le braccia istesse
stranio balletto in vaghi nodi intesse.
94.Sotto la treccia de le braccia alzate
per filo or quella, or questa il capo abbassa,
e torcendo le mani innanellate
altra se n’esce, altra sottentra e passa.
Poi ch’alfin le catene ha rallentate
la bellissima filza, il campo lassa:
e soletta a ballar resta in disparte
Tersicore, che Diva è di quell’arte.
95.Si ritragge da capo, innanzi fassi,
piega il ginocchio e move il piè spedito,
e studia ben come dispensi i passi
mentre del dotto suon segue l’invito.
Circonda il campo, e raggirando vassi
pria che proceda a carolar piú trito,
sí lieve che poria, ben che profonde,
premer senz’affondar le vie de Tonde.
96.Su ’l vago piè si libra, e ’l vago piede
movendo a passo misurato e lento,
con maestria, con leggiadria si vede
portar la vita in cento guise e cento.
Or si scosta, or s’accosta, or fugge, or riede,
or a manca, or a destra in un momento,
scorrendo il suol, sí come suol baleno
de l’aria estiva il limpido sereno.
97.E con sí destri e ben composti moti
radendo in prima il pian s’avolge ed erra,
che non si sa qual piede in aria roti
e qual fermo de’ duo tocchi la terra.
Fa suoi corsi e suoi giri or pieni, or vóti,
quando l’orbe distorna e quando il serra,
con partimenti sí minuti e spessi
che ’l Meandro non ha tanti reflessi.
98.Divide il tempo e la misura eguale
ed osserva in ogni atto ordine e norma.
Secondo ch’ode il Sonatore, e quale
o grave il suono, o concitato ei forma,
tal col piede atteggiando o scende o sale,
e va tarda o veloce a stampar Torma.
Fiamma ed onda somiglia, e turbo, e biscia,
se poggia o cala, o si rivolge o striscia.
99.Fan bel concerto l’un e l’altro fianco
per le parti di mezo e per l’estrerae.
Moto il destro non fa, che súbit’anco
non l’accompagni il suo compagno insieme.
Concordi i piè, mentre si vibra il manco,
l’altro ancor con la punta il terren preme.
Tempo non batte mai scarso o soverchio,
né tira a caso mai linea, né cerchio.
100.Tien ne’ passaggi suoi modo diverso,
come diverso è de’ concenti il tuono.
Tanti ne fa per dritto e per traverso
quante le pause e le periodi sono.
E tutta pronta ad ubbidire al verso
che ’l cenno insegna del maestro suono,
or s’avanza, or s’arretra, or smonta, or balza,
e sempre con ragion s’abbassa ed alza.
101.Talor le fughe arresta, il corpo posa,
indi muta tenore in un instante,
e con geometria meravigliosa
apre il compasso de le vaghe piante,
onde viene a stampar sfera ingegnosa
e rota a quella del Pavon sembiante.
Tengono i piè la periferia e ’l centro,
quel volteggia di fuor, questo sta dentro.
102.Su ’l sinistro sostiensi, e ’n forme nove
l’agil corpo sí ratto aggira intorno
che con fretta minor si volge e move
il volubil paleo, l’agevol torno.
Con grazia poi non piú veduta altrove
fa gentilmente, onde partí, ritorno.
S’erge e sospende, e ribalzando in alto
rompe l’aria per mezo, e trincia il salto.
103.Il capo inchina pria che ’n alto saglia
e gamba a gamba intreccia ed incrocicchia,
da le braccia aiutato il corpo scaglia,
la persona ritira e si rannicchia.
Poi spicca il lancio, e mentre l’aria taglia,
due volte con l’un piè l’altro si picchia,
e fa battendo e ribattendo entrambe,
sollevata dal pian, guizzar le gambe.
104.Poi ch’ella è giunta in sú quanto piú potè,
la vedi in giú diminuir cadente,
e nel cader sí lieve il suol percote
che scossa o calpestio non se ne sente.
È bel veder con che mirabil rote
su lo spazio primier piombi repente,
come piú snella alfin che strale o lampo,
discorra a salti e cavinole il campo.
105.Immobilmente il popolo sospeso
pende da’ moti di colei che balla.
Stupisce ognun, che de le membra il peso
estolla al ciel, qual ripercossa palla:
serpa in obliquo, o vada a passo steso,
opra il tutto con arte, e mai non falla.
Ond’alza un grido alfin garrulo e roco,
e ’l Sol termina il giorno, ed ella il gioco.
106.E la madre d’Amor con queste lodi
de le sorelle sue celebra il vanto:
— Dive immortali, Vergini custodi
del pregiato licor del fiume santo,
da cui per far al Tempo eterne frodi
hanno i miei bianchi augelli appreso il canto,
qual dono offrir vi può che vii non sia,
o la sfera, o la terra, o l’onda mia?
107.Ecco nove corone. Elette queste
sono a fregiar le vostre chiome bionde;
peso ben degno di si degne teste,
poi che de’ cieli al numero risponde.
Son merlate di gemme, ed han conteste
di smeraldo finissimo le fronde,
la cui verdura si conforma al verde
de l’arbor che giá mai foglia non perde.
108.A te, che fatto hai qui novo Helicona,
chiudendo il festeggiar di questo giorno,
oltre ch’avrai de la gentil corona,
come l’altre compagne, il crine adorno,
questo ricco monile anco si dona
da cerchiar nove volte il collo intorno,
da cui di bel zaffir pende un branchiglio
che da risole vien del Mar vermiglio.
109.Ma tu, che piú d’ogni altra altrui diletti,
onde stimata sei la piú gentile,
Erato mia, che gli amorosi affetti
spiegando in dolce e dilicato stile
lusinghi i cori, intenerisci i petti,
altro avrai che corona e che monile.
Degna per la tua rara alta eccellenza
d’esser de la mia rota Intelligenza.
110.Se non ho cosa che ’l tuo merto agguagli,
resti del buon voler pago e contento.
Togli questo scrittoio, i cui serragli,
i cui foderi son tutti d’argento.
Tien figurato di sottili intagli
in ciascun ripostiglio il suo stromento:
coltelli e righe, e con mirabil arte
cent’altri arnesi da vergar le carte.
111.È di terso diaspro il bel lavoro
de l’urna che l’inchiostro in sé ricetta.
Fuso, in vece d’inchiostro, havvi de l’oro,
di cui l’arco ha il mio figlio e la saetta.
Del piú candido Cigno e piú canoro
penna lo sparge in fra niill’altre eletta.
E ’l vasel de la polve in grembo tiene
ricche del Gange e preziose arene.
112.Con questo a gloria mia vo’ che tu scriva
versi soavi e teneri d’Amore.
Ed io qualor su la Castalia riva
t’esserciti a cantar con l’altre suore,
farò che del tuo stil la vena viva
dolcezza assai de l’altre abbia maggiore,
dando al tuo canto, acciò che piú s’apprezzi,
tutte le grazie mie, tutti i miei vezzi.
113.La stella mia, che quando il Sol vien fora
ultima cade, e ’n ciel sorge la prima,
quella che sveglia a salutar l’Aurora
i sacri Spirti, ed a cantar in rima,
e piú che ’n altra è solita in quell’ora
d’alzar l’ingegno, ond’alte cose esprima,
vo’ che col raggio suo sempre seconda
furor divino a la tua mente infonda. —
114.Disse, e giá fuor de’ tenebrosi orrori
traea di vive perle il corno pieno
Cinthia, e spargea di cristallini albori
il taciturno e gelido sereno.
Taceano i venti, e languidetti i fiori
giaceano a l’erba genitrice in seno.
Nel suo placido letto il mar dormiva,
del cui gran sonno il fremito s’udiva.
Ó52
GLI SPETTACOLI
115.Sorse Venere bella, e seco tolti
tra mille lumi i peregrini Dei,
lor provide d’alloggio, e fur raccolti
ne l’ampia reggia ad albergar con lei.
Sgombra fu la gran piazza, ancor che molti
de’ riguardanti e nobili e plebei
vòlser per non lasciar gli agiati luochi
aspettar nel teatro i novi giuochi.
116.Giá lampeggiando in ciel l’Alba traea
da le nubi notturne auree scintille,
e còlte giá dal seminario avea
de le rugiade mille perle e mille,
onde con larga mano ella spargea
dal vaso d’oro innargentate stille,
innebriando di celesti umori
l’aviditá, l’ariditá de’ fiori:
117.quando Ciprigna ad ordinar le cose
del dí secondo uscí del ricco albergo,
e de’ lottanti al vincitor propose
fiero Molosso, a brun macchiato il tergo,
ch’avea di piastre terse e luminose
d’acciar dorato intorno un forte usbergo,
e d’un cuoio durissimo ferrato,
aspro di punte d’oro, il collo armato.
118.Col novo premio e con la luce nova
ecco piú d’una tromba ad alta voce
de la lotta citar s’ode a la prova,
ed incitar la gioventú feroce.
Súbito presto a comparir si trova
Cisso il Tebano, e Batto il Cappadoce,
e Clorigi è con essi, e Vigorino:
il primo è Cireneo, l’altro è Bitino.
119.Noto a l’Olimpo Olimpio, ed al Citoro
Eutirto, un di Thessaglia, ed un di Ponto;
Brancaforte di Tarso, e Bellamoro
di Babilonia, uom celebrato e cónto,
e col temuto Ergano il fier Brunoro
mostrasi anch’egli apparecchiato e pronto,
e Bronco il forte e l’animoso Hedrasto
esser bramano i primi al gran contrasto.
120.Ma Satirisco entro l’agone intanto
salta, ed aspira ai preparati premi.
D’una Driada e d’un Fauno in Erimanto
fu generato di confusi semi.
Non è Satiro in tutto, eccetto quanto
tengon sol de la Capra i piedi estremi.
Forma umana ha nel resto, e di due corna,
con cui cozza lottando, il capo adorna.
121.Corteccio allora, un contadin possente,
contro costui per tenzonar s’è mosso.
A le braccia in Arcadia uso è sovente
venir con gli Orsi, e n’ha le pelli addosso.
Ha come gli Orsi istessi, irto e pungente
su ’l petto il pel, grande ogni membro e grosso.
È de le piante figlio, e de le selve:
commun l’albergo e ’l vitto ha con le belve.
122.Le selve a questo popolo e le piante
(orribile a contar) fur genitrici,
e crebbe poi, robusta turba errante,
senza cura di fasce o di nutrici.
Da novo piè calcata, il suol tremante,
scosse la terra in fin da le radici,
cpiando da’ padri frassini e da’ faggi
vide i fanciulli uscir verdi e selvaggi.
123.Spaventati ed attoniti stupirò
quel dí che prima al ciel gli occhi levaro
e videro alternar con vario giro
de la notte e del giorno il fosco e ’l chiaro.
Fama è che lungo tratto il Sol seguirò
quando oscurar la sera il dí miraro,
temendo forte (ahi semplici) non loro
involasse per sempre i raggi d’oro.
124.Veder duo lottator tanto eccellenti
da corpo a corpo a contrastar ridutti
fu gran diletto, ond’a mirargli intenti
in piè s’alzaro i circostanti tutti.
Non stetter molto a bada i combattenti,
ambo del par ne l’essercizio instrutti,
ma súbito n’andar senz’altro dirsi
impetuosamente ad assalirsi.
125.Non da spiedo o da strai talor feriti
duo fier Leoni, o duo Cinghiali alpestri
risonar d’urli orrendi e di ruggiti
fan con tanto furor gli antri silvestri,
con quanto insieme ad affrontarsi arditi
vennero de la lotta i duo maestri,
e si strinsero a un tempo, e d’alti gridi
rimbombar fér dintorno i campi e i lidi.
126.Tra saldi nodi e rigide ritorte
avinchiati cosí stetter gran pezza.
Poi si staccaro, e con rivolte accorte
cominciaro a mostrar forza e destrezza.
Pesante è l’un, ma ben gagliardo e forte,
l’altro è leggier, ma di minor fortezza.
Pur, girandosi ognor, con l’arte astuta
e con la propria agilitá s’aiuta.
127.Poi ch’ei piú volte ha circondato il piano,
le gambe allarga e ferma i piedi in terra,
le spalle incurva, e l’una e l’altra mano
distende innanzi, accinto a nova guerra.
Con minaccioso scherno il fier Villano
sorride, e contro lui ratto si serra,
e con un braccio il piú forte che potè
di sovra la collottola il percote.
128.Quasi duro bastone o grossa trave
parve battesse al Satiro la fronte,
e stordito restò dal picchio grave,
pur come addosso gli cadesse un monte.
Ma si riscote intanto, e perché pavé
d’un nemico sí fier l’offese e l’onte,
cerca di prevaler sagace e scaltro
con stratagemi e con cautele a l’altro.
129.Mostrò forte dolersi, e d’aver rotta
la testa e di cader quasi s’infinse,
onde colui per dargli un’altra botta,
scioccamente ridendo, oltre si spinse,
e credendo omai vinta aver la lotta,
senza riguardo alcun seco si strinse:
ma tutto in se medesmo ei si raccolse,
ed aspettar quell’impeto non vòlse.
130.Mentre Corteccio con l’ardir c’ha preso
risoluto ritorna a la battaglia,
e la seconda volta il braccio steso,
per di novo ferirlo a lui si scaglia,
la fronte abbassa, e pria che l’abbia offeso
gli entra di sotto, e fa che ’nvan l’assaglia,
e dá loco a la furia, e la ruina
del colpo irreparabile declina.
131.Schivato il colpo, e col suo destro braccio
preso de l’aversario il braccio manco,
quasi legato da tenace laccio,
gliel’imprigiona e l’attraversa al fianco.
Tenta ben l’altro uscir di quell’impaccio,
ma perch’è greve, e travagliato e stanco,
ceder gli è forza, e nel colpire a vóto
è tirato a cader dal proprio moto.
132.Tutto in un tempo ei gli passò sfuggendo
sotto l’ascella, e gli s’avinse al collo,
e con le mani il gran ventre cingendo
gli saltò su le terga e circondollo,
in guisa tal che ’nginocchion cadendo
quei venne a terra, e non potea dar crollo.
Pur con sí fatto sforzo alfin si torse
che ouasi in Diedi libero risorse.
133.E con quel dimenar diè sí grand’urto
al destro assalitor che l’avea cinto,
ch’a l’improviso allor còlto, e di furto,
fu per cadérne anch’egli, indietro spinto.
Ma pria ch’a pien disciolto e ’n piè risurto
fusse l’altier, giá poco men che vinto,
il quasi vincitor de la contesa
non fu giá lento a rattaccar la presa.
134.Robustamente con le braccia il lega,
con le corna il ferisce a capo chino,
e ’l ginocchio di dietro, ove si piega,
batte in un punto col tallon caprino,
e tanta forza ad atterrarlo impiega
che lo costringe a traboccar supino.
Far non potè però, quando l’oppresse,
ch’ancor sovra il caduto ei non cadesse.
135.Seco abbracciato e fortemente stretto
1 ’abbattuto Pastore in modo il tenne
ch’addosso in venir giú sei trasse al petto,
onde cadere ad amboduo convenne.
Cadder sossovra, e d’onta e di dispetto
l’un e l’altro fremendo, in piè rivenne;
e giá moveansi a piú rabbiose risse,
ma Citherea vi s’interpose, e disse:
136.— Non convien che piú oltre oggi proceda,
giovani valorosi, il furor vostro,
né che cotanto un vano sdegno ecceda:
basti l’alto valor che qui s’è mostro.
Non vo’ che ’l sangue a lo scherzar succeda,
non è mortai conflitto il gioco nostro.
Cessino l’ire; ambo egualmente siete
degni di palma, ed egual premio avrete.
137.Abbiasi Satirisco il Can promesso,
ma non s’oblii de l’altro insieme il merto.
Quel Pardo cacciator gli fia concesso,
ch’è di spoglia ricchissima coverto. —
Piú volea dir, ma su quel punto istesso
vide Membronio entrar nel campo aperto,
Membronio il fiero Scitha, uom ch’a le membra
animata Piramide rassembra.
138.Sembra torre sensibile e spirante,
sembra viva montagna a la statura.
Non giá mai (credo) in alcun suo Gigante
tanta massa di carne uní Natura.
Dal vasto capo a le tremende piante
cosí dismisurata è la misura
che tra gli uomini grandi è quello istesso
ch’è tra i virgulti piccioli il cipresso.
42
139.Pien di superbo e temerario orgoglio
questi, nel chiuso cerchio entrato a pena,
depon le vesti, e in un confuso invoglio
furiando le gitta in su l’arena.
Poi quasi eccelso ed elevato scoglio,
de l’ampie spalle e de l’immensa schiena
scopre gli eccessi, e di terribil ombra,
ben piantato nel mezo, il piano ingombra.
140.Qual Tizio fuor de la prigion tenace
libero e ’n piè levato a veder fora,
se l’augel che famelico e mordace
le sue feconde viscere divora,
da’ nove campi, ove disteso ei giace,
sorger gli desse, e respirar talora:
cotal parea quel mostro orrendo e rio,
ch’i piú temuti a spaventar uscio.
141.Con bieco sguardo in prima egli si vide
torcer le luci e sollevar la faccia,
aspra se scherza, ed orrida se ride:
or che fia se s’adira, o se minaccia?
Indi con formidabili disfide
ambe sbarrando incontr’al ciel le braccia,
di tai parole audaci ed arroganti
l’orecchie fulminò degli ascoltanti:
142.— Or venga a noi, di quanta gente accoglie
questa di lottatori ampia adunanza,
qual piú di palme cupido e di spoglie
in se stesso si fida, e ’n sua possanza.
Vedrem chi tanto insane avrá le voglie
che di meco pugnar prenda baldanza.
Parlo a chiunque intorno ode il mio grido,
e quanti qui ne son, tanti ne sfido. —
143.Nessun risponde a l’oltraggiose note,
salvo sol di Beozia un Giovinetto,
ch’accende allor, perché soffrir noi potè,
di vergogna la guancia, e d’ira il petto.
Incomincia a segnargli ambe le gote
del primo pelo un picciolo fregetto,
ma sotto l’ombra de le fila bionde
di qua di lá la zazzera l’asconde.
144.Crindor da l’or del crine egli ebbe nome,
perché sí bionde, e molli, e dilicate,
e sí crespe e sí terse avea le chiome,
eh’auree invero pareano, e non aurate.
E qualor da la forbice (sí come
sogliono a chi si tonde) eran tagliate,
per posseder sí lucido tesoro
le compravan le donne a peso d’oro.
145.Senza accorciarla un lustro ha giá nutrita
la bella chioma, ond’è diffusa e lunga,
e non è dí che culta e ben forbita
de’ piú pregiati aromati non l’unga.
Ma s’or avien che da l’impresa ardita
vincitor esca, e ch’a la patria ei giunga,
troncar promette in voto i capei cari,
e d’Apollo offerirgli ai sacri altari.
146.Poi che vede ch’alcun non osa ancora
di contraporsi a quel Colosso immane,
sfibbiasi il manto, e senz’altra dimora,
scinte le spoglie, ignudo ivi rimane,
e del corpo viril dimostra fora
le fattezze leggiadre e sovrumane,
onde de l’altre membra al vago volto
quel che i drappi ascondeano il pregio ha tolto.
147.Sentendo nel bravar che fa colui
publica e generai l’ingiuria e l’onta,
ben che debil di forze, incontr’a lui
da la voglia è portato audace e pronta:
né senza tema e meraviglia altrui
il coraggioso giovane l’affronta.
Ma l’altro con piè fermo e fronte oscura
minacciando l’aspetta, e nulla il cura.
148.Somiglia lá ne lo steccato Ibero
Tauro cui gente irritatrice espugna,
qualor dal canneggiar fatto piú fiero
fíede il Ciel con la fronte, il suol con l’ugna,
la coda inalza, abbassa il collo altero,
sbarra le nari e sfida i venti a pugna,
e par, torto le corna, e torvo i lumi,
quando sorge dal letto il Re de’ fiumi.
149.E che può folle ardir? che può? che vale
contro sí sconcia machina e sí vasta?
che non ch’aver proporzione eguale,
con tutto il petto al capo gli sovrasta?
Lasciasi pur crollar, mentr’ei l’assale,
sostien gli urti innocenti, e non contrasta:
ma ’l tempo attende, e con accorto ciglio
cerca a la treccia d’or dargli di piglio.
150.La treccia d’oro, ch’ai soffiar del vento
volava intorno innanellata e sciolta,
era molto al garzon d’impedimento,
e gli occhi gli copria, tant’era folta.
Onde il Gigante a la vittoria intento
ebbe pur d’afferrarla agio una volta.
Ne l’aureo crin la fiera man gli stese,
e tanto ne stracciò, quanto ne prese.
151.Come quando talora astuto Gatto
il nemico che rode ha ne la branca,
non súbito l’uccide al primo tratto
ma quinci e quindi lo raggira e stanca,
fin che veggendol poi mezo disfatto,
e che lo spirto ad or ad or gli manca,
dopo lungo scherzar pur finalmente ’
a la zampa lo toglie, e dállo al dente:
152.cosí Membronio altero e furibondo
poi che sofferto ha il bel Crindoro alquanto,
con oltraggio crudel per lo crin biondo
lo sbatte a terra, e quivi il lascia intanto;
e disprezzando insieme il Cielo e ’l mondo,
l’insolente parlar raddoppia, e ’l vanto.
— Perché soffre — dicea — chi piú si stima,
che gli tolga un fanciul la lotta prima?
153.Venite voi (ch’io tal onor non curo)
voi forti, al braccio mio degna fatica.
Venga ciascun che vuol provar se duro
o molle è il sen de la gran madre antica. —
Cosí dic’egli con sembiante oscuro,
né Corimbo sostien che cosí dica.
Di Crindoro è compagno, anch’egli Greco,
e di stretta amistá legato seco.
154.Nacque su l’Acheloo, famoso fiume,
che lottò giá col domator de’ forti;
e contali che l’istesso umido Nume
gl’insegnò l’arte e mille tratti accorti,
e del pontar la pratica e ’l costume,
e le prese a cangiar di varie sorti;
e di persona essendo agile e destra,
vincitor riuscí d’ogni palestra.
ÓÓ2
GLI SPETTACOLI
155.Spiacque a ciascun la crudeltá villana
del Barbaro feroce e discortese;
ma ’l fido amico a la caduta estrana
d’ira non men che di pietá s’accese.
— Volgiti — disse — a me, bestia inumana,
che disonori l’onorate imprese,
e d’avilire e d’infamar ti gonfi
l’onor de le vittorie e de’ trionfi.
156.Non superbir con vanitá si sciocca
perché mole di membra abbi cotanta,
ché se sembra il tuo corpo eccelsa rocca,
eccelsa rocca ancor s’abbatte e schianta.
Spesso da giogo altero al pian trabocca,
tronca da picciol ferro, immensa pianta.
Spesso lo smisurato angue d’Egitto
da minuto animai cade trafitto.
157.Fu l’uccisor del fier Leon Nemeo
vie piú forse di te forte e membruto,
pur nel tallon trafitto alfin cadeo
dal morso sol d’un pesciolin brancuto.
Fu di quel ch’io mi son, del campo Acheo
forse minor l’esploratore astuto,
pur tolse di sua man con picciol remo
l’arroganza e la vista a Polifemo. —
158.Con un ghigno sprezzante e pien d’orgoglio
l’ascolta il grande, e qual si sia, noi degna.
— Teco non con la man combatter voglio:
solo il mio piede a ben lottar insegna.
Con un calcio di quei ch’aventar soglio,
ti manderò dove Saturno regna:
e ’n tornar giú mi recherai novelle
di ciò che colassú fanno le stelle. —
159.Cosí rispose, e cosí detto prese
un salto tal, che fe’ stupir le genti:
né l’Appennin sí forte, o il. Monsanese
scosso è talor da prigionieri venti.
Poi d’un grido sí fiero il Ciel offese,
che la terra crollò da’ fondamenti.
Vacillò la gran piazza, e rimbombonne
l’aria, e tremaro intorno archi e colonne.
160.Con sí fatto romor, quand’Hercol morse,
aprí latrando Cerbero le gole.
Con tal rimbombo Giove a punir corse
del fter Titan la temeraria prole.
E con strepito egual Pozzuol fe’ forse
d’alto spavento impallidire il Sole,
allor ch’a lo scoppiar de le campagne
vomitò fiamme, e partorí montagne.
161.Senz’altro motto, al vantator superbo
il buon Corimbo allor si drizza, e tace.
È d’etá verde e di vigore acerbo,
indomito di cor, di spirto audace,
tutto callo, tutt’osso, e tutto nerbo,
di polpe asciutto, e d’animo vivace.
Quadrato ha il corpo e sovra i fianchi stretto:
gli omeri larghi, e spazioso il petto.
162.Stupir le turbe intorno, a cui non era
conta la fama del campion gagliardo,
quando insperato e solo uscir di schiera
l’ebber veduto, e ’n lui fisaro il guardo.
Ma tra color ch’avean notizia intera
di quel valor che non fu mai codardo,
meraviglia non nacque, e lor non nove
l’usate n’attendean prodezze e prove.
163.Del pari ignuda, e stimulata e punta
da sprone egual, la fiera coppia arriva,
e poi che giá concesso a prima giunta
libero ad ambo il campo è da la Diva,
poi c’han la pelle immorbidita ed unta
col licor verde de la molle oliva,
chinansi a terra, e con furore e rabbia
fregan le mani in su la secca sabbia.
164.Quando d’arida polve ambo pres’hanno
quanto lor basta ad inasprar le palme,
non cosí tosto ad abbracciar si vanno
quelle due senza pari intrepid’alme.
Ma de’ corpi, ch’ai moto accinti stanno,
ferme nel suol le ben librate salme,
da capo a piè da questo e da quel canto
trattengali gli occhi a misurarsi alquanto.
165.Usa ciascun l’industria, adopra ogni arte
per aver ne la luce anco vantaggio,
e sceglie il sito, e ’n guisa il Sol comparte
che gli occhi offenda a l’aversario il raggio,
cercando pur di collocarsi in parte
dove non n’abbia la sua vista oltraggio:
e ’n sí fatta postura il lume piglia
che gli fieda le spalle, e non le ciglia.
166.Volge Membronio al suo nemico il viso,
tien curvo il collo e tien le gambe aperte,
e ’ntento ad avinchiarlo a l’improviso,
larghe le braccia, ed inarcate, ed erte.
Corimbo in sé raccolto e ’n su l’aviso
le man, gli occhi e la faccia a lui converte,
ed indietro col piè, col capo avante
tenta aver ne la presa il primo instante.
167.Lanciársi ambo in un tratto, ed investiti
s’aviticchiár con noderosi groppi;
né polpo a nuotator tra’ salsi liti
tese mai nodi sí tenaci e doppi
come fur quei, che di lor membra orditi,
tentando insidie, e traversando intoppi,
strinsergli insieme in cento modi estrani
con le braccia, co’ piedi, e con le mani.
168.Premer petto con petto ambo vedresti,
e stinco a stinco, e fronte a fronte opporsi,
ambo a prova afferrarsi agili e presti
sotto i lombi, su i colli, e dietro ai dorsi.
Stan cosí buono spazio e quegli e questi,
pur disbrigati alfin vengono a sciorsi,
e con gran giri intorniando il loco
van quinci e quindi, e fan piú largo il gioco.
169.Torna da capo ad affrontarsi e i petti
congiunge insieme la robusta coppia,
e sí forte gli tien serrati e stretti
ch’afferma ognun che giá vien meno, e scoppia:
poi son pur a lasciarsi alfin costretti,
indi pur l’un e l’altro ancor s’accoppia,
e l’un e l’altro, mentre or lascia or prende,
scambievolmente ognor varia vicende.
170.Come in riva palustre o in balza alpina
quando dal furor d’Euro è combattuta
minaccia antica pianta alta ruma,
accenna arbore eccelsa alta caduta,
or la cima frondosa a terra inchina,
or in aito dal vento è sostenuta,
e ’l moto alterno de l’altere fronti
fa stupire e tremare i fiumi e i monti:
171.cosí fanno que’ duo. Sovente vedi
mutar fogge d’assalto or quello, or questo.
Il minor dal maggior talvolta credi
giá soffogato, ed abbattuto, e pesto.
In un momento poi risorto in piedi
rincalza l’altro, ed a ghermirlo è presto.
Or respinge il nemico, or n’è respinto,
né si distingue il vincitor dal vinto.
172.Su le dita de’ piè Corimbo in alto
s’erge talor, ma non gli arriva al mento.
Talor prende a saltar, ma sempre il salto
appo busto si grande è corto e lento.
Non però si ritrae dal fiero assalto,
né di forza gli cede, o d’ardimento.
Virtú raccolta è vie piú forte, e langue
troppo aliai gaio in un gran corpo il sangue.
173.Membronio saldo in mezo al campo e dritto
di guardia in atto e di difesa stassi,
e cerca stancheggiar l’emulo invitto,
che gli va intorno con veloci passi.
Ma per farglisi egual nel gran conflitto
convien che ’l tergo incurvi, e che s’abbassi.
Pensa dargli di piglio, e l’altro fugge:
ond’ei sbuffa, e bestemmia, e freme, e rugge.
174.Qual orbo, a cui zanzara intorno o pecchia
vola importuna ad infestar la faccia,
ed or nel naso il punge, or ne l’orecchia,
e piú ritorna quant’ei piú la scaccia:
tal quanto piú si volge ed apparecchia
or quinci, or quindi a la tenzon le braccia,
dal destro assalitor men si difende,
e le man per pigliarlo indarno stende.
175.Giá sono entrambo affaticati e stanchi
e di molle sudor bagnati e sparsi,
giá con spesso alitar battono i fianchi
e vanno alquanto al travagliar piú scarsi.
Ma ’l piú grave trafela, e par gli manchi
la lena in tutto, e brama omai posarsi.
Mostra ogni vena il corpo enfiata e rossa,
e piú forte anelando, il fiato ingrossa.
176.Pur, da l’onor sospinto, in piè sostiensi
e gli usati furori in sé raccende;
ma con la vastitá de’ membri immensi
piú che con la possanza, ei si difende.
Il Greco, c’ha piú vigorosi i sensi,
piú fresco a l’opra e piú vivace intende.
Ed ecco giá que’ nervi intanto adocchia
che di dietro incurvar fan le ginocchia.
177.E perché lasso il vede, e pien d’angoscia,
con la destra gli accenna invèr la spalla.
Minaccia al collo, e in un momento poscia
s’inchina, ma l’effetto al pensier falla,
ché la man troppo breve a l’ampia coscia,
inumidita dal licor di Palla,
non potendo fermar la palma in essa,
lubrica a sdrucciolar vien da se stessa.
178.Il superbo di Scithia, ancor che rotto
da la stanchezza, allor punto non tarda,
e vistosi da lui sí malcondotto,
par che di stizza e di dispetto n’arda.
Sovra andar gli si lascia, e quasi sotto
sei caccia in modo con la man gagliarda
ch’a l’ombra del gran seno, onde il soverchia,
tutto l’asconde, e con le braccia il cerchia.
179.Cosí chi cerca con occulta mina
l’oro sepolto in sotterraneo speco,
se la rupe si rompe, e ’n giú ruina,
sí che, chiusa la buca, ei resti cieco,
sotto l’alta percossa e repentina
tutti gli ordigni suoi ne tragge seco,
e pon fine in un punto a l’opra ardita,
a l’ingorda avarizia, ed a la vita.
180.Non perde il cor Corimbo, anzi s’affretta
in caricarlo, e riposar noi lassa;
e perch’a far un colpo il tempo aspetta,
sotto il braccio nemico il capo abbassa,
e con piú d’una scossa e d’una stretta
gli esce a le coste, indi a le spalle, e passa.
Di qua di lá con l’una e l’altra mano
gli annoda i fianchi, e tenta alzarlo invano.
181.Piú volte a destra a manca il fier Gigante
spinge e respinge, e con gran forza il tira,
ma non men saldo il trova, o men costante,
che grossa quercia a Zefiro che spira.
De le gran gambe ognor, de le gran piante
sí ben fondate tien, mentr’ei l’aggira,
le colonne e le basi in su l’arene,
che la propria gravezza in piedi il tiene.
182.Pur alfin tutto a la vittoria inteso,
ratto da faccia a faccia a lui s’aventa,
indi, quantunque intolerabil peso,
sollevandol da terra, alto il sostenta.
Quando cosí ne l’aria ei l’ha sospeso,
non allarga i legami, e non gli allenta,
ma con tutto il vigor de la persona
lá dove pende piú, piú s’abbandona.
183.Sovra l’osso del petto alto levato
calcollo sí, che ’l respirar gli tolse.
Quanto d’impeto avea, quanto di fiato
ne le membra, e nel cor, tutto raccolse,
e piegandolo a forza al manco lato,
lui da sé spinse, e sé da lui disciolse:
onde cadendo alfin, con l’ampia schiena
il membruto campion stampò l’arena.
184.Xon altrimenti il generoso Alcide
quando il Libico Anteo pugnando assalse,
poi che de la cagion chiaro s’avide
ond’ei piú volte al suo valor prevalse,
tra le braccia possenti ed omicide
stringendolo, scherní l’arti sue false,
e tanto spazio lo sostenne e resse
che violenta fuor l’alma n’espresse.
185.Cadde con quel fragor che suole al basso
cader smosso da Tonde argine o ponte,
e parve a punto che, scosceso il sasso,
venisse quasi a dirupare un monte.
Tutti a quella ruina, a quel fracasso
segno mostrár d’alta letizia in fronte,
e con grido e stupore al riso misto
favorire applaudendo ognun fu visto.
186.Mentre intorno ridea la turba pazza,
confondendo a Tappiauso alto bisbiglio,
fattosi Citherea venire in piazza
stranio vasel, volse a Corimbo il ciglio.
— Tua sia questa — gli disse —: in questa tazza,
che ’n India conquistò lo Dio vermiglio,
Giove bevea nel tempo giá che pria
di Ganimede a mensa Hebe il servía.
gl: spettacoli
670
187.La tazza ha il ventre assai capace e grande,
e (come vedi) è di cristallo alpino.
Sorge vite dal fondo, e da le bande
le serpe intorno e fa corona al vino.
Son di smeraldo i pampini che spande,
l’uve son di topazio e di rubino;
e ’n guisa tal che l’arte assembra caso,
il tronco inferior fa piede al vaso.
188.In mezo al vaso ricco e prezioso
sta con arte mirabile piantato
un cespo intier de l’arboscel ramoso
che fu giá da Medusa insanguinato;
onde il dolce licor d’un fresco ombroso
sparge, né men ch’ai labro, a l’occhio è grato,
e mesce il rosso al verde, e ’nsieme serra
le delizie del mare e de la terra.
189.De le gemme c’ha dentro, il prezzo è il meno,
si sottil l’artificio è di quest’opra,
perché, mentre la coppa ha vóto il seno,
paiono acerbi i grappoli di sopra,
ma quando poi comincia ad esser pieno,
tanto che ’l vino in fin a l’orlo il copra,
s’annegrisce il rigor de la verdura,
e diventa l’agresto uva matura. —
190.Cosí dic’ella, e gliel consegna e porge,
e veduto Membronio a la pianura,
lo qual carco di polve in piè risorge
vie piú che di superbia e di bravura,
perché confuso il mira, e ben s’accorge
quanto l’affligga il duol di sua sciagura,
non vuol eh’alcuno in sí festoso giorno
da lei si parta con mestizia e scorno.
191.Una gran fiasca in dono ottien da lei,
opra ben tersa d’acero tornito,
che d’un bel chiaro oscuro in duo carnei
per la man del gran Guido è colorito.
In una parte de’ celesti Dei
dipinto è il lauto e splendido convito.
Ne l’altra una vendemmia ha di Baccanti,
di selvaggi Sileni e Coribanti.
192.Sovragiunge Crindoro, il qual si lagna
del torto ingiusto, e mostra interno affanno,
dicendo che da lui ne la campagna
fu per fraude abbattuto, e per inganno.
Graffiasi il volto, e di bel pianto il bagna,
e vendica nel crin l’ingiuria e ’l danno:
ed accrescono grazia a la beltate
le chiome polverose e lacerate.
193.Ride Ciprigna, e col bel vel sottile
gli asciuga di sua man gli occhi piangenti.
Poi d’alabastro candido e gentile
fa due portar ben grandi urne lucenti,
giá di ceneri sacre antiche pile,
or tutte piene d’odorati unguenti.
— Questi licori preziosi e fini
sèrvanti — disse — a far piú molli i crini. —
194.Dopo le lutte faticose e fiere
la bellicosa Dea prende per mano,
e la vuol seco giudice a sedere
sovra il gran palco che comanda al piano.
Poi fra le genti armigere e guerrere
fa per l’Araldo suo gridar lontano
che chiunque onor brama, in campo vada
a tirar d’armi, ed a giocar di spada.
195.Per incitar, per allettar con l’ésca
gli animi forti a la tenzon novella,
e perch’ai cori arditi ardir s’accresca,
un dolce premio a conquistar gli appella.
Vergine addita lor fiorita e fresca
nata in Corintho, e fra le belle bella.
Bianca vie piú che tenero ligustro,
e compito ha di poco il terzo lustro.
196.Fu beltá tanta ai fianchi di coloro
che deveano armeggiar, stimulo ardente,
perch’al valor che langue alto ristoro
i trastulli d’Amor recan sovente.
Tosto Brandin comparve, ed Armidoro,
l’un detto il feritor, l’altro il valente,
Gauro lo scarmigliato, Ormusto il fiero,
Cariato il rosso, c Moribello il nero.
197.Taurindo il Mosco, il Tartaro Briferro,
Argalto il Siro, il Persian Dúarte,
e Giramon, che si ben gira il ferro,
e Fulgimarte, il folgore di Marte.
Magabizzo e Spadocco, un ladro, un sgherro,
ambo or rivolti a piú lodevol arte.
Belisardo dal guado, Albin dal ponte,
Grottier dal bosco ed Olivan dal monte.
198.Mentre son questi in gara ed altri Eroi,
di cui la Musa mia l’opre non narra,
Hesperio Ispano, di cui prima o poi
uom piú audace non fu, prende la smarra;
e precorrendo i concorrenti suoi,
cacciasi il primo entro la chiusa sbarra,
indi la man toccando a la donzella,
con un sorriso altier cosí favella:
199.— Fará meco pugnando oggi costei
d’altra guerra miglior campo il mio letto.
Non speri alcun de la beltá di lei,
fin ch’avrò questa in man, prender diletto.
Chiunque opporsi ardisce ai detti miei,
venga, e ’l vieti, se può, ch’io qui l’aspetto.
Gli ozii piú dolci son dopo i sudori:
pria convien trattar l’armi, e poi gli amori. —
200.Bardo il Toscano allora oltre s’avanza,
sdegnoso che costui tanto presuma,
e dice: — Nel parlar tanta arroganza
lá dov’è chi piú vai, non si costuma.
Se sostegno non hai d’altra speranza,
giacerai scompagnato in fredda piuma.
Il guadagno non va senza il periglio,
e ’l ver piacer de la fatica è figlio. —
201.— E tu chi sei? — replica l’altro — e donde
il primo a cercar brighe esci fra tanti?
Spesso quand’altri per timor s’asconde,
chi di tutti è il peggior si tragge avanti. —
— Son chi mi sono, e qual mi sia — risponde —
son piú di te, che si ti stimi e vanti,
e di qualunque al par di te s’apprezza,
degno di posseder quella bellezza. —
202.Avea per cominciar deposto il manto,
ma trovò che giá preso era l’arringo,
e che l’avea giá prevenuto intanto,
e venia contr’Hesperio, Ugo il Fiammingo.
Per attenderne il fin si trae da canto
e vede questo e quel cauto e guardingo
moversi a tempo, e ’n vaga pugna e nova
vicendevoli industrie usar a prova.
43
Ó74
GLI SPETTACOLI
203.Or s’inchinano al suol curvati e bassi,
or in men d’un balen levansi in alto,
or fanno innanzi, or tranno indietro i passi,
or son rapidi al giro, or destri al salto.
Trattiensi alquanto il Belga, e ’n guardia stassi,
alfin s’arrischia a piú vicino assalto.
Fa pur l’istesso il baldanzoso Ibero,
ma volge in simil atto altro pensiero.
204.Di stringersi con lui si riconsiglia,
e non pone a l’effetto altra dimora.
De la spada nemica il debil piglia,
sí che la sforza a scaricar di fora.
Poi con la sua l’avinchia e l’attortiglia,
vista al disegno suo commoda l’ora.
In qual modo io non so, so che lontano
gliela fa svèlta alfin balzar di mano.
205.Ride, ed inerme il lascia ed indifeso
l’altier, che ’n suo valor troppo si fida,
ed a schernir piú ch’a schermire inteso,
volgesi a Bardo, e lo minaccia e sgrida.
Colui corre a l’appello, e d’ira acceso
vassene ad affrontar chi lo disfida,
lo qual contro gli vien per fargli il tratto
che dianzi a l’altro astutamente ha fatto.
206.Ma quel d’Etruria, che ’l suo gioco intende,
svia con la palma il ferro e lo raffrena,
con la manca la destra indi gli prende
e la guardia gli afferra e gl’incatena;
e mentre in guisa il tien che non l’offende,
passandogli col piè dietro la schiena,
di piatto ancor, quasi a fanciul con verga,
al superbo Spagr.uol batte le terga.
207.Non riposa egli giá, poi c’ha del Tago
l’altero Idalgo umiliato e vinto,
ché di nova fatica è ben presago,
visto Olbrando l’Insubre a pugna accinto,
che ’l capo ha di gran piume ornato e vago,
e di banda purpurea il petto cinto.
Largo fa questi il gioco, e con bravura
leggiadra da veder piú che secura.
208.Con ampie rote intorno a lui passeggia,
e ’l taglio adopra a dritto ed a traverso.
Senza intervallo alcun sempre colpeggia,
e tien nel colpeggiar modo diverso.
L’altro sta ben coverto, e temporeggia
col ferro al ferro di lontan converso.
Alfin quando a misura esser s’accorge,
il tempo coglie, e ’ncontr’a lui si sporge.
209.Saggio è chi coglie a tempo il tempo lieve,
che lieve piú che strai vola e che vento,
ed è picciolo instante, attimo breve,
e quasi indivisibile momento.
Ma se ’n ogni altro affare esser non deve
altri a pigliarlo neghittoso e lento,
piú ne la scherma è necessario assai,
ché se ’l lasci fuggir, non torna mai.
210.Tosto ch’a senno suo gli apre la porta
colui, che di ferir l’aure si vanta,
piú non indugia il Tosco, e non sopporta,
ma la stoccata súbito gli pianta;
e con impeto tal la punta porta,
e si lancia vèr lui con furia tanta,
ch’a cader quasi indietro ei l’ha costretto,
e la spada gli rompe in mezo al petto.
211.Applaudon tutti allor, ma quando Bardo
giá nel pugno la palma aver si stima,
di lui si duol lo schermidor Lombardo,
e ceder non gli vuol la spoglia opima,
anzi perfido il chiama, ed infingardo,
con dir che rotto il brando avea giá prima
ne l’assalto d’Hesperio, e si querela
ch’egli per fraude il vinse, e per cautela.
212.La fanciulla per man Bardo tenendo,
vuol pur, che come sua gli si conceda.
L’altro per l’altra ancor la vien traendo,
ciascun brama per sé la nobil preda.
Ma le due Dee gli acquetano, imponendo
ch’ancor da capo a tenzonar si rieda,
ed acciò che ’l giudicio alfin non erri,
fan visitar con diligenza i ferri.
213.Per mostrar meglio il ver, la pugna accetta
il Guerrier d’Arno, ancor che d’ira avampi,
ed ecco il ferro allor con tanta fretta
torna il Bravo a rotar, ch’eccede i lampi.
Ma giá de l’altro il Ciel fa la vendetta,
e ’l caso vuol che l’aversario inciampi,
ch’un non so che gli s’attraversa al passo
e ’l piè gli manca e sdrucciola in un sasso.
214.Con la chiave del piè guasta e scommessa
risorge Olbrando da le molli arene,
dolente sí, che ’n mezo a l’ira istessa
al nobil vincitor pietá ne viene,
lo qual cortesemente a lui s’appressa,
a levarsi l’aita, e lo sostiene,
ed obliando le discordie e Tonte
gli forbisce le vesti, e ’l bacia in fronte.
215.La giovane tra lor giá litigata
restò pur finalmente in suo potere
e l’altro, che pur dianzi avea stracciata
la traversa vermiglia in su ’l cadere,
un’altra n’ebbe, intorno intorno orlata
di merletti di perle a tre filiere,
ed avea di grottesche e di fogliami
(lavor di nobil ago) ampi riccami.
216.— Piú che propria virtú, destin secondo
diè questa palma — ei disse — al mio rivale.
Colei che n’erge in alto e spinge al fondo
dona spesso gli onori a chi men vale. —
E l’altro allor: — Piú dee pregiarsi al mondo
favor divin d’ogni valor mortale.
Se le stelle mi fér sí fortunato,
dunque il Ciel m’ama, e ne ringrazio il fato. —
217.Vener qui s’interpose, e sciolse il nodo
con un dolce sorriso a la favella:
— Vincasi pure in qualsivoglia modo,
ché la vittoria alfin fu sempre bella. —
Tronco il filo a la lite, e fisso il chiodo
al decreto immortai la Dea piú bella,
fe’ dopo questi i duo primier campioni
contenti anco restar con altri doni.
218.Ponsi poscia a mirar Marzio e Guerrino,
l’un de’ quali è Guascon, l’altro Normanno,
l’un e l’altro iracondo e repentino,
che tolerar, che destreggiar non sanno.
Esce pria l’Aquitano, indi vicino
fattosi a l’altro, ove le smarre stanno,
perché vinto d’orgoglio esser non soffre,
de’ duo stili d’acciar la scelta gli offre.
GLI SPETTACOLI
67S
219.Eran le smarre ben temprate e dure,
quantunque oltre il dever lunghe e sottili.
Guerrin sorride, e dice: — Altre armature
si convengon che queste a cor virili.
Parmi un scherzar da pargoletti, o pure
un pugnar da guerrier codardi e vili.
A dirti il ver, meglio amerei provarmi
con la spada di fil, che con quest’armi. —
220.— A chi pace non vuol, guerra non manca
Marzio risponde —: in campo ecco mi vedi.
Voglimi o con la nera, o con la bianca,
pronto sempre m’avrai, qual piú mi chiedi.
Non vuol Ciprigna che la coppia franca,
che giá nova disfida ha messa in piedi,
la festa sua si dilettosa e lieta
macchi di sangue, e glie! contende e vieta.
221.Grida Guerrino: — Almen fa’ che sien tolti
da le punte de’ ferri i duo bottoni,
né sien da’ colpi eccettuati i volti:
mantenga poi ciascun le sue ragioni. —
— Non creder ch’io miglior novella ascolti,
né men brami di te quel che proponi —
replica Marzio, e freme iratamente,
onde Vener costretta, al fin consente.
222.Non molto in lungo andò tra loro il gioco,
né l’un de l’altro ebbe la man men presta.
Si serrár tosto insieme i cor di foco,
e la mira pigliaro ambo a la testa.
Onde l’assalto lor, che durò poco,
si terminò con azzion funesta,
e passato e squarciato a l’improviso
l’un con l’occhio restò, l’altro col viso.
223.Poi c’ha la Dea non senza doglia acerba
visto il tragico fin de la battaglia,
in risanargli con qualch’util erba
prega Apollo a mostrar quant’egli vaglia.
Poi dona a Marzio d’agata superba,
da portar nel cappel, ricca medaglia.
Ed a Guerrin d’una fattura estrana,
per ornarsene il petto, aurea collana.
224.Sorge Altamondo, un Aleman membruto,
di superbia e di vin fumante e caldo,
e non attende che col suono arguto
l’inviti in campo a duellar l’Araldo.
Cariclio il Greco è contro lui venuto,
d’ossa minor, ma ben robusto e saldo,
uom di corpo, di piè, di mano attivo,
di spirto pronto, e di coraggio vivo.
225.Vassene il Greco senza far parole
per dargli il primo allor allor di piglio.
Aspettar che si scaldi egli non vòle,
né stima il dargli tempo util consiglio,
ché la ruina di sí greve mole
teme, e ’l restarne oppresso è gran periglio.
Onde nel ripararsi e nel colpire
de l’industria si serve, e de l’ardire.
226.Ne le sue guardie ha disvantaggio il grande,
e d’uopo è ben, ch’anch’egli il senno adopre,
ch’ad ogni moto che le braccia spande,
de l’ampio corpo una gran parte scopre.
Ma ’l picciolo davante e da le bande
facilmente si serra e si ricopre,
e può meglio cangiar sito e postura,
non avendo a guardar tanta statura.
227.Mentre i colpi il Germano adombra e finge
con molti tempi, e ’l tempo indarno spende,
l’ultima parte del suo forte ei spinge
sí che nel mezo il debile gli prende.
Gli guadagna la spada, indi si stringe
seco, ed addosso gli si scaglia e stende:
né potendol ferir di piede fermo,
con fugace trapasso usa altro schermo.
228.Su per la spada, che Cariclio ha stesa,
quegli allor trae di punta invèr la faccia;
ma questi anch’ei di punta a fargli offesa
sotto il braccio suo destro il ferro caccia,
e per non s’arrischiar seco a la presa,
ché sa c’ha maggior forze, e miglior braccia,
senz’altro indugio in un medesmo instante
lo ferisce nel fianco, e passa avante.
229.Per dargli in testa, con un tratto accorto
di riverso al cavar tira Altamondo;
ma l’altro allor, che si ritrova al corto,
mentre la spada si rivolge in tondo,
súbito che del ferro il giro ha scorto
su ’l primo quarto, il batte col secondo:
la misura gli rompe, e con tre passi,
cautamente veloce, indietro fassi.
230.E perché vede che ’l nemico a molta
possanza accoppia ancor scaltrito ingegno,
e se sotto gli va sol una volta,
non avrá quella furia alcun ritegno,
fa con la mente in sé tutta raccolta,
ricorrendo a l’astuzie, altro disegno,
ed usa ogni arte, acciò che vinta sia
da la sagacitá la gagliardia.
231.Torna, e di novo ancor gli s’avicina
fingendo di tentar nove passate,
poscia con gran prestezza il capo inchina
tra le cosce di lui, che l’ha sbarrate,
e in aria con altissima mina
dopo ’l tergo sei gitta a gambe alzate,
sí che de le gran membra il vasto peso
riman, quant’egli è lungo, a terra steso.
232.Venere una cintura allor gli dona
c’ha di sottil riccamo i guernimenti,
e son d’oro le brocche ond’a la zona
s’affibbian col tirante i perpendenti.
E ’l Tedesco, ch’ai suol con la persona
brutta di polve sparge alti lamenti,
guadagna anch’ei, ben che turbato e tristo,
contro l’ebrezza un Indico ametisto.
233.Ma giá Cencio e Camillo il vulgo aspetta,
ogni voce nel circo omai gli chiama.
Tanta è l’opinion di lor concetta
che ’l popol tutto il paragon ne brama.
Coppia questa di mastri era perfetta,
emuli d’alta stima e di gran fama,
ch’ebber per mille palme in fra i migliori
ne le scole latine i primi onori.
234.Nacquero in riva al Tebro, ambo Romani,
ma da’ nativi lor patrii soggiorni
per desio di veder paesi estrani
capitati eran qui di pochi giorni.
Giá di spada e pugnale arman le mani,
d’abito lieve e rassettato adorni,
e succinta hanno a studio in su ’l farsetto
spoglia di bianco lino intorno al petto.
235.Ed acciò che de’ colpi il segno resti
ne la candida tela, e vi s’imprima,
da l’un canto e da l’altro e quegli e questi
tinti han di nero i ferri in su la cima.
Non sono ad affrettarsi ancor sí presti,
e non si stringon súbito a la prima,
ma fanno, intenti ad ogni moto e cenno,
moderator de l’ardimento il senno.
236.Tenta ciascun con ingegnose prove
farsi al proprio vantaggio adito e strada.
Concorde al corpo il piè, concorde move
l’occhio a la mano, ed a la man la spada.
Or minaccia in un loco, e fa ch’altrove
inaspettata la percossa cada.
Or risoluto l’un l’altro incontrando,
sottentra insieme e si sottragga al brando.
237.In ambo la ragion s’agguaglia a l’ira,
l’un e l’altro è del pari agile e forte.
Quegli talor accenna e talor tira
colpi furtivi con insidie accorte.
Questi girando, al ferro ostil che gira
oppon guardie sagaci, astute porte.
Se l’un con leggiadria chiama fingendo,
l’altro con maestria para ferendo.
238.Camillo, ove il passaggio aperto vede,
spinge la spada per entrar veloce.
— Ripara or questa — dice, e batte e fiede
col piè la terra, e l’aria con la voce.
Ma Cencio con la sua non gliel concede,
l’urta in su ’l forte, e la ribatte in croce.
Sovra l’elsa la ferma, e da l’impaccio
ritrae súbito poi libero il braccio.
239.In un tempo medesmo il ferro abbassa
dritto al costato invèr la manca parte,
e mentre impetuoso andar si lassa,
grida: — Cosí s’inganna arte con arte. —
L’altro il periglio del furor che passa
schiva col fianco, e traggesi in disparte;
ed ambo i ferri, mentr’un poggia, un cala,
scorrono invan, su ’l tergo, e sotto l’ala.
240.Non molto stan, ch’essendo entrambo in punto
di tornar a le prese ed a le strette,
tiran di punta in un medesmo punto
sí ratti che del Ciel sembran saette;
e ’n quella parte ove l’un coglie a punto,
l’altro né piú né men la spada mette.
A colpir questo e quel va su le cosce,
sí che vantaggio in lor non si conosce.
241.La rattacca Camillo, e si presenta
col piè destro davante ardito e franco,
e ’n passo naturai vi si sostenta
di profilo col busto, e mostra il fianco,
e con la spada, che per dritto aventa,
stende il braccio migliore, ed alza il manco.
Ripara un col pugnai la testa in alto
e l’altro il corpo dal nemico assalto.
242.Cencio incontro gli va, né si scompone,
ma col sinistro piede oltre s’avanza,
nel dritto del diametro si pone,
sí ch’ai circol pervien de la distanza,
e de la manca spalla il punto oppone
verso la linea ostil, poi fa mutanza
e dal confin, che dianzi s’ha prescritto,
di moto traversai move il piè dritto.
243.Esce dal primo circolo, e va ratto
nel secondo de’ quattro a cangiar posto,
e rimosso quel punto, annulla a un tratto
de la linea nemica il segno opposto,
e con moto minor di quel c’ha fatto
colui, che di ferirlo era disposto,
e del tutto contrario a l’altrui moto,
fa che, se vuol ferir, ferisca a vóto.
244.Quegli allor piede a piede insieme aggiunta,
s’apre in passo di forza e viengli addosso,
e la stoccata séguita, e la punta
porta a quel segno pur, ch’è giá rimosso,
e ’n lui, ma cosí scarso, il ferro appunta
che tocco si può dir piú che percosso.
11 colpo è sí leggier, nóce sí poco,
che riman dubbio a chi rimira il gioco.
245.Ma l’altro a un tempo da la parte aversa,
contraposto d’obliquo a la ferita,
la spalla destra incontr’a sé conversa
gli ha di ferma imbroccata a pien colpita,
e col pugnale intanto gli attraversa
la spada, ch’ai tornar resta impedita;
poi si ritira, e con la sua distesa
ponsi, e col corpo in scorcio a la difesa.
246.Qui fe’ cenno agli Araldi, e non permise
che l’ostinata pugna oltre seguisse,
e la coppia magnanima divise
la nemica degli odi e de le risse;
e fu pari la gloria, e si decise
che di par la mercé si compartisse:
e da Ciprigna in premio e da Bellona
Folgorina ebbe l’un, l’altro Bisciona.
247.Erano queste due famose spade,
Enea giá l’una, e l’altra usò Camilla.
Ambe di rara e singoiar bontade,
e quella e questa svincola e sfavilla.
Sí dolce è il taglio, e cosí netto rade,
ch’altri prima che ’l senta il sangue stilla.
Hanno ricche guaine, e le lor daghe
con bei manichi d’or pompose e vaghe.
248.Intanto il Sol s’inchina, e fa passaggio
d’Hesperia a visitar l’estremo lito,
e stanco peregrin, del gran viaggio
avendo il minor circolo fornito,
carta è il Ciel, l’ombra inchiostro, e penna il raggio,
onde cancella il dí, ch’è giá compito,
e ’l fin del lungo corso a lettre vive
d’oro celeste in Occidente scrive.
249.Sparito il Sole, in apparir le stelle
vóto tutto di genti il campo resta.
Chi sotto le frondose e verdi ombrelle
vassene ad alloggiar ne la foresta,
chi del Palagio in queste stanze e ’n quelle
e chi de’ borghi in quella casa e ’n questa;
altri giace in campagna, e ’I giorno attende
tra pergolati, e padiglioni, e tende.
250.Ma giá traea del Gange i biondi crini
lasciando Apollo i suoi dorati alberghi,
e ratto fuor degl’indici confini
ai volanti corsier sferzava i terghi,
per venirsi a specchiar ne’ ferri fini
degli elmi tersi, e de’ lucenti usberghi,
onde sembrava al mattutino lampo
tutto di Soli seminato il campo:
251.quando l’usata tromba ecco s’ascolta,
ch’ai gran bagordo appella i Cavalieri.
Giá s’è la turba al novo suon raccolta,
giá si veggion passar paggi e scudieri,
e trar cavalli a mano, e gir in volta
con livree, con insegne, e con cimieri,
e portar quinci e quindi armi ed antenne,
bandiere e bande, e pennoncelli e penne.
252.Mentre che del paese e di ventura
molta Cavalleria concorre al gioco,
si che de la larghissima pianura
son giá pieni i cantoni a poco a poco,
de la Quintana esperti fabri han cura,
e di piantarla in oportuno loco;
e proprio in su la sbarra appo la lizza
nel mezo de la tela ella si drizza.
253.Sta coverto di ferro un uom di legno
con lo scudo imbracciato e l’elmo chiuso,
ch’esposto ai colpi altrui bersaglio e segno,
termina il busto in un volubil fuso:
e s’affige a la base e gli è sostegno
forato ceppo e ben fondato in giuso,
sovra cui, quando avien ch’altri il percota,
agevolmente si raggira e rota.
254.Tre catene ha la destra, e quindi avinto
di tre globi di piombo il peso pende,
sí che qualora il manco braccio è spinto,
l’altro con esse si rivolge e stende,
pur come voglia, a le vendette accinto,
castigar chi fallisce, e chi l’offende;
né si cauto esser può, né gir si sciolto,
che su T tergo il guerrier non ne sia còlto.
255.Un pilier di diaspro in terra fitto
su la porta a l’entrar de lo steccato
in gran lamina d’òr regge uno scritto
a note di rubin tutto vergato.
Oui de la giostra il generale editto,
che dianzi a suon di trombe è publicato,
di quanto in essa adoperar conviene
le leggi per capitoli contiene.
256.Bella è la vista a meraviglia e lieta,
varia la gente, e l’abito diverso.
Chi scopre nel vestir gioia secreta,
chi tacendo si duol d’Amor perverso.
Chi cifra ha d’òr su l’armi, e chi di seta,
altri in prosa alcun breve, ed altri in verso.
Ciascuno o nel colore o ne l’impresa
a l’amata bellezza il cor palesa.
257.Sidonio in campo è il primo a comparire,
Sidonio dico, il genero d’Argene,
l’accorto amante, il cui felice ardire
meritò d’ottener l’amato bene.
Ma mentre tutto intento a ben ferire
giá con la lancia in punto oltre ne viene,
da la sua Donna, ch’è su ’l palco assisa,
con altr’armi è ferito, e d’altra guisa.
258.Quarteggiate d’argento, armi azurrine
son le divise sue pompose e belle,
di zaffir tempestate, e di turchine,
fatte a sembianza d’onde e di procelle,
tra cui consparse son d’acque marine
e di brilli cilestri alquante stelle,
che fanno al Sol, sí com’ai lampi il flutto,
balenar, tremolar l’arnese tutto.
259.La lorica è d’argento, adorna e ricca
de le piú belle pietre di Levante.
Con fibbie d’or si serra e si conficca
con chiodetti pur d’oro e di diamante.
Bandato vien d’una cerulea stricca,
con bei fiocchi di seta in giú cascante;
e del color medesmo al destro braccio
tien di biondi capei trecciato un laccio.
260.Perché Dorisbe azurra usa la veste,
veste anch’egli l’azurro, e l’usa, e l’ama:
e l’auree fila in quel cordon conteste
son de le chiome pur de la sua Dama.
Con piume d’or quel fanciullin celeste,
quel nudo Arder, Ch’Amore il mondo chiama,
sovra la rota di Fortuna assiso
porta ne l’elmo e ne lo scudo inciso.
261.Esce per sorte a tutti gli altri avanti
e ’l primo loco ad occupar si move.
Tre volte correr sol lice a’ giostranti
per legge de la Dea figlia di Giove.
Soriano ha un corsier, che i primi vanti
riportò de la giostra in cento prove,
e giá chiede co’ ringhi, accinto al corso,
al suo Signor la libertá del morso.
262.È baio, e di fattezze assai ben fatte,
grasso petto, ampia groppa, e largo fianco.
Spesso col piè sonoro il terren batte,
ora col destro il zappa, ora col manco.
^luasi notturno Ciel solco di latte,
gli divide la fronte un fregio bianco.
Brune ha gambe e ginocchia, e brune chiome,
duo piè balzani, e Balzanello ha nome.
263.Di pace impaziente, e di dimora,
sente l’odor de la vicina guerra.
Tende l’orecchie, e sbuffa ad ora ad ora:
le nari ad or ad or gonfia e disserra.
Tutto spumoso il ricco fren divora,
drizza il collo, erge il crin, gratta la terra.
E tosto che tre volte ode la tromba,
par sasso che volando esca di tromba.
264.Gli stringe i fianchi, e l’una e l’altra costa
con gli stimuli d’or punge e ripunge,
e di lá dove a punto il colpo apposta,
va per dritto a ferir non molto lunge.
11 buon destrier, ch’ai termine s’accosta,
para in tre salti, e quando alfin vi giunge,
al mormorio de l’ottenuta laude
con la test’alta e col nitrito applaude.
263.Tra ’l segno inferior, ch’è ne la gola,
e ’l secondo di mezo il tronco ei spezza;
e ben che ’l pregio è d’una botta sola,
Vener, che molto il suo fedele apprezza,
col dono avantaggiato il riconsola
d’un fornimento pien d’alta ricchezza;
guernigion da destrier superba e bella
con testiera, e groppiera, e fascia, e sella.
266.A lui succede un Saracin di Tarso,
che la corazza e la divisa ha nera,
e di serpi d’argento il campo sparso
de la cotta, clic l’arma a la leggiera.
Con l’asta in pugno è ne l’agon comparso,
che pur di negro in cima ha la bandiera.
Su ’l sinistro galon curva la storta,
e ’l turcasso con l’arco al tergo porta.
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267.Passato un cor d’acuto strale e crudo
ha per cimier la cappellina bruna.
Di gran foglie d’acciar fasciato scudo,
scudo a sembianza di non piena Luna,
copre senza bracciale il braccio ignudo,
né color v’ha, né v’ha pittura alcuna,
fuor due righe di bianco, e dice: “ O morte ”
l’anima senza corpo, “ o miglior sorte
268.Avea per la bellissima Adamanta,
figlia del Re d’Arabia, il cor ferito.
Era però da la vezzosa Infanta
ogni servigio suo poco gradito;
e ben che fusse in lui prodezza quanta
illustrar possa altrui, languia schernito,
perché mento avea raso, irsuto labro,
viso pallido, brun, rugoso e scabro.
269.Tosto riconosciuto a la coverta
de l’armi fu, com’uom famoso e chiaro.
Veggendol poi con la baviera aperta,
le turbe intorno un lieto grido alzaro:
— Ecco Alabrun, che ’n ogni colpo accerta,
Alabrun da la lancia, il campion raro.
Senza dubbio egli è desso. Avrá tra poco
termin la festa, e si vedrá bel gioco. —
270.Vien portato costui da un suo stornello
rapido sí, che se ’n campagna il vedi
formar volte e rivolte, agile augello,
mobil paleo, volubil fiamma il credi.
E se ’n fuga ne va spedito e snello,
par le procelle a punto abbia ne’ piedi.
Vergato a bruno, e pien d’alto ardimento,
vola, non corre: e nome ha Passavento.
271.Sovente il crin solleva, erge la testa,
e picchia il suol con la ferrata zampa,
calca nel corso l’erba, e non la pesta,
preme col piè l’arena, e non la stampa.
Soffia borfando, e ’n quella parte e ’n questa
sempre si volge, e d’alto incendio avampa.
Chiude, né trova al suo furor mai loco,
sotto il cener del manto alma di foco.
272.Contan che de l’Arabica pendice
mentre pascea l’armento in riva a Tacque,
pien di quella incostanza, imitatrice
del mar vicino, in su gli scogli nacque.
Nettun primier domollo, anzi si dice
che talor di montarlo ei si compiacque.
Quel veloce il portava, e vie piú lenti
ne venian dietro ad emularlo i venti.
273.Pungendo ei dunque a quel destrier la pancia,
è sí rapace e violento il moto
ch’agio non ha d’arrestar pur la lancia:
perde l’incontro, e fa l’arringo ir vóto.
Onde infiammato di rossor la guancia
per error sí notabile e sí noto,
ritorna a spron battuto e briglia sciolta
a serrarlo nel corso un’altra volta.
274.Vana ancora è la botta, ed è tra via
dal soverchio furor dispersa e guasta,
che pria che giunto a la Sortice ei sia,
per se stessa in andar si rompe Tasta.
— Ancor tu contro me Fortuna ria —
disse — congiuri? Amor solo non basta?
Venga il mio Farfallino! — e dai sergenti
gli fu innanzi recato ai primi accenti.
275.Questo de l’altro è men carnoso e grande,
stretto di ventre, e corto di giunture.
È del color de l’uve e de le ghiande
quando in piena stagion son ben mature.
Biondi, quasi Leone, i velli spande,
ed ha luci vermiglie, e gambe oscure:
membra svegliate ad ogni cenno e pronte,
rabican ne la coda e ne la fronte.
276.La guernitura è candida e morella
con bei puntali di lucente smalto,
ma di lame acciarine arma la sella
ben ferme e forti ad ogni duro assalto.
Selva di folte piume ombrosa e bella
gl’imbosca il capo e si rincrespa in alto.
Se medesmo ei vagheggia, ed orgoglioso
de’ ricchi fregi suoi, non ha riposo.
277.Vi salse il Moro, e de l’error commesso
tutto stizzoso, un’altra lancia tolse,
e di meglio colpir fermo in se stesso,
contro il Facchin le redine gli sciolse;
e ’n fin al pugno alfin la ruppe in esso,
e tra ’l visale e la nasella il colse:
e se non che strisciò raschiando il segno,
del primo pregio il colpo era ben degno.
278.Pur da la bella Giudice, che i gesti
stava a notar de’ giostrator baroni,
per compartir conformi a quegli e questi
gli onori a l’opre, a le fatiche i doni,
in pegno di conforto ai pensier mesti
un paio riportò di ricchi sproni,
che di fin or le fibbie e le girelle
e d’aguzzi diamanti avean le stelle.
279.Floridauro e Rosano eran duo pegni,
d’una portata insieme al mondo nati,
e pargoletti ereditaro i regni
de’ Caspi alpestri, e de’ Rifei gelati.
Ma poi per colpa di duo servi indegni,
che giá dal morto Re furo essaltati,
a tradigion del regio scettro privi
n’andaro orfani un tempo, e fuggitivi.
280.Cresciuti in forze, e pervenuti agli anni,
mossero l’armi intrepidi guerrieri,
e vendicaro i ricevuti danni,
e racquistaro gli usurpati imperi.
Or giá vinti ed uccisi i duo Tiranni,
qua ne vernano i Giovinetti alteri,
e del color de l’erbe e de le foglie,
sparse di Soli d’oro, avean le spoglie.
281.L’oro forbito in su l’arnese verde
in cotal guisa folgora e risplende
che la vista abbarbaglia e la disperde,
e ’l finto Sol col vero Sol contende:
e contendendo al paragon non perde,
ché se raggi ne trae, lampi gli rende.
Ambo egualmente di due belle imprese
fanno a l’elmo ornamento, ed al pavese.
282.Ne l’una è un Sole, a cui velar la luce
tenta vii nube, e ricoprir la faccia.
- Ingrata al genitor che la produce ”
- Ingrata al genitor che la produce ”
dice il cartiglio che lo scudo abbraccia.
Xe l’altra il Sol istesso anco riluce,
che ’l malnato vapor distrugge e straccia;
e dice il motto in su la targa al tergo:
“ Io che ’n alto la trassi, io la dispergo
283.Cavalca quei di placida andatura
destrier gentil, che ne l’andar paleggia.
Tranne il ciglio e ’l calcagno, in cui Natura
sparse alquanto di brun, tutto biancheggia,
e ’l Cigno intatto e la Colomba pura
ne la canicie del bel pel pareggia.
Sembra a l’andar, si vago è quel cavallo,
sposa in passeggio, o donzelletta in ballo.
284.Nacque di padre Trace e madre Armena
ne’ monti lá, dov’Aquilone alberga.
Nominossi Armellino, e l’ampia schiena
un profondo canal gli riga e verga.
Rimorde il morso, che con òr raffrena,
e si lascia con man palpar le terga.
Sbavan le labra, e con lasciva sferza
la lussuria del crin su ’l collo scherza.
285.Picca quest’altro un Barbaro veloce,
ch’egual quasi al pensiero il corso stende.
De lo spron, de la verga, e de la voce,
pria che senta il comando, il cenno intende.
Fierezza vaga e leggiadria feroce
umile al morso alteramente il rende.
Steril per arte, e meglio assai per questo,
fatto inabil marito, abile al resto.
286.Chiamasi il Turco, e de la furia lieve
diresti e che de l’impeto sia figlio,
lungo e sottil la gamba, asciutto e breve
il capo, alto la fronte, altero il ciglio.
Di tutto il corpo, ch’è di bianca neve,
l’estremo de la coda ha sol vermiglio.
Picchiato a schizzi, e di macchiette fosche
puntellato il mantel, come di mosche.
287.Corsero alternamente, e pria Rosano
ben due volte colpí ne la gorgiera.
Corse la terza poi, ma corse invano,
ché la sbarra toccò ne la carriera.
Non fe’ meglio di lui l’altro germano,
che due volte tornò con l’asta intera.
Fallò duo colpi, ed a la terza botta
gli fe’ danno maggior l’averla rotta.
288.Mentre che ’n cento pezzi a la goletta
la ruppe con la man possente e franca,
una scaglia volò, come saetta,
e si confisse al corridor ne l’anca;
ond’a contaminar la neve schietta
di quella spoglia immacolata e bianca
videsi tosto un veriniglietto rivo
per la piaga spicciar di sangue vivo.
289.Di quel caso pietosa e di quel sangue
Venere il tutto ad osservare intenta,
al primo un bel cimiero in foggia d’angue
fabricato di gemme, in don presenta.
A l’altro in vece del destriero essangue
di pel simile a l’ambra una giumenta,
che giá di poco ingravidata, il seno
di parto ancor non ben maturo ha pieno.
290.Specchio e corona de le Frigie stalle,
figlia di bella e generosa madre,
e de le piú magnanime cavalle
scelta per la miglior fra cento squadre.
Nel petto, ne le groppe, e ne le spalle
pomellata è di macchie assai leggiadre.
Da la vivacitá che ’n lei sfavilla
il nome tolse, e s’appellò Favilla.
291.Segue Montauro, uom ben corputo e grosso,
da sei scudieri accompagnato e cinto,
con l’istessa livrea ch’ei porta addosso,
stellata d’oro in un rossor mal tinto.
Lo scudo altier, che similmente è rosso,
tien del gran Giove il fulmine dipinto.
Di corona reai, tutta contesta
di gemme e d’or, cerchiato ha l’elmo in testa.
292.E ne la sommitá del morione
par fischi e spiri fuor fiamma vivace,
e spiega l’ali ed apre un fier Dragone
de l’ampia gola il baratro vorace.
Saginato e rossigno ha un suo ronzone,
ch’a la grandezza sua ben si conface.
Nacque in India su ’l Gange, ed è cornuto,
e ’l corno è lungo e piú che lancia acuto.
293.Pende un fiocco di perle al corno in punta,
di perle de le noci assai maggiori.
Porpora con argento in un congiunta
d’un sovrariccio d’or braccata a fiori,
che de l’estremo margine trapunta
di bei fregi ha la fascia e di lavori,
tuttutto il superbissimo Alicorno
tien dal capo al tallon bardato intorno.
294.Gonfio di gloria e di superbia pazza
in se stesso il Guerrier si pavoneggia,
e quantunque sia solo in si gran piazza,
tutta ei solo l’occúpa e signoreggia.
E ben che forte, e di feroce razza,
l’animal che cavalca e che maneggia,
sotto il peso che porta in su la schiena,
ficca un braccio le braccia entro l’arena.
295.È Re di Rhodo: il regno a cui comanda
con Cipro in su i confini è sempre in guerra.
Questi in atto sprezzante allor da banda
per giostrar su le mosse un tronco afferra.
Ma l’Araldo ne vien, che gli dimanda
chi siasi, e di qual gente, e di qual terra.
Risponde il fier, colmo d’orgoglio e sdegno:
— Chi ’l Sol non vede, è de la luce indegno.
296.Sole è il mio nome, e non è loco alcuno
dove chiaro non sia, né piú dirótti:
ch’esser ben devria qui noto a ciascuno
il temuto flagel de’ Cipriotti.
Ciò basti, e basti sol, ch’io mi son uno
uso a far molti fatti, e pochi motti. —
Xon bada a far, ciò detto, altro discorso:
la lancia impugna, e s’apparecchia al corso.
297.L’orecchie a pena il primo suon gli fiede
del tortuoso incitator metallo
che dispicca un gran trotto, e ne succede
l’effetto mal, ben ch’abbia scusa il fallo.
Sinistrando il destrier dal destro piede,
cadder tutti in un fascio uomo e cavallo.
Quel suo dal corno è poderoso e grave,
e del mestier la pratica non have.
298.Levasi in fretta da l’immonda sabbia
tra sé fremendo irato e furibondo;
e perché, quando colpa egli non v’abbia,
chi manca al primo arringo esce al secondo,
rimonta arso di scorno, ebro di rabbia,
in un altro corsier membruto e tornio,
di non minor possanza e gagliardia,
che la Dea degli Amori in don gl’invia.
299.D’un’Alfana di Scithia e d’un Centauro
lá nel freddo Pangeo fu generato.
11 suo pelame è del color de l’auro,
il suo nome per vezzo è lo Sfacciato,
perché sol ne la faccia (il resto è sauro)
d’una gran pezza bianca ei va segnato.
Di quattro gambe parimente è scalzo,
e camina saltando a balzo a balzo.
300.Poco miglior del primo il second’atto
seguí, perché, dal segno ancor lontano,
lo sconcerto e ’l disordin fu sí fatto
che si lasciò la lancia uscir di mano.
Pur la ripiglia e studia il terzo tratto
per far buon corso e non ferire invano,
né dando loco altrui d’entrar in campo,
con l’incontro emendar cerca l’inciampo.
301.Lo scudo del Facchin nel mezo imbrocca,
che la scorza ha d’acciar lubrica e liscia,
onde vien l’asta in giú, tosto che ’l tocca,
di sghembo a sdrucciolar con lunga striscia.
Girasi il torno, e la catena scocca,
che s’ode allor fischiar com’una biscia,
e nel passar con le piombate palle
fa lunge al Cavalier sonar le spalle.
302.Qual robusto castagno o pino alpino,
del celeste Centauro ai primi orgogli,
s’avien che del bel verde Ostro o Garbino
la folta chioma e le gran braccia spogli,
o ch’a busse ne scota il contadino
gl’irsuti ricci e i noderosi scogli,
fulmina al piano i frutti suoi sonori,
de le mense brumali ultimi onori:
303.tal quella mobil machina, che presta
in se medesma si raggira e libra,
facendo allor fioccar l’aspra tempesta,
il braccio move, e le catene vibra:
e ’n tal guisa al Guerrier la schiena pesta,
ch’ogni nervo gli dole, ed ogni fibra.
Batte le palme il vulgo, e fischia, e grida,
non è vecchio o fanciul che non ne rida.
304.Tornaro i primi a replicar l’antenne:
tal n’ebbe onor, che fu biasmato avante;
e spesso il piombo incatenato venne
a scaricar la grandine pesante.
Cosí la piazza un pezzo si trattenne
con gran piacer del popol circostante;
e ciascun tanto o quanto, il vile e ’l prode
n’ebbe, chi piú, chi meno, o premio, o lode.
305.Vede girando poi Vener le ciglia
a coppia a coppia entrar ne la barriera
di diciotto Guerrier nobil quadriglia,
ai sembianti ed agli abiti straniera.
L’armatura ciascun porta vermiglia,
salvo colui che capo è de la schiera;
e con tal grazia e maestá cavalca
che ’l passo volentier gli apre la calca.
306.Onde a la saggia Dea de la civetta
stupida in atto si rivolge, e parla:
— Che squadra è quella, che fra l’altre eletta
trae tutti gli occhi intenti a vagheggiarla?
e vien con si bell’ordine ristretta
ch’io per me non saprei se non lodarla? —
Cosí dice la Dea nata da Tonde,
e la Vergin del Ciel cosí risponde:
307.— A la tua Theti è ben ragion che porti
questo dí fortunato obligo eterno,
perché mentre pur dianzi i C.uerrier forti,
prendendo in picciol legno i flutti a scherno,
trascorreano i sentier torbidi e torti
de l’elemento a lei dato in governo,
per onorar la tua famosa festa
Tacque turbò con súbita tempesta.
308.Onde il drappello aventurier, ch’errante
altre imprese cercando in Asia giva,
stanco dal mareggiar, fermò le piante
in quest’amena e dilettosa riva.
Or qui fin che s’acqueti il mar sonante
vien per provarsi a la tenzon festiva,
peregrin di costume, e d’idioma,
e v’è dentro raccolto il fior di Roma.
309.Chiamala ognun la compagnia del foco,
perché qual foco dissipa e consuma.
Non trova al suo valor riparo o loco,
arde per tutto, e tutto il mondo alluma.
Ciascun destriero in vera pugna o in gioco
di tre penne sanguigne il capo impiuma.
Gli elmi e Tarmi hanno eguali, e questi e quelle
han per fregi e cimier fiamme e fiammelle.
310.Tutto del pari a la medesma guisa
l’inclito stuol di porpora è guernito,
se non quanto diversa è la divisa
di cui ciascun lo scudo ha colorito.
Solo colui (meco lo sguardo affisa
a quel primier, ch’io ti dimostro a dito)
come di tutti lor suprema scorta,
differente dagli altri il vestir porta.
311.Quegli è Michel, che quasi eccelso Duce
vien de la truppa, e condottier sovrano,
pompa, gloria, delizia, unica luce
de’ sacri colli, e de l’onor Romano.
Scelto fu dagli Eroi ch’egli conduce
di consenso commun per Capitano.
Ecco la sbarra d’ostro, ecco l’altero
Leon, che s’erge, e tien fra l’unghie il Pero.
312.Colui ch’è seco in su la fila prima
è il gran Ranuccio, intrepido campione,
tra i piú chiari guerrier di somma stima,
vibri l’asta o la spada in su l’arcione;
onde poggiato de la gloria in cima
mille l’attendon giá palme e corone.
Su la rotella d’òr mira dipinti
con le foglie cerulee i sei Giacinti.
313.Pietro il seconda, alta speranza e pregio
d’Italia tutta, e l’onorato stemma
in celeste color con ricco fregio
d’un aureo rastro e di sei stelle ingemma.
Marcantonio è con lui, giovane egregio;
guarda colá misterioso emblemma.
“ Convien pur che soggiaccia ” il senso esprime
“ l’inlernal Drago a l’Aquila sublime
314.L’altro che segue, e la colonna mostra
bianca in su ’l minio, ed ha sí fier l’aspetto,
Sciarra s’appella, e ’n guerra mai, né in giostra
non fu piú ardito cor, piú franco petto.
Virginio è quei che ’l puro argento inostra
di tre traverse di rubino schietto.
Anima illustre, e d’adornar ben degna
del tuo bel fior la gloriosa insegna.
315.Vedi un, che degli augei l’alta Reina
tarsiata ha di scacchi orati e neri:
lucido Sol de la virtú latina,
Camillo ha nome, ascritto in fra i primieri.
Sebellio seco a par a par camina,
specchio immortai di Duci e di guerrieri.
Conosco ben l’impronta sua famosa,
ch’è la Colomba, e tra i Leon la rosa.
316.Eccone un’altra coppia. Al destro fianco
veggio un baron di generose prove.
Ruggier, che sovra ’l fondo azurro e bianco
inquartato l’augel porta di Giove.
Veggio poi Sforza, che gli vien dal manco,
né con minor baldanza il destrier move.
Figura in su ’l turchin l’orbe di smalto
aureo Leon con aureo pomo in alto.
317.V’è Gismondo, ed Emilio. O stirpe altera,
tra le fortune invitta, e tra’ perigli!
Quei sovr’alta colonna Aquila nera
spiega, che spiega l’ali, apre gli artigli,
dove stretta in catena è quella Fera
che riforma lambendo i rozi figli.
Questi, ch’è de’ piú celebri e piú cónti,
un Cornio ha nel brocchier sovra tre monti.
318.Orazio è quegli lá, che nel vermiglio
tre Lune d’oro ancor crescenti ha sparte.
Signor d’armi possente, e di consiglio,
del guerreggiar, del comandar sa l’arte.
D’una Ninfa del Tebro è costui figlio,
onde figlio lo stima altri di Marte;
ed è ben tal, che Marte ei sembra a punto
Marte quando è però teco congiunto.
319.Mario a lato gli va. L’armi che cinge
(fuor lo scudo, ch’è rosso) ha tutte bianche.
Duo Leoni in quel rosso egli dipinge,
che quattro Pani d’oro han tra le branche.
Annibaldo la lancia a prova stringe,
e ’n sembianze ne vien feroci e franche.
Il bruno Scorpïon scolpisce in oro,
che vessillo fia poi del fiero Moro.
320.Il buon Curzio procede a lui vicino,
Scipio con Fabio alfin dietro s’accampa.
L’un nel targone azur sculto d’òr fino
tien l’animal magnanimo che rampa.
L’altro il quartier dorato e purpurino
di croce trionfai per mezo stampa.
L’ultimo ha lista d’òr, che per traverso
scacchier divide innargentato e perso.
321.Ma non vedi un di lor, c’ha giá l’antenna
sovra la coscia, e ben che grave e grossa,
lieve giunco gli sembra, ed agil penna?
Stiam pur dunque a mirar quant’egli possa.
Giá fattosi da capo, ecco ch’accenna
dritto in su ’l filo entro l’agon la mossa.
Ecco volar qual fólgore leggiero
la piuma, che fiammeggia in su ’l cimiero. —
322.Intanto poi che furo i nomi scritti
de’ Cavalier da la divisa ardente,
e d’osservare i promulgati editti
giuraro, e per mirar tacque la gente,
correndo ad un ad un gli emuli invitti
tutti si segnalár notabilmente.
Alcun non fu, che non n’uscisse a pieno
o con vittoria, o con applauso almeno.
323.Restava sol colui che de la bella
brigata quasi il principal venia,
quando con foggia insolita e novella
il serraglio passò de la bastia.
Né so s’alcun si ben disposto in sella
l’agguagliasse giá mai di leggiadria.
Dopo tutti costui venne solingo
signorilmente a posseder l’arringo.
324.Il piú superbo augel su la celata,
trionfante ne l’atto, ha per cimiero,
qualor gonfio di fasto apre e dilata
de le conche di smalto il cerchio intero,
e de la piuma florida e gemmata
spiegando gli orbi, di sue pompe altero,
la bella scena de la coda grande
di cento specchi illuminata spande.
325.Di piu color la sovravesta intesse
che la spoglia non è di Flora o d’Iri,
in cui le cime de le penne istesse
son di smeraldi in vece, e di zaffiri,
sí ben da dotto artifice commesse
che par che ’ntorno il fermamento ei giri.
Par con tant’occhi un Argo, e sembra armato
un giardino fiorito, un Ciel stellato.
326.Con l’abito ha il destrier qualch’agguaglianza,
non so s’altro mai tal ne fu veduto.
Bianco ha il mantello, e ’n disusata usanza
sparso di nere macchie il pel canuto.
Ma le macchie e le rote hanno sembianza
di ciglia e d’occhi, ond’ei rassembra occhiuto.
Cervier s’appella, e par mentre passeggia
l’orgoglioso Pavon quando vaneggia.
327.Un fusto intier di frassino silvestre,
per far buon colpo, a bella posta elegge.
Prima sei reca in man dal fianco destro,
poi tra via l’alza, e ’n su la destra il regge.
Ma qual braccio poria forte e maestro
piegarlo pur, non che ridurlo in schegge?
Tre volte corre, e ’l Saracin percote,
ma quel duro troncon romper non potè.
328.Ed ecco dopo lui vi comparisce
altro stranier, che ’l popol folto allarga.
Nel suo volto e negli anni April fiorisce,
par che raggi d’Amor per tutto sparga.
Per obliquo ha costui tre meze strisce
di lucid’or ne la purpurea targa,
e su l’elmetto, ch’è di salda tempra,
la Fenice immortal quando s’insempra.
329.Non solo eterne in questa esprime l’opre
del proprio singolar pregio e valore,
ma de la Donna sua la beltà scopre,
ch’è del mio bel Sebeto unico onore.
Di morato satì l’armi ricopre,
color gentil, che pur dinota Amore,
in foggia di mandiglia, o di guarnacca,
che con bottoni di rubin s’attacca.
330.Io non so dir, se quel superbo arnese
di tanti fregi e sì pomposi adorno,
già dal nobil Signor del bel paese,
a cui fan l’Alpi ampia corona intorno,
al gran Monarca del valor francese
donato già nel trionfal ritorno,
fusse tal, ch’agguagliar potesse in parte
di questa spoglia o la ricchezza, o l’arte.
331.Di genitrice Ispana e padre Moro
regge un destrier, ch’agli atti è foco e vento.
La groppa, il capo e tutto il resto ha d’oro,
fuor che ’l sinistro piè, che sembra argento;
e de la bardatura il bel lavoro
pur d’oro è tutto, e d’oro il guernimento,
d’oro le staffe, e d’oro il fren spumante,
e d’or porta calzate anco le piante.
332.Del Cavalier che lo cavalca e doma
è l’occhio destro, e ’l fior de la sua stalla.
Ei stesso il pasce, e Francalancia il noma
perché dal dritto corso unqua non falla.
Vedesi insuperbir sotto la soma,
lieto del peso che sostiene in spalla,
cavar spesso l’arena, e l’or lucente
del fren sonoro essercitar col dente.
333.Senza mutar cavallo o prender fiato
questi l’uom finto in tre carriere assale,
e ben tre volte in lui del pin ferrato
rompe fin a la resta il tronco frale;
e ne la terza ha piú secondo il fato,
e fa colpo miglior con forza eguale.
Ne la buffa gli dá presso la vasta,
sí che tre botte in una botta acquista.
334.Fuor de la lizza ei s’è ritratto a pena,
quand’ecco in giubba d’or contesta a maglie
giostrator novo. Un corsier falbo affrena,
bravo e di sommo ardir ne le battaglie.
Su la cresta de l’elmo ha la Sirena,
tutta squamosa di dorate scaglie.
Quel che s’imbraccia da la parte manca,
con tre gran fasce l’incarnato imbianca.
335.Bel cavalcante, in maestoso gesto
con largo giro il chiuso pian circonda.
Va poi nel mezo, e da quel lato e questo
spinge il destrier, ch’è quasi al vento fronda.
Dolce di bocca, ed a la mano è presto,
e di gran core e di gran lena abonda.
Spirito ha nome, e gli conviene invero,
perch’oltremodo è spiritoso e fiero.
336.Cordon di sottil seta il regge a freno,
barbaro pettoral l’orna a traverso,
che d’auree borchie è tempestato e pieno
e di gran perle Orientali asperso.
A la testa frontal, fermaglio al seno
gli fan due bolle di smeraldo terso,
e per mezo le coste, ove si stringe,
serica zona e gioiellata il cinge.
337.Del piú fin or ch’invia l’Alpe Arimaspa
fabricata e contesta ha sella e frangia.
Serra la coda, il pavimento raspa,
e le gemme del fren rumina e mangia.
Con tanta maestria le braccia innaspa,
con tal arte in andando il passo cangia,
che ne’ suoi vaghi atteggiamenti e moti
par che ’n aria schermisca, e ’n terra nuoti.
338.Poi che conosce che ’l Guerrier risolve
dar spettacolo grato a l’altrui viste,
non sai dir, cosí destro ei si rivolve,
se vola in aria, o se nel suol sussiste:
né pur col vago piè segna la polve,
né su la messe offenderla l’ariste.
E quegli or lo sospinge, or lo ritira,
or lo sospende, or com’un torno il gira.
o8
GLI SPETTACOLI
339.A suon di tamburini e di trombette,
lo cui strepito rauco il Ciel assorda,
tre volte e quattro intorno egli il rimette
ed al pronto ubbidir l’aiuto accorda,
sempre applicando ai salti, a le corvette,
col dolce impero de l’agevol corda,
de la gamba, del piede, e del tallone
or la polpa, or la staffa, ed or lo sprone.
340.Talor l’arresta, di saltar giá lasso,
e nel raccòrlo, imprime orma sovr’orma.
Poi di novo il volteggia a salto e passo,
mutando a un punto e disciplina e norma;
e mentre va con repolon piú basso
terra terra serpendo, un cerchio forma.
Chiunque il mira, al variar stupisce
di tanti e tali e giramenti e bisce.
341.Spesso gli fa, si come cionco o zoppo,
o questo o quello alzar de le due braccia,
e dandogli un leggier mezo galoppo,
sovra tre piedi or quinci or quindi il caccia.
Fermo nel centro alfin con un bel groppo
di saltetti minuti, alza la faccia,
e ’l fa davante al tribunal divino
inginocchiar con reverente inchino.
342.Per non troppo stancarlo, ancor che tutto
sia foco, e tutto spirto, e tutto nervo,
e perché sa ch’è per usanza instrutto
piú ch’ai corso al maneggio, accenna al servo,
ch’un n’ha piú fresco e riposato addutto,
ma disfrenato, indocile, e protervo.
La coda, il crin, la gamba, il capo e ’l viso
solo ha di nero, il rimanente è griso.
343.Del color del cilicio orna la spoglia,
semplice berrettino, e non rotato:
onde quand’uscir suol fuor de la soglia,
è da ciascun l’Hipocrito chiamato.
Par mansueto agnel pria che si scioglia,
sembra una Furia poi discatenato.
Cosí ricopre a chi non sa suo stile
la superbia del cor d’abito umile.
344.11 Cavalier con la sinistra mano
su ’l pomo de l’arcion la briglia stende,
spiccato un leggier salto indi dal piano
senza staffa toccar sovra v’ascende.
Quel ritroso e restio s’impenna invano,
invan s’arretra, e calcitra, e contende,
che vie piú del guinzaglio e del capestro
può l’arte in lui del domator maestro.
345.Pria da la verga e da lo spron corretto,
poi con vezzi addolcito e fatto molle,
quantunque ancor pien d’ombra e di sospetto,
consentir gli convenne a quant’ei volle;
e ben che gisse, ov’era a gir costretto,
con precipizio impetuoso e folle,
pur gli fe’ nondimeno un verde salce
romper con bell’incontro in fin al calce.
346.Lascia il poliedro, e fa menar dal paggio
altro destrier, ch’è del color del topo,
superbo sí, ma non cosí selvaggio,
e sempre avezzo ad investir lo scopo.
Spirto ha discreto e moderato e saggio,
e senza segno alcun capo ethiopo.
Con occhio ardente e con orecchia aguzza
fremita, anela, ed annitrisce, e ruzza.
347.Di portar per l’agon l’usato incarco
ferve giá d’un desir non mai satollo;
e vuoisi de lo sprone essergli parco:
basta accennargli, ed allentargli il collo.
Va piú ratto che strale uscito d’arco,
senza dar a la mano un picciol crollo.
La via trangugia, e rapido e leggiero
ruba di man la briglia al Cavaliero.
348.Dal correr trito e da l’andar soave
Turbine è detto, e i turbini trapassa.
La destra allor di smisurata trave
arma il Guerriero estrano, indi l’abbassa
e nel Facchin, ben che massiccia e grave,
tutta qual fragil vetro ei la fracassa.
Due volte corse, e fe’ l’istesso effetto,
l’una al guanciale, e l’altra al bacinetto.
349.Rivolta allora a Citherea Bellona,
che tace, e con stupor la mira in volto:
— Che ti par di costui — seco ragiona —
ch’ad ogni altro nel corso il pregio ha tolto?
S’io miro, oltre il valor de la persona,
la patria ond’egli uscí, non mi par molto,
poi ch’a lei qualunqu’altra in tali affari
convien che ceda, e da lei sola impari.
350.È figlio di Parthenope famosa,
Sergio, garzon d’indomito ardimento,
ch’ai monti di Venafro e di Venosa,
ed ai piani di Bari e di Tarento,
gente vincendo invitta e valorosa,
imposto ha il giogo, e non ha peli al mento.
Se ’n guerra conquistò spoglie e trofei,
che fará ne le giostre, e ne’ tornei?
351.L’esser qui ben montato io ben confesso
ch’altrui vai molto, e fora il dir menzogna
che dal cavallo al Cavalier ben spesso
e l’onor non resulti, e la vergogna.
Ma ch’ardire e vigore abbia in se stesso
e di core, e di corpo anco bisogna,
10 qual irruginisce e resta ottuso
quando non v’è la buona scola e l’uso.
352.Quest’uso dunque, ch’affinar si suole
col travaglio e ’l sudor, fiorisce quivi,
e non v’ha loco in quanto gira il Sole
dove meglio s’esserciti e coltivi.
Ma costui, d’alta stirpe altera prole,
è tal, che raro ha ch’altri v’arrivi.
Rimira l’armi sue colá ritratte:
un Ciel di sangue con tre vie di latte. —
353.Piú volea dir, ma l’altra allor repente
11 parlar le ’nterruppe, e disse: — Or guarda,
guarda que’ tre, che fior d’ardita gente
sembrano in vista, e ’n armeggiar gagliarda!
Mira i sembianti nobili, pon’ mente
come ciascun tra l’armi e splenda ed arda.
Giá chi sien ben m’aviso. — E l’Inventrice
de l’arboscel pacifico le dice:
354.— Son (s’io mal non m’appongo, e non vaneggio)
di Savoia i tre lumi, i tre fratelli,
tra quanti qui ne l’assemblea ne veggio
pregiati, illustri, ed incliti donzelli.
Tengon nel piano Augusto il reai seggio,
tra que’ confin deliziosi e belli
a cui con molli braccia e dure fronti
fan riparo tre fiumi e cento monti.
355.Candida è di ciascun la sovrainsegna,
candide son le vesti e le lamiere.
Ala l’un ne l’elmo e nel brocchier disegna
il Sagittario de l’eterne sfere.
L’altro in questo ed in quel figura e segna
Croce, terror de l’Africane schiere.
Del terzo adorna il capo, adorna il fianco
posto in campo vermiglio un destrier bianco.
356.Tutti costor che vedi, ed altri molti
son qui per arte pur giunti di Theti.
Ecco l’un dopo l’altro in un raccolti
cominciano a spezzar faggi ed abeti.
Doresio è quei, che giá gli occhiali ha sciolti
al destrier, c’ha nel cor spirti inquieti:
buon per giostra, atto a caccia, uso in battaglia,
altro il mondo non n’ha di miglior taglia.
357.Sottile il capo, il collo ha curvo, ed ambe
brevi l’orecchie, e l’una e l’altra acuta,
aspre di nervi e muscoli le gambe,
largo petto, ampio sen, groppa polputa.
Spesso sbrana le fauci, e lecca e lambe
il fren dorato, il labro arriccia e sputa.
Né fu di corso mai, né mai di core
velocitá, ferocitá maggiore.
358.Bruna ha la spoglia in ogni parte integra
piú che spento carbone, o pece schietta.
Ma bell’aria, occhio vivo, e vista allegra,
morbida pelle e rilucente e netta.
Biancheggiar gli fa sol la fronte negra
in forma di cometa una rosetta.
Altri Corvo il chiamò: ma Biancastella
per tal cagione il suo Signor l’appella.
359.Alpino è l’altro, e del Sicano armento
vivacissimo allievo, un corsier preme,
ne’ campi lá del fertile Agrigento
pasciuto, e nato del piú nobil seme.
Veste mantel tutto leardo argento,
se non che fosche ha sol le parti estreme,
e l’ampia groppa e le spianate spalle
gli ara con lunga lista un nero calle.
360.Su la cervice da la destra parte
gli pende il crine, e spesso il quassa e scote.
S’aggira e per l’arene intorno sparte
tesse prigioni e labirinti e rote.
Ouant’è dal suol fin a la cinghia ad arte
par che misuri, e ’nvan l’aure percote.
Ringhia, né volentier soggiace al freno:
scorre qual lampo, e chiamasi Baleno.
361.Vedilo lá, che con la man robusta
felicemente il gran lancione ha rotto.
Ecco or Leucippo in su gli arcion s’aggiusta,
non men ne l’armi essercitato e dotto.
Vedi che giá per dritta linea angusta
sen va broccando il corridor c’ha sotto.
Il produsse Granata, e col pennello
noi saprebbe Pittor formar piú bello.
362.Non mai Saturno in sí leggiadre spoglie
sonar d’alti nitriti intorno feo,
per involarsi a la gelosa moglie,
le foreste di Pelio e di Peneo.
Al nobil volator la palma toglie
che portò giá per l’aria il mio Perseo.
Perde appo lui quel che domò Polluce:
e Lucifero detto è da la luce.
GLI SPETTACOLI
Né piú grate fattezze e signorili
quel de l’Aurora in Oriente ha forse;
né con piú baldanzosi atti gentili
il famoso Arione in Thebe corse.
Vergin non mai si lunghi o sí sottili
in trecce e ’n groppi i suoi cappèlli attorse,
sí come molli e delicate ei spiega
le belle sete, e ’n nastro d’òr le lega.
Fama è ch’avendo il Sol, giunto a l’Occaso,
disciolto il carro in su l’arena Ibera,
del seme di Piroo concetto a caso
partorillo del Tago una destriera.
Partita con bel tratto in fin al naso
ha di bianco la fronte, alquanto nera,
e di vaghi coturni innargentati
tutti fin al ginocchio i piè calzati
Il resto di gran pezze ha vario il manto,
quasi per arte a piú color tessute;
e ’l bel candor, che toglie a l’Alpi il vanto
quando al Verno maggior son piú canute,
seminato di bigio è tuttoquanto
in spesse stelle, e ’n gocciole minute.
Eccetto il capo, il piè, la coda e ’l crine,
spruzzato par di ceneri e di brine.
Giá giá si move, e fuor del folto stuolo
del cor disfoga i generosi ardori.
Ecco lievi ondeggiar per l’aria a volo
del cimier bianco i tremolanti albori.
Par l’aura il porti: a pena liba il suolo,
e ’l suo Duce conduce a sommi onori,
lá dove per valor piú che per sorte
rompe il saldo troncon col braccio forte. —
367.Cosí dicea Minerva, e ben di quanto
parlato avea veraci erano i detti,
perch’altamente a le lor prove intanto
posto avean fin gli armeggiatori eletti.
Onde volendo, oltre la loda e ’l vanto,
remunerargli con cortesi effetti,
con questo dir la dispensiera bella
rivolse a lor la faccia e la favella:
368.— Or qual cosa avrò mai ch’ai vostro merto,
invittissimi Eroi, ben si convegna?
Non se fusse del mar l’erario aperto,
ricchezza avria di tal valor condegna.
Man, che larga altrui dona, io so ben certo
che don picciolo e basso aborre e sdegna.
Pur senza aver riguardo a vii tesoro
gradirete il desir, con cui v’onoro.
369.Voi, che dove il Po sorge in picciol rivo,
Principi generosi, avete il trono,
queste tre gemme or non prendete a schivo,
che ’n segno sol del buon voler vi dono.
L’una è carbonchio, e v’è intagliato al vivo
cinto di fiamme il gran Rettor del tuono
quando i Giganti fulmina da l’Etra,
e ’l foco imita ben l’istessa pietra.
370.L’altra d’Apollo con la cetra e ’l plettro
mostra incisa l’effigie in un zaffiro,
ed è legata in un anel d’elettro
c’ha di smalti eritrei distinto il giro.
Ne la terza lo Dio che tien lo scettro
del quinto cerchio egregie man scolpirò,
gemma di quella indomita durezza
cui né foco disfá, né ferro spezza.
371.Tu, che dal bel Sebeto in qua trascorso,
germoglio illustre di famosa gente,
tanto vali al maneggio, e tanto al corso,
quest’elmo accetta limpido e lucente.
Rassomiglia a vederlo un teschio d’Orso,
e le pupille ha di piropo ardente.
Le gran fauci spalanca, e son costrutti
di diamanti arrotati i denti tutti.
37 2. Xé spiaccia a te, degna progenie e chiara
di quel sangue LODato, onor degli ostri,
per cui col Tebro altero in nobil gara
fia che ’l Rheno minor contenda e giostri,
ed a cui giá con Felsina prepara
il Vaticano i piú sublimi inchiostri,
il pronto, ancor che povero tributo
prender in grado, al tuo valor devuto
373.Ecco una spoglia, che i suoi stami fini
intinti ha nel licor de le cocchiglie,
ordita a sovraposte, e di rubini
fregiata, e d’altre ancor gemme vermiglie.
Molti piccioli specchi adamantini
accrescon del lavor le meraviglie,
consparsi in lei sí chiari e lampeggianti
ch’abbarbaglian la vista a’ riguardanti.
374.L’ostro insieme e ’l cristallo accoppiar volli,
a dinotarti con duo saggi avisi
e la reai grandezza, a cui t’estolli,
e la chiara prudenza, in cui t’affisi.
Ond’avran maggior gloria i sacri colli
da te, da’ tuoi ne l’alta sede assisi,
che quando in altra etá Roma felice
fu di mille favelle Imperadrice.
375.Questo di fila d’òr manto tessuto,
che ’n fin al lembo è figurato a stelle,
lá dove tutte han di diamante acuto
fissa al centro una punta e queste e quelle,
tuo fia. Signor, c’hai qui recar saputo
d’arnesi in campo invenzkm sí belle
che non fia mai che ’n giostra altri compaia
con portatura piú leggiadra e gaia.
376.E ’nsieme, a voi, che da’ confini estremi
del nobil Lazio per sí lunghi errori
seco veniste, d’altri pregi e premi
non mancheranno ancor publici onori.
Ma se da farvi al crin degni diademi
palme Idume non ha. Parnaso allori,
di sé s’appaghi il gran valor latino,
Lumi eterni di Marte, e di Quirino. —
377.Tacquesi, ed ecco allor mentre i destrieri
giá giá Febo inchinava al mar d’Atlante,
per diverso camin duo Cavalieri
in un tempo venir, d’alto sembiante.
Dorati ha l’un di lor gli arnesi interi,
sovra l’elmo l’augel del gran Tonante,
e nel tondo d’acciar rampante e dritto
il feroce animai d’Hercole invitto.
378.Viensene assiso in un Giannetto Ibero,
figlio del vento, e ben l’agguaglia al corso.
Zefiro nominato è quel destriero:
picciolo il capo, ed ha solcato il dorso,
raro crin, folta coda, occhio guerriero,
lunato il collo, e sovra ’l petto il morso.
Fremendo il rode, e pien di spirti arditi
squarcia l’aria co’ passi, e co’ nitriti.
379.Salvo la fronte, ove per mezo scende
candidissima riga, è tutto soro.
Barde ha purpuree, e di purpuree bende
gli fa ricco monile arnese moro.
Sonora piggia e tremula gli pende
giú da la sguancia di squillette d’oro.
Alto la staffa, e coturnato il piede
con lungo sprone il Cavalier lo fiede.
380.L’abito del Guerrier che segue appresso
è di sciamito azur, fatto a fogliami,
e di gigli minuti un nembo spesso
v’è sparso, il cui contesto è d’aurei stami.
Sculto in mezo a lo scudo ha il fiore istesso
un Giglio sol, maggior che ne’ riccami.
Ed erge per cimier di gemme adorno
il sollecito augel eh’annunzia il giorno.
381.Governa il fren d’un gran Frison cortaldo,
ch’è del color del dattilo maturo,
a par d’un monte, ben quartato e saldo,
e tre talloni ha bianchi, e l’altro oscuro.
Mostra ne l’occhio il cor focoso e caldo,
segna la fronte nera argento puro;
e col piè forte, e col gagliardo passo
stamperia le vestigia anco nel sasso.
382.Petto largo ha tre spanne, e doppia spina,
e corta schiena, e spaziosa coda,
bocca squarciata e testa serpentina,
di corno terso unghia sonante e soda.
Leva a tempo e ripon quando camina
le grosse gambe, e le ripiega e snoda.
Tremoto è il nome suo, però che ’n guerra
ciò ch’urta abbatte, e fa tremar la terra.
383.Xe l’incognita coppia ognuno affisse
pien di diletto e di stupore il ciglio,
e come un doppio Sol quivi apparisse,
d’ognintorno ne nacque alto bisbiglio.
Il nome d’amboduo prima si scrisse,
il Guerrier dal Leone, e quel dal Giglio;
indi fur da la Sorte in egual loco
a vicenda e del pari ammessi al gioco.
384.Dá di piedi al destrier prima colui
che ’l Giglio porta, e rompe in su la cresta.
Quel che porta il Leon, va dopo lui
e nel loco medesmo il colpo assesta.
Altre due volte corrono ambodui,
né v’ha vantaggio in quella parte o in questa:
ché l’un e l’altro con tre lance rotte
viene egualmente a guadagnar tre botte.
385.Un pregio esser non può che si divida
tra duo Campioni: e giá ne sono a lite.
Vuol Citherea che ’l dubbio si decida
con nòve lance, eguali, e ben forbite.
Ma Palla è di parer che per disfida
le controversie lor sien diffinite.
Battansi in giostra, e chi piú vai di loro
sí come avrá la palma, abbia l’alloro.
386.Da corpo a corpo gli emuli superbi,
concordi a terminar la differenza,
son posti in prova, e con sembianti acerbi
di qua di lá ne vanno a concorrenza.
De la vittoria, a qual di lor si serbi,
su le punte de l’aste è la sentenza.
Cenna al Trombetta allor Yener dal palco,
che dia la voce al concavo oricalco.
387.Quei dal tergo, onde pende, in mano il toglie,
pon su l’orlo le labra, e mentre il tocca,
nel petto pria quant’ha di spirto accoglie,
quinci il manda a le fauci, indi a la bocca.
Gonfia e sgonfia le gote, aduna e scioglie
l’aure del fiato, e ’l suon ne scoppia e scocca.
Rompe l’aria il gran bombo, e ’l Ciel percote,
e risponde tonando Eco a le note.
388.Veder de’ duo destrier, poi che fur mossi,
fu spavento lo scontro e fu diletto,
quando rotti i troncon nodosi e grossi,
fronte con fronte urtár, petto con petto.
Rimbombár lunge, e sfavillár percossi
ambo gli scudi, e l’un e l’altro elmetto.
Fu de l’armi il fulgor, de’ colpi il suono
agli occhi un lampo, ed a l’orecchie un tuono.
389.Il broccal de lo scudo a l’altro incise
quel che venia con l’Aquila grifagna.
Falsollo, e la divisa anco divise,
che dispersa n’andò per la campagna.
L’altro segnò piú basso, e ’l ferro mise
per entro il corpo al corridor di Spagna,
che con Tremoto poi venuto a fronte,
n’andò col suo Signor tutto in un monte.
390.Visto il suo bel destrier che sanguinoso
per 1’incontro mortai s’accoscia in terra,
di vendicarlo il Cavalier bramoso,
da le staffe si sbriga, e ’l brando afferra.
— Tu non sei né gentil, né valoroso,
ch’a sí degno animai fai torto in guerra,
guerier villano e discortese! o scendi,
o da simil perfidia il tuo difendi. —
391.Cosí dice il Dorato, e quel dal Gallo
— Fu sciagura — risponde — e non oltraggio.
Degno è di scusa involontario fallo,
né creder ch’io da te voglia vantaggio. —
Smonta con questo dir giú da cavallo
e trae la spada con egual coraggio.
Cosi fremendo di dispetto e d’onta
l’un l’altro a un tempo in mezo ’l campo affronta.
392.Gemon l’aure dintorno, e l’aria freme,
treman del vicin bosco antri e caverne.
Son di questo e di quel le forze estreme,
e chi n’abbia il miglior mal si discerne.
Lampeggiar vedi a prova i ferri insieme,
ed odi orrendi folgori cadérne.
Per traverso e per dritto, or bassi, or alti
tornan piú volte a rinovar gli assalti.
393.Sonar le spade e risonar gli scudi
fa de l’aspra tenzon l’alta ruina.
Par che battute da novelle incudi
escan l’armi pur or de la fucina.
Ardon lor le palpebre ai colpi crudi
gli elmi infocati, la cui tempra è fina,
e le fiammelle e le scintille ardenti
gli fan quasi invisibili a le genti.
394.Senza riposo alcun, senza dimora
or di taglio si tranno, ed or di punta.
In quella cote istessa, ove talora
l’acuto ferro si rintuzza e spunta,
ivi s’arrota, ivi s’irrita ancora
l’ira piú dal furor scaldata e punta.
Ed ecco alfin quel da l’aurato arnese
risoluto s’aventa a nove offese.
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395.Alzò la spada, ed un fendente tale
sovra le tempie a l’aversario trasse
che rotto al Gallo il rostro, e tronche l’ale,
fé’ che stordito al suol s’inginocchiasse.
Fu forse Amor, che per destin fatale
con fronte china e con ginocchia basse
l’Idol dal Cielo a’ suoi pensieri eletto
vòlse pur ch’adorasse a suo dispetto.
396.Non è da dir, poi ch’egli in sé rivenne,
con quanta rabbia e qual furor si mosse.
Dritto verso la testa il colpo tenne,
su la barbuta ad ambe man percosse.
A l’Aquila tagliò l’unghie e le penne,
spezzò del barbazzal le piastre grosse.
Squillò l’acciaio, e tal fu quella botta
che la spada di man gli cadde rotta.
397.Ruppe lo stocco, e gli rimase a pena
de l’else d’oro in man la guardia intera,
e ’l colpo usci di sí gagliarda lena
ch’ai nemico sbalzar fe’ la visiera.
Ma tolto il vel che ricopria la scena,
si scoverse il Guerriero esser Guerriera:
e con le bionde chiome a l’aura sparse
bella non men che bellicosa apparse.
398.Come rosa fanciulla e pargoletta,
che dal novo botton non esce ancora,
da la buccia, in cui sta chiusa e ristretta,
s’affaccia alquanto a vagheggiar l’Aurora;
cosí nel far di sé la Giovinetta
publica mostra de l’elmetto fora,
in quel vivo color si rinvermiglia,
che l’onestá da la vergogna piglia.
399.A la vergogna, a la fatica or l’ira
rossore aggiunge e ne divien piú bella;
onde molto piú spessi aventa e tira
i colpi in lui l’intrepida Donzella.
Ma l’altro allor, che quel bel volto mira,
senza moto riman, senza favella:
trema, sospira, e sparge a mille a mille
piú dal cor, che da l’armi, alte faville.
400.E mentr’ella a ferirlo ha il ferro accinto
per far ch’essangue a terra alfin trabocchi,
— Che fai? che fai? — le dice — eccomi estinto
senza che piú la bella man mi tocchi.
Morto m’hai giá, non ch’abbattuto e vinto,
co’ dolcissimi folgori degli occhi.
Crudeltá piú che gloria, omai ti fia
con piú piaghe inasprir la piaga mia.
401.Ma poi che morto pur brama vedermi
congiunto a beltá tanta un cor si crudo,
ecco la testa, ecco la gola inermi
t’offro senza difesa, e senza scudo. —
Disse, ed anch’ei restò, tolti gli schermi
de la cuffia di ferro, a capo ignudo:
e parve un Sol, qualor piú luminosi
trae fuora i raggi in fosca nube ascosí.
402.Tosto che ’n luce uscí quel che pur dianzi
di celar la celata avea costume,
trovossi anch’ella un Garzonetto innanzi,
che mettea pur allor le prime piume,
io non so dir, quanto l’un l’altro avanzi
e ’n cui splenda d’Amor piú chiaro il lume.
Sembran Pallade e Marte armati in campo,
di beltá, di valor gemino lampo.
GLI SPETTACOLI
7 2 4
403.L’afflitta Citherea, quando il bel viso
si discoverse, ancor ch’alquanto smorto,
arse a un punto e gelò, ché le fu aviso
di rivedere il caro Adon risorto.
Ma che direm del fulmine improviso
che si sente nel cor, poi che l’ha scorto,
la Giovane superba al primo instante?
Quel che mai piú non le successe avante.
404.S’a lui spezzossi entro la destra il brando,
a lei si spezza il core in mezo al petto:
né meno il cupid’occhio in lui fermando,
perde le forze a quel novello oggetto.
Giá comincia a gustar, ratto cangiando
ne la guancia color, ne l’alma affetto,
le dolci amaritudini del core,
le dolcezze amarissime d’Amore.
405.Dialogi di sguardi e di sospiri,
che quinci e quindi ad incontrar si vanno,
reflessi di pensieri e di desiri
un bel muto concento insieme fanno.
Ma l’un, che l’altra per maggior martiri
armata tuttavia scorge a suo danno,
pur come in atto di ferir l’aspetti,
ripiglia il favellar con questi detti:
406.— Io vo’ morir, ma volentier saprei
l’alta cagione onde ’l mio mal procede.
O Donna o Dea, se sí spietata sei
ch’offender vogli pur chi pietá chiede,
deh fammi noto almen chi sia colei
che la pace mi nega e la mercede.
Poi mi fia dolce e cara ogni ferita,
morendo per le man de la mia vita.
407.Quelle (s’è giusto il prego) a trar sí pronte
da le mie vene il sangue armi omicide
sospendi tanto sol, che tu mi conte
chi di due morti insieme oggi m’uccide. —
Trattiene i colpi, e la turbata fronte
rasserenando alquanto, aspro sorride,
e fiera in vista, e mansueta in voce
risponde allor la Vergine feroce:
408.— Xon son vii feminetta; il naspo e l’ago
questa destra virile aborre e sprezza.
Di guernirla di ferro anch’io m’appago,
ed è la spada a sostenere avezza.
Xon ne’ cristalli fragili l’imago
piacemi vagheggiar di mia bellezza.
Specchio m’è l’elmo rilucente e fino,
e questo terso scudo adamantino.
409 Sdegnar dunque non dèi d’oprar la spada,
tentando incontr’a me l’ultima sorte,
tanto che l’un rimanga, e l’altro cada,
col fin de la vittoria, o de la morte:
poi ch’io ti so ben dir, ch’aver m’aggrada
piú ch’aspetto leggiadro, animo forte.
Ha la man feminile anco i suoi pregi,
e vinse Duci, e trionfò di Regi.
410.Ma poi ch’odio non è, né rissa antica,
ch’oggi qui ne conduce a trattar Tarmi,
e tu mel chiedi con preghiera amica,
ed io di rado in uso ho di celarmi,
se mi permette pur, che ’l tutto io dica
il tempo e ’l loco, e piáceti ascoltarmi,
istoria udrai, cui non fu pari alcuna
stravaganza di stato, o di fortuna.
411.Venne d’Hircania ad occupar la reggia
la generosa Vergine Tigrina,
ed ancor la possiede e signoreggia
con quanta region seco confina;
Donna ch’a la beltá l’ardir pareggia,
de le feroci Amazoni Reina.
Ma ben che fusse d’un tal regno erede,
non s’appagò de la materna sede.
412.Sdegnò di star tra ’l Sero e ’l Messageta,
genti inumane, immansuete e crude,
né de l’Imavo l’arrestò la meta,
né ’l fren de la Méotica palude,
né ’l freddo Tanai, che quel passo vieta,
né ’l Caspio mar, che quel confin rinchiude,
si che con l’altre sue, che trattan l’arco,
non si spedisse a novi acquisti il varco.
413.La schiatta di costei (quant’ognun dice)
è di Pantasilea scesa, e d’Hettorre.
Valore ebbe dal Ciel quant’aver lice,
né Donna seco in leggiadria concorre.
Ma del sesso vini disprezzatrice,
l’amorose dolcezze odia ed aborre,
e ’l popol feminil governa e regge
con dura troppo e ’ntolerabil legge.
414.La legge de le femine guerrere,
che giá regnare al Termodonte in riva,
è tal, che sotto pene aspre e severe
del commercio degli uomini le priva.
Quinci avien che ciascuna è del piacere
per cui si nasce totalmente schiva,
e se non quanto a conservarle basta,
vivon vita tra lor solinga e casta.
415.Era quest’uso in quelle parti antico,
fin che (come dirò) fu poi dismesso,
né si servian del genere nemico
se non per propagarne il proprio sesso.
Talor col forestier l’atto impudico
per cagion de la prole era permesso,
ma serbando a nutrir sol le fanciulle,
strangolavano i maschi entro le culle.
416.Quantunque universal fusse e commune
lo statuto antichissimo c’ho detto,
fra tante nondimen n’erano alcune
molto inclinate al naturai diletto;
e non potendo piú starne digiune,
né giacer solitarie in freddo letto,
fér secreta congiura, indi pian piano
si ribellaro e tolser l’armi in mano.
417.Tiranno allor di Parthia era Argamoro,
che fu gran tempo di Tigrina amante,
di paese possente e di tesoro,
forte, e piú ch’altro mai, fiero Gigante.
Ma nulla gli giovò la forza o l’oro
con cor di ferro e petto di diamante.
Mille rifiuti e mille scorni ei n’ebbe:
ma tra l’aspre repulse il desir crebbe.
418.Ora giá a la licenza il fren disciolto
le donzelle di Scithia e le matrone,
con lui s’uniro, e l’appetito stolto
col pretesto coprir de la ragione.
Ond’egli un grosso essercito raccolto,
fatto di tutte lor capo e campione,
prese, sfogando il giá concetto sdegno,
a danneggiarla, ed a turbarle il regno.
419.Ebbe seco in aiuto Alani e Traci,
e Medi e Battri e Sarmati ed Armeni,
tal che d’erranti Barbari rapaci
vidersi i piani in breve spazio pieni,
e di crudo Signor fieri seguaci
guastar villaggi, e disertar terreni,
crudelissimamente in ogni loco
sacco e sangue spargendo, e ferro e foco.
420.Armò sue squadre anch’ella, e virilmente
s’oppose a quel furor la Donna forte,
ma di gran lunga inferior di gente
fu risospinta a le Caucasee porte;
quand’ecco Austrasio, il Cavalier valente,
venne quivi di capo a dar per sorte,
a cui d’Aspurgo appartenea lo stato,
semplice allora aventurier privato.
421.Bramoso Austrasio d’emendar l’oltraggio,
e di lei giá per fama acceso il core,
sentí, facendo a sí bel Sol passaggio,
sotto clima gelato estremo ardore,
e giunto presso a quel celeste raggio,
se dianzi ardeva, incenerí d’amore.
Amor insomma in cotal guisa il vinse
che per non mai si scior, seco si strinse.
422.Scettro a scettro congiunto, e spada a spada,
l’impeto affrena de’ guerrier ladroni,
scorre di qua di lá l’ampia contrada,
e T Gigante reprime, e suoi squadroni.
Poi per non star sí lungamente a bada,
ed in una ridur molte tenzoni,
da sol a sol, fin che l’un l’altro uccida,
in campo a tutto transito lo sfida.
423.Tigrina ogni ragion di quel reame
d’uom sí famoso entro le man rimise,
lo qual venuto a singoiar certame,
brando per brando il fier rivale uccise;
ed al Duce maggior rotto lo stame,
si ruppe anco il suo campo, e si divise,
ché vulgo imbelle essendo, e mal instrutto,
fu facil cosa a dissiparlo in tutto.
424.Dal gran valor del Principe Germano,
dal nobil volto e dal parlar cortese,
da l’obligo che porta a la sua mano
vinta è Tigrina, e non sa far difese.
Fatto al possente Arder contrasto invano,
come grata e gentile, alfin si rese,
e ferita, e legata, e prigioniera,
al gran giogo inchinò l’anima altera.
425.Ma d’onesto rispetto un dubbio greve
la costringe a celar quel che desia,
ché ben che da le leggi, onde riceve
regola il regno suo, libera sia,
in quel ch’altrui vietò, peccar non deve,
né convien ch’a disfarla essempio dia.
Quindi Onor, quinci Amor le batton l’alma:
pur l’affetto piú dolce ottien la palma.
426.Oual d’ognintomo assediata e cinta
da fameliche fiamme arida stoppia
è forza pur, che divorata e vinta
resti dal foco, che stridendo scoppia;
tal da quel crudo a vaneggiar sospinta,
ch’ognor nov’ésca al novo ardor raddoppia,
cede, e ben che ritrosa, alfin si piega
e d’amor ad amor cambio non nega.
427.Austrasio intanto l’essortò parlando
la ria costuma a cancellar del regno
e le rubelle a richiamar dal bando,
ché ben ebber cagion di giusto sdegno.
Disse ch’abominabile e nefando,
di civiltá, d’umanitate indegno
era il rigor di quella legge dura,
contraria al Cielo, al mondo, ed a Natura.
428.Con piú d’una ragion faconda e saggia
mostrò quanto infelice è quella Donna,
la qual se stessa e l’Universo oltraggia
vivendo senza l’uom, ch’è sua colonna;
e ch’egli è ritrosia troppo selvaggia,
quasi di Fera alpestra avolta in gonna,
voler che s’aborrisca e si detesti
il bel trastuí degli abbracciali onesti.
429.Soggiunse ancor, che ’l proibire al mondo
il maritai diletto era un delitto,
ch’a conservarlo e renderlo fecondo
fu da le stelle e dagli Dei prescritto;
e chi s’astien da quel piacer giocondo
nega a Natura il suo devuto dritto,
anzi mentre ch’Amor disdegna e fugge,
l’umana specie in quanto a sé distrugge.
430.Segui di piú, che se le loro antiche
per qualch’ira privata odiár gli sposi,
non devean l’altre poi sempre nemiche
mostrarsi ai dolci altrui vezzi amorosi,
né ridursi a durar tante fatiche,
nate solo ai domestici riposi,
arando i campi, e coltivando gli orti,
ch’eran propri mestier de’ lor consorti.
431.Conchiuse alfin, ch’oltre lo star sí sole,
per altro erano ancor donne infelici,
ai passaggier, per generar figliuole,
esposte a guisa pur di meretrici;
e ch’era non men misera la prole
che del seme nascea de’ lor nemici,
costretta ancora a perder le mammelle,
parti del sen le piú gentili e belle.
432.Non penò molto il Cavalier discreto
per ben disporla a far questa mutanza,
perch’oltre che la Donna odio secreto
portava a l’empia e scelerata usanza,
a revocar quel rigido divieto
giá da sé persuasa era a bastanza,
per onestar de’ lor trafitti cori
con leggittimo titolo gli amori.
433.Cosí cessár le leggi inique e sozze,
del pazzo abuso s’annullaro i riti,
furon le guerre e le discordie mozze,
le contumaci Donne ebber mariti,
ottenne Austrasio le bramate nozze,
passò Tigrina agl’imenei graditi,
concepinne a suo tempo e partorio
pargoletta bambina, e fui quell’io.
434.Nacqui, né fui però sí tosto nata
che strano caso e portentoso avenne.
Aquila bianca, d’oro incoronata,
dal Ciel battendo l’argentate penne,
per le finestre de la stanza entrata
dritto a la cuna, ov’io giacea, ne venne,
e mentr’io tra le fasce ancor vagía,
mi ghermí con gli artigli, e portò via.
435.Io non so se fu Giove in forma tale,
ch’aver vòlse di me pietosa cura,
o del grand’avo mio l’ombra immortale,
giá difensor de le Troiane mura,
che la rapace augella imperiale
per insegna portò ne l’armatura.
Opra piú tosto fu d’un Mago antico,
che de la stirpe mia fu sempre amico.
436.Ella al Vecchion de la foresta nera
(cosí si nominava il Negromante)
l’aure trattando rapida e leggera,
senz’alcun mal depositommi avante.
Vita mena costui dura ed austera
lá de la folta Hercinia in fra le piante,
e ’n quelle solitudini silvestri
gli sono i libri suoi muti maestri.
437.Il buon Vecchio di me prese il governo,
cui per sempre obligata io mi conosco.
Con zelo m’allevò piú che paterno,
sempre tra le fatiche entro quel bosco.
Varcai rigidi fiumi al maggior Verno,
vegghiai gelide notti al ciel piú fosco.
Lottai con Orsi, ed affrontai Leoni,
né temei d’assalir Tigri e Dragoni.
438.Austria nome mi pose. E ’ntanto essendo
giá de’ tre lustri oltre l’etá cresciuta,
in Austrasio, ch’un giorno a caccia uscendo
avea de’ suoi la compagnia perduta,
mentre ch’a fronte avea Cinghiale orrendo,
a caso m’abbattei non conosciuta.
L’uno era inerme, e l’altro fiero e forte,
io questo uccisi, e quel campai da morte.
439.Come alfín mi conobbe, e come fui
da le selve condotta ai gran palagi,
lungo a dir fora, e quali e quanti a lui
fe’ di me poscia il Savio alti presagi.
Questo però tacer non voglio altrui,
ch’ancor tolta ai travagli, e data agli agi,
tra le delizie sue la Corte folle
forza non ebbe mai di farmi molle.
440.Comprender puoi da l’abito, s’io nacqui
agli ozii vili, o se viltá disprezzo:
a l’impero d’Amor mai non soggiacqui,
mai non mi mosse allettamento o vezzo;
e di poter mostrar piú mi compiacqui
in questo corpo a le fatiche avezzo
le cicatrici degli assalti audaci,
che le vestigia de’ lascivi baci.
441.Tolto dal genitor dunque congedo,
di Germania soletta io fei partita,
e tra vani riposi aver non credo
perduti i giorni in oziosa vita.
Ma mentre alfin per nave in patria riedo,
via sperando dal mar piana e spedita,
dopo molte aventure, a queste spiagge
tempestoso Aquilone ecco mi tragge.
442.Or poi che ’n brevi detti udito hai quanto
raccontar saprei mai de Tesser mio,
se lice pur, posta giú Tira alquanto,
il nemico essaudir, com’ho fatt’io,
fa’ tu, narrando il tuo, meco altrettanto,
ch’ancor non men d’intenderlo desio,
e ’l tuo sembiante e ’l tuo parlar mi pare
di Guerrier non oscuro, e non vulgare. —
443.Cosí diss’ella, e si ritrasse poi
in quel contegno suo dolce e severo,
quando: — Poi che cosí comandi e vuoi —
cominciò rispondendo il Cavaliero —,
de’ miei, simili in parte ai casi tuoi,
che sono ancor meravigliosi invero,
con non lungo sermone a darti conto,
feritrice mia bella, eccomi pronto.
444.Ardean tra ’l Re Francone e ’l Re Morgano
guerre crudeli e mortalmente orrende,
e d’aspri assalti ognor con l’armi in mano
alternavan tra lor fiere vicende.
Dominava il primier tutto quel piano
che ’n fin da l’Alpi ai Pirenei si stende.
L’altro reggea de la maggior Brettagna
quanto paese il gran Tamigi bagna.
445.Vennero alfin tra questa parte e quella
per maritaggio ad amicar le spade,
e ’l Re Gallo al Bretton diè la sorella,
Fiordigiglio, che fior fu di beltade,
Fiordigiglio gentil, di cui piú bella
non ebbe il mondo in questa o in altra etade
dal lucid’Orto a l’Occidente oscuro,
da l’umid’Austro a l’agghiacciato Arturo.
446.Ambiziosa di cotanto bene
Anglia con generai pompa festiva
la ricettò ne le beate arene,
com’a sposa reai si conveniva.
Felice chiama, e fortunata tiene
la disgiunta dal mondo estrema riva,
dove seco traendo un dí novello
sorge al cader del Sole un Sol piú bello.
447.Loda il candido sen, la treccia bionda,
le fresche guance, i seren’occhi ammira.
Diresti ben, che gelosia n’ha l’onda
de l’Ocean, ch’or viene, or si ritira;
né per altro quell’isola circonda,
e dintorno a’ suoi lidi si raggira,
se non per custodir si bel tesoro,
quasi Serpe che guardi i pomi d’oro.
448.Era Morgano uom di gran forze, ed era
di membra poco men che gigantee,
ma non avea quella prudenza intera
che costumato Principe aver dee.
D’aspra natura, impaziente e fiera,
d’opre malvage, e scelerate, e ree.
E ben fede facean di quanto ho detto
la terribil sembianza, e ’l sozzo aspetto.
449.La faccia ha bruna, e di color ferrigna,
illividita d’un crudel pallore,
ciglia congiunte in union maligna,
occhio fellone, e sguardo traditore.
Villanamente ad or ad or sogghigna
con un sorriso che non vien dal core.
I movimenti, i portamenti tutti
son rigorosi, e spaventosi, e brutti.
450.Or io non so qual ria sciagura o sorte
con quai d’empia malia nodi tenaci
le forze legò sí del fier consorte
ch’ei non potè mai trarne altro che baci.
Pur l’ama intanto, anzi d’Amor piú forte
nel vietato diletto ardon le faci,
cd agli uffici inabile di sposo,
quant’egli è men potente, è piú geloso.
451.Fu consiglio (cred’io) di chi governa
de le stelle lassú l’ordin fatale.
Non vòlse dar la providenza eterna
ad uom terreno una ventura tale,
e parve indegno a la bontá superna
di cotanta beltá sposo mortale;
onde serboila a nozze eccelse e sante
d’anior celeste, e di divino amante.
452.Odi strano accidente, odi in che nova
guisa dal Ciel l’origine pigliai,
e di’ se genitura alti a si trova
si fatta al mondo, o si trovò giá mai.
Indi al concetto il nascimento a prova
simile (se m’ascolti) anco vedrai,
mostruoso, ammirabile, e ch’eccede
ogni credenza in tutto, ed ogni fede.
453.Ne la stagion che de la terra l’ombra
dal fondo uscita del Cimerio speco
spegne il Sol, copre il Cielo, e l’aria ingombra,
e fa muta la gente, e ’l mondo cieco,
mentr’ella dorme, ecco che ’n sogno l’ombra
Tappar di Marte, e si congiunge seco.
Poi, desta il giorno, di feconde some
grave si sente il ventre, e non sa come.
454.Turbasi, e de’ begli occhi il lume imbruna,
e languisce, e stupisce, e trema e gela,
e di sua dura e misera fortuna
incontr’al Ciel si lagna e si querela.
Pur quanto può, fin a la nona Luna
la gravidanza sua ricopre e cela.
Ma qual secreto alfin non manifesta
quel cauto mostro c’ha cent’occhi in testa?
455.Morgano, entro ’l cui petto il foco acceso
tempra col ghiaccio suo la gelosia,
accorto alfin del disusato peso,
del concetto innocente i segni spia.
Oltre il sen grosso, onde ’l sospetto ha preso,
gli accresce nel pensier la frenesia
il veder gonfie ancor le poppe eburne,
del nèttare d’Amor fontane ed urne.
456.La ritira in disparte, indi le chiede
con torvo ciglio e con severa faccia
de l’onor maritale e de la fede
le schernite ragioni, e la minaccia.
La sventurata, che da lui si vede
giá discoverta, di paura agghiaccia,
che di quel fiero cor le son ben noti
troppo tremendi e repentini i moti.
457.Yolea le labra allor allora aprire
la bella Donna, e raccontar la cosa;
ma non seppe il crudel tanto soffrire,
tal gli bollia nel cor rabbia gelosa.
Traendo fuor senza volerla udire
un suo spadon con furia impetuosa,
colpo tirò sí sconcio e smisurato,
che la tagliò da l’un a l’altro Iato.
458.Dico, che de la spada il fil le mise
sí per dritto nel corpo, ed a misura,
che la ruppe a traverso, e la divise
tutta per rnezo i fianchi e la cintura.
Con le gambe dal busto allor recise
quinci il tronco riman meza figura,
quindi il bel sen su ’l pavimento resta
a le braccia attaccato, ed a la testa.
459.A pena ella di sangue un largo fiume,
in duo pezzi caduta, a terra sparse,
che fatta chiara in viso oltre il costume,
pur com’un Sol, visibilmente apparse.
Fuor de’ begli occhi di celeste lume
folgore usci, che l’abbagliò, che l’arse.
Sentissi il fier dal raggio e da l’ardore
ferir la vista, e fulminare il core.
460.E di quel lampo, ond’ebbe il cor ferito,
tanta il sacro splendor luce gli porse
che ’n sé tornando il barbaro marito,
di sua ferina immanitá s’accorse.
Onde de l’opra rea tardi pentito,
la man per ira e per dolor si morse,
e fisi gli occhi in quell’oggetto orrendo,
forte a dolersi incominciò piangendo.
461.— Fiordigiglio mia cara — egli dicea —,
il cui nome gentil veracemente
(se forsennato pur non mi facea
la passion, che traviò la mente)
per se stesso mostrar sol mi potea
un intatto candor d’alma innocente,
deh con qual mar di lagrime poss’io
pagar giá mai d’un sí bel sangue il rio?
462.Anima disleal, perfido core,
che per sí vii misfatto infame sei,
se giá non valse a moverti l’amore
che mentre visse ti portò costei,
come almen non ritenne il tuo furore
giusta pietá de la beltá di lei
dal macchiar del bel sen le pure nevi,
e ’nsieme quell’amor, che le devevi?
463.Stolta mia destra, che d’un tanto eccesso
di feritá ti festi essecutrice,
ragion non è che del gran mal commesso
si faccia anco altra man vendicatrice.
S’errò giá contro lei, contro me stesso
questo mio traditor braccio infelice,
emendi Amor l’error, ch’egli commise,
con l’odio che si deve a chi l’uccise.
464.Spada villana, al tuo Signor ingrata,
che nel mio bene incrudelir potesti,
ed ancor de’ begli ostri insanguinata,
quasi accusando il feritor, ne resti,
se giá fosti crudel, fosti spietata
ne l’alta crudeltá che commettesti,
or a quel gran dolor, che mi saetta,
non negar la pietate, e la vendetta. —
465.Cosí piangendo e sospirando disse,
e tenendo nel pugno il ferro stretto,
senza trovarsi alcun che l’impedisse,
sospinse il braccio, ed applicollo al petto.
E trafitto appo lei, ch’egli trafisse,
pien d’amoroso e di rabbioso aspetto,
freddo cadendo, e pallido, ed essangue,
insieme mescolò sangue con sangue.
466.Chi crederá prodigiose e nove
altezze di miracoli divini?
Chi d’un corpo, ch’è morto, e non si move,
uscir vide giá mai vivi bambini?
Nel ventre, che spaccato era lá dove
hanno Tanche e le coste i lor confini,
dentro l’aperte viscere anelante
spirar si vide e palpitar l’infante.
467.Il parto, ch’era per uscir giá presto,
accelerato dal fellon crudele,
fuor del lacero sen pietoso e mesto
di lei raccolse un famigliar fedele.
A sua magion recollo in cavo cesto
sotto panni appiattato, e sotto tele,
e quivi il fe’ con sí benigna aita
da la moglie allattar, che ’l tenne in vita.
468.Sí vissi, e crebbi, ed (oh stupor) del petto
scritte portai ne la sinistra parte
note di sangue, il cui tenor fu letto
“ Fiammadoro è costui, figlio di Marte
Quindi poi Fiammador fui sempre detto,
e fu di quel gran Dio mirabil arte,
che come mi campò pria ch’io nascessi,
cosí (credo) curò gli altri successi.
469.Il mio leal custode, il balio fido
sovra una lieve e ben spalmata fusta
tragittando a Calesso il salso lido,
passò di Gallia a l’alta reggia augusta,
dove inteso l’annunzio, udito il grido
de l’onta indegna, e de l’ingiuria ingiusta,
il mio gran Zio, che governava il regno,
pianse di duolo, ed avampò di sdegno,
470.Per vendicar de la sorella i torti,
mosse poi l’armi, e grand’incendio accese.
Questo il principio fu di tante morti,
quinci nacquer le risse e le contese
che con odio mortai tra i petti forti
durano ancor del Franco e de l’Inglese,
che tra lor confinando, han d’ambo i lati
cagion di star su le frontiere armati.
471.Fece il Re quivi intanto ammaestrarmi
come regio garzon nutrir si debbe.
Ma di fuggir poi gli ozii e seguir Tarmi
anco in me con l’etá la voglia crebbe.
Vezzo, prego o consiglio a distornarmi
da si nobil pensier forza non ebbe.
Cosi dal Ciel guidato e da la Sorte
sconosciuto e notturno uscii di Corte.
472.Giá di paesi e popoli diversi
costumi assai peregrinando ho visti.
Molto errai, molto oprai, molto soffersi
per far d’eterno onor pregiati acquisti.
Poi per l’Egeo tra i flutti e i venti avèrsi
ne venni anch’io, sí come tu venisti.
Quel Borea istesso, che ’l tuo legno spinse,
anco a prender qui porto il mio costrinse.
473.Narrate io t’ho gran meraviglie, e tali
che volto forse avran di favolose;
ond’essendo sí strani i miei natali,
credo che ’l Ciel mi serbi a strane cose.
E certo o di gran beni, o di gran mali
fortune attendo o liete, o dolorose,
secondo che di gioia o di martire
per te m’è dato o vivere, o morire. —
474.Cosí divisa, ed ecco in giú disceso,
mentre queste ragion passan tra loro,
tutto concorre ad onorargli inteso
del celeste Collegio il concistoro.
Lá ’ve in duo petti era egual foco acceso,
con la madre d’Amor venner costoro;
ed ella con sereni occhi ridenti
fe’ l’aria risonar di tali accenti:
475.— O coppia degna, e da’ piú degni Eroi
sol per gloria del inondo al mondo uscita,
qui gran tempo aspettata, e ’n Ciel da noi
troppo ben conosciuta, e ben gradita,
deponete omai Tarmi, e sia tra voi
la tenzon con lo sdegno in un sopita.
Canginsi in vezzi le discordie e Tire,
e sia pari l’amor, com’è l’ardire.
476.Ardete, anime belle, ai vostri ardori
son propizie le stelle, i Cieli amici.
Giá le Grazie pudiche e i casti Amori
v’arridon tutti con benigni auspici.
Fortunati desir, beati cori,
che ’n si nobile incendio ardon felici;
ésca, onde trae la fiaccola e ’l focile
d’Amor e d’Himeneo fiamma gentile.
477.Lunga stagion tra dilettosi affanni
sotto un giogo dolcissimo vivrete.
Vivran le glorie vostre al par degli anni,
n’andranno i vostri onor di lá da Lethe.
Giá spiegando per voi la Fama i vanni,
tutte scorre del Ciel le quattro mete,
e sparge intorno i fiati suoi sonori
dal meriggio ai tribú, dagl’indi ai Mori.
478.Le due gran Monarchie nel mondo sole
(cedan Greci e Romani e Persi e Siri)
per voi fien grandi, e per la vostra prole,
la qual tía eh’Asia tema, Europa ammiri.
Le lor terre, i lor mari a pena il Sole
visitar potrá mai con mille giri,
d’amicizia congiunte, e d’allianza,
emule di grandezza, e di possanza.
479.Tu, che per doppia via l’alme rubelle.
Verginella reai, vinci in battaglia,
rischiara i raggi de le luci belle,
né del morto destrier punto ti caglia.
So che del Sol le stalle, e che le stelle
non l’hanno tal, eh’appo ’l tuo merto vaglia.
Questo mio nondimen con lieta faccia,
ch’è miglior de’ miglior, gradir ti piaccia.
480.Lá nel fonte del Sol, dove in pastura
la corridrice Nomade col Pardo
si copulò, d’adultera mistura
concetto nacque, e fu chiamato Hippardo.
Parte chiara la spoglia, e parte oscura,
quasi piuma di storno, ha del leardo,
stellata in guisa tal tutta a rotelle
che ’n lui le macchie istesse anco son belle.
481.Tenero il tolse a la materna mamma,
e frenollo e domollo arte maestra.
Spinselo or dietro a Cerva, or dietro a Damma
or per campagna, or per montagna alpestra.
Pronto ai salti, agli assalti, uso è qual fiamma
girarsi a manca e raggirarsi a destra:
e veloce e feroce a meraviglia
la genitrice e ’l genitor somiglia.
482.E tu franco Guerrier, ch’oggi ten vai
nel trionfo d’Amor con tanto fasto,
e sovr’ogni trofeo ti pregi assai
d’uscir vinto e prigion dal gran contrasto,
non languir piú, né piú lagnarti omai
del brando rotto, o de lo scudo guasto.
Lascia pur l’armi usate, e prendi quelle,
ch’or io t’arreco, assai piú forti e belle.
483.Questa spada biforme, onde giá fue
dal buon Persèo l’orribil Orca uccisa,
Anfisbena ei chiamò, però che ’n due
(come vedi) ha la lama in giú divisa.
Aguzza l’una è de le parti sue,
ma si termina l’altra in altra guisa,
che ne l’estremitá curva diviene:
l’una taglia di lor, l’altra ritiene.
484.Degna del fianco ben fora di Marte
l’arme, onde possessore oggi ti faccio,
ma perde appo lo scudo il pregio in parte,
che peso fia del valoroso braccio.
De’ suoi lavori il gran mistero e l’arte
altri ti scoprirá, questo mi taccio.
Vi vedrai del futuro occulte cose,
e de’ tuoi succcssor l’oprc famose. —
485.Barbaro scudo a questo dir recato
fu da molti valletti in un momento.
Ne l’incude di Lenno è fabricato,
d’oro ha il bellico, il circolo d’argento,
e di minute istorie effigiato
l’orlo, a cui fanno intorno ampio ornamento.
Ogni figura sua vivace e bella
poco men che non spira, e non favella.
486.Allor lo Dio che signoreggia in Deio,
rivolto a specolar quelle sculture,
de’ secreti ineffabili del Cielo
affisa gli occhi entro le nebbie oscure;
indi squarciando il tenebroso velo,
che i gesti asconde de l’etá future,
pien di spirito sacro ed indovino
a Fiammadoro interpreta il destino.
487.— Guarda — dicea — nel mezo, e vedrai pria
d’uno in tre Gigli la mutata insegna.
Tal qual è, sará sempre in tua balía,
mentre il peso mortai l’alma sostegna.
Da indi in poi custode il Ciel ne fia
fin che ’l gran Clodoveo nel mondo vegna.
Per miracolo allor lo scudo istesso
fia di novo a la terra ancor concesso.
488.Volgiti al cerchio poi del ricco arnese,
e mira quante imagini v’ha sculte.
Son de’ tuoi gran Borbon le chiare imprese,
che sotto oscuro vel giacciono occulte,
fin ch’un tanto splendor fatto palese
da le penne piú nobili e piú culte
in quanto l’Ocean bagna e circonda,
per mille lustri illustre, i rai diffonda.
489.Xel Gallico terreno, ancor ch’angusto
sia quasi tutto a tal legnaggio il mondo,
in cotal guisa di quel ceppo augusto
fia radicato il gran pedal fecondo
che giá mai quercia il suo robusto busto
non piantò sí nel piú profondo fondo.
Tronco, cui non fia mai che vento crolli,
fertile di radici e di rampolli.
490.Per conoscer a pien qual sia la pianta,
basta solo assaggiarne un frutto o dui.
Questa però di frutti ha copia tanta
che ne confonde e ne satolla altrui;
e come l’arbor d’oro, onde si vanta
l’Hesperia, abonda sí de’ pomi sui
che chi la scote per carpirne un solo
ne fa mille talor piovere al suolo.
491.Di tant’avi e nipoti e padri e figli
lasciando dunque il numero infinito,
converrá ch’ai miglior solo m’appigli:
ed ecco un sol fra mille io te n’addito.
Vedi de l’Alfabeto a piè de’ Gigli
il decimo elemento ivi scolpito.
11 nome è quel di quel Garzon reale,
a cui promette il Ciel gloria immortale.
492.Gloria immortai trarrá da’ chiari pregi
del genitor, non men ch’eterno essempio,
del genitore, ai cui gran fatti egregi
ben che s’opponga il fato iniquo ed empio,
la Fenice però sará de’ Regi,
di pietá, di giustizia il trono e ’l tempio,
un Numa in pace, un Alessandro in guerra,
un vero Nume, un vivo lume in terra.
493.L’esser nato d’un Re, che di valore
fia specchio al mondo, e fior d’ogni bontate,
di cui saran con sempiterno onore
piú vittorie che guerre annoverate,
somma laude gli fia, ma vie maggiore
il secondar di lui Torme onorate;
felice, in un di posseder ben degno
e la virtute ereditaria, e ’l regno.
494.Quai Poeti di lui? quali Oratori
potranno, ancor che celebri e celesti,
o in note sciolte o in numeri canori
tanto mai dir, che piú da dir non resti?
Che può pensar de’ suoi sovrani onori?
che può narrar de’ suoi sublimi gesti,
secca ogni vena, ogni virtú perduta,
intelletto confuso, e lingua muta?
495.Quegl’infelici e miseri, ch’oppressi
dal crudel di Bizanzio empio Tiranno,
de le dure catene i ferri istessi
logori quasi con le membra avranno,
per lui sol fiano in libertá rimessi,
per la sua man ha vendicato il danno;
e poi che l’Oriente avrá distrutto,
si fará tributario il mondo tutto.
496.Non di Sol, non di gel tanto ardimento
affrenar mai potranno ardori o brume.
Veggio l’Indo e ’l Gelon, quel di spavento
gelar, questo sudar contro il costume.
Veggio la Luna Trace il puro argento
macchiar di sangue, impoverir di lume.
Torbido il Xil giá per sett’occhi piange,
e l’aureo suo pallor raddoppia il Gange.
497.Veggio che sol per lui la Tana estrema
piú di timor che di rigore agghiaccia.
Scote i suoi boschi il Caucaso, che trema
di quel valor, che ’l giogo gli minaccia.
Giá cede il Partilo, e disusata tema
con non mentita fuga in fuga il caccia.
Veggio gli archi depor Meroe al suo nome,
e di saette disarmar le chiome.
498.Marte (non ch’altri) il qual per tema eletto
s’ha l’albergo lassú nel cerchio quinto,
converrá che piú alto abbia ricetto,
s’esser non vuol anch’egli in guerra vinto.
Pia Giove ancor d’alzar il Ciel costretto,
ed allargar de l’Universo il cinto,
ché T suo nome, il suo ardir non ben si serra
tra gli spazii de l’aria e de la terra.
499.E come il suo magnanimo pensiero
termine non avrá che lo capisca,
cosí confin che ’l chiuda, anco l’impero
non troverá, dov’ei di gire ardisca.
E non in questo sol noto Hemispero
fia che lo scettro suo si stabilisca,
ma dove ancor con affannata lena
giungono stanchi i miei corsieri a pena.
500.È ver, che ’n su ’l bel fior de l’etá fresca
contraria avrá sediziosa gente,
diversa assai da la bontá Erancesca,
disleale, ostinata, empia, insolente.
Vedi vedile in mano il foco e l’ésca
con cui semina intorno incendio ardente,
che nel sen de la patria appreso e sparso,
l’ha quasi il corpo incenerito ed arso.
501.Per in tutto estirpar l’Hidra ramosa,
che quanto piii moltiplica, piú nóce.
Tarmi giuste intraprende, e non riposa
l’infaticabil Giovane feroce.
Suda ed anela a la stagion nevosa
quando adusto da Borea il Verno coce.
Se ’n Ciel rugge il Leon, latra la Cagna,
ei sotto i raggi miei marcia in campagna.
502.Con le squadre piú fide e piú devote
movesi ad espugnar Tempia caterva,
che le leggi calpesta, il giogo scote,
e ricusa ubbidir soggetta e serva.
Vegghia, studia, travaglia il piú che potè
quella peste a scacciar fiera e proterva,
che de l’afflitta Gallia in modo orrendo
va per le chiuse viscere serpendo.
503.È giunto a tale il suo valor sovrano
ch’ornai vince e trionfa, e non combatte.
Son dal nome vie piú che da la mano
prese le rocche, e le cittá disfatte.
Solo col vento de le penne al piano
la sua gran Fama l’alte mura abbatte.
Cede ogni Forte, ogni castel si rende:
misero chi contrasta e si difende!
504.Sassel ben d’Angerí la turba stolta,
che l’accordo pospone a la difesa.
Ecco Salmuria a’ rei ladron ritolta,
né Bergeracco poi fa gran contesa.
Ecco la prima e la seconda volta
Cleracco a forza è soggiogata e presa,
Ponso, Mondur, Lunello, ed ecco mille
racquistate in un punto e piazze e ville.
505.Fa ben due volte a Montalban ritorno,
né per pioggia o per neve assalto allenta,
ma col fiero cannon la notte e ’l giorno
l’eccelse torri e ’l gran giron tormenta.
Passa quindi a Narbona, e tutti intorno
gli ammutinati popoli spaventa;
e posto campo a la cittá sovrana,
di cadaveri ostili i fossi appiana.
506.E mentre ivi di sangue il campo tinge,
da lunge a la Roccella anco fa guerra.
Spernon da un lato, e Siiesson la cinge,
e di soccorso ogni camin le serra.
Né minor forza la combatte e stringe
da la parte del mar che de la terra,
dove al gran porto de l’alpestra rocca
tenta, industre Ingegnier, chiuder la bocca.
507.Spianta le selve, e le miniere vota,
e con legni e con ferri il mar affrena
e copulando vien, ben che remota,
d’entrambo i capi l’un’e l’altra arena;
ed acciò che sue machine non scota,
quasi in dura prigion l’onda incatena.
E ’l buon Duce di Guisa in su l’entrata
il varco guarda con possente armata.
508.Tien del Rege costui la vece e ’l loco,
guerrier cui non fia mai chi si pareggi.
Vanne, e sprezza pur l’onda, e sprezza il foco,
inclito Eroe, che la gran classe reggi.
Ben avrai quella e questo a temer poco:
milita il Ciel per te, mentre guerreggi,
e l’un e l’altro orribile elemento
ti favorisce, c la Fortuna, e ’l vento.
509.Mira con qual inganno han mossi i legni
le ribellate e debellate genti,
che portan seco insidiosi ingegni
d’occulti fuochi e d’artifici ardenti.
Ma di toccar sí nobil corpo indegni
scoppiano a vóto i perfidi stromenti.
Volan le fiamme, e ’nsieme il mar confonde
le nebbie, e i fumi, e le faville, e l’onde.
510.Vedi ogni altro vascello irne lontano:
soletto ei si riman su l’Ammirante.
Tutto incontro gli vien lo stuol villano,
ei non lascia però di girne avante;
anzi Principe insieme, e Capitano,
e soldato in un punto, e navigante,
minacciando il nocchier ritroso e tardo,
atterrisce il terror sol con lo sguardo.
511.Può ben l’aspro conflitto ivi vedersi
pien d’accidenti tragici e mortali,
vele stracciate, ed uomini sommersi,
e remi rotti ed arbori e fanali.
Spettacoli d’orror cosí diversi
oggetti ti parrian piú ch’infemali,
s’udir potessi ancor gli alti rimbombi
che fanno i cavi bronzi, e i fusi piombi.
512.Ecco la strage de lo stuol rubello,
ecco i navili suoi sparsi e distrutti.
L’animoso Signor, di cui favello,
fa del sangue fellon vermigli i flutti.
Saltando va da questo legno a quello,
e la sua spada è scudo agli altri tutti.
Col grido e con la man fulmina e tuona,
cosí la fé difende, e la corona.
513.Intanto al popol falso e contumace
perdona alfin placato il gran LUIGI,
e dopo lungo assedio e pertinace
dispiega in Mompelier la Fiordiligi.
Quindi con la vittoria e con la pace
tra la palma e l’olivo entra in Parigi,
e lieta sotto il trionfai vessillo
torna la Francia al bel viver tranquillo.
514.Tornan Farti piú belle e le virtudi
poco dianzi fugaci e peregrine,
fioriscon gli alti ingegni, e i sacri studi,
crescono i lauri a coronargli il crine,
riposan l’armi orrende, i ferri crudi
pendon dimessi, e le battaglie han fine.
Son fatti i cavi scudi, e i vóti usberghi,
nidi di Cigni, e di Colombe alberghi. —
515.Qui tacque Apollo, e ’l pescator Fileno,
che presente ascoltò quant’egli disse,
quanto diss’egli, e tutto il filo a pieno
di que’ tragici amori in carte scrisse.
Giunse intanto la notte, e nel sereno
Tempio del Ciel le sue lucerne affisse.
Tornaro a Stige le Tartaree genti,
l’altre a le stelle, e l’altre agli elementi.
IL FINE