Adone/Canto VII
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ALLEGORIA
L’Argento della terza porta ha proporzione con la materia dell’orecchio, sí come l’avorio e ’l rubino della quarta si confanno con quella della bocca. Le due Donne, che nel senso dell’Udito ritrova Adone, son la Poesia, e la Musica. I versi epicurei cantati dalla Lusinga, alludono alle dolci persuasioni dí queste due divine facoltá, qualora divenute oscene meretrici, incitano altrui alla lascivia. Le Ninfe, che nel senso del Gusto dal mezo in giú ritengono forma di Viti, e abbracciano e vezzeggiano chi loro si accosta, son figura della Ebrietá, la qual suol essere molto trabocchevole agl’incentivi della libidine. Il nascimento di Venere, prodotta dalle spume del mare, vuol dire che la materia della genitura (come dice il Filosofo) è spumosa, e l’umore del coito è salso. Il natal d’Amore, celebrato con festa ed applauso da tutti gli animali, dá a conoscere la forza universale di questo efficacissime; affetto, da cui riceve alterazione tuttaquanta la Natura. Pasquino, figlio di Morao e della Satira, che per farsi grato a Venere, le manda a presentare la descrizzione del suo adulterio, dimostra la pessima qualitá degli uomini maledici, i quali eziandio quando vogliono lodare, non sanno se non dir male. Vulcano, che fabrica la rete artificiosa, è il calor naturale, ch’ordisce a Venere e a Marte, cioè al disiderio dell’umano congiungimento, un intricato ritegno di lascive e disoneste dilettazioni. Sono i loro abbracciamenti discoverti dal Sole, simulacro della prudenza, perciò che questa virtú col suo lume dimostra la bruttura di quell’atto indegno,
e la fa conoscere e schernire da tutto il mondo.ARGOMENTO
Accenti di dolcissima armonia
ascolta Adon tra suoni e balli e feste.
S’asside a mensa con la Dea celeste,
e le lodi d’Amor canta Thalia.
1.Musica e Poesia son due sorelle
ristoratrici de l’afflitte genti,
de’ rei pensier le torbide procelle
con liete rime a serenar possenti.
Non ha di queste il mondo arti piú belle
o piú salubri a l’affannate menti;
né cor la Scithia ha barbaro cotanto
(se non è Tigre) a cui non piaccia il canto.
2.Suol talvolta però metro lascivo
l’alte bellezze lor render men vaghe,
e l’onesto piacer fassi nocivo,
e divengon di Dee Tiranne e Maghe.
Né fa rapido strai passando al vivo
tinto di tosco, sí profonde piaghe,
come i morbidi versi entro ne’ petti
van per l’orecchie a penetrar gli affetti.
3.Elle ingombrando il cor di cure insane
col dolce vin de la Lussuria molle,
quasi del Padre Ebreo figlie profane,
l’infiamman si, che fervido ne bolle.
Instigate da lor le voglie umane
a libertá licenziosa e folle,
dietro ai vani appetiti oltre il prescritto
trascorron poi del lecito e del dritto.
4.Ma s’a la forza magica di queste
incantatrici e perfide Sirene
ad aggiungere ancor per terza peste
il calor de la Crapula si viene,
che non può? che non fa? quante funeste
ululare per lei tragiche scene?
Toglie di seggio la ragion ben spesso,
l’anima invola al cor, l’uomo a se stesso.
5.Lupa vorace, ingordo Mostro infame,
lo cui cupo desir sempre sfavilla,
che sol per satollar l’avide brame
brami collo di Gru, ventre di Scilla,
sí ch’ésca omai bastante a tanta fame
la terra o l’acqua non produce o stilla,
e da la gola tua divoratrice
a pena scampa l’unica Fenice:
6.dolce velen, che d’uinor dolce e puro
irrigando il palato, innebri l’alma,
dal tuo lieto furor non fu securo
chi pria t’espresse con la roza palma.
Del tuo sommo poter, fra quanti furo
oppressi mai di cosí grave salma,
Herode, e Baldassare, ed Oloferne
han lasciate tra noi memorie eterne.
7.Ma vie piú ch’alcun altro, Adone è quello
che ne fa chiara prova, espressa fede.
Eccolo lá, che verso il terzo ostello
con la madre d’Amor rivolge il piede.
E ’l Portinaio ad ospite sí bello
aperto il passo e libero concede;
e per via angusta e flessuosa e torta
d’un in altro piacer fassi sua scorta
8.Stava costui con pettine sonoro
sollecitando armonico stromento.
Un Cinghiale in disparte, un Cervo, un Toro
teneano a quel sonar l’orecchio intento.
Ma deposta la lira, al venir loro
te’ su ’l cardin croccar l’uscio d’argento.
D’argento è l’uscio, e certe conche ha vote,
che s’odon tintinnir quando si scote.
9.— De la bella armonia — di Mirra al figlio
disse il figlio di Maia — è questi il Duce;
anch’ei de la tua Dea servo e famiglio
al piacer de l’udire altrui conduce.
Né fatto è senza provido consiglio,
ch’alberghi con Amor chi Amor produce,
poi che non è degli amorosi metri
cosa in Amor, che maggior grazia impetri.
10.Chi d’eburnea testudine eloquente
batter leggiadra man fila minute,
sposando al dolce suon soavemente
musica melodia di voci argute
sente talor, né penetrar si sente
di que’ numeri al cor l’alta virtute,
spirto ha ben dissonante, anima sorda,
che dal concento universal discorda.
11.Fe’ quel senso Natura, acciò che sia
di tal dolcezza al ministerio presto;
e ben ch’entrar per la medesma via
soglia ciascun ne l’uomo abito onesto,
poscia ch’ogni arte e disciplina mia
non ha varco ne l’alma altro che questo,
una è sol la cagion, vario l’effetto:
l’uno ha riguardo al prò, l’altro al diletto.
12.Perché sempre la voce in alto monta,
però l’orecchia in alto anco fu messa,
e d’ambo i lati, emula quasi, affronta
degli occhi il sito in una linea istessa.
Né men certo è de l’occhio accorta e pronta,
né minor che ne l’occhio ha studio in essa:
in cui tanti son posti, e ben distinti
aquedotti, e recessi, e labirinti.
13.Picciole sí, se pareggiarsi a quelle
denno d’altro animai vile e vulgare,
ma piú formarsi ed eccellenti e belle
giá non potean, né piú perfette e rare.
Sempre aperta han l’entrata, e son gemelle
per la necessitá del loro affare.
Proprio moto non hanno, e fatte sono
d’un’asciutta sostanza, acconcia al suono.
14.11 suono oggetto è de l’Udito, e mosso
per lo mezo de l’aere al senso viene.
Da l’esterno fragor rotto e percosso
l’aere del suon la qualitá ritiene;
da cui l’aere vicin spinto e commosso,
come in acqua talor mobile aviene,
porta ondeggiando d’una in altra sfera
a l’uscio interior l’aura leggera.
15.Scorre lá dov’è poi tesa a quest’uso
di sonora membrana arida tela;
quivi si frange e purga, e quivi chiuso
agitando se stesso, entro si cela,
e tra quelle torture erra confuso
fin ch’ai senso commun quindi trapela,
de la cui region passando al centro,
il caratter del suon vi stampa dentro.
16.Concorrono a ciò far d’osso minuto
ed incude, e triangolo, e martello,
e tutti son nel timpano battuto
articolati ed implicati a quello;
ed a quest’opra lor serve d’aiuto
non so s’io deggia dir corda o capello,
sottil cosí che si distingue a pena
se sia filo o sia nervo, arteria o vena.
17.Vedi quanto impiegò l’Amor superno
in un fragil composto ingegno ed arte
sol per poter del suo diletto eterno
aimen quaggiú communicargii parte!
Ha sotto umane forme alma d’inferno
chi sprezza ingrato il ben, ch’ei gli comparte.
E qui fine al suo dir facondo e saggio
pose degli alti Numi il gran messaggio.
18.Aprir sentissi Adone il cor nel petto,
e gli spirti brillar d’alta allegria,
quando di tanti augei, ch’avean ricetto
in quell’albergo, udí la sinfonia.
Qual vagabondo e libero a diletto
per le siepi e su gli arbori salia.
Qual, perché troppo alzar non si potea,
intorno a Tacque e sovra i fior pascea.
19.Uopo non ha, ch’industre man qui tessa
di ben filato acciar gabbia o voliera
acciò che degli augei la turba in essa
senza poter fuggir stia prigioniera:
spaziosa uccellaia è l’aria istessa,
che fa Ior sempre Autunno e Primavera,
ed a la libertá d’ogni augellino
carcere volontario è il bel giardino.
20.Né rete né cancel rinchiude o serba
il pomposo Fagian, l’umil Pernice.
Il verde Parlator scioglie per l’erba
lingua del sermon nostro imitatrice.
V’ha di zaffiri e porpore superba
la sempiterna e singoiar Fenice.
V’ha quel, che ’n sé sospeso eccelse strade
tenta, e d’aure si nutre, e di rugiade.
21.L’Aquila imperiale il Sol vagheggia,
col rostro il petto il Pelican si fère,
va il Picchio a scosse, e l’Aghiron volteggia,
la Gru le sue falangi ordina in schiere,
lo Smeriglio e ’l Terzuol seguon l’Acceggia,
l’Oche in fila di sé fanno bandiere,
e la Gaza tra lor menando festa
erge la coda, e l’Upupa la cresta.
22.La Colomba or nel nido a covo geme,
or bacia il caro maschio, or tutta sola
rade l’aria con l’ali, or per l’estreme
cime d’un arboscel vola e rivola.
Or col Pavone innamorato insieme
ingemma al Sol la variabil gola,
del cui ricco monil Ciri fiorita
la corona del Vago in parte imita.
23.E le sovien, mentre dispiega l’ale,
de la leggiadra sua prima sembianza;
e tra que’ fior, da cui nacque il suo male,
ancor di diportarsi ha per usanza.
Ed or di chi cangiolla in forma tale
rinova piú la misera membranza
veggendo in compagnia del caro Adone
la bella Dea del suo dolor cagione.
24.La qual rivolta allora agli arboscelli,
— Odi — gli dice — odi con quanti e quali
motti amorosi, o fior di tutti i belli,
spiegano i piú sublimi il canto e Tali:
Amor, ch’alato è pur come gli augelli,
fa che senta ogni augel gli aurati strali.
Il tutto vince alfin questo Tiranno! —
E qui tacendo, ad ascoltar si stanno.
25.Per far distinto al vago stuol che vola
con lingua umana articolar sermone,
maestro qui non si richiede o scola,
qual trovò poi la vanitá d’Annone:
ogni semplice accento era parola,
che parlando di Venere e d’Adone,
in spedita favella alto dicea;
«Ecco con l’Idol suo la nostra Dea».
26.Chiusa tra’ rami d’una quercia antica,
di sua verde magion solinga cella,
la Monichetta de’ Pastori amica
seco invita a cantar la Rondinella.
Orfano tronco in secca piaggia aprica
d’olmo tocco dal Ciel la Tortorella
non cerca no, ma sovra verde pianta
solitaria, non sola, e vive e canta.
CANTO SETTIMO
Saltellando garrisce, e poi s’asconde
il Calderugio in fra i piú densi rami.
Seco alterna il Canario, e gli risponde
quasi d’Amor lodando i lacci e gli ami.
Recita versi il Solitario altronde,
e par che ’l Cacciator «perfido! •> chiami.
Fan la Calandra e ’l Verzelin tra loro
e ’l Capinero e ’l Pettirosso un coro.
La Merla nera e ’l Calenzuol dorato
odonsi altrove lusingar l’udito.
La Pispola il Rigogolo ha sfidato,
con l’Ortolan s’è il Beccafico unito.
Contrapunteggian poi da l’altro lato
10 Strillo, e ’l Raperin che sale al dito.
Con questi la Spernuzzola e ’l Frusone,
e lo Sgricciolo ancor vi si frapone.
Con l’Assiuolo il Lugherin si lagna,
col sagace Fringuel lo Storno ingordo.
L’Allodetta la Passera accompagna,
11 Fanello fugace il pigro Tordo.
Straniero augel di selva o di montagna
non s’introduce in sí felice accordo
se (giudice la Dea) non porta in prima
di mille vinti augei la spoglia opima.
Canta tra questi il Musico pennuto,
l’augel che piuma innargentata veste;
quel che con canto mortalmente arguto
suol celebrar l’essequie sue funeste;
quel che con manto candido e canuto
nascose giá l’Adultero celeste,
quando da bella Donna e semplicetta
fu la fiamma di Troia in sen concetta.
31.Del bianco collo il lungo tratto stende,
apre il rostro canoro, e quindi tira
fiato, che mentre invèr le fauci ascende,
per obliquo canal passa e s’aggira.
Serpe la voce tremolante, e rende
mormorio che languisce, e che sospira,
e i gemiti e i sospir profondi e gravi
son ricercate flebili e soavi.
32.Ma sovr’ogni augellin vago e gentile
che piú spieghi leggiadro il canto e ’l volo,
versa il suo spirto tremulo e sottile
la Sirena de’ boschi, il Rossignuolo;
e tempra in guisa il peregrino stile
che par maestro de l’alato stuolo.
In mille fogge il suo cantar distingue
e trasforma una lingua in mille lingue.
33.Udir musico mostro (oh meraviglia),
che s’ode sí, ma si discerne a pena,
come or tronca la voce, or la ripiglia.
or la ferma, or la torce, or scema, or piena,
or la mormora grave, or l’assottiglia,
or fa di dolci groppi ampia catena:
e sempre, o se la sparge, o se l’accoglie,
con egual melodia la lega e scioglie.
34.Oh che vezzose, oh che pietose rime,
lascivetto cantor, compone e detta!
Pria flebilmente il suo lamento esprime,
poi rompe in un sospir la canzonetta.
In tante mute or languido, or sublime
varia stil, pause affrena, e fughe affretta,
ch’imita insieme, e ’nsieme in lui s’ammira,
cetra, flauto, liuto, organo e lira.
35.Fa de la gola lusinghiera e dolce
talor ben lunga articolata scala.
Quinci quell'armonia, che l'aura molce,
ondeggiando per gradi, in alto essala,
e poi ch'alquanto si sostiene e folce,
precipitosa a piombo alfin si cala.
Alzando a piena gorga indi lo scoppio,
forma di trilli un contrapunto doppio.
36.Par ch'abbia entro le fauci e in ogni fibra
rapida rota o turbine veloce.
Sembra la lingua, che si volge e vibra,
spada di schermidor destro e feroce.
Se piega e 'ncrespa, o se sospende e libra
in riposati numeri la voce,
spirto il dirai del Ciel, che 'n tanti modi
figurato e trapunto il canto snodi.
37.Chi crederá, che forze accoglier possa
animetta si picciola cotante?
e celar tra le vene e dentro l'ossa
tanta dolcezza un atomo sonante?
o ch'altro sia, che da liev'aura mossa
una voce pennuta, un suon volante?
e vestito di penne un vivo fiato,
una piuma canora, un canto alato?
38.Mercurio allor, che con orecchie fisse
vide Adone ascoltar canto si bello:
— Deh che ti pare — a lui rivolto disse —
de la divinitá di quell’augello?
Diresti mai, che tanta lena unisse
in sí poca sostanza un spiritello?
un spiritei, che d’armonia composto
vive in sí anguste viscere nascosto?
25
39.Mirabil arte in ogni sua bell’opra
(ciò negar non si può) mostra Natura;
ma qual Pittor che ’ngegno e studio scopra
vie piú che ’il grande, in picciola figura,
ne le cose talor minime adopra
diligenza maggiore, e maggior cura.
Quest’eccesso però sovra l’usanza
d’ogni altro suo miracolo s’avanza.
40.Di quel canto nel ver miracoloso
una istoria narrar bella ti voglio,
caso in un memorando, e lagrimoso,
da far languir di tenerezza un scoglio.
Sfogava con le corde in suon pietoso
un solitario amante il suo cordoglio.
Tacean le selve, e dal notturno velo
era occupato in ogni parte il cielo.
41.Mentr’addolcia d’Amor l’amaro tosco
col suon, che ’l Sonno istesso intento tenne,
l’innamorato giovane ch’ai bosco,
per involarsi a la cittá, sen venne,
sentí dal nido suo frondoso e fosco
questo querulo augel batter le penne,
e gemendo accostarsi, ed invaghito
mormorar tra se stesso il suono udito.
42.L’infelice augellin, che sovra un faggio
crasi desto a richiamare il giorno,
e dolcissimamente in suo linguaggio
supplicava l’Aurora a far ritorno,
interromper del bosco ermo e selvaggio
1 secreti silenzii udí dintorno,
e ferir l’aure d’angosciosi accenti
del trafitto d’Amor gli alti lamenti.
43.Rapito allora, e provocato insieme
dal suon, che par ch’a sé l’inviti e chiami,
da le cime de l’arbore supreme
scende pian piano in su i piú bassi rami;
e ripigliando le cadenze estreme,
quasi ascoltarlo ed emularlo brami,
tanto s’appressa, e vola, e non s’arresta,
ch’alfin viene a posargli in su la testa.
44.Quei che le fila armoniche percote
sente (né lascia l’opra) il lieve peso,
anzi il tenor de le dolenti note
piú forte intanto ad iterare ha preso.
E ’l miser Rossignuol quanto piú potè
segue suo stile, ad imitarlo inteso.
Quei canta, e nel cantar geme e si lagna,
e questo il canto e ’l gemito accompagna.
45.E quivi l’un su ’l flebile stromento
a raddoppiare i dolorosi versi,
e l’altro a replicar tutto il lamento
come pur del suo duol voglia dolersi,
tenean con l’alternar del bel concento
tutti i lumi celesti a sé conversi,
ed allettavan pigre e taciturne
vie piú dolce a dormir l’Ore notturne.
46.Da principio colui sprezzò la pugna,
e volse de l’augel prendersi gioco.
Lievemente a grattar prese con l’ugna
le dolci linee, e poi fermossi un poco.
Aspetta che ’l passaggio al punto giugna
l’altro, e rinforza poi lo spirto fioco,
e di Natura infaticabil mostro
ciò ch’ei fa con la man, rifá col rostro.
47.Quasi sdegnando il Sonatore arguto
de l’emulazion gli alti contrasti,
e che seco animai tanto minuto
non che concorra, al paragon sovrasti,
comincia a ricercar sovra il liuto
del piú diffidi tuon gli ultimi tasti;
e la linguetta garrula e faconda,
ostinata a cantar, sempre il seconda.
48.Arrossisce il maestro, e scorno prende,
che vinto abbia a restar da sí vii cosa.
Volge le chiavi, i nervi tira, e scende
con passata maggior fino a la rosa.
Lo Sfidator non cessa, anzi gli rende
ogni replica sua piú vigorosa;
e secondo che l’altro o cala, o cresce,
labirinti di voce implica e mesce.
49.Quei di stupore allor divenne un ghiaccio,
e disse irato: — Io t’ho sofferto un pezzo!
O che tu non farai questa ch’io faccio
o ch’io vinto ti cedo, e ’l legno spezzo.
Recossi poscia il cavo arnese in braccio,
e come in esso a far gran prove avezzo,
con crome in fuga e sincope a traverso
pose ogni studio a variare il verso.
50.Senz’alcuno intervallo e piglia e lassa
la radice del manico e la cima,
e come il trae la fantasia, s’abbassa,
poi risorge in un punto, e si sublima.
Talor trillando al canto acuto passa,
e col dito maggior tocca la prima.
Talora ancor con gravitá profonda
fin de l’ottava in su ’l bordon s’affonda.
51.Vola su per le corde or basso, or alto,
piú che l’istesso augel, la man spedita.
Di sú di giú con repentino salto
van balenando le leggiere dita.
D’un fier conflitto e d’un confuso assalto
inimitabilmente i moti imita,
ed agguaglia col suon de’ dolci carmi
i bellicosí strepiti de Tarmi.
52.Timpani e trombe, e tutto ciò che quando
serra in campo le schiere osserva Marte,
i suoi turbini spessi accelerando,
ne la dotta sonata esprime l’arte,
e tuttavia moltiplica sonando
le tempeste de’ groppi in ogni parte;
e mentr’ei l’armonia cosí confonde,
il suo competitor nulla risponde.
53.Poi tace, e vuol veder se l’augelletto
col canto il suon per pareggiarlo adegua.
Raccoglie quello ogni sua forza al petto,
né vuole in guerra tal pace né tregua.
Ma come un debil corpo e pargoletto
esser può mai, ch’un sí gran corso segua?
Maestria tale, ed artificio tanto
semplice e naturai non cape un canto.
54.Poi che molte e molt’ore ardita e franca
pugnò del pari la canora coppia,
ecco il povero augel, ch’alfin si stanca,
e langue, e sviene, e ’nfievolisce, e scoppia.
Cosí qual face, che vacilla e manca,
e maggior nel mancar luce raddoppia,
da la lingua, che mai ceder non volse,
il dilicato spirito si sciolse.
55.Le stelle poco dianzi innamorate
di quel soave e dilettevol canto,
fuggir piangendo, e da le logge aurate
s’affacciò l’Alba, e venne il Sole intanto.
Il Musico gentil per gran piotate
l’estinto corpicei lavò col pianto,
ed accusò con lagrime e querele
non men se stesso, che ’l destin crudele.
56.Ed ammirando il generoso ingegno,
Un negli aliti estremi invitto e forte,
nel cavo ventre del sonoro legno
il volse sepelir dopo la morte.
Né dar potea sepolcro unqua piú degno
a sí nobil cadavere la Sorte.
Poi con le penne de l’augello istesso
vi scrisse di sua man tutto il successo.
57.Ma chi fu che l’instrusse? il mastro vero
(non so se ’l sai) fu di quest’arte Amore.
Egli insegnò la Musica primiero,
ei fu de’ dolci numeri l’autore,
e del soave ordigno e lusinghiero
volse le corde nominar dal core.
Oh che strana armonia dolce ed amara
ne la sua scola un cor ferito impara!
58.Dica costei che ’l sa, costei che ’l sente,
di questa invenzi’on l’origin vera,
fa’ che l’istesso Amor, ch’è qui presente,
ti narri onde l’apprese, e ’n qual maniera.
Contan ch’un dí ne la fucina ardente,
che d’Etna alluma la spelonca nera,
dove alternano i fabri i colpi in terzo,
l’ingegnoso fanciullo entrò per scherzo.
59.Ed osservando de’ martelli i suoni
librati in su l’ancudini percosse,
le cui battute a tempo a tempo, e i tuoni
facean parer ch’un bel concerto fosse,
le regole non note, e le ragioni
de le misure a specolar si mosse,
e con stupor del padre e de’ ministri
gl’intervalli trovò de’ bei registri.
60.De la prim’opra il semplice lavoro
fu roza alquanto e maltemprata cetra,
e da compor quell’organo sonoro
la materia gli diè l’aurea faretra.
Per fabricarne le chiavette d’oro
ruppe lo strai, che rompe anco la pietra.
L’arco proprio adoprò d’archetto in vece,
e de la corda sua le corde fece.
61.Apollo il dotto Dio, meglio dispose
l’ordine poi de’ tasti e de’ concenti;
ed io, che vago son di nove cose,
novi studi mostrai quindi a le genti,
e ’n piú forme leggiadre e dilettose
d’inventar m’ingegnai vari stranienti,
onde certa e perfetta alfin ne nacque
la bella facoltá che tanto piacque.
62.Piace a ciascun, ma piú ch’agli altri piace
agl’inquieti e travagliati amanti,
né trova altro refugio, ed altra pace
un tormentato cor, che suoni e canti.
Egli è ben ver, che ’l suono è sí efficace
che provoca talor sospiri e pianti:
e i duo contrari estremi in guisa ha misti
che rallegra gli allegri, attrista i tristi. —
63.Qui tacque il gran Corrier che porta alato
in man lo scettro e di due serpi attorto,
perché mentre Ch’Adone innamorato
per l’ameno giardin mena a diporto,
venir non lunge per l’erboso prato
d’uomini e donne un bel drappello ha scorto,
e due Ninfe di vista assai gioliva
come capi guidar la comitiva.
64.Mostra ignudo il bel seno una di queste,
e tremanti di latte ha le mammelle,
verdeggiante ghirlanda, azurra veste,
ed ali, onde talor vola a le stelle.
Trombe, cetre, sampogne un stuol celeste
di fanciulli le porta, e di donzelle.
Ne la destra sostien scettro d’alloro,
stringe con l’altra man volume d’oro.
65.Di costei la compagna ha di fioretti
amorosi e leggiadri i crini aspersi,
varia la gonna, in cui di vari aspetti
e chiavi e note ha figurate, e versi.
Dietro le tranno ancor ninfe e valletti
misure, e pesi, ed organi diversi,
musici libri, e con ballorie e canti
di vermiglio Lieo vasi spumanti.
66.Soggiunse allor Mercurio: — Ecco di due
Suore d’un parto inclita coppia e degna,
degna non dico de l’orecchie tue,
ma del gran Re che su le stelle regna.
La prima ha del divin ne l’opre sue,
l’altra di secondarla anco s’ingegna,
e con stupore e con diletto immenso
l una attrae l’intelletto, e l’altra il senso.
67.Quella ch’innanzi alquanto a noi s’appressa,
e piú nobil rassembra agli occhi miei,
se ben ritrovatrice è per se stessa,
e l’arte del crear trae dagli Dei,
con la cara gemella è sí connessa
ch’i ritmi apprende a misurar da lei,
e da lei, che le cede, e le vien dietro,
prende le fughe e le posate al metro.
68.Colei però, che accompagnar la suole,
ha de l’aiuto suo bisogno anch’ella,
né sa spiegar, se si rallegra o dole,
se non le passíon de la sorella.
Da lei gli accenti impara e le parole,
da lei distinta a scioglier la favella.
Senza lei fora un suon senza concetto,
priva di grazia, e povera d’affetto.
69.Per queste lor reciproche vicende
sempre unite ambedue n’andranno al paro,
e con quel lume, onde virtú risplende,
risplenderan nel secolo piú chiaro.
I primi raggi lor la Grecia attende,
cui promette ogni grazia il Cielo avaro,
la Grecia, in cui per molti e molti lustri
le terranno in onor Spiriti illustri.
70.Col tempo poi diverran gioco e preda
e de le genti barbare e degli anni:
colpa di Marte, a cui convien che ceda
ogni arte egregia, e colpa de’ Tiranni.
Sola l’Italia alftn fia che possieda
qualche reliquia degli antichi danni,
ma la bella però luce primiera
si smarrirá de la scienza vera.
71.Ben ch’alloggino or qui le mie dilette,
non son giá queste le lor stanze usate.
Lá nel mio Ciel con altre giovinette
abitan, come Dee, sempre beate.
Se mai lassú venir ti si permette,
ti mostrerò gli alberghi ove son nate.
Qui con Amore a trastullarsi intente
da l’eterna magion scendon sovente. —
72.Vennero al vago Adon strette per mano
tutte festa il sembiante e foco il volto
queste due belle, e con parlar umano
poi che ’n schiera tra lor l’ebbero accolto,
n’andaro, ove s’aprí nel verde piano
di lieta gente un largo cerchio e folto,
ch’invitandolo seco al bel soggiorno
gli fe’ corona, anzi teatro intorno.
73.Non so se vere o vane, avean sembianze
tutti di damigelle e di garzoni.
Alternavan costor mute e mutanze,
raddoppiavan correnti e ripoloni,
lascivamente a le festive danze
dolci i canti accordando, ai canti i suoni.
Cetre, e salteri, e crotali, e taballi
ivan partendo in piú partite i balli.
74.Forati bossi e concavi oricalchi,
e rauche pive e pifferi tremanti
mostrano altrui come il terren si calchi
regolando con legge i passi erranti.
Per l’ampie logge e su i fioriti palchi
miransi cori di felici amanti
tagliar canari, essercitar gagliarde,
menar pavane, ed agitar nizzarde.
75.Precede lor la prima coppia, e questa
con piante maestrevoli e leggiere
guidatrice del ballo e de la festa
carolando sen va fra quelle schiere,
sí gaia in vista, e sovra’ piè sí presta,
che forse al suon de le rotanti sfere
soglion lassú men rapide e men belle
per le piazze del Ciel danzar le stelle.
76.Dicean tutti cantando: — O Dea beata,
o bella universal madre e nutrice,
con l’istessa Natura a un parto nata,
di quanto nasce originai radice,
per cui genera al mondo, e generata
ogni stirpe mortai vive felice;
felice teco in queste rive arrivi
quella beltá, per cui felici vivi.
77.Al tuo cenno le Parche ubbidienti
tiran le fila in vari stami ordite.
Dal tuo consiglio, in tua virtú crescenti
Natura impara a seminar le vite.
Per legge tua di sfere e d’elementi
stansi le tempre in bel legame unite.
Se non spirasse il tuo spirto fecondo,
i nodi suoi rallenterebbe il mondo.
78.Tu Ciel, tu terra, e tu conservi e folci
fiori, erbe, piante, e ne le piante il frutto.
Tu crei, tu reggi, e tu ristori e molci
uomini, e fere, e l’Universo tutto,
che senza i doni tuoi giocondi e dolci
solitario per sé fora, e distrutto;
ma mentre stato varia, e stile alterna,
la tua mercede, il suo caduco eterna.
79.Lumiera bella, che con luce lieta
de le tenebre umane il fosco allumi,
da cui nasce gentil fiamma secreta,
fiamma, onde i cori accendi e non consumi:
d’ogni mortai benefattor Pianeta,
gloria immortai de’ piú benigni Numi,
ch’altro non vuoi ch’a prò di chi l’ottiene
godere il bello, e possedere il bene.
80.Commessura d’Amor, Virtú ch’innesti
con saldi groppi di concordi amplessi
e le cose terrene, e le celesti,
e supponi al tuo fren gli Abissi istessi:
per cui con fertil copula contesti
vicendevol desio stringe duo sessi,
sí che, mentre l’un dona, e l’altro prende,
il cambio del piacer si toglie e rende. —
81.Con quest’inno devoto e questo canto
venne la turba a venerar la Dea
ballando sempre: e fatto pausa alquanto
al concerto dolcissimo, tacea.
Con Mercurio ed Amore Adone intanto
e con Venere altrove il piè movea,
quand’ecco a sé con non minor diletto
novello il trasse e disusato oggetto.
82.Un fiore, un fiore apre la buccia, e figlia,
ed è suo parto un biondo crin disciolto,
e dopo ’l crin con due serene ciglia
ecco una fronte, e con la fronte un volto.
Al principio però non ben somiglia
il mezo e ’l fin, ma differente è molto.
Vedesi a la beltá, che quindi spunta,
forma di stranio augello esser congiunta.
83.Tosto che ’n luce a poco a poco uscio
quel fantastico mostro a l’improviso,
non sorse in piè, ma del suo fior natio
restò tra l’erbe e tra le foglie assiso.
Occhio ha ridente, atto benigno e pio,
ha feminile e giovenile il viso.
Veston le spalle e ’l sen penne stellate,
fregian le gambe e i piè scaglie dorate.
84.Serpentina la coda al ventre ha chiusa,
lunata, e qual d’Arpia, l’unghia pungente.
Cela un amo tra’ fiori, onde delusa
tira l’incauta e semplicetta gente.
Tien di nèttare e mèl la lingua infusa,
che persuade altrui soavemente.
Cosí la bella Fera i sensi alletta,
Fera gentil, che la Lusinga è detta.
85.La Lusinga è costei. Lunge fuggite
o di falso piacer folli seguaci.
Non ha Sfinge o Sirena o piú mentite
parolette e sembianze, o piú sagaci.
Copron perfide insidie, aspre ferite
abbracciamenti adulatori, e baci.
Vipera e Scorpion, con arti infide
baciando morde, ed abbracciando uccide.
86.La chioma intanto, che ’n bei nodi involta
stringon con ricche fasce auree catene,
dal career suo disprigionata e sciolta
su per le membra a sviluppar si viene;
la qual può, tanto è lunga, e tanto è folta,
le laidezze del corpo adombrar bene;
sí che sotto le crespe aurate e bionde
tutti í difetti inferiori asconde.
87.De l’altrui vista, insidiosa e vaga,
ella o che non s’avide, o che s’infinse;
indi la voce incantatrice e maga
in note piú ch’angeliche distinse:
note in cui per far dolce incendio e piaga
Amor le faci e le quadrella intinse.
Uscir dolce tremanti udiansi fuori
i misurati numeri canori.
88.Tal forse intenerir col dolce canto
suol la bella Adriana i duri affetti,
e con la voce e con la vista intanto
gir per due strade a saettare i petti.
E ’n tal guisa Fiorinda udisti, o Manto,
lá ne’ teatri de’ tuoi regii tetti
d’Arianna spiegar gli aspri martiri,
e trar da mille cor mille sospiri.
89.Fermaro il corso i fiumi, il volo i venti,
e gli augelletti al suo cantar le penne.
Fuggí l’arbor di Dafni i bei concenti,
ché del canto d’Apollo a lei sovenne.
Apollo istesso i corridori ardenti,
vinto d’alta dolcezza, a fren ritenne.
E queste fur le lusinghiere e scòrte
voci, ov’accolta in aura era la morte:
90.— Voi che scherzando gite, Anime liete,
per la stagion ridente e giovenile,
cogliete con man provida cogliete
fresca la rosa in su l’aprir d’Aprile,
pria che quel foco, che negli occhi avete,
freddo ghiaccio divegna, e cener vile,
pria che caggian le perle al dolce riso,
e com’è crespo il crin, sia crespo il viso.
91.Un lampo è la beltá, l’etate un’ombra,
né sa fermar l’irreparabil fuga.
Tosto le pompe di Xatura ingombra
invida piuma, ingiuriosa ruga.
Rapido il Tempo si dilegua e sgombra,
cangia il pel, gli occhi oscura, il sangue asciuga.
Amor non men di lui veloci ha i vanni,
fugge co’ fior del volto il fior degli anni.
92.De’ lieti di la Primavera è breve,
né si racquista mai gioia perduta.
Vien dopo ’l verde con piè tardo e greve
la Penitenza squallida e canuta.
Dove spuntava il fior, fiocca la neve,
e colori e pensier trasforma e muta,
sí ch’uom freddo in Amor quelle pruine,
ch’ebbe dianzi nel core, ha poi nel crine.
93.Saggio colui, ch’entro un bel seno accolto
gode il frutto del ben che gli è concesso.
Ed oh stolto quel cor, né men che stolto
crudo, né men ch’altrui, crudo a se stesso,
cui quel piacer per propria colpa è tolto,
che vien sí raro, e si desia sí spesso.
Anima in cui d’Amor cura non regna,
o che non vive, o ch’è di vita indegna. —
94.Cigno che canti, Rossignuol che plori,
Musa o Sirena che d’Amor sospiri,
aura o ruscel che mormori tra’ fiori,
Angel che mova il plettro, o Ciel che giri,
non di tanta dolcezza innebria i cori,
lega i sensi talor, pasce i desiri,
con quanta la mirabile armonia
per l’orecchie al Garzone il cor feria.
95.Sparse vive faville in ogni vena
gli avea giá quella insolita beltade,
quando un raggio di Sol toccolla a pena,
che la disfece in tenere rugiade.
Oh diletto mortai, gioia terrena,
come pullula tosto, e tosto cade!
Vano piacer, che gli animi trastulla,
nato di vanitá, svanisce in nulla.
96.In questo mentre a piú secreto soglie
giá s’apre Adon con la sua bella il varco.
Giá di candido avorio uscio l’accoglie,
c’ha di schietto rubin cornice ed arco.
Tien di frutti diversi e fronde e foglie
il ministro che ’l guarda un cesto carco.
Fan de’ sapori, ond’egli ha il grembo onusto,
una Scinda ed un Orso arbitro il gusto.
97.Questi guidando Adon di loggia in loggia,
in una selva sua fa che riesca.
Fiangon quivi le fronde, e stillan pioggia
di celeste licor soave e fresca:
onde l’augel, che tra’ bei rami alloggia,
in un tronco medesmo ha nido ed ésca;
t-d a la cara sua prole felice
quella pianta ch’è culla, anco è nutrice.
98.Con certa legge e sempr’egual misura
qui tempra i giorni il gran Rettor del lume.
Non v’alterna giá mai tenor Natura,
né con sue veci il Sol varia costume.
Ma fa con soavissima mistura
gli ardori algenti, e tepide le brume.
Sparsa il bel volto di sereno eterno
ride la State, e si marita al Verno.
99.In ogni tempo, e non arato o culto,
meraviglie il terren produce e serba,
e nel prato nutrisce e nel virgulto
la matura stagion mista a l’acerba;
perché l’anno fanciullo e ’nsieme adulto
dona il frutto a la pianta, il fiore a l’erba;
tal che congiunto il tenero al virile
lussuria Ottobre, e pargoleggia Aprile.
100.Di fronde sempre tenere e novelle
l’orno, l’alno, la quercia il ciel ingombra;
piante sterili sí, ma grandi e belle,
di frutto in vece han la bellezza e l’ombra.
L’allòr non piú fugace, opache celle
tesse di rami, e ’n guisa il prato adombra
che per dar agli Amori albergo ed agio
par voglia d’arboscel farsi palagio.
101.Vi fan vaghe spalliere ombrosi e folti
tra purpurei rosai verdi mirteti.
Quasi per mano stretti e ’n danza accolti
ginebri e faggi, e platani ed abeti
si condensan cosí, ch’ordiscon molti
labirinti e ricovri ermi e secreti;
né Febo il crin, se non talor, v’asconde,
quando l’aura per scherzo apre le fronde.
102.Trionfante la Palma in fra lo spesso
popolo de le piante il capo estolle.
Piramide de’ boschi, alto il Cipresso
signoreggia la valle, agguaglia il colle.
Umidetto d’ambrosia il Fico anch’esso
mostra il suo frutto rugiadoso e molle,
che piangendo si sta tra foglia e foglia
chino la fronte, e lacero la spoglia.
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103.Da la madre ritorta e pampinosa
pende la dolce e colorita figlia,
parte fra’ tralci e fra le foglie ascosa,
parte dal Sole il nutrimento piglia.
Altra di color d’oro, altra di rosa,
altra piú bruna, ed altra piú vermiglia.
Qual acerba ha la scorza, e qual matura,
qual comincia pian piano a farsi oscura.
104.Scopre il Punico stelo il bel tesoro
degli aurei pomi di rossor dipinti.
Apre un dolce sorriso i grani loro
ne’ cavi alberghi in ordine distinti;
onde fa scintillar dal guscio d’oro
molli rubini, e teneri giacinti,
e quasi in picciol’Iride, commisti
sardonici, baiassi, ed ametisti.
103.Nutre il Sussin tra questi anco i suoi parti,
altri obliqui ne forma, altri ritondi,
quai di stilli’ di porpora consparti,
quai d’eben negri, e quai piú ch’ambra biond
Men pigro il Moro in sí beate parti
al verme Serican serba le frondi.
Havvi il Mandorlo aprico, ed havvi il Pome
che trae di Persia il suo legnaggio e ’l nome.
106.A l’opra naturai cultrice mano
con innesti ingegnosi aggiunse pregio,
indolcí l’aspro, incivilí l’estrano,
ornò ’l natio di peregrino fregio.
Congiunto al Cornio suo minor germano
fiammeggia il soavissimo Ciregio.
Nasce l’uva dal sorbo, ed adottato
da l’Arancio purpureo è il Cedro aurato.
107.Anzi, virtú d’Amor vie piú che d’Arte,
la men pura sostanza indi rimossa,
perché perfetta il frutto abbia ogni parte,
fa che le polpe sue nascan senz’ossa;
e tanto in lor di suo vigor comparte
che ciascun d’essi oltremisura ingrossa.
Il Pero, il Prun prodigioso, e ’l Pesco
vive in ogni stagion maturo e fresco.
108.Mostrando il cor fin ne le foglie espresso
preme il tronco fedel l’Edra brancuta.
Stringe il marito, e gli s’appoggia appresso
la Vite, onde la vita è sostenuta.
Vibra nel gelo Amor, nel vento istesso
la face ardente, e la saetta acuta.
L’acque accese d’Amor bacian le sponde,
e discorron d’Amor 1 ’aure e le fronde.
109.Tra que’ frondosi arbusti Adon sen varca,
e co’ Numi compagni oltre camina,
dove ogni pianta i verdi rami inarca,
quasi voglia abbracciar chi s’avicina;
e di frutti e di fior giá mai non scarca,
e del bel peso prodiga, s’inchina.
Piove nèttar l’Olivo, e l’Elce manna,
mèle la Quercia, e zucchero la Canna.
110.Qui son di Bacco le feconde vigne,
dove in pioggia stillante il vin si sugge.
Di candid’uve onusta e di sanguigne
quivi ogni vite si diffonde e strugge;
le cui radici intorno irriga e cigne
di puro mosto un fiumicel che fugge.
Scorre il mosto da l’uve e da le foglie,
e ’n vermiglio ruscel tutto s’accoglie.
111.S’accoglie in rivi il dolce umore, e ’n fiume
a poco a poco accumulato cresce,
e nutre a sé tra le purpuree spume
di color, di sapor simile il pesce.
Folle chi questo o quel gustar presume,
ché per gran gioia di se stesso n’esce:
ride, e ’l suo riso è sí possente e forte,
che la letizia alfin termina in morte.
112.Arbori estrane qui (se prestar fede
lice a tanto portento) esser si scrive
Spunta con torto e noderoso piede
il tronco inferior sovra le rive:
ma da la forca in sú quel che si vede
ha forma e qualitá di donne vive.
Son viticci le chiome, e i diti estremi
figliano tralci, e gettano racemi.
113.Dafni o Siringa tal fors’esser debbe
in riva di Ladone o di Peneo
quando l’una a Thessaglia e l’altra accrebbe
nova verdura ai boschi di Liceo.
Forse in forma sí fatta a mirar ebbe
sue figlie il Po nel caso acerbo e reo
quando a spegner le fiamme entro il suo fonte,
sinistrando il sentier, venne Fetonte.
114.Sotto le scorze ruvide ed alpestre
sentesi palpitar spirto selvaggio.
Soglion ridendo altrui porger le destre
e s’odon favellar greco linguaggio.
Ma che frutto si colga o fior silvestre
non senza alto dolor soffron l’oltraggio.
Bacian talor, lusingatrici oscene:
ma chi gusta i lor baci ebro diviene.
115.Con pampinosi e teneri legami
stringono ad or ad or quel Fauno e questo,
che non potendo poi staccar da’ rami
la parte genital, fanno un innesto.
Fansi una specie istessa, e di fogliami
veston le braccia e divien sterpo il resto,
verdeggia il crine, e con le barbe in terra
indivisibilmente il piè s’afferra.
116.Quanti favoleggiò Numi profani
l’etate antica, han quivi i lor soggiorni.
Lari, Sileni, e Semicapri, e Pani,
la man di tirso, il crin di vite adorni,
Genii salaci e rustici Silvani,
Fauni saltanti e Satiri bicorni,
e di ferule verdi ombrosi i capi
senza fren, senza vel Bacchi e Priapi.
117.E Menadi e Bassaridi vi scemi
ebre pur sempre, e sempre a bere acconce,
eh’intente or di Latini, or di Falerni
a votar tazze, ed asciugar bigonce,
ed agitate da’ furori interni
rotando i membri in sozze guise e sconce,
celebran l’Orgie lor con queste o tali
Fescennine canzoni e Baccanali:
118.— Or d’ellera s’adornino e di pampino
i Giovani, e le Vergini piú tenere,
e gemina ne l’anima si stampino
l’imagine di Libero e di Venere.
Tutti ardano, s’accendano, ed avampino
qual Semele, ch’ai folgore fu cenere:
e cantino a Cupidine ed a Bromio
con numeri poetici un encomio.
119.La cetera col crotalo e con l’organo
su i margini del pascolo odorifero,
il cembalo e la fistula si scòrgano
col zuffolo, col timpano, e col pifero;
e giubilo festevole a lei porgano,
ch’or Hespero si nomina, or Lucifero;
ed empiano con musica che crepiti
quest’isola di fremiti e di strepiti.
120.I Satiri con cantici e con frottole
tracannino di nèttare un diluvio.
Trabocchino di lagrima le ciottole
che stillano Pausilipo e Vesuvio.
Sien cariche di fescine le grottole,
e versino dolcissimo profluvio.
Tra frassini, tra platani, e tra salici
esprimansi de’ grappoli ne’ calici.
121.Chi cupido è di suggere l’amabile
del balsamo aromatico e del pevere,
non mescoli il carbuncolo potabile
col ICnodano, con l’Adige, o col Tevere,
ch’è perfido, sacrilego, e dannabile,
e gocciola non merita di bevere,
ehi tempera, chi ’ntorbida, chi ’ncorpora
co’ rivoli il crisolito e la porpora.
122.Ma guardinsi gli spiriti che fumano,
non facciano del cantaro alcun strazio,
e Canfore non rompano, che spumano,
giá gravide di liquido topazio;
che gli uomini ir in estasi costumano,
e s’áltera ogni stomaco ch’è sazio;
e ’l cerebro, che fervido lussuria,
piú d’Hercole con impeto s’infuria. —
123.Mentr’elle ivan cosí con canti e balli
alternando Evoè giolive e liete,
intente tuttavia negl’intervalli,
sgonfiando gli otri, ad innaffiar la sete:
passando Adon di queU’amene valli
ne le piú chiuse viscere secrete,
trovò morbida mensa, ed apprestati
erano intorno al desco i seggi aurati.
124.— Qui, bellissimo Adon, depor conviensi
ricominciò Cillenio — ogni altra cura.
Col ristoro del cibo uopo è che pensi
di risarcir, di rinforzar Natura.
E poi che ciascun giá degli altri sensi
in queste liete piagge ebbe pastura,
vuoisi il Gusto appagar, però che tocca
del diletto la parte anco a la bocca.
125.La bocca è ver, che de human sermone
(solo ufficio de l’uomo) è nunzia prima.
Concetto alcun non sa spiegar ragione,
che per lei non si scopra e non s’esprima:
Interprete divin, per cui s’espone
quanto nel petto altrui vuol che s’imprima
(e la voce è di ciò mezana ancella)
l’intelletto e ’l pensier di chi favella.
126.Ma serve ancora ad operar, che cresca
l’interno umor, né per ardor s’estingua;
a cui quando talor cibo rinfresca
fa credenziera e giudice la lingua;
né per la gola mai passa alcun’ésca,
ch’ivi prima il sapor non si distingua.
Fatto il saggio ch’ell’ha d’ogni vivanda,
in deposito al ventre alfin la manda.
127.E perché l’uom, ch’a le fatiche è lento,
ne l’operazion mai non si stanchi,
e non pascendo il naturai talento,
l’individuo mortai si strugga e manchi;
vuol chi tutto creò, che l’alimento
non sia senza il piacer, che lo rinfranchi,
onde questo con quel sempre congiunto
abbia a nutrirlo, e dilettarlo a un punto.
128.Notasti mai da quante guardie e quali
sia la Lingua difesa e custodita?
Perché da’ soffi gelidi brumali
del nevoso Aquilon non sia ferita,
quasi di torri, o pur d’antemurali
coronata è per tutto, e ben munita.
E perch’altro furor non la combatta,
sotto concavo tetto il corpo appiatta.
129.Da le fauci al palato in alto ascende,
quanto basta e convien, polputa e grossa.
Larga ha la base, e quanto piú si stende
s’aguzza in cima, ed è spugnosa c rossa.
Ha la radice, onde deriva e pende,
forte, perch’aggirar meglio si possa.
Volubilmente si ripiega e vibra,
muscolosa, nervosa, e senza fibra.
130.Dico cosí, che ’l Facitor sovrano
cotale ad altro fin non la costrusse,
se non perché del nutrimento umano,
che dal gusto provien, stromento fusse;
senza il qual uso, inutil fora e vano
quanto di dolce al mondo egli produsse.
E questa del tuo cor fiamma immortale
senza Cerere e Bacco è fredda e frale.
131.Cosí parla il Signor de l’eloquenza,
indi per mano il vago Adon conduce
lá dove pompa di reai credenza
veste i selvaggi orror di ricca luce.
Con bell’arte disposto e diligenza
l’oro e l’elettro in ordine riluce.
Di materia miglior poi vi si squadra
d’altre vasella ancor serie leggiadra.
132.Ma duo fra gli altri di maggior misura
d’un intero smeraldo Adon ne vide,
gemma d’Amor, che cede, e non s’indura
a lo scarpello, e col bel verde ride.
Non so se di sí nobile scultura
oggi alcun’opra il gran Bologna incide,
che i bei rilievi, e i dilicati intagli
qui da Dedalo fatti, in parte agguagli.
133.In un de’ vasi il simulacro altero
de la Diva del loco è sculto e finto,
ma sí sembiante è il simulato al vero,
che Tesser dal parer quasi n’è vinto.
11 sanguigno concetto, e ’l suo primiero
fortunato natal v’appar distinto.
Miracolo a veder, come pria nacque,
genitrice d’Amor, figlia de Tacque.
134.Saturno v’è, ch’ai proprio padre tronca
Toscene membra, e dálie in preda a Dori.
Dori l’accoglie in cristallina conca,
fatta nutrice de’ nascenti ardori.
Zefiro v’è, che fuor di sua spelonca
batte Tali dipinte a piú colori;
e del parto gentil ministro fido
sospinge il flutto leggiermente al lido.
135.Vedresti per lo liquido elemento
nuotar la spuma gravida e feconda,
poscia in oro cangiarsi il molle argento
e farsi chioma innanellata e bionda.
La bionda chioma incatenando il vento
serpeggia e si rincrespa, emula a l’onda.
Ecco spunta la fronte a poco a poco,
giá Tacque a’ duo begli occhi ardon di foco.
136.Oh meraviglia, e trasformar si scorge
in bianche membra alfin la bianca spuma!
Xovo Sol da l’Egeo si leva e sorge,
che ’l mar tranquilla, e l’aria intorno alluma:
Sol di beltá, ch’altrui conforto porge,
e dolcemente l’anime consuma.
Cosí Venere bella al mondo nasce,
un bel nicchio ha per cuna, alghe per fasce.
137.Mentre col piè rosato e rugiadoso
il vertice del mar calca sublime,
e con l’eburnea man del flutto ondoso
da Lauree trecce il salso umor s esprime,
gli abitator del pelago spumoso
lascian le case lor palustri ed ime,
e fan seguendo il lor ceruleo Duce
festivi ossequii a l’amorosa luce.
138.Palemon d’un Delfino il curvo tergo
preme vezzoso e pargoletto Auriga,
e balestrando un fuggitivo mergo,
fende i solchi del mar per torta riga.
Quanti Tritoni han sotto Tonde albergo,
altri accoppiati in mansueta biga
tiran pian pian la conca ov’ella nacque,
altri per altro affar travaglian Tacque.
139.Chi de l’obliquo corno a gonfie gote
fa buccinar la rauca voce al cielo.
Chi per sottrarla al Sol che la percote
le stende intorno al crin serico velo.
Chi volteggiando con lascive rote
le regge innanzi adamantino gelo,
e perché solo in sua beltá s’appaghi,
ne fa lucido specchio agli occhi vaghi.
140.Né di scherzar anch’elle in fra costoro
del gran Padre Nereo lascian le figlie,
ch’accolte in lieto e sollazzevol coro
cantano a suon di pettini e cocchiglie;
e porgendo le van succino ed oro,
candide perle, e porpore vermiglie.
Sí fatto stuol per l’umida campagna
la riceve, la guida, e l’accompagna.
141.Ne l’altro vaso, del suo figlio Amore
il nascimento effigiato splende.
Giá la vedi languir, mentre che l’ore
vicine omai del dolce parto attende,
ne la bella stagion, quand’entra in fiore
la terra, e novell’abito riprende.
Par che l’Alba oltre l’uso apra giocondo
il primo dí del piú bel mese al mondo.
142.Sovra molli origlieri e verdi seggi
la bella Dea per partorir si posa.
Par che rida la riva, e che rosseggi
presso il musco fiorito Indica rosa.
Par che l’onda di Cipro a pena ondeggi,
danzano i pesci in su la sponda erbosa.
Con pacifiche arene ed acque chiare
par senza flutto e senza moto il mare.
143.Per non farsi importuni i Zefiretti
a quelle dolcemente amare doglie,
stansi a dormir, quasi in purpurei letti,
de’ vicini roseti in fra le foglie.
Colgon l’aure lascive odori eletti
per irrigar le rugiadose spoglie,
spoglie bagnate di celeste sangue,
dove tanta beltá sospira c langue.
144.Pria che gli occhi apra al Sol, le labra al latte,
per le viscere anguste Amor saltante
precorre l’ora impetuoso, e batte
il sen materno con feroci piante:
e del ventre divin le porte intatte
s’apre e prorompe intempestivo infante.
Senza mano ostetrice ecco vien fuori,
ed ha fasce le fronde, e cuna i fiori.
145.Fuor del candido grembo a pena esposto,
le guizza in braccio, indi la stringe e tocca.
Pigolando vagisce, e corre tosto
su 1 urna metuca a conficcar la bocca.
Stillan le Grazie il latte, ed è composto
di mèl, qual piú soave Hibla mai fiocca.
Parte alternando ancor balia e mammelle,
da le Tigri è lattato, e da l’Agnelle.
146.Stame eterno al bambin le Filatrici
d’ogm vita mortai tiran cantando.
Van mansuete in su que’ campi aprici
le Fere piú terribili baccando.
Tresca il Leone, e con ruggiti amici
il vezzoso Torel lecca scherzando.
E con l’unghia sonora e col nitrito
lieto applaude il Destriero al suo vagito.
147.Bacia l’Agnel con innocente morso
acceso il Lupo d’amorosa fiamma.
La Lepre il Cane abbraccia, e l’ispid’Orso
la Giovenca si tien sotto la mamma.
L’aspra Pantera in su ’l vergato dorso
gode portar la semplicetta Damma.
E toccar il Dragon, ben che pungente,
del nemico Elefante ardisce il dente.
148.Mirasi Citherea che gli amorosi
scherzi ferini di mirar s’appaga,
e ride ch’animai tanto orgogliosi
sentan per un fanciullo incendio e piaga.
Par che sol del Cinghiai mirar non osi
gioco, festa o piacer, quasi presaga,
presaga che per lui tronca una vita,
ogni delizia sua le fía rapita.
149.’fai de’ vasi è il lavoro. Amor s’appiglia
a la maggior de le gemmate coppe,
poscia di quello stuol, che rassomiglia
le Semidee che si cangiaro in Pioppe,
per farne scaturir pioggia vermiglia
ad una con lo strai svena le poppe,
e fa che dal bel sen per cento spilli
odorato licor dentro vi stilli.
150.E tre volte ripiena, ad una ad una
tutte sorbille e propinò ridendo.
JNe bebbe una a Mercurio, a Vener una,
una a colui che la distrugge ardendo.
Cosí a ciascun ne dedicò ciascuna:
la prima a la Salute offrí bevendo,
l’altro vaso di vin colmo e spumoso
diede al Piacere, e l’ultimo al Riposo.
151.Cento Ninfe leggiadre e cento Amori,
cento Fauni ne l’opra abili e destri
quinci e quindi portando e frutti e fiori
son de la bella imbandigion maestri.
Qui con purpurea man Zefiro e Clori
votan di gigli e rose ampi canestri.
Lá Pomona e Yertunno han colmi e pieni
de’ lor doni maturi i cesti e i seni.
1 j2. Natura de le cose è dispensiera,
l’Arte condisce quel ch’ella dispensa.
Versa Amalthea, che n’è la Vivandiera,
del ricco corno suo la copia immensa.
Havvi le Grazie amorosette in schiera,
e loro ufficio è rassettar la mensa;
e vigilante in fra i ministri accorti
1! robusto Custode havvi degli orti.
153.Og™ sergente a prova, ed ogni serva
le portate apparecchia, e le vivande.
Altri di man d’Aracne e di Minerva
su i tronchi e per lo suol cortine spande.
Altri le tazze, acciò che Bacco ferva,
corona d’odorifere ghirlande.
Chi stende in su i tapeti 1 bianchi drappi,
chi vi pon gli aurei piatti, e gli aurei nappi.
154.Cosí per Hibla a la novella estate
squadra di diligenti api si vede,
che le lagrime dolci e dilicate
di Narciso e d’Aiace a sugger riede.
Poi ne le bianche celle edificate
vanno a ripor le rugiadose prede.
Altra a comporre il favo, ed altra schiera
studia dal mèle a separar la cera.
155.È tutta in moto la famiglia, or vanno
quei che curano il pasto, or fan ritorno.
Alcuni Amori a ventilar vi stanno
con ali aperte, e sferzan l’aure intorno.
Le quattro figlie del fruttifer Anno
per far in tutto il bel convito adorno
recan d’ogni stagion tributi eletti,
e son diverse d’abiti e d’aspetti.
156.Ingombra una di lor di fosco velo
la negra fronte e la nevosa testa.
Di condensato e cristallino gelo
stringe l’umido crin fascia contesta.
Qual nubiloso e folgorante cielo
minaccia il ciglio torbida tempesta
Copre il rugoso sen neve canuta,
calza il gelido piè grandine acuta.
157.Altra spirando ognor fecondo fiato
ride con giovenil faccia serena.
Un fiorito legame ed odorato
la sparsa chioma e rugiadosa affrena.
La sua vesta è cangiante, e variato
Iri di color tanti ha il velo a pena.
Va di verde cappello il capo ombrosa,
nel cui vago frontal s’apre una rosa.
158.L’altra, che ’ntorno al ministerio assiste,
par che di sete e di calore a vampi.
Ispida il biondo crin d’aride ariste,
tratta il dentato pettine de’ campi.
Secche anelan le fauci, arsicce e triste
fervon le guance, e vibran gli occhi lampi.
Umida di sudor, di polve immonda,
odia sempre la spoglia, ed ama l’onda.
159.Circonda il capo a l’ultima sorella,
che quasi calvo è poco men che tutto,
un diadema d’intorta uva novella,
di cedri e pomi e pampini costrutto.
Intessuta di foglie ha la gonnella,
di fronde il cinto, ed ogni groppo è frutto.
Stilla umori il crin raro, e riga intanto
di piovosa grondaia il verde manto.
160.Insieme con la Diva innamorata
Adone a la gran mensa il piè converse.
Amor paggio e scudier l’onda odorata
su le man bianche in fonte d’or gli asperse.
Amor scalco e coppier l’ésca beata
in cava gemma e ’l buon licor gli offerse.
Amor del pasto ordinator ben scaltro
pose a seder l’un Sole a fronte a l’altro.
161.Somigliavan duo Soli ed ella ed egli,
cui non fusser però nubi interposte;
e gían ne’ volti lor, come in duo spegli,
lampeggiando a ferir le luci opposte.
Dava costei sovente, e rendea quegh
di fiamma e di splendor colpi e risposte,
e con lucida ecclisse, e senza oltraggio
s’incontrava e rompea raggio con raggio.
162.Como Dio del piacer, piacevol Nume,
ch’a sollazzi ed a feste è sempre inteso,
per mitigar di que’ begli occhi il lume,
e del Sole importuno il foco acceso,
con due smaltate e gioiellate piume
di bel Pavon, che tra le mani ha preso,
l’aere agitando in lieve moto e lento
tra i piú fervidi ardor fabrica il vento.
163.Mercurio è quei che mesce, e che rifonde
ne l’auree conche i preziosi vini.
Amor rinfresca con le Iimpid’onde
l’idrie lucenti e i vasi cristallini.
L’un e l’altro gli terge, e poi gli asconde
nel piú denso rigor de’ geli alpini,
le vicende scambiando or questo, or quello
nel servire or di coppa, or di coltello.
164.Traboccan qui di liquid’oro, e gravi
di stillato ametisto, urne spumanti.
Tengon gemme capaci i ventri cavi
di rugiada vital colmi e brillanti.
Sangue giocondo, e lagrime soavi,
che non péste versar l’uve pregnanti,
onde di Cipro le feconde viti
soglion dolce aggravar gli olmi mariti.
165.La bella Dea di nèttare vermiglio
rugiadoso cristallo in man si strinse.
Libollo, e con dolce atto, e lieto ciglio
nel bel rubino i bei rubini intinse.
Poi di vergogna, il semplicetto giglio
violando di rosa, il volto tinse,
e l’invitò, póstogli il vaso innanzi,
parte a gustar de’ generosi avanzi.
166.Il bel Garzon, ch’ingordamente assiso
presso quell’ésca, onde la vita ei prende,
tutto dal vago e dilicato viso,
l’altra spesso obliando, intento pende,
e con guardo a nutrir cupido e fiso
men la bocca che gli occhi avido intende,
v’immerge il labro, e vi sommerge il core,
e resta ebro di vin, ma piú d’amore.
27
167.Mentre son del gran pasto in su ’l piú bello,
ecco Momo arrivar quivi si vede,
Homo Critico Nume, arco e flagello,
che gli uomini c gli Dei trafige e fiede.
Ciò ch’egli cerchi, e qual pensier novello
tratto l’abbia dal Ciel, Yener gli chiede;
e perché volentier scherza con esso,
sei fa seder, per ascoltarlo, appresso.
168.— Vo — rispose lo Dio — tra queste piante
de la Satira mia tracciando Torme,
de la Satira mia, che poco avante
ha di me generato un parto informe;
parto ne le fattezze e nel sembiante
sí mostruoso, orribile, e difforme,
che se non fusse il suo sottile ingegno,
lo stimerei di mia progenie indegno.
169.Ma la vivacitá mio figlio il mostra
e lo spirto gentil ch’io scorgo in lui,
e quel ch’è proprio de la stirpe nostra,
la libertá del sindicare altrui:
onde meco del par contende e giostra,
che pur sempre del vero amico fui,
e mentir mai non volli, e mai non seppi
chiuder la lingua tra catene e ceppi.
170.La lingua sua vie piú che spada taglia,
la penna sua vie piú che fiamma coce.
Con acuta favella il ferro smaglia,
e con ardente stil fulmina e nóce;
né contro i morsi suoi morso è che vaglia,
né giova schermo incontro a la sua voce.
Indomito animale, estranio mostro,
ch’altro non ha che ’l fiato, e che l’inchiostro.
171.Non ha piè, non ha stinchi ond’ei si regga,
ha l’orecchie recise e ’l naso monco.
lo non so come scriva e vada e segga,
ch’è storpiato e smembrato, e zoppo e cionco.
Ma ben che cosí rotto egli si vegga,
che del corpo gli resta a pena il tronco,
non pertanto l’audacia in lui si scema:
poi che sol de la lingua il mondo trema.
172.Tal qual è, senza piante e senza gambe,
ne’ secoli futuri e ne’ presenti,
de le man privo e de le braccia entrambe,
l’Universo però fia che spaventi.
Quai piaghe ei faccia, il saprá ben Licambe,
che còlto da’ suoi strali aspri e pungenti,
ili desperato laccio avinto il collo,
dará di propria man l’ultimo crollo.
173.Gran cose ha di costui Febo indovino
e previste e predette agli altri Numi.
Pronosticò che nome avrá Pasquino,
correttor de le genti e de’ costumi:
che per terror de’ Principi il destino
gli dará d’eloquenza e mari e fiumi:
e ch’imitarlo poi molti vorranno,
ma non senza periglio e senza danno.
174.Nemico è de la Fama e de la Corte,
lacera i nomi, e d’adular non usa;
in ferir tutti è simile a la Morte,
s’io lui riprendo, egli me stesso accusa,
con dir che ’l mio dir mal non è di sorte
che la malizia altrui resti confusa.
Che piú? non ch’altri, il gran Monarca eterno
nota, punta, ripicca, e prende a scherno.
LE DELIZIE
42°
175.[ fanciulli rapiti e le donzelle
non sol di rinfacciargli ardisce ed osa,
ma pon ne l’opre sue divine e belle
anco la bocca, e biasma ogni sua cosa.
Trova degli elementi e de le stelle
imperfetta la mole, e difettosa,
ogni parola impugna, emenda ogni atto,
e si beffa taior di quanto ha fatto.
176.Dá menda al mar c’ha i venti e le tempeste,
a la terra, che trema e che vacilla,
a l’aria, che di nuvoli si veste,
ed al foco, che fuma e che sfavilla.
Appone a la gran machina celeste
che maligne influenze infonde e stilla,
ch’altra luce si move, altra sta fissa,
che la Luna è macchiata, e ’l Sol s’ecclissa!
177.E non pur di colui che ’l tutto regge,
ma prende a mormorar de la Natura.
Dice, ch’altrui vii femina dar legge
non dee, né dee del mondo aver la cura.
La detesta, la danna, e la corregge,
e ’l lavoro de Tuoni tassa e censura,
che non die, ché non fe’, sciocca maestra,
al tergo un occhio, al petto una finestra.
178.Per questo suo parlar libero e schietto
Giove dal Ciel l’ha discacciato a torto.
Gli fe’ com’al tuo sposo, e per dispetto,
se non fusse immortai, l’avrebbe morto.
Precipitato dal superno tetto,
restò rotto e sciancato, e guasto e torto.
Ma perché pur co’ detti altrui fa guerra,
poco meglio che ’n Cielo è visto in terra
179.Su le sponde del Tebro, ov’egli meno
credea che ’l vizio e ’l mal regnar devesse,
per dar legge al suo dir, ch’è senza freno,
tra bontate e virtute, albergo elesse.
Ma non cessò di vomitar veleno,
né però piú eh’altrove ei tacque in esse;
se ben malconcio, e senza un membro intero,
provò che l’odio alfín nasce dal vero.
180.Se tu vedessi (o Dea) l’aspre ferite
c’ha per tutte le membra intorno sparte,
diresti che con Hercole ebbe lite,
o ch’a guerra in steccato entrò con Marte!
Ch’o sien vere l’accuse, o sien mentite,
ogni Grande aborrir suol la nostr’arte;
e perdendone alfín la sofferenza,
non voglion comportar tanta licenza.
181.Alcun ben ve ne fu che se ne rise,
e di suo motteggiar poco gli calse:
però ch’egli è faceto, e ’n varie guise
sa novelle compor veraci e false;
ben che l’arguzie sue giá mai divise
non sien da le punture amare e salse.
Lecca talor piacevolmente, e scherza,
nondimen sempre morde, e sempre sferza.
182.Ma costoro ch’io dico, i quali in pace
lo lasciali pur gracchiar quant’egli vole,
sapendo per natura esser loquace,
e che pronte ha l’ingiurie e le parole,
che per rispetto o per timor non tace,
e ch’irritato piú, piú garrir suole,
son pochi e rari, ed han sinceri i petti,
né temon ch’altri scopra i lor difetti.
183.E certo io non so giá, s’è lor concesso
gli encomii udir d’adulator ch’applaude,
perché non deggian poi nel modo istesso
il biasmo tollerar, come la laude.
E s’ai malvagi è d’operar permesso
ogni male a lor grado, ed ogni fraude,
perché non lice ancor con pari ardire,
come ad essi di fare, altrui di dire?
184.Io per me (bella Dea) perch’altri offeso
si tenga dal mio dir, scoppiar non voglio;
ma né turbarsi giá chi n’è ripreso,
né sentir ne devria sdegno o cordoglio:
perché qualor, pur come foco acceso,
o rasoio crudel, la lingua scioglio,
con pietoso rigor di buon Chirurgo
arder mostro e ferir, ma sano e purgo.
185.Or essendo il meschino in terra e ’n Cielo
per tal cagion perseguitato tanto,
io, che pur l’amo con paterno zelo,
supplico il Nume tuo cortese e santo
ch’appo la Fonte dal gran Re di Deio
de’ Cigni tuoi giá consacrata al canto,
lá de Tacque immortali in su la riva
ti piaccia acconsentir ch’alberghi e viva.
186.Solo in quell’isoletta amena e lieta,
che d’ogni insidia è libera e secura,
potrá vita menar franca e quieta,
e scriver e cantar senza paura.
Ei se ben non è Cigno, è tal Poeta
che meritar ben può questa ventura
d’esser ascritto in fra que’ scelti e pochi:
ma non sia chi l’attizzi, o chi ’l provochi!
187.S’egli avien che talor d’ira s’infiammi,
invettive e libelli usa per armi,
iambi talor saetta ed epigrammi,
talor satire vibra ed altri carmi.
Stupir sovente insieme e rider fammi
quando vien qualche versi a recitarmi
contr’un, che celebrar volse il Colombo,
e d’india, in vece d’òr, riportò piombo.
188.Per impetrar da te questa dimanda
d’esser ammesso in quel felice coro,
una fatica sua bella ti manda,
da cui scorger potrai, s’ha stil canoro,
e s’egli degno è pur de la ghirlanda
ch’altrui circonda il crin di verde alloro.
In questo libro, che qui meco ho io,
punge (fuor che te sola) ogni altro Pio.
189.Ogni altro Dio da la sua penna è tocco,
fuor che sol tu, cui sacra il bel presente.
Narra gli onor del tuo marito sciocco,
e qualche prova ancor di quel valente,
che de l’asta malgrado e de lo stocco
so che del cor t’è uscito, e de la mente;
u se non ch’oggi ad altro intenta sei,
leggerne almeno un saggio a te vorrei. —
190.— Qual trastullo maggior — Ciprigna disse —
dar ne potresti in fra quest’ozii nostri,
che farne udir di lor quanto ne scrisse
spirto sí arguto in suoi giocosí inchiostri?
qual cosa che piú grata or ne venisse
esser potea de l’opera che mostri?
Ma per meglio ascoltar ciò che tu leggi,
ti vogliam dirimpetto ai nostri seggi. —
191.Allor tra varia turba ascoltatrice
assiso incontro ai duo beati amanti,
d’oro fregiato l’orlo e la cornice,
si pose Momo un bel volume avanti.
“ Le Vergogne del Cielo ”, il titol dice,
e diviso è il Poema in molti Canti;
ma fra molti un ne sceglie, indi le rime,
in questa guisa incominciando, esprime:
192.— Piú volte ai dolci lor furti amorosi
ritornati eran giá Venere e Marte,
credendo a tutti gli occhi esser ascosí,
tanta avean nel celarsi industria ed arte.
Ma ’l Sol, che i raggi acuti e luminosi
manda per tutto, e passa in ogni parte,
ne la camera entrò, che ’n sé chiudea
lo Dio piú forte e la piú bella Dea.
193.Veggendogli d’Amor rapire il frutto
seno a seno congiunti, e labro a labro,
tosto a Vulcano a riferire il tutto
n’andò ne l’antro affumigato e scabro.
Batter sentissi al caso indegno e brutto
vie piú grave e piú duro il torto fabro,
di quel ch’egli adoprava in Mongibello,
su l’incudin del core altro martello!
194.Non fu giá tanto il Sol col divin raggio
mosso per zelo a palesar quell’onte,
quanto per vendicar con tale oltraggio
la saetta ch’uccise il suo Fetonte:
che quando al troppo ardito e poco saggio
Garzon, ch’ei tanto amò, feri la fronte,
non men ch’ai figlio il corpo, al genitore
trafisse di pietá l’anima e ’l core.
195.Poi che distintamente il modo e ’l loco
de l’alta ingiuria sua da Febo intese,
nel petto ardente de lo Dio del foco
foco di sdegno assai maggior s’accese.
Temprar ne l’ira sua si seppe poco
colui che tempra ogni piú saldo arnese.
De’ fulmini il maestro a l’improviso
fulminato restò da quell’aviso.
196.Vassen lá dove de’ Ciclopi ignudi
a la fucina il rozo stuol travaglia.
Fa percosse sonar le curve incudi,
dá di piglio a la lima, a la tanaglia,
e ponsi a fabricar con lunghi studi
pieghevol rete di minuta maglia.
D’un infrangibil filo adamantino
la lavorò l’artefice divino.
197.Di quel lavor la maestria fabrile
se sia diamante o fi] mal s’argomenta.
Xon men che forte, egli Tordi sottile,
la fe’ sí molle, e dilicata, e lenta,
che di filar giá mai stame simile
l’emula di Minerva indarno tenta;
e quantunque con man si tratti e tocchi,
mvisibil la trama è quasi agli occhi.
198.Con arte tale il magistero è fatto
ch’ancor ch’entrino i duo tra que’ ritegni,
pur che non facciali sforzo, in quanto al tatto
non si discopriran gli occulti ingegni:
ma se verran con impeto a quell’atto
che suol far cigolar dintorno i legni,
tosto che ’l letto s’agita e scompiglia,
la rete scocca, e al talamo s’appiglia.
199.Uscito poi de la spelonca nera,
zoppicando sen corre a porla in opra.
Ne la stanza l’acconcia in tal maniera,
ch’impossibil sará che si discopra.
Ne’ sostegni di sotto a la lettiera,
ne le travi del palco anco di sopra,
per le cortine in giro ei la sospende,
e tra le piume la dispiega e stende.
200.Quand’egli ha ben le benconteste sete
disposte intorno in sí sagaci modi
che discerner alcun de le secrete
fila non può gl’insidiosi nodi,
lascia l’albergo, e de la tesa rete
dissimulando le nascoste frodi,
spia l’andar degli amanti, e ’l tempo aspetta
de la piacevol sua strana vendetta.
201.Usò per affidargli astuzia e senno
senza punto mostrar l’ira che l’arse.
Fe’ correr voce ch’ei partia per Lenno,
e ’l grido ad arte per lo Ciel nc Sparse.
Udita la novella, al primo cenno
nel loco usato vennero a trovarse,
e per farlo di Dio divenir Bue,
nel dolce arringo entrarono ambidue.
202.Sí tosto che la cuccia il peso grave
de’ duo nudi Campioni a premer viene,
prima eh’ancor si sieno a la soave
pugna amorosa apparecchiati bene,
la machinata trappola la chiave
volge, che porge il moto a le catene:
fa suo gioco l’ordigno, e ’n que’ diletti
rimangono i duo rei legati e stretti.
203.L’ordito intrico in guisa tal si strinse,
e sí forte dintorno allor gl’involse,
che per scoter colui non se ne scinse,
per dibatter costei non se ne sciolse.
Or poi ch’entrambo aviticchiati avinse
e ’n tal obbrobrio a suo voler gli colse,
de l’aguato in cui stava uscito il zoppo,
prese la corda, ov’atteneasi il groppo.
204.De la perfida rete il capo afferra,
indi del chiuso albergo apre le porte,
tira le coltre, il padiglion disserra.
e convoca del Ciel tutta la Corte:
e col Re de’ guerrieri entrata in guerra
scoprendo lor la disleal consorte
avinta di durissima catena,
fa de le proprie infamie oscena scena
203.«Deh venite a veder, se piú vedeste»
altamente gridava «opre mai tali!
L’Eroe divino, il Capitan celeste
ditemi è quegli lá, Divi immortali?
l’imprese sue terribili son queste?
questi i trofei superbi e trionfali?
Ecco le palme gloriose e degne,
le spoglie illustri, e l’onorate insegne!
206.Gran Padre e tu, che l’Universo reggi,
Vienne a mirar la tua pudica prole!
Cosí serba Himeneo le sacre leggi?
tali ignominie il Ciel permetter suole?
E che fa dunque Astrea negli alti seggi,
se punir i colpevoli non vole?
Son cose tollerabili? son atti
degni di Deitá scherzi sí fatti?
207.Ama la figlia tua questo soldato
sano, gagliardo, e di giocondo aspetto,
e perché va pomposo, e ben ornato,
di giacersi con lui prende diletto.
Schiva il mio crin malculto e rabbuffato,
del mio piè diseguale odia il difetto,
l’arsiccio volto aborre, e con disprezzo
mi schernisce talor, s’io Tacca rezzo.
208.Se zoppo mi son io, tal qual mi sono,
Giove e Giunon mi generaste voi!
E generato forse agile e buono,
perché dal Ciel precipitarmi poi?
Se pur volevi, o gran Kettor del tuono,
sotto giogo perpetuo accoppiar noi,
non devevi cosí prima sconciarmi,
o non devevi poi genero farmi.
209.La colpa non è mia dunque, se guasti
del piede í nervi e le giunture ho rotte.
Se rozo, e senza pompe, e senza fasti
tinta ho la faccia di culor di notte,
tu sei, che colaggiú mi confinasti,
abitator de le Sicane grotte.
Ma s’ancor quivi io ti ministro e servo,
non meritai di trasformarmi in Cervo!
210.Deve per questo la mia bella moglie,
bella, ma poco onesta, e poco fida,
qualora a trarsi le sfrenate voglie
cieco appetito la conduce e guida,
punto ch’io metta il piè fuor de le soglie,
e da lei m’allontani e mi divida,
puttaneggiando dentro il proprio tetto,
disonorare il maritai mio letto?
211.Deve per tutto ciò negli altrui deschi
cibo cercar la meretrice infame,
dovunque il figlio a satollar l’adeschi
de l’ingorda libidine le brame?
lo pur al par de’ piú robusti e freschi
credo vivanda aver per la sua fame:
ché dove un membro è difettoso e manca,
altra parte supplisce intera e franca!
212.Ma non so se ’n tal gioco averrá mai
ch’ella piú mi tradisca, e che m’offenda.
Cosí (perfida e rea!) cosí farai
de’ tuoi dolci trastulli amara emenda,
fin che la dote, ond’io stolto comprai
le mie proprie vergogne, a me si renda.
Poi per commun quiete il Re superno
vo’ che faccia tra noi divorzio eterno.
213.Or mirate (vi prego), alme divine,
gli altrui congiunti ai vituperi miei,
s’io fui ben cauto, e s’io fui buono alfine
uccellatore e pescator di Dei!
Dite s’anch’io so far prede e rapine,
come l’empio figliuol sa di costei.
Veggiasi chi di noi mastro piú scaltro
sia di reti e di lacci, o l’uno, o l’altro.
214.So che lieve è la pena, e che ’l mio torto
vie piú palese in tal castigo appare.
Ma le corna, ch’ascose in grembo porto,
vo’ pormi in fronte manifeste e chiare,
pur ch’io riceva almen questo conforto
di far la festa publica e vulgare!
Voglio la parte aver del piacer mio,
e poi che ride ognun, ridere anch’io».
215.Mentr’ei cosí dicea, tutti coloro
ch’a la favola bella eran presenti,
il teatro del Ciel facean sonoro
con lieti fischi e con faceti accenti,
e diceano additandogli fra loro
di sí novo spettacolo ridenti:
«Ve’ come il tardo alfín giunse il veloce,
ve’ come fu dal vii domo il feroce!»
216.Oh quanti fur Dei giovinetti, oh quanti,
ch’inaviditi di sí dolce oggetto,
in rimirando i duo celesti amanti
che staccar non potean petto da petto,
vie piú d’invidia assai tra’ circostanti
che di riso in quel punto ebber suggetto,
e per participar di que’ legami,
curato non avrian d’esser infami!
217.Recato avriansi a gran ventura molti
spettatori del caso e testimoni,
piú volentieri allor, ch’esser disciolti,
come lo Dio guerrier farsi prigioni.
Restar tra nodi sí soavi involti
voluto avrian (non ch’altri) i duo vecchioni,
Titon dico, e Saturno, i freddi cori
accesi anch’essi d’amorosi ardori.
218.Pallade e Cinthia, verginelle schive,
tenner gran pezza in lor lo sguardo fiso,
poi da cose sí sozze e sí lascive
torsero in lá, tinte di scorno, il viso.
Giunon, Diva maggior de l’altre Dive,
non senza un gentilissimo sorriso,
coprissi il ciglio con la man polita,
ma giocava con l’occhio in fra le dita.
19.Vergognosetta d’un ludibrio tanto
la Dea d’Amor, ch’i membri alabastrini
non avea da coprir velo né manto,
tenea bassa la fronte, e gli occhi chini.
Intorno al corpo immacolato intanto
sparsi i cancelli de’ legami fini.
Graticolando le sembianze belle,
diviso aveano un Sole in molte stelle.
20.Bravò lo Dio del ferro, e si contorse
quando il forte lacciuol prima annodollo,
romper col suo valor credendo forse
e stracciar que’ viluppi ad un sol crollo;
ma poi che prigioniero esser s’accorse,
né poterne ritrar le braccia e ’l collo,
anch’ei, ben che di rabbia enfiato e pieno,
a pregar cominciò, come Sileno.
21.Vulcan tien tuttavia la rete chiusa,
né scioglie il nodo, né rallenta il laccio,
ché l’infida moglier cosí delusa
vuol ch’ivi al drudo suo si resti in braccio.
Intercede ciascuno, ed ei ricusa
di liberargli dal noioso impaccio.
Pur del vecchio Nettun consente a’ preghi,
che la coppia impudica alfin si sleghi.
22.Dassi a lo Dio che ne le piante ha l’ale
cura d’aprir quell’ingegnosa gabbia,
ed ei non intraprende ufficio tale
per cortesia, né per pietá che n’abbia,
ma perché de l’Adultera immortale,
che di vergogna e di dispetto arrabbia,
sciogliendo il nodo che l’avolge e chiude,
spera palpar le belle membra ignude.
223.Oltre che d’acquistarsi ei fa disegno
l’arredo indissolubile e tenace,
dico la rete, che con tanto ingegno
fu giá d’Etna tessuta a la fornace,
solo per poter poi con quel ritegno
prender per l’aria doride fugace:
doride bella, che volando suole
precorrer l’Alba a lo spuntar del Sole.
224.Scatenato il campion con la diletta,
l’una piangea de’ vergognosi inganni,
minacciò l’altro con crudel vendetta
di ristorar d’un tant’affronto i danni.
Sorsero alfín confusi, e per la fretta
insieme si scambiár l’armi co’ panni:
questi il Vago vestí, quelle l’amica,
Marte la gonna, e Vener la lorica. —
223.Volea l’istoria del successo intero
Momo seguir, poi che fur colti in fallo,
e dir come di giovane guerriero
fu trasformato Alettrione in gallo,
che del Duce di Thracia essendo usciero,
guernito d’armi e carco di metallo,
qual fida spia, qual sentinella accorta,
fu da lui posto a custodir la porta:
226.ma perché ’l sonno il vinse, e non ben tenne,
per guardarsi dal Sol, la mente desta,
tal qual trovossi a punto, augel divenne,
con lo sprone al tallon, con l’elmo in testa.
I ricchi arnesi si mutaro in penne,
il superbo cimier cangiossi in cresta;
ed or meglio vegghiando in altro manto,
accusa il suo venir sempre col canto.
227.E questo ed altro ancor legger volea,
ma sdegnoso girò Venere il guardo,
e, per lanciarlo, un nappo alzato avea,
e ’l colpía, s’a fuggire era piú tardo.
— Sfacciato detrattor — disse la Dea —
cosí mi loda il tuo figliuol bugiardo?
Canti le proprie, e non l’altrui vergogne,
inventor di calunnie, e di menzogne! —
228.Di ciò Mercurio, che con gli altri intorno
stavalo ad ascoltar, si rise molto,
e quando la mirò d’ira e di scorno,
piú che foco soffiato, accesa in volto,
di quel selvaggio e rustico soggiorno
desv’iando l’amico entro il piú folto,
il sottrasse al furor de l’alta Diva,
che ne fremea di rabbia e n’arrossiva.
229.Era quivi Thalia fra l’altre ancelle,
pur come Citherea nata di Giove,
che le Grazie e le Muse avea sorelle,
una de le tre Dive, e de le nove.
Piú soave di lei tra queste o quelle
o la lingua o la mano altra non move.
Thalia ninfa de’ mirti e degli allori,
Thalia dotta a cantar teneri amori.
230.Costei d’avorio fin curvo stromento
recossi in braccio, e giunta innanzi a loro,
degli aurei tasti in suon dimesso e lento
tutto pria ricercò l’ordin sonoro,
indi con pieno, chiaro, alto concento
scoccò dolce canzon da l’arco d’oro,
e fur pungenti sí, ma non mortali
le note a chi l’udí ferite e strali.
2S
231.Saggia Thalia, che ’n su ’l fiorir degli anni
fosti de’ miei pensier la cura prima,
e meco i molli e giovenili affanni,
non senza altrui piacer, cantasti in rima;
tu lo mio stile debile su i vanni
al Ciel solleva, onde i tuoi detti esprima.
Sveglia l’ingegno, e con celeste aita
movi al canto le voci, al suon le dita.
232.— A m o r è fiamma, che dal primo e vero
foco deriva, e ’n gentil cor s’apprende,
e rischiarando il torbido pensiero
altrui sovente il desir vago incende;
e scòrge per drittissimo sentiero
l’anima al gran principio ond’ella scende,
mostrandole quaggiú quella che pria
vide lassú, bellezza e leggiadria.
233.Amor desio di bel, virtú che spira
sol dolcezza, piacer, conforto e pace,
toglie al cieco Furor l’orgoglio e l’ira,
gli fa l’armi cader, gelar la face.
11 forte, il fier, che 1 quinto cerchio aggira,
a le forze d’Amor vinto soggiace.
Unico autor d’ogni leggiadro effetto,
sommo ben, sommo bel, sommo diletto.
234.Ardon lá nel beato alto soggiorno
ancor d’eterno amor l’eterne Menti.
Son catene d’Amor queste, che ’ntorno
stringon sí forte il Ciel, fasce lucenti.
E questi lumi, che fan notte e giorno,
son del lor fabro Amor faville ardenti.
Foco d’Amor è quel ch’asciuga in Cielo
a la gelida Dea l’umido velo.
235.Ama la Terra il Cielo, e ’l bel sembiante
mostra ridente a lui che l’innamora,
e sol per farsi cara al caro amante
s’adorna, il sen s’ingemma, il crin s’infiora,
i vapor da le viscere anelante,
quasi a lui sospirando, essala ognora.
1 rauchi suoni, i crolli impetuosi
gemiti son d’Amor, moti amorosi.
236.Né giá l’amato Cielo ama lei meno,
che con millocchi sempre la vagheggia.
A lei piagne piovoso, a lei sereno
ride, e sospira a lei quando lampeggia.
lrrigator del suo fecondo seno,
in vicende d’Amor seco gareggia,
e fa ch’ella poi gravida germoglio
piante e fior, frutti e fronde, erbette e foglie.
237.Qual sí leggiero o sí veloce l’ale
spiega per l’ampio ciel vago augelletto,
cui de l’alato Arder l’alato strale
e non giunga, e non punga insieme il petto?
qual pesce guizza in fredtlo stagno? o quale
cova de’ fiumi il cristallino letto,
cui non riscaldi Amor, ch’entro per Tonde
vivi del suo bel foco i semi asconde?
238.Nel mar, nel mare istesso, ove da Theti
ebbe la bella madre umida cuna,
piú che del Pescator, d’Amor le reti
han forza, e regna Amor piú che Fortuna.
E perché da Pittori e da Poeti
ignudo è finto, e senza spoglia alcuna,
se non perché sott’acqua a nuoto scende,
e del suo foco i freddi Numi accende?
1 39. Segue il suo maschio per le vie profonde
la smisurata e ruvida Balena.
Va dietro a la sua femina per Fonde
ondeggiando il Delfm con curva schiena.
Qui con lingua d’Amor muta risponde
a l’Angue lusinghier l’aspra Murena.
Lá con nodi d’Amor saldi e tenaci
porge una Conca a l’altra Conca i baci.
240.Vmano l’Acque istesse. Elle sen vanno
al fonte originai, ch’a sé le ’nvita;
e s’al bel corso, che lasciar non sanno,
è precisa la via piana e spedita,
tal con forza amorosa impeto fanno,
che s’apron rotti gli argini l’uscita.
In seno il mar l’accoglie, e ’n lor trasfonde
prodigamente il proprio nome, e Fonde.
241.
Ricetta il Tortorei con la compagna
(bello essempio di fede) un ramo, un nido.
1 lá 11 poi ViCIl
mcn l’altra ’,írrn ’ 1
e fère il Ciel di doloroso strido.
La Colomba gentil non si scompagna
dal consorte giá mai diletto e fido:
coppia in cui si mantien semplice e pura
l’innocenza d’Amore e di Natura.
24 2. Teme il Cigno d’Amor la face ardente
vie piú che ’l foco de l’eterna sfera,
e piú d’Amor l’artiglio aspro e pungente
che de l’Aquila rapida e guerrera.
L’Aquila ancor del fulmine possente
ministra, e d’ogni augel Reina altera,
noi teme meno, anzi d’altrui predace
fatta preda d’Amor, d’Amor si sface.
243.11 fier Leon con la Leonza invitta
Amor sol vince ed al suo giogo allaccia.
Piú da l’aurato strai geme trafitta
l’Orsa crudel, che da lo spiedo in caccia.
Fa vezzi al Tigre suo la Tigre afflitta.
lo qual co’ piè levati alto l’abbraccia,
l’osa il Destrier non trova, e par che piene
sol del foco del core abbia le vene.
244.Spira accesa d’Amor tosco amoroso
la Vipera peggior d’ogni altra biscia.
Fila per allettar l’Aspe orgoglioso
d’oro si veste, e ’ncontra al Sol si liscia.
Corregli in grembo, e lo scaldato sposo
seco insieme si stringe, e seco striscia.
Son baci i morsi, e sí gl’irrita Amore
che di piacer l’un morde, e l’altro more.
245.Dal suo Monton non lunge, a piè d’un lauro,
mentr’ei pugna per lei, stassi l’Agnella,
e per dargli al travaglio alcun restauro,
se riede vincitor, gli applaude anch’ella.
Arde il robusto e giovinetto Tauro
per la Giovenca sua vezzosa e bella,
e ne’ tronchi per lei l’armi ritorte
aguzza, e sfida il fier rivale a morte.
246.Xon ch’altro, i tronchi istessi, i tronchi, i tralci
senton dolci d’Amor nodi e ferite.
Chi può dir com’agii Olmi e confai’ Salci
l’Edra sempre s’abbarbichi, e la Vite?
E chi non sa, che se con scuri o falci
da spietato boschier son disunite,
lagrimando d’Amor cosí recise,
si lagnan de la man che l’ha divise?
247.Fronda in ramo non vive, o ramo in pianta,
cui non sia dato entro la ruvid’alma
sentir quella virtú feconda e santa
che con nodo reciproco le ’ncalma.
Con sibili amorosi Amor si vanta
far sospirare il Frassino e la Palma.
Baciansi i Mirti, e con scambievol groppo
Alno ad Alno si sposa, e Pioppo a Pioppo.
248.Ma qual sí dura o gelida si trova
cosa quaggiú, che ferro agguagli o pietra?
La pietra e ’l ferro ancor baciansi a prova,
né dal rozo seguace ella s’arretra.
Da viva pietra, ov’altri il tratti e mova,
vive d’Amor faville il ferro spetra;
e ’l ferro istesso intenerito e molle
in fucina d’Amor s’incende e bolle.
240.S’Amor dunque sostegno è di Natura,
s’Amor è pace d’ogni nostra guerra,
s’a le forze d’Amor forza non dura,
se le glorie d’Amor meta non serra,
se la virtú de l’amorosa arsura
in Ciel regna, in Abisso, in mare, in terra,
qual fia, che non adori, alma gentile
le catene d’Amor, l’arco e ’l focile? —
250.Mentre la Musa in stil leggiadro e grave
fea con maestra man guizzar le corde,
e ne traea di melodia soave
a l’armonico Ciel tenor concorde;
su per gli eburnei bischeri la chiave
volgendo per temprar nervo discorde,
un per caso ne ruppe, e sí le spiacque
ch’appese il plettro a un ramoscello, e tacque.