Ambiente e regole

Sul futuro dell'auto e dell'inquinamento l'Europa ha fatto un gran pasticcio

Lo afferma la Corte dei conti dell'Unione: lo stop ai motori a benzina e diesel è utopia, senza sussidi all'acquisto, ma il blocco dipende da batterie e materie prime altrui. E non sta tagliando abbastanza le emissioni
Auto bloccate nel traffico
Auto bloccate nel trafficohirun/Getty Images

Bandire le auto a benzina o diesel in Unione europea dal 2035? La strada è in salita. A due mesi dalle elezioni europee che metteranno il punto - positivo o negativo - a un decennio decisivo dal punto di vista climatico, geopolitico e industriale, arriva un’altra doccia fredda per chi credeva che la transizione energetica fosse un tè da sorbire tra chiacchiere e pasticcini. La Corte dei conti europea (sede in Lussemburgo, una delle sette istituzioni continentali, col compito di esaminare i bilanci dell’Unione), ha espresso il proprio parere sulla “fattibilità e le implicazioni” della decisione, approvata lo scorso anno, di bandire la vendita di autovetture nuove a benzina e a diesel in Europa dal 2035. In estrema sintesi: per passare dalle promesse ai fatti, sostengono i magistrati, è necessario fare un bagno di realtà. In caso contrario, è il sottinteso, si tratta delle solite semplici promesse elettorali. E si rischia di svegliarsi in un incubo, quando sarà troppo tardi.

Il contesto

Il 22 aprile la Corte ha illustrato la propria posizione, diffusa in un documento, alla stampa continentale. “L’Unione europea ha messo i veicoli elettrici a batteria al centro della propria ambiziosa politica per un parco auto a emissioni zero - recita il testo diffuso -. Tuttavia, deve conciliare il Green Deal [il patto comunitario per la transizione verde, ndr] non solo con la sovranità industriale, ma anche con l’accessibilità economica per i consumatori. Occorre agire con urgenza per far sì che l’industria europea possa produrre auto elettriche su vasta scala a prezzi competitivi, garantendo al tempo stesso la sicurezza dell’approvvigionamento di materie prime e potenziando le infrastrutture di ricarica in tutto il continente”. Una linea sorprendente, che riconosce la necessità di una transizione, ma fa i conti – forse per la prima volta – con le implicazioni pratiche delle promesse.

Per la prima volta siamo arrivati giusto in tempo, né troppo presto né troppo tardi con queste dichiarazioni”, ha affermato coi giornalisti Annemie Turtelboom, componente della Corte, rispondendo a una domanda sul tempismo con cui l'istituzione ha deciso di parlare: meno di sessanta giorni dalle consultazioni. “Peraltro, non abbiamo inventato nulla: abbiamo solo ripreso dati ampiamente disponibili”, ha aggiunto. “È il nostro ruolo - ha aggiunto il collega Nikolaos Milionis -. Non facciamo politica, ma proprio per questo siamo chiamati esprimere una posizione".

Il Green Deal europeo (nel cui alveo si inserisce lo stop ai motori termici) nasce nel dicembre 2019, all’indomani dell’insediamento della Commissione guidata da Ursula von der Leyen, negli anni degli scioperi per il clima dei Fridays for future guidati da Greta Thunberg. La Grande recessione sembrava alle spalle; i conflitti non mancavano ai quattro angoli del globo, ma le armi tacevano nei luoghi strategici per l’Occidente. In poche parole, prevaleva la speranza: il riscaldamento globale era, proprio per questo, diventato una priorità.

Cinque anni dopo, il mondo è profondamente diverso. Pandemia, inflazione, invasione dell'Ucraina, crisi energetica, assedio a Gaza hanno precipitato il mondo in un’incertezza da Guerra fredda: archiviato il sogno della globalizzazione e di un governo mondiale, il declino dell’occidente è ormai un fatto acclarato. Il baricentro sta in Asia. Le materie prime, che un tempo arrivavano senza problemi sulla scorta di eredità coloniali e accordi vantaggiosi, sono diventante un problema strategico: il petrolio  (e quindi il Medio Oriente) non è più centrale, il gas russo è inutilizzabile, le nuove vetture necessitano di biocarburanti, litio, cobalto provenienti da Cina e Africa. Non funzionano più neanche le catene logistiche, su cui negli ultimi vent’anni ha riposato il commercio internazionale e che sono diventate, improvvisamente, inaffidabili.                                                                                      

Le auto inquinano come 12 anni fa

Il rapporto della Corte dei conti europea riconosce che l'Unione ha compiuto progressi nel ridurre le emissioni di gas a effetto serra in generale, ma non nel settore dei trasporti, che sul continente assomma circa un quarto delle emissioni carboniche. Di tale quota, metà proviene dalle sole autovetture. “Il Green Deal non porterà alcun frutto, se non verrà affrontato il problema delle emissioni delle macchine. Dobbiamo però riconoscere che, nonostante le nobili ambizioni e i requisiti rigorosi, la maggior parte delle auto convenzionali emette ancora la stessa quantità di anidride carbonica di 12 anni fa”, riprende Nikolaos Milionis. La spiegazione c’è, ed è semplice, prosegue: “Nonostante l’accresciuta efficienza dei motori, le auto pesano in media circa il 10 % in più e hanno bisogno di maggiore  potenza per spostarsi (circa +25 %)”.

Considerazioni che non piaceranno all'industria automotive, e che rispondono a chi vorrebbe ridurre la posizione a un servizio ai grandi gruppo. Non solo. Si legge nel rapporto: “Gli auditor hanno riscontrato che le auto ibride ricaricabili (plug-in), un tempo ritenute un’alternativa più ecologica dei veicoli tradizionali, sono ancora classificate ‘a basse emissioni’ anche se il divario tra le emissioni misurate in condizioni di laboratorio e quelle misurate su strada è in media del 250%”. Significa che gli esami vengono fatti male. E per chi ricorda il Dieselgate (lo scandalo sulle emissioni delle auto diesel), non è difficile immaginare attività di lobbying in questo senso.

Combustibili alternativi

Sul fronte dei combustibili alternativi (biocarburanti, elettrocarburanti e idrogeno) non va meglio. Sui biocarburanti, la Corte rileva la mancanza di una tabella di marcia “chiara e stabile per risolvere i problemi di lungo termine del settore: la quantità di combustibile disponibile, i costi e la compatibilità ambientale”. In poche parole, “non essendo disponibili su vasta scala, i biocarburanti non possono rappresentare un’alternativa affidabile e credibile per le nostre auto”, riprende Milionis. E poi: la biomassa prodotta sul mercato interno non è sufficiente per offrire una valida alternativa. “Se questa biomassa è prevalentemente importata da paesi terzi, viene meno l’obiettivo dell’autonomia strategica in materia di energia. Inoltre, altri settori produttivi (per esempio, industria alimentare, farmaceutica e dei prodotti cosmetici) fanno concorrenza al settore automobilistico per l’uso delle stesse materie prime”. “I biocarburanti non sono ancora competitivi dal punto di vista economico: sono semplicemente più cari di quelli a base di carbonio, e le quote di emissioni costano attualmente meno che ridurre le emissioni di CO2 utilizzandoli". ce n'è anche per la sostenibilità: “La compatibilità ambientale dei biocarburanti è sovrastimata”. “Le materie prime per la produzione di biocarburanti possono essere distruttive per gli ecosistemi e nocive per la biodiversità nonché la qualità del suolo e delle acque: sollevano quindi inevitabilmente questioni etiche sull’ordine di priorità tra beni alimentari e carburanti”.

Il rompicapo elettrico

È il turno dei veicoli elettrici, definiti un “rompicapo”: L’industria europea delle batterie è in ritardo rispetto ai concorrenti mondiali. Meno del 10 % della produzione mondiale di batterie è localizzata in Europa e per la stragrande maggioranza è in mano ad imprese non europee. A livello mondiale, la Cina rappresenta un impressionante 76 % del totale”, si legge. “L’industria delle batterie dell’Ue è frenata in particolare dall’eccessiva dipendenza dalle importazioni di risorse da paesi terzi, con i quali non sono stati sottoscritti adeguati accordi commerciali. L’87 % delle importazioni di litio grezzo proviene dall’Australia, l’80 % delle importazioni di manganese dal Sud Africa e dal Gabon, il 68 % del cobalto dalla Repubblica democratica del Congo e il 40 % della grafite dalla Cina”. Il costo delle batterie in Europa è troppo alto rispetto ai produttori esteri, e “potrebbe anche rendere proibitivi i veicoli elettrici per gran parte della popolazione”: le vendite aumentano grazie alle sovvenzioni pubbliche, si spiega, ma a uscire dalle concessionarie e finire nei garage sono soprattutto veicoli sopra i trentamila euro.

Insomma, se la capacità e la competitività dell’Ue non aumentano in maniera significativa, la ‘rivoluzione delle auto elettriche in Europa” rischia di basarsi sulle importazioni e di finire per danneggiare l’industria automobilistica europea e i suoi oltre tre milioni di posti di lavoro nel settore manifatturiero”. Si chiude con i punti di ricarica: troppo pochi, e ancora troppo distanti. Il 70%, si spiega, è concentrato in Francia Germania e Paesi Bassi: in questo caso, però, i dati sono del 2021 e quindi poco aggiornati. Informazioni recenti si possono trovare qui. Resta il problema dell’Est del continente, poco servito.

La sintesi

La sintesi è che, quando si parla di motori, si tratta di una strada “lunga e tortuosa”. “Occorre agire con urgenza per far sì che l’industria europea possa produrre auto elettriche su vasta scala a prezzi competitivi, garantendo al tempo stesso la sicurezza dell’approvvigionamento di materie prime e potenziando le infrastrutture di ricarica in tutto il continente”. Parole in cui non si legge negazionismo, ma realismo. Sarà interessante vedere come i partiti sapranno farne uso nei programmi elettorali. O se, invece, preferiranno assestarsi ancora una volta sulle solite, trite, polarizzazioni.