Samādhi

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Samādhi (devanāgarī: समाधि, letteralmente "mettere insieme", "unire con") è un sostantivo maschile sanscrito proprio delle culture religiose buddista e induista che definisce l'unione cosmica del meditante con un dio, o con l'oggetto della meditazione, e la sua conseguente liberazione (moksha) dai legami terreni.

Statua du Buddha nel Samādhi (ad Anuradhapura, Sri Lanka)

Origine e significato del termine

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Il termine sanscrito samādhi deriva da saṃ ("insieme") rafforzato dalla particella ā + la radice verbale dha ("mettere").

La prima citazione del termine samādhi la si rileva nel Canone buddista[1] di poco posteriore è la sua menzione nella letteratura non buddista successiva alle Upaniṣad, la Bhagavadgītā[2].

Mircea Eliade nella nota nº 10 del VI paragrafo del II capitolo del suo testo Le Yoga, immortalité et liberté[3] evidenzia come:

«I significati della parola samādhi sono: unione totalità; assorbimento in, concentrazione totale dello spirito; congiunzione. La parola viene generalmente tradotta con "concentrazione"; in questo caso, però si corre il rischio di confonderlo con la dhārānā. Per questo abbiamo preferito tradurla con "en-stasi", stasi, congiunzione»

Nelle altre lingue asiatiche il termine sanscrito samādhi è reso come:

Il samādhi nel Buddismo

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È nella letteratura buddista che si riscontra per la prima volta il termine samādhi:

«Monaci, questi sono i quattro stadi della concentrazione (samādhi). Quali quattro? C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce al piacere in questa vita. C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce al conseguimento della conoscenza e della visione profonda. C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce alla consapevolezza e alla presenza mentale. C'è lo stadio della concentrazione che, quando sviluppata e perseguita, conduce alla fine degli influssi impuri»

Buddhaghosa lo indica come "concentrazione in un solo punto" (cittekaggatā, in Aṭṭhasālinī 302, ed. Pali Text Society p. 118). La Dhammasaṅgaṇī (15, ed. Pali Text Society p. 11), vale a dire il testo Abhidhamma di cui l'Aṭṭhasālinī di Buddhaghosa è il commentario, definisce la facoltà del samādhi come "stabilità della mente" (cittassa ṭhiti), "risolutezza" (avaṭṭhiti), "equilibrio" (o "non-distrazione: avisāhāra), assenza di disturbo (avikkhepa), calma (samatha), "condizione della mente imperturbata" (avisāhaṭamānasatā).

Georg Feuerstein[4] evidenzia come con ciò non si intenda la "concentrazione della mente ordinaria" quanto piuttosto la capacità yogica di astrarsi dall'esterno focalizzandosi sulla propria realtà interiore.

Alle stesse conclusioni definitorie, in ambito buddista, giunge Philippe Cornu:

«Quando essa rimane focalizzata su un unico punto o su un solo oggetto e le nozioni di "soggetto" e "oggetto" scompaiono, non si può più parlare realmente di "concentrazione della mente sull'oggetto" giacché resta solo l'esperienza meditativa in sé.»

Il samādhi corrisponde all'ultimo stadio dell'Ottuplice sentiero e quindi riassume tutte le pratiche meditative dei dhyāna oltre le quali si colloca l'obiettivo finale, il nirvāṇa.

Nel Buddismo il samādhi è frutto dell'unione della tecnica meditativa del śamatha ("dimorare nella calma", ovvero calmare la mente) con l'altra tecnica meditativa denominata vipaśyanā ("visione profonda") queste due pratiche vanno eseguite unitamente anche se una può procedere dall'altra:

«Per accedere al samādhi, dunque, śamatha o vipaśyanā presi singolarmente non sono sufficienti»

Il samādhi nell'Induismo

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Il termine samādhi compare anche nella Bhagavadgītā, opera successiva al Canone buddista.

(SA)

«bhogaiśvarya-prasaktānāṁ tayāpahṛta-cetasām vyavasāyātmikā buddhiḥ samādhau na vidhīyate»

(IT)

«Coloro che ricercano il godimento (bhoga) e il potere (aiśvarya) hanno il pensiero catturato da tale [discorso]; in questi la mente (buddhiḥ), nonostante la natura propria della decisione, non è adatta alla contemplazione (samādhi

Georg Feuerstein[5] evidenzia tuttavia un passo della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (Upaniṣad vedica collegata al Śukla Yajurveda) che sembra anticipare il termine e la dottrina relativa al samādhi denominato qui con il participio passato samāhita ("raccolto") indicante la concentrazione mentale.

(SA)

«tad etad ṛcābhyuktam eṣa nityo mahimā brāhmaṇasya na karmaṇā vardhate no kanīyān tasyaiva syāt padavittaṃ viditvā na lipyate karmaṇā pāpakeneti tasmād evaṃvic chānto dānta uparatas titikṣuḥ samāhito bhūtvātmany evātmānaṃ paśyati sarvam ātmānaṃ paśyati nainaṃ pāpmā tarati sarvaṃ pāpmānaṃ tarati nainaṃ pāpmā tapati sarvaṃ pāpmānaṃ tapati vipāpo virajo 'vicikitso brāhmaṇo bhavati eṣa brahmalokaḥ samrāṭ enaṃ prāpito 'sīti hovāca yājñavalkyaḥ so 'haṃ bhagavate videhān dadāmi mām cāpi saha dāsyāyeti»

(IT)

«"Questo stesso è espresso nei versetti: Questa è la sempiterna grandezza del brahmano: né s'accresce né diminuisce per l'azione che compie. Bisogna cercare le tracce di questo [Ātman]: una volta che lo si sia conosciuto non si è insozzati da azione malvagia. Perciò colui che questo sa diventa calmo, tranquillo, indifferente, paziente, raccolto in sé e in se stesso scorge l'Ātman, in ogni cosa scorge l'Ātman; non lo vince il peccato, anzi egli vince ogni peccato, non lo brucia il peccato, anzi egli brucia ogni peccato; libero da peccato, da passioni, da dubbi, egli è un vero brahmano. Questo è il mondo del Brahman, o gran re; ad esso ti ho fatto giungere". Questo disse Yājñavalkya e Janaka replicò: "Io mi consegno a te, o venerabile, e anche i Videha ti consegno [come schiavi][6]»

Mircea Eliade[5] evidenzia che se il samādhi è considerato una esperienza "indescrivibile" esso non è comunque univalente e viene indicato come

«lo stato contemplativo in cui il pensiero afferra immediatamente la forma dell'oggetto senza l'aiuto delle categorie e dell'immaginazione (kalpaṇā); stato in cui l'oggetto si rivela "in sé stesso" (svarūpa), in ciò che ha di essenziale e come se "fosse vuoto di sé stesso" (arthamātranirbhāsaṃ svarūpaçūnyamiva in Yogasūtra, III,3»

(SA)

«tapaḥsvādhyāyeśvarapraṇidhānāni kriyāyogaḥ samādhibhāvanārthaḥ kleśatanūkaraṇārthaśca»

(IT)

«Il Kriyāyoga (yoga nell'azione, da intendersi come pratica dello yoga) è costituito dalle austerità (tapaḥ), dallo studio svolto da soli (svādhyā) e dal votarsi (praṇidhānāni) al divino (iśvara). [Esso occorre] per realizzare (bhāvana) il samādhi e rendere (karaṇā) deboli (tanū) gli kleśa (cause delle sofferenze)»

  1. ^ «The earliest mention of samādhi is in the Buddhist Pali canon, where it stands for “concentration.” Buddhist authorities define it as “mental one-pointedness” (cittasya ekāgratā; see, e.g., Buddhaghosa's Aṭṭhasālinī 118). This is not, however, the sporadic concentration of the conventional mind, but the creative yogic process of abstracting attention from external objects and focusing it upon the inner environment. Slightly later than the Buddhist references is the mention of samādhi in the Bhagavadgītā (2.44, 53, 54) in the sense of one-pointedness as communion with the divine being». (Georg Feuerstein, Samādhi in Encyclopedia of Religion vol. 12, NY, MacMillan, pag. 8066)
  2. ^ La Bhagavadgītā fu infatti inserita nel ciclo epico del Mahābhārata intorno al III secolo a.C. divenendo un "classico" della letteratura religiosa "induista" solo a partire dal VII secolo.
  3. ^ 1954, Payot, Parigi; trad. it. Lo Yoga -Immortalità e libertà Milano, Rizzoli, 1997
  4. ^ Op.cit
  5. ^ a b Op.cit.
  6. ^ Traduzione a cura di Carlo Della Casa, in Upaniṣad. Torino, UTET, 1983, pag.136.

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