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Intervista a Carlo Perfetti su riabilitazione neurocognitiva e mondi intermedi

Intervista di Luca Mori al Prof. Carlo Perfetti sulla riabilitazione neurocognitiva

Intervista a Carlo Perfetti di LUCA MORI Carlo Perfetti è neuropsichiatra e riabilitatore, L.D. in Clinica delle malattie nervose e mentali, direttore scientifico del “Centro Studi di Riabilitazione Neurocognitiva” di Villa Miari, direttore della rivista “Riabilitazione neurocognitiva” e di “Relazioni intenzionali” Questa intervista nasce dall’esigenza di approfondire la posta in gioco nell’incontro tra i suoi lavori nel campo della riabilitazione neurocognitiva e quelli del filosofo Alfonso Maurizio Iacono sui “mondi intermedi”: si tratta di due percorsi di ricerca che, attraversando i confini tra le discipline e le differenti impostazioni metodologiche, si stanno reciprocamente dando idee, spunti e interrogativi. Partiamo allora da un’illustrazione dell’“intermedietà” a cui vi riferite nel campo della riabilitazione neurocognitiva. Quali e quante cose può voler dire il termine? Essendoci l’esigenza di condividere un lessico – e questo è uno dei problemi dei quali abbiamo discusso con Maurizio Iacono a Pisa e sul quale dovremo lavorare in futuro1 – per rispondere alla domanda si deve introdurre la nozione di “rappresentazione” e metterla in relazione con quella di “mondo”. Partiamo dall’assunto che noi abbiamo dei “mondi” in quanto abbiamo delle “rappresentazioni” e non si dà un mondo se non in rapporto alla rappresentazione che ne abbiamo. Come riabilitatori, facciamo riferimento a rappresentazioni perché siamo convinti, come suggeriscono molti cultori di diverse discipline, che ogni azione sia associata ad una rappresentazione, caratterizzata sia dalla previsione del futuro (si parla di «ipotesi percettiva») sia dal riferimento alle esperienze passate immagazzinate nella memoria.2 Naturalmente tutto questo assume rilevanza riabilitativa solo se il movimento viene inteso come azione e non solo come contrazione muscolare, somma di contrazioni muscolari o attività riflessa. Nel nostro lavoro col malato da diversi anni facciamo ricorso ad uno strumento definito “immagine motoria”, che secondo la maggior parte degli autori che la hanno studiata corrisponde ad un tipo particolare di rappresentazione.3 Un’immagine ( e quindi anche quella definita motoria) è anzitutto un sostituto, qualcosa che sta al posto di qualcos’altro. Nel nostro caso la immagine motoria sta alla azione negli stessi termini con i quali la mappa sta al territorio, secondo quanto enunciato da Korzibskii e ripreso poi da Bateson. Ci sono studi che mostrano come, quando un soggetto elabora una immagine motoria di una certa azione, ovviamente senza contrarre alcun muscolo, ma solo pensando, si attivano buona parte di quelle aree del sistema nervoso centrale che si attivano quando il soggetto compie la azione immaginata. 1 Iacono elabora la «teoria dei mondi intermedi» (assieme ad una «teoria della “coda dell’occhio”») soprattutto in A. M. Iacono, Gli universi di significato e i mondi intermedi, in A. G. Gargani, A. M. Iacono, Mondi intermedi e complessità, ETS, Pisa 2005, pp. 5-39; A. M. Iacono, L’illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare, Bruno Mondadori, Milano 2010. 2 Concependo la riabilitazione come «apprendimento in condizioni patologiche» (C. Perfetti, S. Chiappin, L. Borgo, Il corpo, la storia, la vita, Centro Studi Villa Miari, Santorso 2007, p. 27), uno degli assunti della riabilitazione neurocognitiva è il fatto che è «l’unità interattiva corpo-mente» che risolve di volta in volta l’esercizio, con «apparato di previsione del futuro», una ipotesi percettiva, un’immagine. 3 P.Reggiani, L’immagine motoria come strumento dell’esercizio terapeutico,Bibl.Lurija,Forte dei Marmi,1999 1 Circa dieci anni fa ci siamo perciò chiesti se potevamo usare questa possibilità nel trattamento riabilitativo dei pazienti affetti da lesioni a carico del sistema nervoso centrale.4 In altri termini, poiché ai nostri malati non possiamo impartire l’ordine diretto del movimento da eseguire, dato che scatenerebbe immancabilmente schemi patologici, che verrebbero facilmente appresi, abbiamo pensato di guidare in maniera adeguata il paziente ad elaborare l’immagine di un movimento, sfruttando il fatto che, immaginando una azione nel suo cervello si attivano più o meno le stesse aree che si attivano durante l’esecuzione reale dello stesso movimento. I risultati di tutti questi anni sono stati estremamente lusinghieri e le esperienze fatte ci hanno consentito di confermare un vecchio slogan di tanti anni fa che «l’emiplegico impara a muoversi, non muovendosi, ma pensando»5. La nozione di “immagine motoria”, tuttavia, è complessa e i suoi meccanismi di base non sono ancora del tutto chiariti. L’immagine è uno dei tipi di rappresentazione della azione ( definita figurale, cioè fondata sulla rievocazione di determinate sensazioni) che il sistema nervoso centrale è in grado di elaborare ( l’altra tipologia, più studiata, è quella proposizionale). All’interno delle rappresentazioni dette figurali si possono distinguere diverse immagini in rapporto alle modalità sensoriali attivate. Tra queste la più comune è quella detta “visiva” basata cioè sulla evocazione di informazioni visive. Se chiedo ad un soggetto di immaginarsi di muovere il suo braccio portando l’indice della mano destra a toccare il naso, l’immagine che viene attivata spontaneamente è di tipo visivo. Il soggetto cioè immagina di vedere sé stesso che muove il braccio destro fino a quando il il dito indice non entra in contatto col naso. Assai diversa sarà la situazione se allo stesso soggetto chiedo di immaginare questo stesso movimento, non attraverso la vista, ma attraverso la evocazione delle sensazioni che provengono dal suo corpo in movimento ( dalla cute, dalle articolazioni,dalla somestesi in genere) in maniera di percepirlo come un’azione di cui lui è il protagonista, non l’osservatore come nella situazione precedente6. Nel primo caso il soggetto ha elaborato una immagine visiva, nel secondo una immagine definita ”motoria”. Le due situazioni sono notevolmente diverse sia dal punto di vista neurofisiologico vengono infatti attivate aree diverse del sistema nervoso centrale, sia dal punto di vista dei risultati che si possono ottenere terapeuticamente . Il punto è che della stessa azione possiamo fare più immagini diverse e le diverse immagini della stessa azione hanno un senso diverso. In un incontro con Maurizio di qualche anno fa abbiamo cominciato a chiederci se il nostro lavoro sulle immagini mentali non potesse in parte coincidere o per lo meno presentare significanti analogie con il discorso sulla rappresentazione elaborato dalla sua scuola nel quadro della teoria dei mondi intermedi. Questa pluralità di immagini possibili riferite alla stessa azione presenta senza dubbio un’analogia con le molte rappresentazioni che Cézanne fece della montagna di Saint-Victoire, rimandando allo stesso referente con sensi diversi. Le diverse immagini della montagna dipinte da Cézanne, alle quali Maurizio fa frequentemente riferimento per illustrare il suo pensiero sui mondi intermedi, sono a tutti gli effetti rappresentazioni diverse che rimandano allo stesso referente. Se rappresentazioni e immagini motorie ci dicono qualcosa a proposito dell’intermedio, come si inserisce in questo quadro la discussione sui mondi? 4 Ricostruendo le origini questo nuovo approccio alla riabilitazione, Perfetti scrive che «la “novità” del tentativo consisteva nel ricercare un più completo recupero delle funzioni alterate dalla lesione attraverso un costante e puntuale riferimento a quanto avviene nel cervello, piuttosto che limitare gli interessi del lavoro in palestra alla contrazione muscolare o alla evocazione di riflessi assoluti» (Il corpo, la storia, la vita, cit., p. 27). 5 Ivi, p. 31. 6 C. Perfetti , L’immagine motoria come elemento dell’E.T.C: ipotesi preliminari,Riab e Appr, 17:109,1997 2 I problemi per le applicazioni alla nostra pratica riabilitativa sono derivati, in realtà, non tanto dalla esistenza di strutture intermedie ( siano esse definite immagini motorie o mondi intermedi) .7 Il problema che ha richiesto maggiori momenti di riflessione è stato piuttosto quello della definizione della natura del “mondo”, in vista delle sue ripercussioni sulla pratica riabilitativa. [Anche questo è un nodo che dovrà essere affrontato nella prospettiva di condividere un lessico provenendo da ambiti di studio differenti, perché dobbiamo intenderci sulla nozione di “mondo”]. Per spiegare il concetto di “mondo” Iacono facendo riferimento a W.James lo definisce come “un sottouniverso al cui interno diamo significato agli oggetti”, e, in maniera forse più convinta, a Schutz quando parla di “provincia finita di significato” intendendola come insieme di esperienze, tenute unite da un certo “specifico“ “stile cognitivo” coerente e compatibile con altre. Iacono riprende anche il pensiero di Schutz circa la possibilità di passaggio tra le diverse “provincie di significato” attraverso un “processo traumatico” ( che Schutz riferisce specificamente al passaggio dal mondo naturalizzato ad altre provincie e ad altre realtà). Il problema relativo ai “mondi” è sorto quando, nel tentativo di comprendere alcuni insuccessi, abbiamo avanzato l’ipotesi che, per avere efficacia terapeutica, la immagine motoria da noi evocata debba rappresentare un “mondo”, cioè non solo una provincia finita ( il sistema nervoso agisce sempre per provincie finite) quanto una provincia coerente al suo interno con quanto tentiamo di evocare attraverso l’esercizio. Quando chiediamo al soggetto di evocare una immagine somestesica/ motoria del proprio polso in funzione della eventuale utilizzazione nella prensione di un oggetto, solamente la percezione del polso è coerente con questa azione, il resto del mondo ( ad esempio la spalla, il tronco etc non sono definiti con quella funzione) risulta , questa era l’ipotesi, indifferente. Questo potrebbe spiegare perché poi quando si chiederà al soggetto di fare ricorso al movimento del polso, come immaginato all’interno della funzione di prensione, si troverà/ si potrebbe trovare in difficoltà nell’attivare correttamente l’intero mondo. Abbiamo pensato che per affrontare questo problema fosse necessario definire con maggior attenzione il concetto di mondo all’interno dei nostri esercizi e delle azioni che devono essere recuperate. Per ora nelle nostre sperimentazioni di palestra abbiamo preso in considerazione tre parametri [che ci sono parsi fondamentali per assegnare significato all’azione/interazione del corpo col mondo/realtà/oggetto] che abbiamo definito in maniera estremamente provvisoria come: Estensione ( il coinvolgimento di tutti i segmenti del corpo: deve essere coerente con l’assegnazione di significato a quella determinata realtà presa in considerazione nell’esercizio) Globalità ( la coerenza di tutti i componenti della struttura della azione, vedi ad esempio quelli che Anokhin8 definisce sintesi afferente, accettore di azione, afferentazione di ritorno ….) Complessità ( la coerenza tra gli aspetti cognitivi, sensoriali ed emotivi di quella specifica azione che deve essere recuperata). Si potrebbe dire che c’è un mondo delle azioni possibili al soggetto sano, che per il malato non è più “accessibile”? Mi spiego: lo spazio delle azioni possibili per l’unità corpo-mente in condizioni non patologiche è concepibile come un “mondo”, in qualche modo precluso all’unità corpo-mente in condizioni patologiche; questa, a sua volta, è 7 Anche in questo caso sarebbe opportuna una discussione sul lessico usato: da questo punto di vista sarebbe forse utile discutere la definizione di “intermedio” che di solito rimanda ad un prima e un dopo a un preesistente e ad un derivato, e per quanto riguarda il conoscere interazione con la realtà potrebbe far pensare ad una percezione della realtà reale dalla quale le altre si distaccano per differenza e di diverso tipo. In realtà anche la percezione “normale” di una azione è un mondo intermedio Conoscenza non vuol dire interagire con un oggetto della natura per calcolarne con esattezza lunghezza, larghezza, peso, e le altre caratteristiche fisiche, ma collocare quello che si vuole deve conoscere in un ben preciso mondo. Il fatto che esistano tanti mondi intermedi, nel quali può essere collocato l’oggetto col quale si interagisce, garantisce la complessità della conoscenza della realtà. 8 P. K. Anokhin: Biologia e neurofisiologia del riflesso condizionato, Bulzoni, Roma, 1975. 3 “chiusa” nel mondo delle sue possibilità di azione, che risentono di vincoli maggiori (comunque diversi) rispetto a quelli del sano. Le immagini mentali di cui abbiamo parlato accompagnano il malato ad attraversare per passare da un mondo ad un altro. Il malato che apprende entra in un mondo intermedio tra quello in cui si trova prima della riabilitazione e quello in cui si troverà dopo: ogni mondo è comunque definito in relazione ad un insieme di azioni e rappresentazioni: come Schutz e James parlavano rispettivamente di “province finite di significato” e di “sub-universi di realtà”, si potrebbe parlare in questo caso di “province finite di possibilità di agire”… Da quanto detto sopra è evidente che sì. E’ necessario però intenderci sul significato dell’”agire”. Il nostro modo operare considera il movimento come una delle possibilità ( forse la più importante) che il sistema vivente ha a disposizione per interagire col mondo al fine di costruire “informazioni” ( meglio sarebbe parlare di co-emergenze) utili per permettergli la sopravvivenza della sua struttura e il mantenimento della sua autonomia in tutti gli ambienti nei quali si trova a vivere. Il nostro modo di lavorare sul corpo e sui suoi frazionamenti lo considera come una superficie recettoriale dotata di motilità/frammentabilità in funzione proprio della costruzione di informazioni/ emergenze dalla interazione col mondo esterno. Al primo posto nelle nostre esercitazioni poniamo quindi non il movimento/ spostamento di segmenti corporei come tale, ma la costruzione di co-emergenze ( facendo ricorso ad altri termini, di informazioni che consentono il conoscere il sentire, il provare). Le difficoltà indotte nel sistema vivente dalla lesione a carico del snc dipendono dalla alterazione della capacità di interagire col mondo per fare emergere relazioni significative. La contrazione muscolare, ultima tappa da raggiungere nel lavoro di recupero, si attiva in maniera corretta, cioè significativa per il mantenimento della organizzazione del sistema, solo quando il sistema è posto in una situazione nella quale ha bisogno di costruire informazioni attraverso quella specifica contrazione/ frammentazione. Questo può avvenire solo all’interno di un determinato mondo intermedio/provincia finita di senso/ subuniverso derivato dalle esperienze precedenti che guidi il sistema a dar senso all’interazione. Noi riteniamo che ogni immagine motoria da noi usata rappresenti un mondo intermedio, cioè una delle diverse rappresentazioni possibili, e che sia uno dei diversi mondi nei quali il malato, sotto la guida del terapista, sceglie di collocare la conoscenza che si sta facendo del reale djurante lo svolgimento dell’esercizio. Il recupero della capacità di elaborare una certa azione non può avvenire indipendentemente dal coinvolgimento delle capacità di dare significato. Come affrontare, con queste premesse, il tema del passaggio dal contesto dell’esercizio al mondo “fuori”? Se si adotta la proposta di “ mondi intermedi” come importante per il recupero della capacità di organizzare la interazione col mondo, dopo aver effettuato una serie di esercizi che fanno ricorso alla immagine motoria, cioè ad un mondo intermedio, può assumere un certo significato procedere ad una sorta di adeguamento della coerenza tra i mondi ( quello dell’esercizio e quello della realtà) Risulta abbastanza importante, infatti, che il mondo evocato dall’esercizio presenti il maggiore analogia possibile con quello che poi il soggetto dovrà porre di frequente in atto nella vita di tutti i giorni. E prevedibile, così,una serie di esercitazioni, che rivestono contemporaneamente carattere di controllo, nelle quali verrà chiesto al soggetto di individuare analogie e differenze tra l’interazione con la realtà richiesta ( e correttamente elaborata nell’esercizio) e quella richiesta dalla vita di tutti i giorni, che può essere immaginata dal malato, oppure facilitata attraverso la esecuzione con l’arto sano. 4 Occorre cioè controllare, e anche far consapevole il malato ( per questo si tratta anche di attività terapeutica) di quanto l’azione evocata attraverso l’esercizio abbia in comune con la azione che si voleva recuperare. E quante e quali siano le differenze. Questo passaggio può essere ritenuto necessario in quanto, anche se l’esercizio corrisponde in ogni caso ad una azione, non sempre è possibile essere sicuri che i tre parametri che abbiamo sopra accennato ( globalità complessità, estensione) siano coerenti con l’azione della quale si ipotizza il recupero. Per fare un esempio, esiste nel nostro repertorio un esercizio definito “ abbassamento del tallone” attraverso il quale il soggetto impara a muovere la caviglia ( movimento estremamente difficile per soggetti con lesione a carico del snc). La possibilità di costruire informazioni circa la interazione col suolo attraverso questo movimento riveste particolare importanza durante la deambulazione nella fase in cui viene poggiato a terra il tallone. Naturalmente quanto ottenuto nell’esercizio difficilmente corrisponde con esattezza a quanto poi sarà vissuto durante l’atto reale di interazione tallone-suolo. In questa fase di studio, stiamo sperimentando, proprio sotto la suggestione della teoria dei mondi intermedi, se può rivestire valore terapeutico guidare il malato alla presa di coscienza delle differenze e delle analogie tra i due mondi. Torno a fare una domanda sul ruolo del cervello: lei diceva inizialmente che il pensiero, il farsi l’immagine motoria, comporta l’attivazione di aree come se si facesse il movimento. Ci sono contatti con la ricerca sulla embodied simulation e sui “circuiti del come se” a cui si riferiscono gli scienziati dei “neuroni specchio”? Per la nostra collocazione sanitaria e all’interno delle scienze naturali??? sentiamo più del filosofo la necessità di fare riferimento a dati provenienti dalle discipline biologiche, che vanno attualmente sotto il nome di neuroscienze. Dovrebbe avere carattere di ovvietà che questi “dati”9, negli ultimi tempi particolarmente insidiosi data la tecnologia elaboratissima necessaria per raccoglierli, non devono essere ipertrofizzati in quanto ad importanza sul piano pratico ( e soprattutto non deve esser data per scontata la loro immediata applicabilità senza la preventiva interpretazione da parte del filtro rappresentato dal sapere riabilitativo). Per comprendere che non si tratta certo di verità assolute, basti pensare a tutti gli errori, alcuni anche abbastanza gravi ( si ricordi il paradigma homunculare per spiegare il funzionamento dell’area motoria primaria) che sono stati fatti dal fisiologo in rapporto alle tecniche usate in un certo periodo e ritenute erroneamente perfette. Credo che, almeno in parte si possa essere d’accordo con molte delle critiche avanzate da Umiltà e Legrenzi.10 I dati del neuroscienziato possono, qualche volta, aiutarci a convalidare, ma sempre temporaneamente, il nostro modo di pensare riabilitativo e anche a suggerirci specificazioni nella elaborazione delle condotte terapeutiche, ma sempre nella consapevolezza che non si tratta certo di garanzie assolute. Per farle un esempio: il fatto che da qualche anno sia stato dimostrato che almeno alcune aree del cervelletto siano deputate a compiti di tipo cognitivo e che la funzione motoria di questa struttura non sia da ritenersi la più importante o addirittura l’unica come si riteneva fino a poche anni fa, è servito a confermare la correttezza del nostro modo di fare esercizi nella patologia cerebellare, abbiamo pubblicato un volume con suggerimenti per il trattamento, ma non abbiamo certo abbandonato lo studio critico dei problemi connessi col recupero da lesione cerebellare11. 9 Già la stessa definizione di “dati” appare ideologica e pertanto insidiosa in quanto lascia credere che si tratti di verità raccolte dallo scienziato e non di costruzioni da lui fatte alla luce del suo sapere. 10 P.Legrenzi e C. Umiltà : Neuro‐mania, Il mulino,Bologna,2009. 11 C. Perfetti A. Pieroni (a cura di): Cervelletto, cognizione ed esercizio terapeutico. Bibl.Lurija. Forte dei Marmi, 1999. 5 Per quanto riguarda il problema dei mondi intermedi credo che si debba partire dal senso che questa capacità ( chè di capacità si tratta) può rivestire per il sistema uomo e poi si dovrà cercare tra le possibili spiegazioni che il neuroscienziato ci offre, quelle che possono contribuire alla migliore comprensione e all’avanzamento di ipotesi riabilitative convalidabili (falsificabili?) attraverso l’esercizio. La possibilità/capacità di elaborare mondi intermedi di fronte alla stessa realtà sta a significare, direi senza alcun dubbio, che la interazione uomo-mondo e le conseguenti emergenze non sono fisse, o addirittura prefissate, in rapporto alla natura fisica del mondo esterno (basterebbe altrimenti un mondo solo, una sola provincia di significato nella migliore delle ipotesi, quando non un comportamento stimolo-risposta). La possibilità di scegliere diversi significati sta a significare che il comportamento del sistema uomo può godere di una notevole autonomia, in questo caso possibilità di scelta. A partire da questo modo di vedere è ovvio che una ipotesi della funzione distribuita, che si attiva simultaneamente, come proposto da Lurija sul base di studi di Poliakov, già qualche decennio fa, anziché di una funzione piramidale ad attivazione sequenziale, effettivamente rende meglio conto di quanto si può osservare. Nel suo intervento al convegno presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa, lei sottolineava l’importanza delle parole, dicendo che le istruzioni verbali agiscono nell’organizzazione dell’esercizio e ne sono componenti essenziali come i sussidi. Lei precisava che «le parole agiscono sull’organizzazione dell’atto comportamentale», sul piano della «sintesi afferente», che si ha prima che la contrazione muscolare si organizzi. In un certo senso, si potrebbe dire che dalla scelta delle parole dipende il “rendere visibile” un’organizzazione dell’azione anziché un’altra? Spesso il malato trattato da noi con un approccio di tipo cognitivo riesce a recuperare in maniera sodisfacente, ma per eseguirle continua ad aver bisogno delle istruzioni del terapista o anche ad aver necessità di ripetersi mentalmente le sue istruzioni. Riesce cioè a muoversi correttamente, ma è privo di autonomia, e questo si traduce spesso in una difficoltà nel raggiungere la automatizzazione dell’azione. Anche in questo caso il riferimento ai concetti portati avanti dal filosofo è risultato particolarmente utile.12 La cosa accade con una certa frequenza, ma spesso si tratta solo di una fase del processo di recupero, che viene poi superata, divenendo il malato autonomo ed il suo agire automatizzato. Altre volte però non si riesce a superare questo problema in alcun modo. E’ naturale che un problema come questo necessita di una adeguata elaborazione, tale da permettere l’avanzamento di ipotesi ragionevoli e poi la loro messa alla prova attraverso la pratica di palestra. Una prima ipotesi che abbiamo avanzato è che la mancanza di autonomia potesse dipendere dalla natura dei mondi evocati e dalla coerenza tra quanto richiesto in esercizio e quanto nella vita quotidiana ( vedi sopra). Un’altra ipotesi riguarda l’uso non sufficientemente meditato delle istruzioni verbali utilizzate nell’esercizio, che rendono il malato subordinato in ogni caso al terapista. La nostra scuola ha sempre sostenuto, sulla base delle teorizzazioni della psicologia sovietica ( si pensi soprattutto a Leont’ev e a Vigotskij e sul piano clinico da Lurija) la importanza del linguaggio per la organizzazione della azione. Siamo stati gli unici nel mondo della riabilitazione, anche per il fatto che le altre tendenze riabilitative proponevano la attivazione di movimenti per via riflessa ( il linguaggio ha ben poco effetto) o su ordine verbale diretto ( il ruolo del linguaggio è assai ridotto e semplificato rispetto a quello rivestito abitualmente). Negli ultimi anni, e soprattutto, dopo il riconoscimento della importanza del ricorso alla immagine motoria, l’uso del linguaggio e delle istruzioni verbali è andato progressivamente aumentando e, se 12 M.Iacono: Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, Milano, 2000. 6 da un lato ha permesso di ottenere risultati migliori con periodi di trattamento più brevi, l’ipertrofia del linguaggio del terapista ha suscitato qualche perplessità soprattutto dal punto di vista della autonomia del paziente. Siamo arrivati così alla necessità di affrontare il problema delle istruzioni verbali in maniera “intensiva”, attraverso un “ritiro spirituale riabilitativo”, che abbiamo tenuto a Pisa, partendo proprio dalla constatazione della mancanza di autonomia come problema riabilitativo. La scelta di Pisa e dell’Istituto di Lettere e Filosofia non è stata in alcun modo casuale: contavamo sul fatto che la presenza di Maurizio ci potesse aiutare a definire meglio i nostri problemi, cosa che è infatti accaduta. Nel corso del ritiro abbiamo cercato di analizzare come si manifesta la mancanza di autonomia, come e a che livello si può pensare che agiscano le istruzioni del terapista sia dal punto di vista neurologico che da quello neuropsicologico, abbiamo preparato alcune schede per la raccolta dei dati e ci siamo dati appuntamento a novembre per un congresso nel quale verranno esposte e ridiscusse tutte le considerazioni elaborate. Probabilmente in quella sede potremo rispondere con maggior precisione alla sua domanda. 7