GRAMMATICA APPLICATA:
APPRENDIMENTO,
PATOLOGIE,
INSEGNAMENTO
a cura di
Maria Elena Favilla - Elena Nuzzo
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studi AItLA
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studi AItLA 2
GRAMMATICA APPLICATA:
APPRENDIMENTO, PATOLOGIE,
INSEGNAMENTO
a cura di
Maria Elena Favilla – Elena Nuzzo
Milano 2015
studi AItLA
L’AItLA pubblica una collana di monografie e di collettanee sui diversi temi della
linguistica applicata. I manoscritti vengono valutati con i consueti processi di revisione di pari per assicurarne la conformità ai migliori standard qualitativi del settore. I volumi sono pubblicati nel sito dell’associazione con accesso libero a tutti gli
interessati.
Comitato scientifico
Giuliano Bernini, Camilla Bettoni, Cristina Bosisio, Simone Ciccolone, Anna De
Meo, Laura Gavioli, Elena Nuzzo, Lorenzo Spreafico.
© 2015 AItLA - Associazione Italiana di Linguistica Applicata
Via Cartoleria, 5
40100 Bologna - Italy
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sito: www.aitla.it
Edizione realizzata da
Officinaventuno
Via Doberdò, 13
20126 Milano - Italy
email:
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sito: www.officinaventuno.com
ISBN edizione cartacea: 978-88-9765-707-1
ISBN edizione digitale: 978-88-9765-708-8
Indice
MARIA ELENA FAVILLA - ELENA NUZZO
Introduzione
5
PARTE I
Acquisizione e perdita di strutture grammaticali
JACOPO SATURNO
Manipolazione dell’input e elaborazione della morfologia flessionale
15
DANIELE ARTONI
L’acquisizione della morfologia del caso in russo L2: uno studio trasversale
33
MARCO MAGNANI
Lo sviluppo delle interrogative wh- in russo L2: uno studio trasversale
45
MARGHERITA PIVI - GIORGIA DEL PUPPO
L’acquisizione delle frasi relative restrittive in bambini italiani
con sviluppo tipico e con dislessia evolutiva
59
MICHELA FRANCESCHINI - FRANCESCA VOLPATO
Comprensione e produzione di frasi relative e frasi passive:
il caso di due bambini gemelli sordi italiani
75
PAOLO FRUGARELLO - FRANCESCA MENEGHELLO
CARLO SEMENZA - ANNA CARDINALETTI
Il ruolo del tratto di numero nella comprensione delle frasi
relative oggetto in pazienti afasici italiani
91
PARTE II
Strategie di elaborazione della grammatica
REBEKAH RAST
Primi passi in un nuovo sistema linguistico
111
STEFANO RASTELLI - ARIANNA ZUANAZZI
Il processing delle dipendenze filler-gap nella seconda lingua.
Uno studio su apprendenti cinesi di italiano L2
125
JACOPO TORREGROSSA
Asimmetrie tra percezione e produzione nell’acquisizione L2 della fonologia:
uno studio pilota sulle interrogative polari inglesi
141
CHIARA BRANCHINI - CATERINA DONATI
Gli enunciati misti bimodali: un “esperimento naturale”
153
4
INDICE
ELISA PELLEGRINO - ANNA DE MEO - VALERIA CARUSO
Chi compie l’azione? L’applicazione del Competition Model su sordi italiani
165
IRENE CALOI
La competenza sintattica in parlanti con deficit cognitivo.
Il caso della demenza di Alzheimer
179
PARTE III
La grammatica in classe
GIORGIO GRAFFI
Teorie linguistiche e insegnamento della grammatica
197
ADRIANO COLOMBO
“Applicazione”? Linguistica teorica e grammatiche scolastiche
213
PAOLO DELLA PUTTA
“Hai visto a tuo amico?” L’effetto dell’input su due tratti caratteristici
dell’interlingua italiana degli ispanofoni
231
CHIARA ROMAGNOLI
L’apprendimento dei classificatori in cinese L2
255
PATRIZIA GIULIANO
L’organizzazione del quadro spaziale in testi prodotti
da adolescenti “svantaggiati”: carenze espressive e didattica del testo
273
SATOMI KAWAGUCHI
Il contributo didattico delle tecnologie digitali all’acquisizione
delle lingue straniere
285
Indice Autori
303
MARIA ELENA FAVILLA - ELENA NUZZO
Introduzione
Che cosa si intende per grammatica applicata? Quali sono i temi e i problemi considerati più rilevanti per il suo studio, in particolare nel panorama italiano? Quali
sono le teorie e i metodi che meglio rendono conto di questi temi e problemi? Che
tipo di dati e informazioni possono essere raccolti dall’analisi delle abilità di elaborazione di strutture grammaticali dei parlanti delle diverse lingue e varietà? E dall’analisi di queste abilità in sottotipi particolari di parlanti? Infine, i risultati della ricerca linguistica sulla grammatica possono essere utilizzati per rendere più efficace
l’insegnamento esplicito della lingua nativa e di lingue seconde?
Il presente volume si propone di raccogliere dati utili a fornire risposte a queste
domande, presentando i risultati di una serie di ricerche nazionali e internazionali
su vari aspetti riconducibili al macrotema della grammatica applicata, con particolare attenzione alla lingua e/o ai parlanti italiani. L’idea del volume deriva dal XIV
convegno dell’Associazione Italiana di Linguistica Applicata (AItLA), tenutosi
all’Università di Verona nel febbraio 2014 e intitolato Grammatica applicata: apprendimento, insegnamento, patologie. La ricca e variegata serie di ricerche presentata
e discussa durante il convegno ha mostrato la rilevanza di questo tema e l’utilità di
un suo approfondimento. In questa prospettiva, il volume intende fornire un quadro generale delle più recenti ricerche sulla grammatica applicata ed esemplificare
nel modo il più possibile rappresentativo le diverse articolazioni e sfaccettature di
questo tema.
La struttura e i contenuti del volume riflettono un punto di vista e un’impostazione complessiva che è bene esplicitare sin dall’inizio.
In primo luogo, l’espressione grammatica applicata è qui da intendersi nella duplice prospettiva, da un lato, dello studio di come i principi teorici o i risultati della
ricerca possono essere applicati all’apprendimento della grammatica, al suo insegnamento, alla comprensione e cura delle patologie e dei disturbi del linguaggio, dall’altro lato, dello studio di come le ricerche sull’apprendimento, sull’insegnamento e
sulle patologie possono contribuire alle teorie grammaticali sondando la loro solidità nel rendere conto delle diverse lingue e varietà di lingue.
Si tratta di due prospettive che più in generale possono essere considerate alla
base di tutta la ricerca in linguistica applicata e che sono contenute nella definizione
di questa disciplina proposta dall’AILA, l’associazione internazionale di linguistica
applicata a cui l’AItLA è affiliata:
interdisciplinary field of research and practice dealing with practical problems of
language and communication that can be identified, analysed or solved by applying
available theories, methods and results of Linguistics or by developing new theo-
6
INTRODUZIONE
retical and methodological frameworks in Linguistics to work on these problems.
Applied Linguistics differs from Linguistics in general mainly with respect to its
explicit orientation towards practical, everyday problems related to language and
communication1.
La frase finale della definizione, relativa alla differenza tra linguistica applicata e
“linguistica in generale”, sottolinea la difficoltà di distinguere in modo netto tra le
due discipline. È chiaro che la linguistica applicata ha per obiettivo la soluzione di
problemi pratici, mentre la linguistica generale mira all’elaborazione di teorie che
rendano conto del funzionamento del linguaggio e di metodi che ne consentano lo
studio e la comprensione. Nella pratica, però, questi due diversi tipi di obiettivi possono essere perseguiti sovrapponendo e capovolgendo di continuo le due prospettive. Le ipotesi e le teorie sul funzionamento del linguaggio e sulla sua organizzazione,
infatti, sono ricavate da dati linguistici concreti, così che i dati che costituiscono il
problema da risolvere possono al tempo stesso fornire l’evidenza per l’elaborazione
di nuove ipotesi e teorie e per la conferma o confutazione delle ipotesi e teorie esistenti.
I contributi qui raccolti confermano la presenza di entrambe le direzioni.
Confermano, inoltre, la difficoltà di distinguere in modo netto e preciso tanto le
due direzioni della ricerca in grammatica applicata, dalle teorie ai dati e dai dati alle
teorie, quanto i confini tra la linguistica teorica e quella applicata.
In secondo luogo, quanto ai temi e ai problemi che possono essere considerati
più rilevanti per lo studio della grammatica applicata, questi sono organizzati nel
volume in base agli obiettivi generali della ricerca. Un primo gruppo di contributi è volto principalmente a rendere conto dell’acquisizione/apprendimento o della
perdita di strutture grammaticali in vari tipi di condizioni e soggetti. Un secondo
gruppo mira soprattutto a ricavare informazioni più generali sulle strategie di elaborazione linguistica con particolare riferimento al livello grammaticale. Un terzo
gruppo, infine, presenta riflessioni e indicazioni su come utilizzare le conoscenze
teoriche e pratiche sulla grammatica e sulla sua acquisizione nell’insegnamento, intendendo con questo termine sia l’educazione linguistica scolastica in L1 sia l’insegnamento di lingue seconde.
In terzo luogo, nei diversi contributi del volume vengono analizzate le capacità
di comprensione e produzione in soggetti, lingue e strutture grammaticali differenti. Tra i soggetti indagati compaiono bambini e adolescenti con sviluppo tipico e
atipico, adulti e bambini sordi di varie fasce di età, apprendenti di lingue seconde,
adulti afasici, affetti cioè da una patologia linguistica in senso stretto, e adulti con
demenza di Alzheimer, nei quali il linguaggio è colpito nel quadro di un deterioramento generale delle abilità cognitive. Tra le lingue considerate sono incluse l’italiano e la lingua dei segni italiana, come L1, come L2 e in soggetti bilingui, e lingue
con vari gradi di distanza genealogica e tipologica dall’italiano, come il polacco, il
russo, l’inglese, il cinese e il giapponese. Tra le strutture indagate, infine, vi sono la
1
http://www.aila.info/about.html, ultima consultazione dicembre 2014.
INTRODUZIONE
7
flessione del caso e il tratto di numero, le frasi interrogative, relative e passive, l’espressione dell’agentività e il suo rapporto con fenomeni quali ordine delle parole,
animatezza, accordo, caso e intonazione, l’accusativo preposizionale, l’articolo davanti al possessivo, i classificatori, i riferimenti spaziali.
In definitiva, i contributi raccolti in questo volume tratteggiano un quadro generale della grammatica applicata il cui filo conduttore è rappresentato dall’insieme
delle strategie e dei meccanismi coinvolti nell’elaborazione delle strutture grammaticali. In questo senso, il volume testimonia che la ricerca in grammatica applicata e,
più in generale, in linguistica applicata non è più primariamente o soltanto una ricerca “applicata all’insegnamento delle lingue” e che anche l’interesse all’apprendimento/acquisizione delle lingue è sempre più inteso in termini di apprendimento/
acquisizione del linguaggio, alla ricerca di regolarità, principi, meccanismi e strategie di elaborazione.
Questa ricerca di regolarità, principi, meccanismi e strategie coinvolti nell’elaborazione delle strutture grammaticali conduce a osservare che, per quanto l’articolazione in livelli di analisi sia utile e necessaria come principio ordinatore, i singoli
livelli possono essere isolati solo in astratto, mentre sono strettamente interrelati tra
loro negli usi reali che i parlanti fanno delle lingue. Così, l’elaborazione grammaticale in senso stretto risulta difficilmente isolabile sia come livello linguistico rispetto
agli altri livelli linguistici, sia come abilità strettamente linguistica rispetto alle altre
abilità cognitive. Dai vari contributi, infatti, sembra emergere che nell’elaborazione
dei diversi tipi di strutture grammaticali da parte delle diverse tipologie di parlanti risultano rilevanti non solo gli aspetti morfologici e sintattici, ma anche quelli
fonologici, prosodici, semantici e pragmatici. Inoltre, le strategie di elaborazione
risultano fortemente condizionate da abilità cognitive generali, quali, ad esempio,
memoria, attenzione e la capacità di fare inferenze.
Come anticipato, il volume è articolato in tre parti principali. Nella prima parte
sono raccolti i contributi che meglio esemplificano l’intento della grammatica applicata di rendere conto dell’acquisizione/apprendimento e della perdita di strutture grammaticali in vari tipi di condizioni e soggetti.
Jacopo Saturno presenta alcuni dati relativi ai possibili effetti della manipolazione dell’input sulle capacità di elaborazione della flessione del caso in apprendenti
italiani nelle fasi iniziali dello studio del polacco. I dati presentati, raccolti nell’ambito del progetto VILLA (Varieties of Initial Learners in Language Acquisition:
Controlled classroom input and elementary forms of linguistic organisation), mostrano
come l’esposizione a un input implicito o esplicito possa condizionare, almeno nelle
fasi iniziali dell’apprendimento, le strategie applicate nell’elaborazione del caso. Dai
risultati emerge, inoltre, che le capacità di elaborazione di una struttura linguistica
sono condizionate dal contesto di apprendimento e possono essere facilitate da abilità non direttamente coinvolte nell’acquisizione di quella struttura.
Anche il contributo di Daniele Artoni riguarda l’acquisizione della morfologia
del caso, questa volta da parte di apprendenti di russo con varie L1, tra cui l’italiano.
8
INTRODUZIONE
L’ambito teorico della sua ricerca è quello della Teoria della Processabilità. I risultati
confermano le ipotesi sull’acquisizione della morfologia del caso formulate dalla
teoria e forniscono indicazioni sulle sequenze di acquisizione dell’assegnazione del
caso.
Sempre nel quadro teorico della Teoria della Processabilità e sempre con riferimento all’acquisizione del russo in apprendenti con varie L1, Marco Magnani prende in esame la sequenza di sviluppo delle interrogative wh- in una lingua nella quale
alla complessità sintattico-pragmatica di queste strutture si aggiunge la complessità
della marcatura morfologica del caso sul sintagma interrogativo.
Questa serie di ricerche sull’elaborazione morfo-sintattica da parte di apprendenti di lingue che richiedono di gestire la flessione del caso è seguita da tre studi che spostano l’attenzione sulle capacità di elaborazione di altri tipi di strutture
grammaticali in parlanti italiani di vario tipo, analizzando le capacità di produzione
e comprensione di frasi in una prospettiva di sintassi formale.
Margherita Pivi e Giorgia Del Puppo analizzano le capacità di produzione di
frasi relative restrittive in un ampio campione di bambini con sviluppo tipico e in
un più ristretto campione di bambini con dislessia evolutiva diagnosticata o sospetta. I risultati mostrano che la dislessia fa parte di quei disturbi che condizionano le
capacità dei bambini di elaborare strutture sintattiche complesse, quali le relative
restrittive.
Michela Franceschini e Francesca Volpato esaminano le capacità di produzione e
comprensione di frasi relative e passive in due gemelli con sordità medio-moderata,
generalmente meno studiata della sordità profonda, ed evidenziano che anche la
sordità medio-moderata incide sulle capacità di elaborazione sintattica e ne richiede un potenziamento specifico. Inoltre, le differenze emerse nelle capacità dei due
bambini, i quali, essendo fratelli gemelli, risultano ben confrontabili per quanto riguarda il contesto familiare e sociale, mostrano che non è ragionevole ritenere che il
grado di competenza sia condizionato soltanto dal tipo di input al quale si è esposti.
Nell’ultimo contributo di questa sezione, Paolo Frugarello, Francesca
Meneghello, Carlo Semenza e Anna Cardinaletti introducono l’aspetto della perdita delle capacità di elaborazione grammaticale in soggetti adulti a seguito di lesioni
cerebrali. Indagando le capacità di comprensione del tratto di numero in frasi relative oggetto in quattro pazienti afasici italiani, gli autori concludono che le difficoltà
che emergono nella comprensione di queste frasi, soprattutto quando soggetto e
oggetto non condividono lo stesso tratto, non possono essere ricondotte alla cancellazione delle conoscenze sintattiche e sono da attribuire a una debolezza delle abilità
procedurali o a una riduzione delle risorse implicate nell’elaborazione
La seconda parte raccoglie una serie di contributi che esemplificano come la ricerca in grammatica applicata sia anche una ricerca volta a ricavare indicazioni generali sulle strategie di elaborazione linguistica con particolare riferimento al livello
grammaticale.
A partire dai dati ricavati dal già citato progetto VILLA, Rebekah Rast presenta un quadro generale degli stadi iniziali dell’apprendimento della L2 e di quello
INTRODUZIONE
9
che gli apprendenti sono in grado di fare già dopo periodi brevissimi di esposizione
all’input. I dati raccolti evidenziano che gli apprendenti mettono in atto processi
creativi, analoghi a quelli evidenziati anche da Jacopo Saturno nel suo studio della
flessione del caso, che li portano a estrarre informazioni dall’input e a riutilizzarle
nelle loro produzioni fin dalle fasi iniziali del percorso di apprendimento.
Stefano Rastelli e Arianna Zuanazzi studiano le interrogative wh- e le relative
oggetto in apprendenti di italiano L2 con cinese L1, per verificare il ruolo di abilità
cognitive non strettamente linguistiche, quali, in particolare, la memoria associativa
e la memoria di lavoro, nell’elaborazione di queste strutture da parte degli apprendenti. I loro risultati evidenziano una maggiore importanza della memoria di lavoro
rispetto a quella associativa e l’importanza di abilità cognitive generali, quali memoria, attenzione e capacità di fare inferenze, nell’elaborazione di strutture complesse
in L2.
Concentrandosi sulle capacità di produzione e percezione dei profili intonativi
implicati nell’elaborazione delle interrogative polari inglesi da parte di apprendenti
con italiano L1, Jacopo Torregrossa mostra che l’accuratezza nella produzione del
contorno prosodico di queste strutture non è necessariamente correlata alla sua percezione. I dati dello studio vengono discussi rispetto al dibattito sul rapporto fra
contorno prosodico e tipo di frase, considerato soprattutto alla luce del confronto
tra modalità dichiarativa e interrogativa e polarizzato nell’opposizione fra teoria
universalista e teoria lessicalista.
I due contributi successivi utilizzano dati sull’elaborazione grammaticale da parte di soggetti sordi per raccogliere dati più generali sui meccanismi e sulle strategie
implicati nell’elaborazione grammaticale di tutti i parlanti.
Chiara Branchini e Caterina Donati analizzano gli enunciati mistilingui nel particolarissimo caso della combinazione fra due lingue che utilizzano due canali distinti, quello acustico-articolatorio dell’italiano vocale e quello visivo-gestuale della
lingua dei segni italiana, che permette che le due lingue non siano semplicemente
alternate tra loro, ma prodotte anche simultaneamente. L’analisi dei diversi tipi di
enunciati mistilingui simultanei riscontrati dalle autrici fornisce dati utili a chiarire
il fenomeno e il ruolo della commistione fra codici in generale, e contribuisce alla
discussione sui meccanismi e sull’organizzazione del linguaggio nei soggetti bilingui.
Elisa Pellegrino, Anna De Meo e Valeria Caruso indagano l’applicabilità del
Competition Model alle strategie di elaborazione utilizzate dai sordi italiani, alcuni
dei quali con l’italiano come L1, altri con la LIS come L1 e l’italiano vocale come
L2. I risultati evidenziano il ruolo del canale comunicativo, della lingua materna e
dell’esposizione all’input nella messa in atto delle possibili strategie volte al riconoscimento dell’agentività e forniscono dati sul ruolo svolto dai diversi tipi di indizi
formali utili a questo riconoscimento.
Irene Caloi, infine, esamina le abilità di comprensione di frasi relative in soggetti
affetti da demenza di Alzheimer per verificare la correlazione tra il deterioramento
cognitivo generale implicato da questa patologia e le abilità di elaborazione sintat-
10
INTRODUZIONE
tica. I dati mostrano che la demenza di Alzheimer determina difficoltà di comprensione delle strutture sintattiche indagate e che tali difficoltà aumentano gradualmente con il progredire della malattia e del declino cognitivo generale.
La terza e ultima parte del volume è dedicata alle possibili relazioni tra le conoscenze teoriche e pratiche sulla grammatica e sulla sua acquisizione, da un lato, e
l’insegnamento della L1 e delle lingue seconde, dall’altro.
Un primo aspetto, discusso nel contributo di Giorgio Graffi, riguarda la scelta
del modello grammaticale da utilizzare per l’insegnamento scolastico. L’autore presenta e discute alcuni casi esemplari per illustrare la proposta di utilizzare la grammatica tradizionale come punto di partenza, cercando, da un lato, di integrare e
correggere le nozioni tradizionali che risultano più insoddisfacenti, dall’altro, di aggiungere i fenomeni linguistici solitamente trascurati o trattati in modo sommario.
Il contributo si chiude con alcune considerazioni su ragioni, modalità e tempi per
l’insegnamento della grammatica a scuola.
Queste riflessioni sono completate da quelle di Adriano Colombo, che affronta
la questione nella prospettiva inversa, concentrandosi sul rapporto tra insegnamento scolastico della grammatica e teorie grammaticali a partire da come i manuali di
grammatica dalla terza elementare al biennio secondario superiore trattano determinati temi. L’analisi mostra che le grammatiche scolastiche sono meno normative
che in passato e hanno ormai accolto vari concetti della linguistica teorica, ma non
sembrano avere accolto l’aspetto metodologico essenziale che se ne dovrebbe ricavare, e cioè che la riflessione grammaticale a scuola dovrebbe essere intesa come un
campo di ricerca sperimentale, da esplorare e discutere.
Le riflessioni sui rapporti tra teorie linguistiche e insegnamento della grammatica sono seguite da alcuni contributi volti a mostrare come i risultati della ricerca
sull’apprendimento di determinate strutture possano fornire indicazioni su come
rendere più efficace l’insegnamento di quelle strutture.
Paolo Della Putta presenta i risultati di un lavoro sperimentale volto a indagare
l’efficacia di un intervento di potenziamento dell’input nell’apprendimento di due
strutture dell’italiano che i parlanti di madrelingua spagnola tendono ad acquisire
con difficoltà per interferenza negativa della L1. Il trattamento didattico dà risultati
diversi per le due strutture, suggerendo che esse presentino, per la popolazione di
apprendenti presa in esame, gradi differenti di difficoltà legati ai diversi percorsi
implicati nell’impararle.
L’apprendimento del cinese da parte di studenti universitari italiani è al centro
del contributo di Chiara Romagnoli, che esamina in particolare le difficoltà nell’uso
dei classificatori. Oltre a sottolineare la scarsa attenzione a questi elementi linguistici nei manuali didattici destinati al pubblico italiano, l’autrice analizza il diverso
peso della componente semantica e di quella sintattica dei classificatori nel processo
di apprendimento.
Lo studio di Patrizia Giuliano confronta gruppi di parlanti con caratteristiche
socioculturali diverse in relazione allo sviluppo di competenze testuali nella L1,
concentrandosi sull’organizzazione del quadro spaziale nella produzione elicitata
INTRODUZIONE
11
di descrizioni e narrazioni orali. Dall’analisi dei dati emerge come i soggetti “svantaggiati” manifestino, rispetto ai coetanei “privilegiati”, lacune in relazione alle informazioni selezionate e al modo in cui tali informazioni vengono concatenate nella
strutturazione del testo; ciò suggerisce la necessità di progettare una didattica di
recupero della grammatica testuale.
Infine, Satomi Kawaguchi chiude il volume con uno sguardo alle nuove tecnologie. A partire dai dati raccolti nell’ambito dei suoi corsi di giapponese all’università di Western Sydney, l’autrice mostra come l’uso di strumenti digitali, tra cui per
esempio chat e social network, promuova lo sviluppo di competenze linguistiche,
purché le attività svolte tramite le tecnologie informatiche siano correttamente allineate con gli obiettivi didattici sulla base di solidi riferimenti teorici.
In linea con la tradizione delle pubblicazioni dell’AItLA, questo volume non reca
una dedica. Vorremmo però qui rendere omaggio a Camilla Bettoni, studiosa che ha
posto la propria competenza ed energia intellettuale e personale ai lavori dell’AItLA
fin dalla sua fondazione e alla quale siamo debitrici sotto più profili. Camilla ha
concluso il suo lavoro presso l’Università di Verona nello scorso autunno. Abbiamo
lavorato a questo volume sotto la spinta del suo esempio e tentando di seguirne e
rinnovarne gli insegnamenti.
PARTE I
ACQUISIZIONE E PERDITA
DI STRUTTURE GRAMMATICALI
JACOPO SATURNO1
Manipolazione dell’input e elaborazione
della morfologia flessionale
This contribution evaluates the effects of input manipulation on the accuracy of case ending
perception by initial Italian L1 learners of Polish L2. Within the VILLA project, two groups
of participants took a 14-hour Polish course whose input differed in whether learners’ attention was drawn to specific features of the target grammar (form-based vs. meaning-based).
A Sentence Imitation test was used to verify if learners’ accuracy in producing the correct
inflectional marker would be affected by the target ending, the target sentence constituent
order and the stem lexical transparency. As hypothesised, the meaning-based group proved
sensitive to all parameters; the form-based group, on the other hand, only showed an effect
for ending. It is argued that input manipulation reduces learners’ sensitivity to the stimulus,
prompting them to rely more explicitly on their interlanguage grammar.
1. Introduzione: il progetto VILLA Italia2
L’elaborazione dell’input nelle fasi iniziali dell’apprendimento di una L2 è un tema
sempre più centrale nella ricerca acquisizionale, in quanto solo in queste fasi precoci del contatto con la lingua bersaglio è possibile osservare il primo sviluppo del
futuro sistema morfosintattico dell’interlingua (vedi Rast, questo volume, per una
sintesi). Proprio l’esplorazione di questo ambito di ricerca così cruciale, ma ancora
poco noto e difficilmente praticabile è l’obiettivo del progetto VILLA, un’iniziativa
internazionale dedicata ai primi stadi dell’apprendimento del polacco da parte di
apprendenti adulti con varie L1, i quali sono stati esposti a input naturale sotto forma di un corso di lingua della durata di 14 ore. La novità metodologica dello studio
risiede nel pieno controllo sull’input fornito agli apprendenti: il parlato dell’insegnante è stato interamente registrato, trascritto e annotato morfologicamente, così
da poter correlare in modo rigoroso la produzione linguistica degli apprendenti con
l’input ricevuto (Dimroth et al., 2013).
Università degli Studi di Bergamo.
L’edizione italiana del progetto VILLA e l’elaborazione dei dati rientrano nell’ambito del PRIN
2009 dal titolo Lingua seconda/straniera nell’Europa plurilingue: acquisizione, interazione, insegnamento coordinato a livello nazionale da Giuliano Bernini e a livello locale da Marina Chini (unità
operativa di Pavia) e Giuliano Bernini (unità operativa di Bergamo). In particolare, l’autore di questo
contributo è stato titolare per l’anno 2012-2013 di un assegno di ricerca dal titolo Acquisizione di lingue seconde in classi italofone in condizioni di input controllato: per una prospettiva interlinguistica presso
l’Università degli Studi di Bergamo.
1
2
16
JACOPO SATURNO
Questo lavoro è dedicato alla capacità degli apprendenti di elaborare le opposizioni di caso presenti nell’input dopo solo poche ore dal primo contatto con la lingua
bersaglio: in particolare verranno analizzati gli effetti di una delle variabili previste dal
progetto, ovvero la manipolazione dell’input. In ciascuna edizione del progetto, infatti,
i medesimi contenuti (in termini di scelta e frequenza dei lemmi e di argomenti grammaticali trattati) sono stati presentati in due diverse versioni a gruppi separati di apprendenti. L’input implicito (meaning-based nella terminologia VILLA) ha carattere
esclusivamente comunicativo, senza particolari manipolazioni da parte dell’insegnante.
L’input esplicito (form-based), viceversa, è modificato (Sharwood-Smith, 1993) mediante attività di focalizzazione su alcune regolarità formali dell’input (focus on form,
Doughty - Williams, 1998) e abbondante feedback correttivo. Entrambe le versioni
non fanno ricorso a linguaggio metalinguistico né a spiegazioni grammaticali: l’input
ha inoltre natura prevalentemente orale, con la sola eccezione di alcune diapositive di
supporto. Proprio queste ultime possono essere utili per evidenziare il diverso approccio alla lingua proposto nei due corsi (figure 1 e 2).
Figura 1 - Esempio di input implicito
Figura 2 - Esempio di input esplicito
MANIPOLAZIONE DELL’INPUT E ELABORAZIONE DELLA MORFOLOGIA FLESSIONALE
17
Entrambe le diapositive si riferiscono a costruzioni transitive del tipo Dawid lubi
literaturę, “Dawid ama la letteratura”: come si vede, però, nella figura 1 i referenti
coinvolti sono semplicemente rappresentati da immagini, senza alcun accenno alle
strutture linguistiche richieste. Nella figura 2 invece le illustrazioni sono glossate
dalla parola polacca corrispondente, la cui terminazione di caso è presentata in grassetto. Accanto alla glossa compare anche un’icona indicante il genere del referente,
necessario per selezionare il paradigma corretto. La stessa scansione da sinistra a
destra delle figure potrebbe infine suggerire un ordine dei costituenti maggiori di
tipo SVO. Sulla base di queste osservazioni si può concludere che laddove l’input
implicito non si sofferma su alcun tratto in particolare della lingua bersaglio, la variante esplicita segnala evidenziandole alcune regolarità grammaticali su cui l’insegnante insiste specificamente, intervenendo anche sugli errori mediante feedback
correttivo.
2. Raccolta dati: il test Sentence Imitation
Questo studio si concentra sull’elaborazione da parte degli apprendenti delle terminazioni -/a/ NOM e -/e/ ACC all’interno del paradigma dei nomi femminili
in -a, es. studentka /stu’dɛntka/ “studentessa”. Il polacco possiede una morfologia
nominale estremamente ricca e complessa, comprendente due numeri (singolare e
plurale), tre generi al singolare (maschile, femminile e neutro, in aggiunta alla sottocategoria dell’animatezza per il maschile) e due al plurale (virile e generico); oltre a
ciò, i nominali sono declinati in sette casi (nominativo, genitivo, dativo, accusativo,
strumentale, locativo, vocativo: tabella 1). Nel caso dei dati italiani, indagare l’elaborazione del sistema dei casi appare particolarmente interessante perché la lingua
madre degli apprendenti non distingue questa categoria all’interno della flessione
nominale, conservandone solo alcune tracce in quella pronominale.
Tabella 1 - Flessione nominale, nomi femminili in -a
Per verificare l’elaborazione delle due terminazioni corrispondenti a NOM e ACC
è stato usato il test Sentence Imitation (Klein, 1986), il quale permette di isolare tre
parametri ritenuti significativi per ipotesi (vedi infra): la terminazione di caso richiesta dall’occorrenza obbligatoria (-/a/ NOM o -/e/ ACC), l’ordine dei costituenti
maggiori della frase bersaglio (SVO o OVS) e la trasparenza degli elementi lessicali
coinvolti. Per “elaborazione” si intende in questo lavoro la capacità di notare, memorizzare e ripetere un certo elemento dell’input: nel nostro caso, la terminazione
bersaglio. Questa formulazione non prevede alcuna implicazione relativamente alla
18
JACOPO SATURNO
capacità degli apprendenti di stabilire un’associazione tra forma e funzione, cioè
nello specifico tra terminazione di caso e funzione sintattica del nome.
Agli apprendenti era richiesto dapprima di ascoltare una breve frase in polacco,
poi di disegnare una semplice figura geometrica per inibire la memoria fonologica (Baddeley, 2003) e finalmente di ripetere il più accuratamente possibile la frase
bersaglio nel microfono digitale. Una occorrenza obbligatoria è considerata correttamente elaborata quando la terminazione prodotta dall’apprendente corrisponde
a quella richiesta.
Le frasi bersaglio (tabella 2) sono tutte composte di tre parole per un totale di
nove sillabe. I due nomi differiscono quanto alla loro trasparenza lessicale3: i nomi
trasparenti (T) sono facilmente riconducibili a una parola corrispondente della L1
degli apprendenti, es. artystka /arˈtɨstka/ e “artista FEM”, laddove nel caso di nomi
non trasparenti (NT) l’associazione è decisamente meno intuitiva: es. dziewczynka
/ʥevˈʧɨnka/ e “bambina”.
Tabella 2 - Test Sentence Imitation, struttura delle frasi bersaglio4
Come mostra la tabella, entrambi i nomi compaiono sia al caso nominativo sia
all’accusativo e le frasi bersaglio hanno ordine dei costituenti maggiori SVO o OVS.
Ogni coppia di nomi dà dunque luogo a quattro frasi bersaglio, le quali per ciascuna
occorrenza obbligatoria (ciascuna terminazione nominale) permettono di isolare da
un lato la trasparenza lessicale e il caso del nome, dall’altro l’ordine dei costituenti
della frase. La rilevanza di questi ultimi due fattori è motivata dalle caratteristiche
dell’input: nell’ambito del paradigma dei nomi femminili, -/a/ NOM è di gran lunga la terminazione più numerosa, risultando circa sei volte più frequente di -/e/
ACC e due volte più frequente della somma di tutte le altre terminazioni (tabella
3)5. Inoltre il caso nominativo compare in una grande varietà di contesti sintattici
laddove l’accusativo è limitato alle sole frasi transitive.
La trasparenza lessicale è stata determinata con un apposito test proposto a un gruppo di controllo
prima dell’inizio del corso VILLA (Valentini - Grassi, in stampa).
4
Traduzione: “l’artista (FEM) chiama la bambina” (frasi SVO T-NT; OVS NT-T); “la bambina chiama l’artista (FEM)” (frasi SVO NT-T; OVS T-NT).
5
I valori assoluti delle frequenze sono basati su computazioni manuali e possono presentare un lieve
margine di errore. L’etichettatura morfosintattica attualmente in corso permetterà in futuro di fornire
dati più precisi.
3
MANIPOLAZIONE DELL’INPUT E ELABORAZIONE DELLA MORFOLOGIA FLESSIONALE
19
Tabella 3 - Frequenza delle terminazioni di caso
Relativamente all’ordine dei costituenti maggiori, di nuovo si riscontra una marcata
disparità nella frequenza nei due tipi (tabella 4): SVO in particolare è circa due volte
più frequente di OVS se si considerano i soli sintagmi nominali pieni (es. Dawid
lubi literaturę, “Dawid ama la letteratura”) e tre volte più frequente se si includono
anche i pronomi personali soggetto (es. On lubi literaturę, “lui ama la letteratura”).
La distribuzione dei valori assunti da questo parametro rispetta la diversa marcatezza dei due ordini dei costituenti nelle varietà native di polacco: grazie alla sua morfologia nominale ricca e complessa, infatti, questa lingua permette di fatto tutti i
possibili ordini dei costituenti maggiori diversi da SVO, i quali però risultano meno
frequenti e fortemente connotati in senso pragmatico: sulla base di queste considerazioni (Dryer, 2013a), il polacco viene normalmente considerato una lingua con
ordine dei costituenti libero, ma prevalentemente SVO (Dryer, 2013b).
Tabella 4 - Frequenza ordine dei costituenti maggiori
Nell’ambito del test Sentence Imitation, i valori assunti dai tre parametri terminazione, ordine dei costituenti e trasparenza lessicale si possono considerare organizzati in
coppie di elementi marcati e non marcati, per cui nell’ambito di ciascuna coppia l’elemento meno marcato di ciascuna coppia sarebbe più accessibile agli apprendenti
e quindi più incline ad emergere in un contesto di neutralizzazione. Relativamente
alle terminazioni di caso, la marcatezza è funzione prevalentemente della frequenza,
in quanto è ben noto che nelle varietà di apprendimento iniziali le parole tendono a
comparire in una sola forma invariabile modellata sulla forma del paradigma più accessibile all’apprendente (Klein - Perdue, 1997), cioè di norma quella più frequente
o saliente. Nel caso dell’ordine dei costituenti si aggiungono anche le considerazioni
di pragmatica già menzionate, oltre al possibile influsso della L1 in cui l’ordine dei
costituenti in frasi transitive non marcate è di norma SVO. Per tutti questi motivi, i
valori -/e/ ACC e OVS dovrebbero essere sfavoriti nella varietà di apprendimento e
passibili di sovraestensione da parte di -/a/ NOM e SVO.
Per quanto riguarda infine il parametro della trasparenza lessicale, la marcatezza
può essere interpretata in termini del carico cognitivo imposto dall’elaborazione
del nome: se la parola è trasparente, infatti, si può ipotizzare che l’apprendente avrà
20
JACOPO SATURNO
meno difficoltà ad elaborare il livello semantico, considerato prioritario (Givòn,
1990), e potrà conseguentemente dedicare maggiori risorse all’elaborazione di altri
livelli meno urgenti, quale nel nostro caso la morfologia flessiva. Questo ulteriore
elemento di difficoltà si applica trasversalmente a tutte le occorrenze obbligatorie,
indipendentemente dall’ordine dei costituenti della frase bersaglio e dalla terminazione richiesta.
Le otto combinazioni dei valori assunti dai tre parametri danno luogo al contesto
dell’occorrenza obbligatoria. La struttura delle frasi bersaglio permette di ipotizzare
a priori la marcatezza complessiva di ciascun contesto sulla base del valore assunto
da ognuno dei tre parametri: le occorrenze obbligatorie meno marcate saranno dunque quelle che richiedono -/a/ NOM in frasi SVO e all’interno di parole trasparenti, laddove la massima marcatezza sarà data dalle occorrenze obbligatorie di -/e/
ACC in frasi OVS e facenti parte di parole non trasparenti (tabella 5).
Tabella 5 - Marcatezza delle occorrenze obbligatorie
3. Ipotesi
Passiamo ora a delineare i risultati attesi per il test Sentence Imitation relativamente ai due gruppi di apprendenti. Da una comparazione delle due lingue (Eckman,
1996) è possibile ipotizzare preliminarmente che per entrambi i gruppi la categoria
del caso sarà particolarmente difficile da padroneggiare, a causa della sua assenza
dalla L1 e della maggiore complessità morfosintattica che essa comporta.
In secondo luogo, sulla base dei fatti presentati finora è possibile sostenere che
nel caso in cui una opposizione (tra terminazioni di caso o ordine dei costituenti)
venga neutralizzata, il valore che emergerà sarà quello che abbiamo definito non
marcato, ossia -/a/ NOM per quanto riguarda le terminazioni di caso e SVO per
l’ordine dei costituenti. Ripetiamo qui che nel primo caso il fattore determinante è
senz’altro la frequenza relativa delle due terminazioni in competizione, mentre per
quanto riguarda l’ordine dei costituenti sarà opportuno prendere in considerazione
anche la neutralità pragmatica di SVO, la diffusione a livello tipologico di questo
tipo sintattico e infine il fatto che anche in italiano questo sia in molti casi l’ordine
dei costituenti meno marcato. Ai fini del nostro test, tutto ciò significa che in caso
di errore dovremo attenderci una sovraestensione di -/a/ NOM su -/e/ ACC e di
SVO su OVS.
Scendendo nello specifico del confronto tra gruppi, studi precedenti (Saturno,
in stampa a) hanno mostrato come il gruppo esposto a input implicito si sia rivelato sensibile a tutti i fattori specificati in precedenza, tanto che i contesti in cui
MANIPOLAZIONE DELL’INPUT E ELABORAZIONE DELLA MORFOLOGIA FLESSIONALE
21
appaiono le occorrenze obbligatorie possono essere ordinati secondo la gerarchia
presentata nella tabella 6. Il fattore di gran lunga più influente è naturalmente la
terminazione, in quanto nelle occorrenze obbligatorie di -/a/ NOM l’elaborazione
è in generale molto più precisa che non in quelle di -/e/ ACC: ciò d’altra parte non
dovrebbe sorprendere se si considera che la forma di parola del nominativo coincide
con quella invariabile assunta dalla forma base della parola. In secondo luogo, le
occorrenze obbligatorie di -/e/ ACC sono elaborate con più precisione in frasi con
ordine dei costituenti SVO che non OVS e, all’interno di ciascun ordine, la terminazione è riconosciuta più facilmente quando è parte di un nome trasparente.
Tabella 6 - Gerarchia di accessibilità delle occorrenze obbligatorie
Questa distribuzione è stata spiegata argomentando che poiché gli apprendenti non
ricevevano dall’insegnante alcun tipo di indicazione a guidarli nella loro elaborazione dell’input, la terminazione di caso “marcata” – in opposizione alla forma base
della parola – viene riconosciuta tanto più agevolmente quanto più il contesto di
occorrenza lo consente. Ciò accade in particolare quando la trasparenza lessicale
del nome rende disponibili risorse sufficienti per gestire l’elaborazione del livello
morfologico dopo quello semantico, ma soprattutto quando l’ordine dei costituenti massimizza la prominenza percettiva della terminazione (Saturno, in stampa b).
Quando il contesto è meno favorevole, si creano le condizioni per la neutralizzazione dell’opposizione fra terminazioni di caso e l’emergere della forma base della
parola.
Relativamente invece al gruppo esposto a input esplicito, tali condizionamenti
del contesto di occorrenza non dovrebbero essere rilevanti: l’ipotesi è che questi
apprendenti, avendo preso parte ad attività volte a evidenziare la struttura della costruzione morfosintattica nelle sue varie realizzazioni, dovrebbero essere più precisi
in tutti i contesti, riconoscendo la struttura bersaglio e riproducendola nell’output.
L’input esplicito avrebbe cioè l’effetto di costruire una rappresentazione astratta
della struttura morfosintattica, che l’apprendente dovrebbe essere in grado di riconoscere e riprodurre indipendentemente dalle caratteristiche della frase bersaglio.
In realtà, l’elaborazione di qualsivoglia struttura non può prescindere dalla sua identificazione nel flusso del parlato, e quindi dalla capacità di ascolto dell’apprendente.
Questo lavoro vuole mostrare come proprio a questo livello si rendano osservabili
gli effetti del diverso tipo di input.
22
JACOPO SATURNO
4. Risultati
I risultati dell’esperimento al momento della prima rilevazione (T1, 9h) sono rappresentati graficamente per entrambi i gruppi nella figura 3 e riassunti analiticamente nella tabella 7. Per ciascun contesto i valori percentuali sono dati dal rapporto tra
errori e occorrenze obbligatorie previste (56), dopo aver sottratto eventuali casi in
cui l’intero elemento lessicale non sia stato riprodotto6.
Figura 3 - Risultati globali T1
L’analisi qualitativa degli errori mostra che nella maggior parte dei casi questi sono
costituiti da una sovraestensione di -/a/ NOM su -/e/ ACC; il caso contrario è
estremamente raro. Ciò d’altra parte non dovrebbe sorprendere alla luce del fatto
che proprio la forma in -/a/ per la sua elevata frequenza nell’input costituisce il
modello per la forma base della parola, rappresentando così il termine non marcato
nell’opposizione tra le due terminazioni - quella che ha più probabilità di emergere
in caso di neutralizzazione dell’opposizione morfologica. Alla luce di tutto ciò, è
perfino sorprendente che la forma più marcata in -/e/ possa sovraestendersi su quella in -/a/, seppur in rari casi: a questo proposito da un lato si può ipotizzare un ruolo
per fenomeni di assonanza, per cui la terminazione -/e/ sarebbe richiamata da suoni
simili nell’elemento lessicale; dall’altro lato la presenza di questi errori è il chiaro
segno di un progresso nell’acquisizione, in quanto segnalano che la forma in -/e/ è
stata almeno notata dagli apprendenti e che, se anche il suo dominio di utilizzo non
In questi casi non è parso opportuno considerare come un errore il fatto che la terminazione non sia
stata riprodotta nell’output insieme all’intero elemento lessicale, in quanto le cause sono probabilmente da ricercare nella memoria fonologica dell’apprendente piuttosto che nella sua capacità di elaborare
la morfologia flessionale.
6
MANIPOLAZIONE DELL’INPUT E ELABORAZIONE DELLA MORFOLOGIA FLESSIONALE
23
è ancora stato correttamente identificato, almeno se ne sperimenta l’uso verificando
le ipotesi formulate durante l’elaborazione dell’input.
Tabella 7 - Rapporto errori/occorrenze obbligatorie
Figura 4 - Risultati T1, -/e/ ACC
Per la marginalità degli errori nelle occorrenze obbligatorie della forma base -/a/
NOM, in ogni caso, in questo lavoro ci occuperemo solo degli errori nelle occorrenze obbligatorie della forma marcata -/e/ ACC, riassunti sinteticamente nella
figura 4.
Una prima differenza tra i due gruppi riguarda il numero di errori a parità di
contesto: come si vede, il gruppo esplicito realizza più errori in ciascuno, con uno
24
JACOPO SATURNO
scarto via via minore all’aumentare della marcatezza dell’occorrenza obbligatoria
(da sinistra a destra nel grafico). Il numero totale di errori poi è quasi doppio: 100
errori (45%) contro 58 (26%). La nostra ipotesi per cui il gruppo esplicito sarebbe
stato più preciso di quello implicito dunque non trova una conferma nei dati, i quali
anzi mostrano una tendenza addirittura opposta.
Una seconda osservazione riguarda la distribuzione degli errori tra i vari contesti. Abbiamo già osservato come il gruppo implicito sia particolarmente sensibile
alla marcatezza del contesto in cui compare l’occorrenza obbligatoria (figura 5).
Nell’ambito delle sole occorrenze di -/e/ ACC, si può notare come il numero minimo di errori si riscontri nel contesto meno marcato (SVO, T) per poi crescere
rapidamente fino a raggiungere il picco nel contesto massimamente marcato (OVS,
NT). Proprio questa distribuzione degli errori ha portato a identificare la gerarchia
di marcatezza dei contesti discussa in precedenza (tabella 6) e a verificare il ruolo
esplicativo e predittivo dei fattori ordine dei costituenti e trasparenza lessicale.
La figura 6 mostra come invece il gruppo esplicito si mostri piuttosto indifferente a questri due fattori, esibendo solo una ridottissima crescita nel numero di errori all’aumentare della marcatezza del contesto. L’analisi statistica7 ha dimostrato la
mancanza di significatività dei due fattori nel rendere conto di questa distribuzione.
Figura 5 - Risultati T1, /e/ ACC, input implicito
7
Per questo studio è stato utilizzato un modello lineare misto generalizzato.
MANIPOLAZIONE DELL’INPUT E ELABORAZIONE DELLA MORFOLOGIA FLESSIONALE
25
Figura 6 - Risultati T1, /e/ ACC, input esplicito
Figura 7 - Risultati T2, /e/ ACC
Sembra dunque che il gruppo esplicito sia solamente sensibile al fattore terminazione, cioè al fatto che l’occorrenza obbligatoria richieda -/a/ NOM oppure -/e/
ACC. La nostra seconda ipotesi è dunque confermata, in quanto il gruppo esplicito
mostra un comportamento più uniforme tra i vari contesti – solo, contrariamente
26
JACOPO SATURNO
alle ipotesi, commettendo in tutti i contesti più errori del gruppo implicito, e non
meno come ci si attendeva.
I risultati al momento della seconda rilevazione (T2, 13h 30m), raccolti dopo
quattro ulteriori ore di esposizione all’input, sono piuttosto coerenti con quelli appena discussi e non mostrano novità di rilievo (figura 7).
Si può osservare innanzitutto come per entrambi i gruppi il contesto massimamente marcato (-/e/, OVS, NT) rimanga quello che genera il numero più alto di
errori; al tempo stesso, nel gruppo implicito il fattore trasparenza lessicale perde la
sua significatività statistica, mentre anche quella del fattore ordine dei costituenti si
riduce leggermente. Infine, per entrambi i gruppi e in tutti i contesti si riduce il
numero di errori. Considerati insieme, questi dati sembrano indicare un effetto positivo del periodo di esposizione all’input, anche se non si può escludere a priori un
effetto dovuto alla maggiore dimestichezza degli apprendenti con il test.
5. Discussione
È evidente che dal momento che le condizioni sperimentali per i due gruppi sono
identiche, la ragione per la notevole differenza nei risultati deve essere ricercata
nelle caratteristiche dell’input. Conviene forse a questo punto ricostruire il
percorso che l’apprendente segue nelle primissime ore di esposizione all’input.
Dapprima si trova esposto a un flusso ininterrotto di parlato, apparentemente
impenetrabile. Col tempo però, mediante operazioni di bootstrapping partendo da
pochi elementi riconoscibili – in quanto trasparenti dal punto di vista lessicale, o
oggetto di particolare attenzione da parte dell’insegnante, o ancora particolarmente
frequenti – l’apprendente comincerà a penetrare nel flusso di suono cercando di
segmentarlo in unità dotate di significato: a questo livello la priorità è di estrarre
ed elaborare il significato referenziale delle unità individuate (VanPatten, 2004).
Col proseguire dell’esposizione all’input, l’apprendente comincerà anche a notare
alcune regolarità formali della lingua bersaglio: nel caso in esame, il fatto che i
nomi possano presentare diverse terminazioni in funzione di qualche regola che
tenterà di identificare formulando delle ipotesi e verificandole nell’uso, cercando
il riscontro dei nativi o confrontando la propria produzione linguistica con l’input
bersaglio. È a questo livello che si colloca la principale differenza tra i due tipi di
input: poiché il gruppo implicito non riceve né indicazioni sulle regolarità formali
della lingua bersaglio né feedback correttivo, un ascolto preciso dell’input diventerà
vitale sia per identificare le regolarità formali – i valori che un dato parametro può
assumere e la loro distribuzione – sia per verificare le ipotesi via via formulate al fine
di renderne conto. Ecco allora che il gruppo implicito ha sviluppato un approccio
all’elaborazione dell’input particolarmente attento al dettaglio fonologico e
al significato grammaticale che veicola. Questo spiega in particolare il ruolo
fondamentale giocato dal parametro ordine dei costituenti nell’ambito del test
analizzato in questo studio. Nell’ambito di frasi bersaglio come quelle utilizzate per
questo studio, il cambio dell’ordine dei costituenti ha come conseguenza anche un
MANIPOLAZIONE DELL’INPUT E ELABORAZIONE DELLA MORFOLOGIA FLESSIONALE
27
cambiamento della posizione dei nomi nell’enunciato: in particolare, il nome al caso
accusativo si trova in posizione finale o iniziale a seconda che la frase abbia ordine
SVO o OVS rispettivamente. Numerosi studi sembrano indicare che le posizioni
iniziali e finali di enunciato sono particolarmente prominenti dal punto di vista
percettivo (Gallimore - Tharp, 1981; Peters, 1985; VanPatten, 2000), applicando
però tali generalizzazioni di norma all’intero elemento lessicale: se invece si
prendono in considerazione i soli morfemi grammaticali, allora si può osservare
subito come la terminazione marcata -/e/ ACC si trovi in fine di enunciato e
quindi nella posizione più prominente nel caso di frasi SVO, mentre al contrario
occupa una posizione interna e meno prominente nel caso di frasi OVS (esempio
1). Questo ha delle conseguenze immediate sui risultati del test: per la sua posizione
poco prominente, la terminazione del primo nome rappresenterà un contesto
particolarmente favorevole alla neutralizzazione dell’opposizione tra le due possibili
forme di parola. Nel caso di frasi SVO, ciò non crea problemi in quanto la forma
non marcata coincide con la forma bersaglio -/a/ NOM; nel caso di frasi OVS, al
contrario, l’emergere in questa posizione della forma non marcata -/a/ in luogo della
forma bersaglio -/e/ ACC provocherà un errore.
(1) a. artystk-/a/ woła dziewczynk-/e/8
b. dziewczynk-/e/ woła artystk-/a/
La proposta di questo lavoro è che proprio nella capacità degli apprendenti di
percepire tali dettagli fonologici si concretizzi l’effetto della manipolazione
dell’input. Nonostante le diverse posizioni che si sono avvicendate, sembra esserci
oggi generale accordo sul fatto che i test di Sentence Imitation riescano ad accedere
alla competenza implicita dell’apprendente e che abbiano una natura ricostruttiva,
piuttosto che meramente ripetitiva (Vinther, 2002). È noto che apprendenti sia di
L1 sia di L2 sono in grado di correggere nel loro output eventuali frasi bersaglio
agrammaticali; accade anche spesso che sostituiscano nella loro produzione
determinati elementi o strutture con altri. Håkansson (1989) ha mostrato per
esempio come una bambina svedese di tre anni imparando la sua L1 riproducesse
inizialmente la struttura bersaglio NEG – AUX come AUX – NEG, generalizzando
la regola che si applica ai verbi pieni. L’accesso alla competenza implicita è facilitato
se il test è condotto sotto pressione (per esempio cronometrando l’apprendente) e
se la memoria fonologica viene inibita (Baddeley et al., 1998), come è stato fatto
nell’ambito di VILLA chiedendo agli apprendenti di disegnare una semplice figura
geometrica.
Ad un esame attento tale posizione sembra essere confermata anche dai dati di
questo studio, e in particolare dal fatto che il numero di errori del gruppo implicito
si avvicini a quello del gruppo esplicito proprio nelle frasi con ordine delle parole
OVS. Abbiamo ipotizzato inizialmente che in un contesto di neutralizzazione
l’ordine OVS sarebbe stato sfavorito rispetto al concorrente SVO in ragione della sua
8
Traduzione: “l’artista (F) chiama la bambina”.
28
JACOPO SATURNO
marcatezza, a sua volta determinata dalla minore frequenza e dalla sua specializzazione
pragmatica. I dati mostrano però che molto raramente una frase con ordine dei
costituenti OVS viene riprodotta come SVO, come vorrebbe l’ipotesi: piuttosto, la
sola terminazione -/e/ corrispondente al caso accusativo si neutralizza nella forma
non marcata in -/a/, producendo così degli enunciati agrammaticali secondo la
norma del polacco. Possiamo allora argomentare che proprio la diversa prominenza
percettiva associata alla posizione nell’enunciato possa spiegare il ruolo dell’ordine
dei costituenti nel determinare l’accuratezza dell’elaborazione morfosintattica. Nelle
frasi con ordine dei costituenti OVS, i risultati dei due gruppi si avvicinano perché
la terminazione marcata è poco prominente e perciò troppo difficile da notare per la
maggior parte degli apprendenti. In frasi SVO, viceversa, la terminazione marcata si
trova in posizione finale di enunciato ed è perciò abbastanza prominente da essere
notata e riprodotta da chi sia ben allenato a cogliere il dettaglio fonetico: è il caso del
gruppo implicito, che risulterà più pronto a percepire eventuali indizi della struttura
richiesta, fra cui principalmente le terminazioni di caso.
L’apprendente del gruppo esplicito, al contrario, non è abituato tanto a
identificare dettagli fonologici, quanto a ragionare in termini grammaticali: ogni
enunciato, di conseguenza, riflette lo sforzo sistematico teso a produrre frasi corrette
secondo le regole evidenziate in classe. L’attivazione intenzionale della grammatica
dell’interlingua spiega bene la scarsa dipendenza del gruppo esplicito dal contesto
lessico-sintattico dell’occorrenza obbligatoria. Naturalmente però la grammatica a
cui l’apprendente attinge a livello cognitivo non è quella della lingua bersaglio, ma
piuttosto quella ancora in costruzione della varietà di apprendimento, con tutte le
sue lacune in termini di automatizzazione delle procedure richieste dall’uso della
lingua in tempo reale: stando ai dati dell’esperimento, la competenza dei nostri
apprendenti non include ancora l’opposizione di caso nel paradigma nominale. Il
minor numero di errori rilevato al tempo 2, dopo ulteriori 4:30 ore, sembra però
segnalare un progresso in questo senso.
La conclusione di lunga portata che è possibile trarre è che nello stadio di
acquisizione fotografato dal test l’opposizione tra casi non si è ancora consolidata,
anche se gli apprendenti sanno in generale che “certe parole del polacco possono
assumere più forme” e formulano delle ipotesi circa la loro distribuzione.
6. Conclusioni
Prima di generalizzare questi risultati, sarebbe auspicabile isolare il ruolo delle abilità
percettive e della competenza produttiva, che nei test di Sentence Imitation possono
invece parzialmente sovrapporsi. I test di questo tipo sono generalmente ritenuti
capaci di fornire una misura precisa della competenza implicita dell’apprendente:
attenendosi rigidamente a questa opinione, tuttavia, un’analisi superificiale dei dati
porterebbe a concludere che la competenza del gruppo implicito sia più progredita di
quella del gruppo esplicito. In realtà, se l’analisi proposta in queste pagine è corretta,
i dati dovrebbero portare almeno ad una problematizzazione del concetto stesso di
MANIPOLAZIONE DELL’INPUT E ELABORAZIONE DELLA MORFOLOGIA FLESSIONALE
29
competenza linguistica, rendendolo capace di abbracciare anche le varie strategie
che l’apprendente è in grado di applicare a seconda del contesto di apprendimento.
In questo lavoro si è cercato di argomentare che la competenza intesa nel senso più
ristretto – quindi, nel nostro caso, la composizione del paradigma nominale, e prima
ancora il fatto che un paradigma si sia formato, in sostituzione della precedente forma
base della parola – si trovi al medesimo stadio di sviluppo nei due gruppi, come si
vede nei contesti in cui il vantaggio dato dalla maggiore capacità di discriminare il
dettaglio fonologico è annullato dalla scarsa prominenza dell’elemento bersaglio.
Nonostante ciò, i risultati del test mostrano una sostanziale differenza dovuta alla
capacità del gruppo implicito di cogliere il “suggerimento” fonologico fornito
dalle stesse frasi bersaglio. Questo non ha nulla a che fare con la formazione di un
paradigma, inteso come una serie di associazioni tra la forma di una parola e la sua
funzione sintattica: pure i risultati di questi apprendenti sono migliori di quelli degli
altri, e non è detto che tale loro capacità non possa effettivamente tradursi in un
vantaggio in un’altra fase di sviluppo dell’interlingua o su altri versanti del processo
di acquisizione. La nozione di competenza andrebbe dunque complessificata per
arrivare a includere abilità non direttamente coinvolte nell’acquisizione di un tratto,
ma che possono essere utilmente sfruttate dagli apprendenti.
Un’altra prospettiva di ricerca futura, implicita negli obiettivi del progetto
VILLA, riguarda il confronto tra i dati di questo studio e quelli di altri apprendenti
con diverse L1. Gli apprendenti tedeschi, in particolare, sono particolarmente
interessanti da questo punto di vista a causa della maggiore ricchezza morfologica
della loro lingua madre.
Un’avvertenza prima di chiudere: quanto discusso sinora non deve indurre a
credere che un’istruzione guidata sia in realtà nociva all’apprendimento, che sarebbe una conclusione illegittima e parziale. I dati mostrano invece che in base al
tipo di input ricevuto gli apprendenti sono in grado di applicare strategie diverse
all’elaborazione dei medesimi tratti, concentrandosi sul dettaglio fonologico o sulla
conoscenza esplicita della grammatica. La struttura del test permette di mettere in
luce il fatto che, in determinate posizioni nell’enunciato, i medesimi elementi bersaglio possono risultare più prominenti e quindi accessibili: semplicemente, non tutti
gli apprendenti sono in grado di sfruttare questa possibilità, in quanto ciò richiede
un certo tipo di addestramento e di abitudini che, si ritiene – e questo è il nostro
primo risultato – possono essere indotte dal tipo di input ricevuto. In particolare, un input implicito produrrà una maggiore attenzione al dettaglio fonologico,
mentre un input esplicito avrà come conseguenza una maggiore focalizzazione sulla
competenza grammaticale esplicita. A questo stadio tanto iniziale dell’acquisizione
di una L2, la strategia indotta dall’input implicito si rivela più efficace in termini
di accuratezza dell’elaborazione. La competenza implicita degli apprendenti di
entrambi i gruppi, tuttavia, non sembra aver ancora assimilato la categoria del caso e
la sua lessicalizzazione. In ogni caso, i dati mostrano come con ulteriore esposizione
all’input i risultati nel test migliorino per entrambi i gruppi, suggerendo un effetto
30
JACOPO SATURNO
benefico dell’esposizione alla lingua bersaglio sullo sviluppo delle capacità di
elaborazione dell’input.
Ringraziamenti
Desidero ringraziare sinceramente tutti i membri del progetto VILLA, e in
particolare i coordinatori delle sedi che hanno preso parte all’iniziativa: Giuliano
Bernini, Marina Chini, Christine Dimroth, Rebekah Rast, Leah Roberts, Marianne
Starren, Marzena Watorek. Ho inoltre un debito particolare verso Christine
Dimroth e Rebekah Rast, che hanno progettato e coordinato i test Sentence
Imitation e Transparency Test rispettivamente.
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Cognitive Factors in Second Language Acquisition: Selected Proceedings of the 1999 Second
Language Research Forum, Cascadilla Press, Somerville: 287-311.
Vinther T. (2002), Elicited imitation: a brief overview, in International Journal of Applied
Linguistics 12(1): 54-73.
DANIELE ARTONI1
L’acquisizione della morfologia del caso in russo L2:
uno studio trasversale
This paper aims at investigating the acquisition of case morphology in L2 Russian. The
hypotheses here introduced are based on Processability Theory (Pienemann, 1998), which
claims that learners move through universal stages of acquisition. My hypotheses on L2
Russian are tested on a group of 15 learners with different L1 backgrounds and levels of
proficiency. The analysis of their oral production confirms the developmental hypotheses.
In addition, this paper investigates the sequence in which cases are acquired at the phrasal
procedure stage, the stage that introduces the highest variety of case-marked structures.
1. Introduzione
Questo studio trasversale è stato condotto nel quadro teorico della Teoria della
Processabilità (in seguito TP, Pienemann, 1998; Pienemann et al., 2005; Bettoni Di Biase, in stampa) e ha l’obiettivo di verificare se apprendenti di russo L2 diversi
per grado di competenza, L1 e natura dell’esposizione all’input seguano tuttavia
stadi di acquisizione della morfologia del caso simili. Nella seconda sezione, espongo brevemente le caratteristiche principali del caso in russo e ne propongo le ipotesi
di sviluppo in L2. La terza sezione è dedicata alla metodologia e alla raccolta dati.
Nella quarta infine presento l’analisi dei dati.
2. Il caso in russo e le ipotesi del suo sviluppo
Questa sezione presenta prima i tratti salienti del caso in russo e poi le ipotesi del
suo sviluppo in russo L2. Poiché la TP usa il modello descrittivo della Grammatica
Lessico-Funzionale (Bresnan, 2001), anche la mia descrizione e le mie ipotesi usano
questo impianto teorico.
Dal punto di vista morfologico il russo ha sei casi, marcati su nomi, pronomi
e aggettivi: nominativo, genitivo, dativo, accusativo, strumentale, prepositivo. La
notevole complessità formale delle terminazioni dei casi è dovuta al fatto che i casi
sono sensibili alle variazioni di numero (singolare o plurale), genere (maschile, femminile e neutro), animatezza e classe (vedi tab. 1).
1
Università degli Studi di Verona.
34
DANIELE ARTONI
Tabella 1 - Paradigma delle marche di caso sui nomi
Fonte: Kempe - MacWhinney, 1998
Dal punto di vista funzionale il caso è innanzitutto elemento costruttore di relazioni sintattiche. Infatti, secondo la classificazione tipologica in Nordlinger (1998), la
lingua russa presenta caratteristiche di scarsa configurazionalità, ammettendo tutte le possibili permutazioni fra i principali elementi costitutivi della frase, ovvero
SOGG, V e OGG. Ne vediamo un esempio in (1), dove tutte le frasi hanno lo stesso
significato, ossia ‘Masha-nom beve acqua-acc’:
(1)
a.
b.
c.
d.
e.
f.
Maš-a
sogg
Maš-a
sogg
P’jot
v
P’jot
v
Vod-u
ogg
Vod-u
ogg
p’jot
v
vod-u
ogg
Maš-a
sogg
vod-u
ogg
p’jot
v
Maš-a
sogg
vod-u
ogg
p’jot
v
vod-u
ogg
Maš-a
sogg
Maš-a
subj
p’jot
v
La proprietà del caso di costruire relazioni sintattiche è basata sull’assegnazione di
default dei casi nominativo e accusativo rispettivamente alle funzioni grammaticali
di soggetto e oggetto. Il caso non è l’unico mezzo morfologico utilizzato in russo
L’ACQUISIZIONE DELLA MORFOLOGIA DEL CASO IN RUSSO L2
35
per costruire le relazioni sintattiche: il verbo infatti accorda in persona, numero e
talvolta genere con il soggetto.
Accanto al caso utilizzato per costruire relazioni sintattiche, King (1995) individua nella lingua russa anche assegnazioni di caso di natura lessicale e semantica.
Occorrenze di caso lessicale, ovvero quando il caso è lessicalmente selezionato dalla
testa, sono molto frequenti in russo, sia quando la testa è una preposizione (2a), sia
quando è un verbo (2b). Meno frequente risulta essere il caso assegnato lessicalmente da un aggettivo (2c).
(2)
a.
b.
c.
s ‘con’ P ( obj case) = str
S
drug-om
Con amici-str
upravljat’ ‘gestire’ V ( obj case) = str
On
upravljaet
biznes-om
Egli
gestisce
affare-str
dovolen ‘contento’ AGG ( obj case) = str
Ja
dovolen
rezultat-om
Io
felice
risultato-str
‘Sono felice del risultato’
Un esempio di caso assegnato semanticamente è presentato in (3), in cui il ruolo
semantico <strumento> è legato al caso strumentale.
(3)
Ivan
Ivan
pisal
pis’mo karandaš-om
scrisse lettera matita-str
‘Ivan ha scritto una lettera con una matita’
Le occorrenze di caso semantico sono molto rare tanto nella produzione dei parlanti
nativi quanto in quella degli apprendenti e sono quindi state tralasciate nello studio
che segue.
Per l’apprendente utilizzare e gestire tale varietà di forme è un compito complesso; esse verranno quindi acquisite gradualmente. La TP permette di formulare precise ipotesi di sviluppo degli stadi di acquisizione della morfologia comuni a tutti
gli apprendenti. Questi stadi sono implicazionali, ovvero l’attivazione dello stadio
immediatamente inferiore è necessaria per poter raggiungere lo stadio successivo.
Gli stadi previsti dalla TP per la morfologia sono cinque, e si rifanno all’intuizione,
derivata da Levelt (1989), secondo cui maggiore è la distanza sintattica fra gli elementi che richiedono scambio di informazione grammaticale, maggiore sarà il costo
cognitivo richiesto dall’operazione di processing, e più tardo l’apprendimento in L2.
Gli stadi di sviluppo della morfologia in una qualsiasi L2 individuati da Pienemann
(1998) sono mostrati nella tab. 2, e quelli specifici del russo L2 sono proposti nella
tab. 3.
36
DANIELE ARTONI
Tabella 2 - Ipotesi di sviluppo della morfologia
Fonte: Pienemann, 1998
Tabella 3 - Ipotesi di sviluppo della morfologia del caso in russo L2
In seguito a un primo stadio di accesso al lemma, in cui gli apprendenti producono
casi solo in formule, viene attivato lo stadio della procedura categoriale, in cui gli
apprendenti sono in grado di variare la marca di caso solo su singoli nomi, senza
che ciò comporti scambio di informazioni con altri elementi dell’enunciato. Per tale
motivo a questo stadio sono state prese in considerazione frasi con ordine canonico
SVO, in cui il caso sul nome post-verbale può essere assegnato semplicemente per
posizione. In un primo momento infatti gli apprendenti costruiscono stringhe con
ordine canonico sottospecificate, in cui l’accordo tra soggetto e verbo viene marcato
dalla terza persona singolare di default e il caso accusativo viene assegnato ai nomi
post-verbali. Una marca accusativa su un nome post-verbale non può essere quindi
prova di assegnazione funzionale.
L’ACQUISIZIONE DELLA MORFOLOGIA DEL CASO IN RUSSO L2
37
A questo stadio gli apprendenti introducono prima una variazione formale minima tra la forma nominativa di default e una forma generica non-nominativa, marcata probabilmente dalle terminazioni -e e -u, forme altamente frequenti nell’input
in funzioni diverse dal soggetto, come in (4).
(4)
Govorit *mam-u
Dice *mamma-non-nom
‘*[Cappuccetto Rosso] dice a mamma’
Frequente a questo stadio dell’interlingua si trova anche la marca accusativa in posizione post-verbale, come in (5), che, come detto pocanzi, è determinata solo dalla
posizione.
(5)
Videla mam-u
Vide mamma-acc
Lo stadio seguente prevede l’attivazione della procedura sintagmatica, grazie alla
quale gli apprendenti sono in grado di scambiare informazione grammaticale tra
elementi interni al sintagma. In questo studio consideriamo il sintagma preposizionale (SP) e quello verbale (SV), mentre escludiamo i sintagmi quantificatori (SQ) e
aggettivali (SA) a causa della scarsità di occorrenze nella produzione degli apprendenti. Si è inoltre deciso di non considerare l’accordo tra aggettivo e nome nel sintagma nominale (SN), poiché di natura differente rispetto al caso nel SP e nel SV.
Infatti, in entrambi i casi del SP e SV il caso è frutto di reggenza, mentre nel SN si
tratta di accordo.
Per quanto riguarda il caso nel SP, ogni preposizione richiede lessicalmente che
il proprio nome o pronome sia marcato da un caso specifico, come abbiamo visto
nell’esempio (2a).
Poiché non considero il caso accusativo post-verbale in questo stadio, la prova di
avvenuto scambio di informazione nel SV si ha nel caso lessicale, quando l’oggetto
è marcato da un caso diverso dall’accusativo. Come per il SP, quindi, anche nel caso
interno al SV lo scambio di informazione avviene tra la testa – in questo caso il verbo –, che richiede lessicalmente un determinato caso marcato sull’oggetto, e il nome
(o pronome), come in (2b).
L’ultimo stadio di sviluppo morfologico del caso in russo L2 è determinato
dall’unificazione del tratto di caso tra sintagmi diversi. La struttura che in russo
esige tale scambio di informazione è la topicalizzazione dell’oggetto, ovvero quando
l’oggetto occupa la prima posizione, ed è quindi esterno al VP, come in (6).
(6)
Knig-u čitaet
Libro-acc
mam-a
legge mamma-nom
‘Il libro lo legge la mamma’
38
DANIELE ARTONI
Non esistono strutture appartenenti allo stadio inter-frasale poiché il russo non prevede assegnazioni di caso richieste da strutture che vanno oltre il confine della frase.
Vorrei infine porre l’attenzione sul fatto che le ipotesi prevedono che l’oggetto
emerga a stadi diversi a seconda del caso con cui è marcato e dalla posizione in cui
si trova rispetto al verbo. L’accusativo in posizione post-verbale emerge allo stadio
della procedura categoriale, poiché tale caso può essere assegnato per posizione nelle
frasi con ordine canonico. Allo stadio della procedura sintagmatica gli apprendenti
sono in grado di assegnare un caso diverso dall’accusativo in posizione post-verbale
quando richiesto lessicalmente dal verbo. Tale caso non default è prova dell’avvenuto scambio di informazione interno al SV tra verbo e nome. Infine, allo stadio della
procedura frasale, l’accusativo assegnato all’oggetto pre-verbale è prova di avvenuto
scambio di informazione tra il SV e il SNogg che, trovandosi in posizione preverbale, è quindi esterno al SV.
3. Metodologia
Al fine di testare le mie ipotesi ho condotto uno studio trasversale su 15 apprendenti di russo L2. Le loro caratteristiche sono riassunte nella tab. 4. Le L1 includono
l’azero, il georgiano, l’italiano e il serbo. Per quanto riguarda la presenza o meno di
caso nelle L1 degli apprendenti, l’italiano ne ha un uso estremamente limitato solo
su alcuni pronomi personali, il georgiano e l’azero lo marcano morfologicamente
ma con marche diverse per forma da quelle del russo, mentre il serbo ha un sistema
di marche molto simile a quello russo.
La maggior parte degli apprendenti – 5 maschi e 10 femmine – ha un’età compresa tra i 20 e i 26 anni. Per quanto riguarda le caratteristiche dell’apprendimento,
5 apprendenti hanno vissuto o vivono in un contesto di immersione della lingua
russa, 2 sono apprendenti interamente spontanei, che non hanno mai studiato la
lingua russa, e 7, tutti italiani, hanno imparato il russo all’università con un metodo
molto tradizionale di esplicitazione delle regole grammaticali.
L’ACQUISIZIONE DELLA MORFOLOGIA DEL CASO IN RUSSO L2
39
Tabella 4 - Caratteristiche degli apprendenti
Al fine di elicitare le strutture mostrate nelle ipotesi, gli apprendenti sono stati sottoposti a quattro compiti, le cui finalità sono le seguenti:
1. Informazioni generali: rispondendo ad alcune domande l’apprendente fornisce i
dati della propria biografia sociolinguistica;
2. Cappuccetto rosso: attraverso immagini guida l’apprendente racconta la storia
della fiaba, usata per elicitare la reggenza di casi diversi nel SP;
3. Cosa accade a Cappuccetto rosso: l’apprendente costruisce frasi partendo da immagini con i protagonisti della fiaba in situazioni diverse, richiedenti l’uso di
strutture in cui il verbo richiede lessicalmente per il suo oggetto un caso diverso
dall’accusativo;
4. La festa: sollecitato da una serie di immagini, l’apprendente descrive quali regali
sono stati portati dagli invitati ad una festa, obbligato a partire a volte dall’invitato (agente e soggetto) altre dal regalo (tema e oggetto). In questo modo si
alterna la struttura default SVO e la struttura topicalizzata TOPogg V.
La produzione orale degli apprendenti durante l’esecuzione dei compiti è stata registrata e trascritta. Nei dati sono poi state identificate le marche di caso meno equivocabili, eliminando tutte quelle ambigue (vedi tab. 1). Vengono perciò analizzati i
seguenti casi:
– genitivo: -a del maschile singolare, e tutte le forme plurali;
– dativo: -u del maschile singolare, e tutte le forme plurali;
– accusativo: -u del femminile singolare, -a del maschile singolare animato, e tutte
le forme plurali animate;
40
DANIELE ARTONI
– strumentale: tutte le forme;
– prepositivo: tutte le forme plurali.
Inoltre sono stati considerati tutti i pronomi, in quanto non presentano ambiguità.
Dopo tale scrematura, il numero totale delle marche di caso analizzate è di 700, con
una media di 46,67 per apprendente.
4. Analisi dei dati
La tab. 5 riporta i risultati dell’analisi, organizzati per stadi dal basso in alto come
nella tab. 3 delle ipotesi. Dopo le strutture nella prima colonna, in quelle successive
sono disposti gli apprendenti in ordine crescente di competenza, con i principianti
sulla sinistra. Rifacendomi ai criteri di Pienemann (1998), il + precede il numero
di strutture correttamente marcate, mentre il – indica il numero di strutture in cui
l’apprendente non ha prodotto il caso richiesto.
A livello dello stadio della procedura categoriale, tutti gli apprendenti producono marche morfologiche diverse dal nominativo. Ovviamente, gli apprendenti
a livello di competenza più basso producono una variazione formale minima, con
marche non corrette nella lingua target, come mostrato da due frasi di AL in (7).
(7)
AL:
a.
b.
Volk edila
Lupo-nom
Videla
Vide
mangiò
*volk-e
*lupo-non nom
A questo stadio è possibile trovare la marca dell’accusativo assegnato per posizione
in frasi canoniche SVO, come in (8).
(8)
EV:
Volk
Lupo-nom
uvidet ejo
vede
lei-acc
Allo stadio della procedura sintagmatica, per quanto riguarda il SP, 13 apprendenti su 15 sono in grado di marcare il nome retto da una preposizione con un caso
diverso dal nominativo. Talvolta la selezione del caso non è accurata: in (9a), per
esempio, EL produce un genitivo invece del prepositivo richiesto dalla preposizione
v (‘in’). Altri apprendenti mostrano invece maggiore accuratezza, come MT in (9b).
(9)
EL:
MT:
a.
In
b.
Con
V
*aprelj-a
*aprile-gen
S
drug-om
amico-str
L’ACQUISIZIONE DELLA MORFOLOGIA DEL CASO IN RUSSO L2
41
I 2 apprendenti che non hanno attivato la procedura sintagmatica, EV e AL, producono variazione di caso nel SP solo in alcune formule, come in (10), ma ricadono
nel nominativo di default quando si tratta di costruire il SP on line, come in (11).
(10)
AL:
Učus’ v universitet-e
Studio in università-prep
‘Studio all’università’
(11)
EV:
U
*babušk-a
Presso *nonna-nom
est’
essere
rot
bocca
‘La nonna ha la bocca’
Guardando ora i dati del caso nel SV, si notano numeri bassi di occorrenze. Tale
scarsità è dovuta al fatto che, come già detto, i casi con l’accusativo in posizione
post-verbale possono essere assegnati per posizione e quindi non sono prova di
scambio di informazione. Sono state pertanto considerate solo quelle strutture in
cui l’oggetto non è accusativo, come nell’esempio (12) di BD.
(12)
BD:
Chočet stat’
balerin-oj
Vuole diventare ballerina-str
I 6 apprendenti che non marcano il caso richiesto lessicalmente dal verbo ricadono
nelle forme default accusativa o nominativa, come nella produzione di CA in (13).
(13)
CA:
Chočet stat’
*balerin-a
Vuole diventare *ballerina-nom
Dato il numero basso di occorrenze di caso non accusativo in posizione post-verbale, non sorprende osservare (tab. 5) che il caso nel SV emerge successivamente al
caso nel SP.
L’ultimo stadio di acquisizione, che richiede l’attivazione della procedura frasale, è raggiunto da 7 apprendenti. In (14), un esempio dalle produzioni di BB,
vediamo come sia impiegato il caso accusativo indipendentemente dalla posizione
dell’oggetto.
(14)
BB:
Butylk-u
Bottiglia-acc
prinesla
portò
medsestr-a
infermiera-nom
‘La bottiglia l’ha portata l’infermiera’
I restanti 8 apprendenti, pur essendo in grado di marcare l’oggetto in posizione postverbale con l’accusativo, quando producono una struttura topicalizzata lo marcano
con il nominativo di default, come in (15).
42
(15)
DANIELE ARTONI
JO:
*Butylk-a
*Bottiglia-nom
prinesla
portò
medsestr-a
infermiera-nom
‘*La bottiglia portata l’infermiera’
Insomma, i dati confermano l’implicazionalità degli stadi acquisizionali. Nessun
apprendente è infatti in grado di produrre strutture appartenenti a un determinato
stadio senza aver attivato le procedure degli stadi inferiori.
Con i dati di questo studio è stato possibile condurre anche un altro tipo di
analisi sull’acquisizione del caso. Partendo dagli stadi di acquisizione della TP or
ora confermati, si è voluto vedere se sia possibile ipotizzare delle sequenze di emersione dei diversi casi all’interno dello stadio sintagmatico, che è quello che presenta
il maggior numero di strutture e una grande varietà di casi. La tab. 6 mostra la distribuzione dei casi tra gli apprendenti al variare del tipo di sintagma.
All’interno del SP il primo caso non-nominativo a emergere è il prepositivo. Ciò
non stupisce per il fatto che è molto semplice come forma (non varia secondo il
genere, la classe e l’animatezza) e viene usato solo nel SP. Per quest’ultima ragione si
può affermare che il prepositivo sia il caso di default del SP. In seguito, emergono il
genitivo, lo strumentale e il dativo. Solo gli apprendenti più avanzati producono il
caso accusativo nel SP, ovviamente quando lo richiede lessicalmente la preposizione.
All’interno del SV, l’accusativo è introdotto per primo, poiché anche gli apprendenti principianti lo assegnano al nome grazie alla sua posizione post-verbale.
Nonostante in posizione post-verbale esso sia il caso di default, è interessante notare
come l’accuratezza sia bassa anche in apprendenti avanzati, come AB, il quale non
marca l’oggetto in accusativo 8 volte su 14. Dopo l’accusativo, in apprendenti intermedi emerge il dativo, seguito dallo strumentale, e infine dal genitivo.
Tabella 6 - Distribuzione dei singoli casi tra gli apprendenti all’interno dello stadio sintagmatico
L’ACQUISIZIONE DELLA MORFOLOGIA DEL CASO IN RUSSO L2
Tabella 5 - Distribuzione delle strutture marcate con caso tra gli apprendenti
43
44
DANIELE ARTONI
5. Conclusione
Lo studio trasversale condotto su 15 apprendenti di russo L2 conferma la validità
delle ipotesi sull’acquisizione della morfologia del caso basate sulla TP. Nello specifico, tutti gli apprendenti hanno raggiunto lo stadio della procedura categoriale;
13 sono in grado di produrre il caso in strutture che richiedono l’attivazione della
procedura sintagmatica. Solo 7 tra questi 13 marcano correttamente il caso quando
richiesto da una struttura di natura frasale. All’interno dello stadio della procedura
sintagmatica, il caso dipendente dalla preposizione viene marcato prima rispetto al
caso dipendente dal verbo, se diverso dall’accusativo e se in posizione post-verbale.
Inoltre, pur non potendo generalizzare i risultati ottenuti a causa dello scarso
numero di apprendenti, analizzando la produzione dei singoli casi all’interno dello
stadio sintagmatico, si possono fare alcune interessanti osservazioni. Gli apprendenti producono fin da subito il prepositivo nel SP e l’accusativo nel SV. Solo in seguito
introducono gli altri casi. Nei dati analizzati, la sequenza di emersione dei casi nel
SP è opposta a quella del SV, e precisamente:
– nel SP: prepositivo > genitivo > strumentale > dativo > accusativo;
– nel SV: accusativo > dativo > strumentale > genitivo.
Pare quindi che gli apprendenti in principio assegnino il caso prototipico del contesto sintattico, ovvero l’accusativo nel SV e il prepositivo nel SP, e che solo in seguito
introducano gli altri casi lessicalmente richiesti dalla testa del loro sintagma.
Bibliografia
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Languages: Exploring the Boundaries of Processability Theory, EUROSLA Monograph n. 3.
Bresnan J. (2001), Lexical-Functional Syntax, Blackwell, Oxford.
Kempe V. - MacWhinney B. (1998), The acquisition of case-marking by adult learners of
Russian and German, in Studies in Second Language Acquisition 20(4): 543-587.
King T.H. (1995), Configuring Topic and Focus in Russian, CSLI Publications, Stanford
(CA).
Levelt W.J.M. (1989), Speaking: From Intention to Articulation, MIT Press, Cambridge
(MA).
Nordlinger R. (1998), Constructive Case. Evidence from Australian Languages, CSLI
Publications, Stanford (CA).
Pienemann M. (1998), Language Processing and Second Language Development:
Processability Theory, Benjamins, Amsterdam.
Pienemann M. - Di Biase B. - Kawaguchi S. (2005), Extending Processability Theory,
in Pienemann M. (ed.), Cross-Linguistic Aspects of Processability Theory, Benjamins,
Amsterdam: 199-251.
MARCO MAGNANI1
Lo sviluppo delle interrogative wh- in russo L2:
uno studio trasversale
Acquiring wh- questions is no mean feat for the L2 learner, in so far as they are sentences
marked both pragmatically and linguistically. Pragmatically, they are used to request new
information, and hence always have an element in focus; structurally, their focus must respond to language-specific constraints. This paper hypothesises a staged development of
wh- questions in L2 Russian within the framework of Processability Theory (Pienemann et
al., 2005). Russian is a multiple fronting language which marks most question words by case,
and thus offers an intriguing testing ground. Results of a cross-sectional study of 8 learners
at different proficiency levels and from a variety of L1 backgrounds confirm the developmental hypotheses. They also reveal further interesting patterns at the interface between the
development of wh- questions and that of declaratives in L2 Russian.
1. Introduzione
In questo contributo presenterò un’ipotesi di sviluppo delle interrogative wh- in
russo L2, e lo farò nell’ambito della Teoria della Processabilità (TP; cfr. Pienemann,
1998; Pienemann et al., 2005). In prospettiva acquisizionale, le interrogative whcostituiscono un tipo di frase interessante, in quanto sono marcate sia pragmaticamente sia morfosintatticamente2. Dal punto di vista pragmatico, ricorrono meno
frequentemente delle frasi dichiarative, e vengono usate dai parlanti per soddisfare
un bisogno comunicativo cruciale, ovvero quello di richiedere una (o più di una)
nuova informazione. Dal punto di vista morfosintattico, la nuova informazione richiesta si codifica come focus (foc), e deve conformarsi a una serie di restrizioni
sintattiche, che variano da lingua a lingua. Non sorprende dunque che le interrogative wh- siano acquisite dopo le dichiarative canoniche. Ne considererò quindi lo
sviluppo anche all’interfaccia con quello delle dichiarative, proponendo i risultati
di uno studio trasversale condotto tra otto apprendenti con diversi livelli di competenza della L2 e con diverse L1.
Organizzo il contributo nel seguente modo: prima descriverò le caratteristiche
delle interrogative wh- in generale (§ 2) e quelle specifiche del russo (§ 3), poi ne
presenterò un’ipotesi di sviluppo desunta dalla gerarchia universale della TP (§ 4), e
infine porterò i risultati del mio studio (§ 5).
Università di Verona.
Lo sono, naturalmente, anche dal punto di vista prosodico, che però non verrà preso in considerazione in questo contributo.
1
2
46
MARCO MAGNANI
2. Le interrogative whLe interrogative wh- sono domande che contengono almeno un costituente interrogativo (il cosiddetto ‘elemento wh-’). Possono essere semplici, come in (1), quando contengono solo un costituente interrogativo; oppure complesse, come in (2),
quando ne contengono più di uno.
(1) Cosa ha fatto Carlo?
(2) Chi ha fatto cosa?
Caratteristica universale di tutte le interrogative wh- è l’attribuzione della funzione discorsiva foc al costituente interrogativo, necessaria per rendere prominente
l’informazione richiesta. Infatti, benché la focalità non sia una prerogativa delle
interrogative wh-, in questo tipo di frasi il foc è non solo prominente, ma anche
obbligatorio (Mycock, 2007). Le lingue variano però a seconda della strategia sintattica con cui lo segnalano. Dal punto di vista tipologico, in questa sede, possiamo
distinguerne due gruppi diversi: lingue in situ e lingue fronting.
Nelle lingue in situ, sia nelle interrogative wh- semplici sia in quelle complesse, qualsiasi costituente interrogativo occupa la stessa posizione del proprio equivalente
nella frase dichiarativa. È il caso del giapponese, che, come esemplificato in (3)3,
prevede i pronomi interrogativi doko-ni e nani-o nella stessa posizione dei rispettivi
costituenti teburu-ni e ringo-o nella frase dichiarativa.
(3) Mari-ga
Mari-nom
sogg
teburu-ni
ringo-o
tavolo-loc mela-acc
oblloc
ogg
okimashita
mettere.pass
verbo
‘Maria ha messo una mela sul tavolo’
Mari-ga
Mari-nom
sogg
doko-ni
dove-loc
oblloc
nani-o
cosa-acc
ogg
okimashita
ka
mettere.pass part-q
verbo
‘Dove ha messo cosa Maria?’
Nelle lingue fronting, invece, la questione è più complessa. Se l’interrogativa wh- è
semplice, il costituente interrogativo ricorre sempre all’inizio della frase4. È il caso
dell’italiano, che, come esemplificato in (4), realizza il pronome interrogativo oggetto cosa in posizione iniziale, a prescindere dalla posizione della controparte dichiarativa una mela.
L’inventario delle funzioni grammaticali negli esempi di questo contributo è quello proposto dalla
Grammatica Lessico-Funzionale (cfr. Bresnan, 2001; Falk, 2001; Dalrymple, 2001).
4
O quanto meno in posizione preverbale. Infatti in italiano, così come in altre lingue fronting, è possibile avere uno o più elementi topicalizzati che precedono il costituente interrogativo (il regalo a tua
sorella quando lo porti?) (Salvi - Vanelli, 2004).
3
47
LO SVILUPPO DELLE INTERROGATIVE WH- IN RUSSO L2
(4)
Luigi
sogg
mangia
verbo
una mela
ogg
Cosa
ogg
mangia
verbo
Luigi?
sogg
Per quanto concerne l’interrogativa wh- complessa si può distinguere tra lingue con
fronting singolo, come l’italiano e l’inglese, e lingue con fronting multiplo, come il
russo. Nelle prime, solo un costituente interrogativo occupa la posizione iniziale,
mentre tutti gli altri rimangono in situ. Per esempio, nella frase interrogativa italiana
in (5), il pronome interrogativo dove ricorre all’inizio della frase (contrariamente
alla controparte dichiarativa nel garage), mentre il pronome interrogativo cosa ricorre in posizione post-verbale (analogamente alla controparte dichiarativa la macchina).
(5)
Ho
aux
messo la macchina
verbo ogg
nel garage
oblloc
Dove
oblloc
hai
aux
cosa?
ogg
messo
verbo
Nelle seconde, tutti i costituenti interrogativi ricorrono in posizione iniziale. Infatti,
nella frase interrogativa russa in (6), nessuno dei due pronomi interrogativi kuda e
čto occupa la stessa posizione dei rispettivi costituenti jabloko e na stol nella dichiarativa.
(6) Maša
položila
jabloko
Masha-nom mettere.passperf.fem mela-acc
sogg
verbo
ogg
na
stol
su
tavolo
oblloc
‘Maria ha messo una mela sul tavolo’
Kuda čto
dove
cosa
oblloc ogg
položila
Maša?
mettere.passperf.fem Masha-nom
verbo
sogg
‘Dove ha messo cosa Maria?’
3. Le interrogative wh- in russo
Come si è visto in § 2, dal punto di vista tipologico il russo, per quanto riguarda
le interrogative wh-, appartiene alle lingue che le realizzano con fronting multiplo
(Zavitnevich, 1999). È infatti una lingua non-configurazionale (King, 1995), cioè
caratterizzata da un’ampia libertà nell’espressione dell’ordine dei costituenti, a tal
48
MARCO MAGNANI
punto che risulta ammissibile qualsiasi permutazione dell’ordine canonico SVO
(Timberlake, 2004; Kallestinova, 2007). Questa libertà viene sfruttata dai parlanti
quando per ragioni pragmatico-discorsive intendono dare prominenza a specifici
costituenti. E nel caso delle interrogative wh- la prominenza richiesta interessa proprio il sintagma interrogativo, che in russo ricorre dunque di default in prima posizione. Ma c’è di più. Quando il soggetto di un’interrogativa wh- non è il foc ed è
referenziale, questo ricorre di default in posizione post-verbale, come in (7).
(7)
Gde
dove
focagg
živët
vivere.pres.3.sg
verbo
Oleg?
Oleg-nom
sogg
‘Dove vive Oleg?’
Inoltre, se subentrano altre esigenze pragmatico-discorsive oltre all’interrogazione,
l’ordine dei costituenti può variare ulteriormente. Per esempio in (8), l’esigenza di
topicalizzare l’oggetto comporta che il pronome interrogativo non ricorra più all’inizio della frase, anche se rimane pre-verbale.
(8)
Mašinu
komu
macchina-acc chi.dat
topogg
focobl
kupil
otec?
comprare.passperf.masc padre-nom
verbo
sogg
‘La macchina, a chi l’ha comprata il padre?’
Ovviamente questa libertà sintattica è concessa da una ricca flessione morfologica.
Tra i vari tratti è di cruciale importanza il caso, perché è il mezzo principale con cui
in russo vengono identificate le funzioni grammaticali. Per quanto riguarda le interrogative wh-, come si nota in tab. 1, i pronomi interrogativi čto (‘cosa’) e kto (‘chi’)
hanno forme diverse per tutti e sei i casi del russo, eccetto le forme sincretiche di
nominativo e accusativo in čto, e quelle di accusativo e genitivo in kto.
Tabella 1 - Declinazione dei pronomi interrogativi čto e kto
Illustrate le caratteristiche salienti delle interrogative wh- in russo, è già intuitivo
dedurne che il compito dell’apprendente non sarà affatto semplice. Oltre a gestire la
complessità pragmatica dell’interrogazione, che è universale, dovrà:
LO SVILUPPO DELLE INTERROGATIVE WH- IN RUSSO L2
49
– identificare la strategia (in situ, fronting singolo o fronting multiplo) con cui il
russo realizza le interrogative wh-;
– imparare l’ordine dei costituenti richiesto dalle interrogative wh- in russo;
– annotare nel lessico le varie forme morfologiche dei costituenti interrogativi.
4. L’ipotesi
Per illustrare come avvenga lo sviluppo delle interrogative wh- negli apprendenti
di russo L2, ricorro all’Ipotesi della Prominenza, elaborata nel quadro teorico della
TP. È questa un’ipotesi che spiega specificamente lo sviluppo sintattico dell’apprendente della L2 a partire dalla rigidità dell’ordine canonico fino alla piena flessibilità
degli ordini marcati della L2 motivati da questioni pragmatiche o discorsive. E lo fa
ipotizzando una serie di stadi universali e implicazionali. Ne presenterò in questo
paragrafo la più recente formulazione di Bettoni - Di Biase (in stampa), ma il suo
impianto si rifà in modo sostanziale all’Ipotesi del Topic di Pienemann et al. (2005).
Illustro prima (tab. 2) la gerarchia universale dello sviluppo sintattico secondo l’Ipotesi della Prominenza, e poi (tab. 3) la sua applicazione al russo L2 per quanto
riguarda le interrogative wh-.
Tabella 2 - Sviluppo sintattico universale secondo l’Ipotesi della Prominenza
Fonte: Bettoni - Di Biase, in stampa
50
MARCO MAGNANI
Tabella 3 - Sviluppo sintattico delle interrogative wh- in russo L2
basato sull’Ipotesi della Prominenza
Allo stadio 1, l’apprendente sa produrre esclusivamente parole singole che si succedono le une alle altre senza grammatica, come in (9), e formule, come in (10).
(9) Kogda urok?
(10) Čto eto?
‘Quando lezione?’
‘Cos’è questo?’
Allo stadio successivo, all’inizio della grammaticalizzazione, l’ordine canonico viene prodotto grazie alla predicibilità della sua sequenza fissa. Ne consegue che l’apprendente di russo L2 produrrà perlopiù interrogative wh- in situ, come in (11), e
dunque collocherà il sintagma interrogativo in prima posizione solo quando questo
ha funzione di soggetto, come in (12).
(11) Oleg
Oleg-nom
sogg
uvidel
vedere.passperf.sg
verbo
čto?
cosa
focogg
‘Oleg ha visto cosa?’
(12) Kto
chi-nom
focsogg
umer?
morire-passperf.sg
verbo
‘Chi è morto?’
Un passo in avanti fondamentale avviene allo stadio 3, quando l’apprendente, formulando enunciati più lunghi e scegliendo di imprimervi una prospettiva diversa,
antepone un sintagma (sx) all’ordine canonico. Questo passo in avanti indica che
l’apprendente ha imparato a identificare il soggetto non più solo grazie alla sua
posizione iniziale nella frase e a distinguerlo così dalla funzione discorsiva (top
LO SVILUPPO DELLE INTERROGATIVE WH- IN RUSSO L2
51
nelle dichiarative e foc nelle interrogative wh-) anteposta alla stringa canonica.
Tipicamente, a questo stadio, il top e il foc sono costituenti non marcati formalmente, come l’avverbio in (13). Se li riconosciamo come aggiunti o obliqui lo
dobbiamo più al lessico (con l’avverbio o il sintagma preposizionale) che alla forma
marcata con un caso.
(13) Kogda
quando
focagg
on
lui-nom
sogg
byl ubit?
essere ucciso.passperf.sg
verbo
‘Quando è stato ucciso?’
Inoltre, dovendo ancora imparare a rompere la sequenza fissa dell’ordine canonico,
a questo stadio l’apprendente collocherà il soggetto in posizione pre-verbale anche
quando questo sia referenziale, come in (14), producendo così una frase agrammaticale.
(14) Gde
dove
focobl
Oleg
Oleg-nom
sogg-ref
živët?
vivere.pres.3.sg
verbo
‘Dove Oleg vive?’
Allo stadio 4, l’apprendente è in grado di assegnare le funzioni grammaticali prescindendo dalla loro posizione nella frase. Dunque saprà focalizzare il pronome
interrogativo oggetto in prima posizione marcandolo correttamente con il caso accusativo e produrrà interrogative wh- con il soggetto post-verbale, come in (15).
(15) Kogo
Chi-acc
focogg
ubili
uccidere.passperf.pl
verbo
oxotniki?
cacciatori-nom
sogg
‘Chi hanno ucciso i cacciatori?’
5. Lo studio
Per verificare le ipotesi presentate in § 4, riporto i risultati di uno studio trasversale
condotto su otto apprendenti di russo L2 con diversi livelli di competenza e provenienti da L1 tipologicamente differenti (italiano, serbo, azero e georgiano). Anche
i loro contesti d’apprendimento sono vari: la maggior parte degli apprendenti italiani ha studiato il russo all’università e lo pratica occasionalmente al di fuori delle
lezioni; altri (tra cui tutti gli apprendenti azeri) l’hanno appreso in un contesto di
immersione linguistica in paesi russofoni senza istruzione formale; altri ancora hanno fruito sia dell’intervento didattico sia del contesto russofono.
52
MARCO MAGNANI
I dati sono di parlato semi-spontaneo, e sono stati rilevati per mezzo di un protocollo composto da task messi a punto per elicitare le strutture oggetto di questo
studio.
In totale, per questo studio sono state considerate 36 interrogative wh- e 280
dichiarative escludendo dal corpus le frasi copulari al tempo presente, che in russo
prevedono l’omissione della copula. Ne presento l’analisi nei due paragrafi che seguono, focalizzandomi prima sulle interrogative wh- (§ 5.1), e poi sul loro raffronto
con le dichiarative (§ 5.2).
5.1 Analisi delle interrogative whLa tab. 4 riassume i risultati dello studio, ed è organizzata come segue. Nella colonna
a sinistra sono elencate le strutture, raggruppate per stadio (escludendo quello lemmatico, già ampiamente superato da tutti gli apprendenti). Nelle colonne successive ne vengono riportate le relative occorrenze, distribuite tra gli otto apprendenti,
elencati orizzontalmente in ordine di competenza.
Tabella 4 - Risultati (interrogative wh-)
Prima di commentare i risultati, è necessario chiarire tre punti. Il primo riguarda la
selezione delle strutture: in questo studio consideriamo solo le interrogative wh- il
cui foc ha una funzione argomentale: oggetto, come čto (‘cosa’), soggetto, come
kto (‘chi’) e obliquo, come gde/kuda (‘dove’); oppure la funzione non argomentale
di aggiunto, come kogda (‘quando’). Escludiamo quindi le interrogative con počemu
(‘perché’), che comporterebbero ulteriori considerazioni sulla subordinazione,
un’area ancora poco studiata nell’ambito della TP. Il secondo punto da chiarire riguarda la marcatura morfologica del caso: poiché questo studio non indaga specificamente lo sviluppo morfologico, nella tabella ci limitiamo a indicare il caso con cui
è marcata la funzione grammaticale solo quando è necessaria la piena assegnazione
funzionale dei costituenti per determinare l’acquisizione della struttura sintattica,
come lo è per esempio con il fronting del sintagma interrogativo oggetto marcato
all’accusativo o con il soggetto post-verbale marcato al nominativo. Il caso non vie-
53
LO SVILUPPO DELLE INTERROGATIVE WH- IN RUSSO L2
ne invece indicato quando il sintagma si trova nella sua posizione canonica. Il terzo
punto, infine, riguarda il criterio con cui consideriamo una struttura come prova di
progresso a un determinato stadio: qui seguiamo Pienemann et al. (2005), secondo
cui è sufficiente una struttura, purché – e questo è di cruciale importanza – ne venga
appurata la produzione on line e non formulaica.
Allo stadio 2 dell’ordine canonico, notiamo che nei dati le interrogative wh- in
situ prevedono tutte l’interrogazione del soggetto. L’esito risulta dunque grammaticale, come in (16), perché focus e soggetto coincidono in prima posizione.
(16) MAT:
Kto
chi-nom
focsogg
umer?
morire.passperf.sg
verbo
‘Chi è morto?’
Tutti gli apprendenti sanno premettere il foc all’ordine canonico, come in (17), e
hanno dunque raggiunto lo stadio 3.
(17) ALB:
Gde
dove
focagg
vy
voi-nom
sogg
našli
trovare.passperf.pl
verbo
mërtvyj čelovek?
uomo morto-nom
ogg
‘Dove avete trovato l’uomo morto?’
Oltre alla prototipica focalizzazione di un aggiunto o di un obliquo locativo, è interessante notare anche le altre due strutture prodotte a questo stadio 3. Per esempio
i due apprendenti CHI e ABB, oltre a premettere il foc con funzione di aggiunto all’ordine canonico (qui rappresentato solo dal verbo), antepongono il soggetto
come tema sospeso, come in (18).
(18)
CHI:
Vremja ubijstva
kogda
ora di omicidio-nom quando
topsogg
focagg
byla?
essere.pass.sg
verbo
‘L’ora dell’omicidio, quand’è stata?’
Interessante è anche la struttura prodotta da MAT. In (19) il pronome tema, che
dovrebbe essere marcato come oggetto, è in prima posizione. Tuttavia, poiché l’apprendente non riesce ancora a gestire la marca accusativa in posizione non canonica,
la funzione del foc rimane sottospecificata, ovvero è marcata con il caso default
nominativo: un evidente esempio di incertezza funzionale (functional uncertainty,
cfr. Bresnan, 2001).
54
(19) MAT:
MARCO MAGNANI
Kto
chi-nom
foc?-tema
on
lui-nom
sogg
ubil?
uccidere.passperf.sg
verbo
‘Chi [ogg] ha ucciso?’
Cinque apprendenti su otto hanno raggiunto lo stadio 4, poiché non solo focalizzano l’aggiunto o l’obliquo locativo, ma anche posizionano il soggetto dopo il verbo, come in (20).
(20) CAM:
Gde
dove
focagg
živët
vivere.pres.3.sg
sogg
čelovek?
uomo-nom
verbo
‘Dove vive l’uomo?’
A un livello più complesso di non canonicità, due apprendenti dimostrano di sapere
anche focalizzare il pronome oggetto, marcandolo correttamente con il caso accusativo. L’appendente LIK lo antepone al verbo omettendo il soggetto, come in (21),
mentre ABB antepone anche il soggetto come tema sospeso, come in (22).
(21) LIK:
Kogo
chi-acc
focogg
ubil?
uccidere.passperf.sg
verbo
‘Chi [ogg] ha ucciso?’
(22) ABB:
On
lui-nom
topsogg
kogo
chi-acc
focogg
ubil?
uccidere.passperf.sg
verbo
‘Chi [ogg] ha ucciso?’
Infine, CHI è l’unica apprendente che realizza un’interrogativa wh- complessa, e lo
fa nel pieno rispetto del fronting multiplo, come in (23).
(23) CHI: Kto
chi-nom
focsogg
čem
cosa-strum
focagg
ubil
čeloveka?
uccidere.pastperf.sg uomo-acc
verbo
ogg
‘Chi [sogg] ha ucciso con cosa l’uomo?’
5.2 Interrogative wh- e dichiarative: analisi a confronto
Dai risultati di due studi trasversali sullo sviluppo sintattico dell’italiano L2 e del
tedesco L2 nell’ambito della TP, Bettoni - Di Biase (2011) e Jansen (in stampa) rilevano che l’ordine non canonico dei costituenti nelle interrogative tende a emergere
prima che nelle dichiarative. Vediamo in questo paragrafo se la loro constatazione
55
LO SVILUPPO DELLE INTERROGATIVE WH- IN RUSSO L2
è confermata dai dati del russo L2. Se osserviamo la tab. 5, che riassume lo sviluppo
delle dichiarative negli otto informanti di questo studio, e la raffrontiamo con la tab.
4 in § 5.1, notiamo alcune differenze nello sviluppo dei due tipi di frase.
Tabella 5 - Risultati (dichiarative)
In primo luogo, CAM e LIK sono più avanzate nelle interrogative wh-, in cui hanno entrambe raggiunto l’ultimo stadio dell’ordine non canonico, mentre nelle dichiarative CAM raggiunge lo stadio 2 producendo solo frasi con l’ordine canonico,
come in (24), e LIK lo stadio 3 topicalizzando l’aggiunto, come in (25).
(24) CAM:
Oficant
cameriere-nom
sogg
prinës ložku
portare.passperf.sg
verbo ogg
cucchiaio-acc
‘Il cameriere ha portato il cucchiaio’
(25) LIK:
Sejčas’
adesso
agg
ja
učus’
io-nom studiare.pres.1.sg
sogg
verbo
russkij jazyk
lingua russa-acc
ogg
‘Adesso studio la lingua russa’
Inoltre, non avendo ancora imparato a topicalizzare l’oggetto, realizzano entrambe
diverse frasi agrammaticali con tema e agente entrambi marcati con il caso default
nominativo, come in (26).
(26)
LIK:
Vilka
forchetta-nom
tema
prinësla
portare.passperf.sg
verbo
‘la forchetta ha portato la ballerina’
balerina
ballerina-nom
agente
56
MARCO MAGNANI
Al contrario, MAT risulta più avanzato nelle dichiarative, in cui sa già topicalizzare
l’oggetto, come in (27), mentre – come si è visto in (19) – non lo sa focalizzare correttamente nelle interrogative, producendo una struttura dello stadio 2.
(27)
MAT: Grušu
prinës
pera-acc portare.passperf.sg
ogg
verbo
prepodavatel’nica
professoressa-nom
sogg
‘La pera l’ha portata la professoressa’
In secondo luogo, notiamo che le interrogative prodotte da CAM e LIK all’ultimo
stadio rivelano gradi diversi di non canonicità: mentre entrambe realizzano il soggetto post-verbale, solo LIK sa focalizzare il pronome oggetto marcato con il caso
accusativo.
Possiamo dunque concludere che anche in russo L2 gli ordini marcati emergono
prima nelle interrogative wh- che nelle dichiarative? Certamente è così per quanto
concerne la produzione del soggetto post-verbale marcato al nominativo. Abbiamo
infatti notato che CAM, la meno avanzata nelle dichiarative, sa già collocare il soggetto dopo il verbo nelle interrogative. Ed è anche interessante notare che gli apprendenti che non producono interrogative wh- con il soggetto post-verbale collocano
solo i soggetti pronominali in posizione preverbale, e mai quelli referenziali, in cui la
sequenza soggetto-verbo risulta agrammaticale. I dati appaiono invece meno chiari
per quanto concerne la focalizzazione del pronome interrogativo oggetto marcato
con il caso accusativo: mentre LIK la realizza correttamente senza sapere ancora
topicalizzare l’oggetto nelle dichiarative, MAT la produce in modo agrammaticale
pur sapendo topicalizzare l’oggetto nelle dichiarative. Su quest’ultimo punto, però,
andrebbero considerati ulteriori fattori, come per esempio l’interfaccia con lo sviluppo morfologico e l’annotazione nel lessico del pronome oggetto accusativo.
6. Conclusione
Se l’acquisizione delle interrogative wh- costituisce un compito complesso in qualsiasi L2 per ragioni sia sintattiche sia pragmatiche, tale compito risulta ancora più
insidioso nel russo L2, dove alla complessità sintattico-pragmatica dell’interrogazione si aggiunge la marcatura morfologica del caso sul sintagma interrogativo. In
questo contributo abbiamo ipotizzato la sequenza di sviluppo delle interrogative
wh- in russo L2 basandoci sull’Ipotesi della Prominenza nell’ambito della TP, e
l’abbiamo verificata attraverso uno studio trasversale di otto apprendenti. Questa
ipotesi parte dall’assunto che la sintassi si sviluppa a partire dall’ordine canonico, in
cui i costituenti sono marcati secondo la posizione che occupano, fino al raggiungimento della flessibilità degli ordini non canonici, in cui i costituenti sono marcati
funzionalmente a prescindere dalla loro posizione nella frase. Nel caso delle interrogative wh- del russo, ciò significa che l’apprendente passa dal produrre inizialmente
domande in situ ad anteporre poi il foc all’ordine canonico, e a produrre infine
LO SVILUPPO DELLE INTERROGATIVE WH- IN RUSSO L2
57
domande con ordini marcati che richiedono il soggetto post-verbale e la marcatura
del sintagma interrogativo oggetto con il caso accusativo.
Per quanto riguarda lo sviluppo sintattico in generale, l’implicazionalità della
sequenza di sviluppo risulta confermata, in quanto nessun apprendente produce
strutture di uno stadio superiore senza averne prodotta almeno una dello stadio
precedente. Per quanto riguarda lo sviluppo delle interrogative wh- in particolare,
abbiamo osservato che, malgrado la loro complessità, tutti gli apprendenti sanno
già anteporre il foc all’ordine canonico. Dunque il primo passo in avanti dopo lo
stadio lemmatico sembra già consistere nel fronting del sintagma interrogativo (cfr.
anche Bettoni - Ginelli, in stampa). Inoltre, la maggior parte degli apprendenti ha
anche raggiunto l’ultimo stadio di sviluppo, producendo alcune interrogative con il
soggetto post-verbale. Alcuni di questi apprendenti le realizzano prima di aver raggiunto lo stadio dell’ordine non canonico nelle dichiarative. Se però ci si addentra
nell’ampia gamma di strutture appartenenti all’ultimo stadio di sviluppo, si nota
che solo pochi apprendenti sanno focalizzare il pronome oggetto delle interrogative
wh- marcandolo con il caso accusativo o produrre interrogative wh- complesse con
il fronting multiplo. La maggior parte di questi sa anche accuratamente topicalizzare
l’oggetto nelle dichiarative.
Rimangono tuttavia alcune aree importanti da esplorare. Tra queste, l’interfaccia
con lo sviluppo morfologico è di cruciale importanza, perché permetterebbe un’analisi dettagliata della marcatura del caso sul sintagma interrogativo. Sarebbe inoltre
interessante includere nello studio trasversale un numero maggiore di apprendenti e
di strutture, che potrebbero rivelare ulteriori correlazioni con lo sviluppo delle frasi
dichiarative.
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Languages: Exploring the Boundaries of Processability Theory. EUROSLA Monographs
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MARGHERITA PIVI1 - GIORGIA DEL PUPPO1
L’acquisizione delle frasi relative restrittive in bambini
italiani con sviluppo tipico e con dislessia evolutiva
This work presents the results of an elicited production study on restrictive relative clauses
in Italian children with typical development or with a diagnosis of developmental dyslexia
or with suspected dyslexia. A generalized subject/object asymmetry was found, with subject
relatives (SRs) outnumbering object relatives (ORs) in every group of participants. Only
atypically developing children produced SRs with DP resumption and simple SVO sentences instead of the targeted relative clauses; moreover, they produced a lower amount of
ORs and a higher amount of resumptive or subject relatives instead, compared to typically
developing children. Suspected dyslexic children revealed the most divergent pattern, producing more simple SVO sentences, ungrammatical sentences, and fewer passive relative
clauses instead of ORs. The results display a pattern of responses similar to those reported
for SLI and hearing impaired children in oral production of relative clauses.
1. La produzione elicitata delle frasi relative restrittive nello sviluppo tipico
e atipico nelle diverse lingue
Studi sul linguaggio spontaneo infantile (Diessel - Tomasello, 2000) e sulla produzione elicitata (Contemori, 2011; Crain et al., 1990; Diessel - Tomasello, 2000;
Guasti - Cardinaletti, 2003) hanno mostrato che i bambini producono le frasi
relative soggetto (RS) e oggetto (RO) già dall’età di 3-4 anni. Inoltre, l’asimmetria soggetto/oggetto riscontrata nella modalità di comprensione (Adani, 2011;
Friedmann - Novogrodsky, 2004) è stata confermata anche dagli studi di produzione: i bambini non hanno difficoltà a produrre frasi relative sul soggetto, nelle
quali raggiungono percentuali di accuratezza vicine al 100%, mentre tendono a
produrre le relative oggetto in percentuali molto più basse. Dopo l’esperimento
pioneristico di Hamburger - Crain (1982), la produzione delle relative restrittive
è stata ampiamente indagata in diverse lingue (Håkansson - Hansson, 2000 per lo
svedese; Labelle, 1990 per il francese; McKee et al. 1998 per l’inglese; Novogrodsky
- Friedmann, 2006 per l’ebraico), compreso l’italiano (Belletti - Contemori, 2010;
Contemori, 2011; Guasti - Cardinaletti, 2003; Guasti et al., 2012; Utzeri, 2006).
Nello studio di Utzeri (2006) è stato utilizzato per la prima volta per l’italiano il
Test della preferenza (Novogrodsky - Friedmann, 2006; vedi anche Franceschini Volpato, questo volume), allo scopo di elicitare frasi relative restrittive in un gruppo
di bambini italiani di 6-10 anni, confrontandolo con un gruppo di controllo di sog1
Università Ca’ Foscari Venezia.
60
MARGHERITA PIVI - GIORGIA DEL PUPPO
getti adulti. Lo studio ha mostrato che entrambi i gruppi hanno cercato di evitare la
relativizzazione dell’oggetto, trasformando le RO in RS. Tuttavia, mentre i bambini
hanno utilizzato varie tipologie di risposta, gli adulti hanno prodotto prevalentemente relative passive, come (1).
(1) Vorrei essere il bambino che viene salutato dal signore.
RO target: Vorrei essere il bambino che il signore saluta.
In uno studio del 2010, Volpato ha confrontato la performance nella produzione
delle relative restrittive italiane in diversi gruppi di età (bambini in età scolare, adolescenti ed adulti), mostrando come le percentuali di RS corrette prodotte nei tre
gruppi fossero elevate (100% negli adolescenti, 98% negli adulti, 92% nei bambini),
a differenza delle RO, prodotte nel 37% dei casi dai bambini ed evitate dal gruppo
di adolescenti e dagli adulti, che hanno preferito ricorrere alle relative passive. La
stessa asimmetria soggetto/oggetto è stata riscontrata da Contemori (2011) in bambini italiani di età compresa tra i 3;4 e gli 8;10 anni.
La produzione delle frasi relative restrittive è stata ampiamente indagata anche nelle popolazioni affette da disabilità linguistiche (per i DSL: Contemori Garraffa, 2010; 2013 per l’italiano; Friedmann - Novogrodsky, 2004 e Novogrodsky
- Friedmann, 2006 per l’ebraico; Håkansson - Hansson, 2000 per lo svedese;
Stavrakaki, 2002 per il greco; per i bambini con sordità: Friedmann et al., 2008 per
l’ebraico; Volpato, 2010 e Volpato - Vernice, 2014 per l’italiano). Stavrakaki (2002)
ha esaminato un gruppo di bambini di lingua greca con DSL di età compresa fra
i 5;4 e i 9;4 anni, confrontandoli con un gruppo di bambini normodotati di età
media pari a 4;1 anni. La performance dei bambini con DSL si è rivelata significativamente peggiore, soprattutto nelle RO. In particolare, lo studio ha rivelato la tendenza dei bambini con DSL a ricorrere a frasi semplici SVO (63% vs 30% nello sviluppo tipico) in luogo delle frasi relative. Novogrodsky - Friedmann (2006) hanno
paragonato la performance di 18 bambini di lingua ebraica con DSL (9;13-14;6) a
quella di un gruppo di 28 bambini con sviluppo tipico (7;6-11;0), utilizzando il Test
della preferenza ed un compito di descrizione di figure. Dai risultati è emerso che
mentre i bambini con sviluppo tipico non mostravano difficoltà né nelle RS (98%)
né nelle RO (94%), i bambini con DSL mostravano performance deficitarie in entrambe le strutture, sia nel Test della preferenza (60% RO, 94% RS) che in quello
di descrizione di figure (46% RO, 83% RS). Contemori - Garraffa (2010) hanno
elicitato frasi relative restrittive in 4 bambini di lingua italiana con DSL (4;5-5;9),
usando un compito di descrizione di figure, il Test della preferenza e un compito di
ripetizione ritardata. Nei primi due compiti, i bambini con DSL hanno avuto una
performance peggiore rispetto al gruppo di controllo, sia nelle RS (13% vs 85%) che
nelle RO (3% vs 22%). Inoltre, il numero di RS (0,8% vs 87%) e RO (1,6% vs 84%)
ripetute correttamente è stato notevolmente inferiore. Gli errori più comuni riscontrati nei bambini con DSL sono stati l’omissione del complementatore e l’uso di
frasi dichiarative semplici in sostituzione alle frasi relative. Friedmann et al. (2008)
L’ACQUISIZIONE DELLE FRASI RELATIVE RESTRITTIVE
61
hanno elicitato frasi relative restrittive in un gruppo di 14 bambini di lingua ebraica
affetti da sordità (7;7-11;3) e in un gruppo di controllo composto da 28 bambini di
pari età cronologica. I bambini sordi, a differenza dei coetanei, hanno raddoppiato
la testa di frasi relative soggetto, come nell’equivalente italiano in (2), nel 3% dei
casi, e usato un pronome di ripresa nella posizione di soggetto, come nell’equivalente italiano in (3), l’8% delle volte.
(2) Vorrei essere il bambino che il bambino insegue i cani.
(3) Vorrei essere il bambino che lui insegue i cani.
Nel caso delle RO, i bambini sordi utilizzavano frequentemente un pronome di ripresa dell’oggetto (42%), come nell’equivalente italiano in (4), oppure producevano una frase agrammaticale (24%).
(4) Vorrei essere il bambino che il signore lo saluta.
Infine, Volpato (2010) ha elicitato frasi relative restrittive in bambini sordi italiani
in età scolare utilizzando il Test della preferenza. Rispetto ai controlli udenti, sia le
RS (88% vs 99%) che le RO (6% vs 14%) si sono rivelate deficitarie nei bambini con
sordità, i quali hanno mostrato di preferire le RO con ripresa del pronome clitico
(43%), come in (5a), o del sintagma nominale relativizzato (32%), come in (5b).
(5) a. Vorrei essere il bambino che il signore lo saluta.
b. Vorrei essere il bambino che il signore saluta il bambino.
2. Il test di produzione elicitata
2.1 Partecipanti
Hanno partecipato al nostro studio 116 bambini normodotati di età compresa tra
i 6 e i 10 anni, di cui 19 bambini di età compresa tra 6;3 e 6;11 anni (età media 6;6:
G1), 33 bambini di età compresa tra 7;0 e 7;11 anni (età media 7;4: G2), 27 bambini di età compresa tra 8;0 e 8;11 anni (età media 8;5: G3) e 37 bambini di età compresa tra 9;0 e 10;2 anni (età media 9;6: G4). Inoltre, la produzione di frasi relative
è stata indagata in un gruppo di 6 bambini con diagnosi di dislessia evolutiva di età
compresa tra 8;3 e 9;9 anni (età media 8;6: DE) e in un gruppo di 7 bambini con
“dislessia sospetta” di età compresa tra 6;6 e 9;7 (età media 7;9: DEsosp), segnalati
dalle maestre per le loro difficoltà scolastiche, ma privi di una diagnosi di dislessia.
Inoltre, è stato esaminato un gruppo di controllo composto da 10 adulti tra i 19 e 30
anni, con un’età media pari a 23;8 anni (G5).
62
MARGHERITA PIVI - GIORGIA DEL PUPPO
2.2 Materiali e metodi
Al fine di elicitare frasi relative restrittive sul soggetto e sull’oggetto abbiamo adattato e in parte modificato2 il Test della preferenza, ideato per l’ebraico da Friedmann
- Szterman (2006) e Novogrodsky - Friedmann (2006) e utilizzato in esperimenti precedenti sull’italiano (Belletti - Contemori, 2010; 2012; Contemori, 2011;
Contemori - Garraffa, 2010; Utzeri, 2006; Volpato, 2010). Per ogni frase target,
venivano presentati, in modalità Power Point, due disegni raffiguranti ciascuno un
personaggio avente ruolo di agente o di paziente dell’evento raffigurato, a seconda
che la frase da elicitare fosse una RS oppure una RO; al partecipante veniva chiesto
di dire, di volta in volta, quale personaggio preferisse, iniziando con “Mi piace...”.
Complessivamente, i partecipanti sono stati sottoposti a 24 stimoli sperimentali,
enunciati da alcuni pupazzi in un video: 12 stimoli vertevano sulle RS e 12 sulle
RO. Gli eventi raffigurati erano semanticamente reversibili, contenevano referenti
animati e si basavano sui seguenti verbi azionali transitivi: lavare, sporcare, salutare,
visitare, baciare, fermare, inseguire, toccare, sollevare, guardare, mordere, accarezzare,
catturare, sgridare, premiare, pettinare, tirare, mandare via.
Le RS sono state elicitate in due diverse condizioni: 6 item riguardavano una condizione di cambio di azione (6) e 6 item una condizione di cambio di paziente (7).
(6) PUPAZZO: Ci sono due dottori e due nonne. Un dottore saluta le nonne, l’altro dottore visita le nonne. Quale dottore ti piace?
SPERIMENTATORE: Inizia con mi piace...
TARGET: (Mi piace) il dottore che saluta/visita le nonne.
Figura 1
Figura 2
Figura 3
Figura 4
Rispetto al test originale, sono state introdotte alcune modifiche metodologiche al fine di rendere
il contesto discorsivo più naturale e pragmaticamente appropriato: sono sempre stati presentati tutti
i personaggi coinvolti nell’evento e in ogni stimolo è stata cambiata la testa della relativa, evitando di
utilizzare sempre “il bambino/la bambina” (vedi Pivi, 2014).
2
63
L’ACQUISIZIONE DELLE FRASI RELATIVE RESTRITTIVE
(7) PUPAZZO: Ci sono due vigili, due cani e due leoni. Un vigile ferma i cani,
l’altro vigile ferma i leoni. Quale vigile ti piace?
SPERIMENTATORE: Inizia con mi piace...
TARGET: (Mi piace) il vigile che ferma i cani/i leoni.
Figura 5
Figura 6
Figura 7
Figura 8
Come le RS, le RO sono state elicitate in due condizioni differenti: 6 stimoli nella
condizione di cambio di agente (8) e 6 stimoli nella condizione di cambio di azione
(9). Le figure utilizzate sono simili a quelle presentate sopra per le RS:
(8) PUPAZZO: Ci sono due bambini, due barbieri e due cani. I bambini pettinano
un cane, i barbieri pettinano l’altro cane. Quale cane ti piace?
SPERIMENTATORE: Inizia con mi piace...
TARGET: (Mi piace) il cane che pettinano i bambini/i barbieri.
(9) PUPAZZO: Ci sono due nonni e due elefanti. I nonni sollevano un elefante e
guardano l’altro elefante. Quale elefante ti piace?
SPERIMENTATORE: Inizia con mi piace...
TARGET: (Mi piace) l’elefante che (i nonni) sollevano/guardano.
2.3 Tipologie di risposta
Rispetto alla produzione di frasi relative sul soggetto, sono state contate come risposte corrette solo le RS aventi una testa lessicale (10) o pronominale (dimostrativo
quello/a) (11).
(10) Mi piace il bambino che saluta le mucche.
(11) Quello che saluta i cani.
Abbiamo contato separatamente, invece, alcune RS con ripresa del soggetto (12).
64
MARGHERITA PIVI - GIORGIA DEL PUPPO
(12) A me piace quello che il bambino saluta le mucche.
TARGET: (Mi piace) il bambino che saluta le mucche/i cani.
All’interno della categoria “SVO” sono state incluse alcune frasi semplici come (13):
(13) La maestra premia i bambini.
TARGET: (Mi piace) la maestra che premia/sgrida i bambini.
Sono state, inoltre, codificate come “altro” alcune frasi con sostituzione del complementatore che tramite introduttori come dove o quando (14), sporadiche RO (15) e
RS con omissione dell’oggetto (16), alcune omissioni della testa della relativa (17)
e sequenze agrammaticali (18):
(14) Mi piace la maestra quando sgrida i bambini.
(15) Mi piace quella che premiano i bambini.
(16) Quella che premia.
(17) Che saluta le nonne.
TARGET: (Mi piace) il dottore che saluta/visita le nonne.
(18) I vigili che ferma i cani.
TARGET: (Mi piace) il vigile che ferma i cani/i leoni.
Anche per quanto riguarda le RO, sono state classificate come frasi target quelle
contenenti una testa lessicale (19) o pronominale quello (20). Non abbiamo invece
contato come corrette le RO con pronome clitico di ripresa (21) o DP di ripresa
(22).
(19) Mi piace il gatto che stanno accarezzando i bambini.
(20) Quella che stanno baciando i cani.
(21) Mi piace il cane che lo lavano.
TARGET: (Mi piace) il cane che (i papà) lavano/sporcano.
(22) Quella che i bambini guardano la scimmia.
TARGET: (Mi piace) la scimmia che guardano i bambini/i gatti.
Ulteriori tipologie di frasi prodotte dai bambini sono state le relative passive (23),
le frasi contenenti introduttori come dove/quando/in cui in luogo del complementatore che (24), le frasi agrammaticali (25) e le RO trasformate in RS tramite un’inversione della testa (26) o un cambio del verbo (27).
(23) Mi piace il cane che viene pettinato dai barbieri.
TARGET: (Mi piace) il cane che pettinano i bambini/i barbieri.
(24) Quello dove i vigili salutano la maestra.
TARGET: (Mi piace) la maestra che i vigili salutano/fermano.
65
L’ACQUISIZIONE DELLE FRASI RELATIVE RESTRITTIVE
(25) A me piace quella che sono baciando i nonni.
TARGET: (Mi piace) la bambina che baciano i cani/i nonni.
(26) I gatti che guardano la scimmia.
TARGET: (Mi piace) la scimmia che guardano i gatti/i bambini.
(27) Il vigile che scappa dai cani.
TARGET: (Mi piace) il vigile che i cani mordono/inseguono.
3. Il compito di ripetizione ritardata
Dopo il compito di elicitazione, i medesimi partecipanti sono stati sottoposti ad un
compito di ripetizione ritardata di 12 RO, corrispondenti alle frasi target del Test
della preferenza, e 5 distrattori. A tal fine, sono stati utilizzati una presentazione
Power Point con le stesse coppie di disegni relative a ciascun item e il video di un
pupazzo che enunciava la frase da ripetere. Al bambino veniva richiesto di contare
a voce alta fino a tre, prima di pronunciare la frase target. Di seguito riportiamo un
esempio:
(28) PUPAZZO: Mi piace la tigre che vedono i bambini.
Figura 9
Figura 10
3.1 Tipologie di risposta
Abbiamo incluso fra le tipologie di risposta corrette quelle che avevano la stessa
costruzione sintattica delle frasi target (29 e 30), includendo anche le RO con sostituzioni lessicali (31).
(29) Mi piace il cane che pettinano i barbieri.
(30) Mi piace il bambino che gli orsi accarezzano.
(31) Mi piace il gatto che i bambini fermano.
TARGET: Mi piace il gatto che i bambini mandano via.
4. Risultati
I risultati confermano la marcata asimmetria soggetto/oggetto riscontrata in letteratura e attestata negli studi precedenti sull’italiano: tutti i gruppi di partecipanti
hanno prodotto percentuali molto elevate di RS (tab. 1), mentre le RO sono risul-
66
MARGHERITA PIVI - GIORGIA DEL PUPPO
tate meno frequenti nei bambini e sono state tendenzialmente evitate dagli adulti
(vedi sotto, tab. 2).
Tabella 1 - Risultati dell’elicitazione di RS
Nonostante l’accurata prestazione dei bambini con dislessia e dislessia sospetta per
quanto riguarda la produzione di frasi relative sul soggetto, nelle produzioni di questi due gruppi sono state rilevate delle RS con ripresa del DP nella posizione di
soggetto (nell’1 e 2% dei casi rispettivamente), come in (32), che costituisce una
tipologia di risposta del tutto assente nei bambini con sviluppo tipico.
(32) A me piace quello che il bambino saluta le mucche.
TARGET: (Mi piace) il bambino che saluta le mucche.
Inoltre, la produzione di frasi semplici SVO invece delle rispettive RS target è attestata solo nei bambini con dislessia sospetta (2%).
Per quanto riguarda la produzione di RO, i bambini con sviluppo tipico hanno
prodotto, nel complesso, su un totale di 1392 item, 333 RO target (24%), 87 relative con clitico di ripresa (6%) e 70 con DP di ripresa (5%). La percentuale di RO
prodotte dagli adulti è stata di molto inferiore (2%), mentre la strategia di risposta
prevalente in questo gruppo è stata la frase relativa passiva (RP) (94%); ulteriori,
poco frequenti tipologie di risposta hanno riguardato la trasformazione di RO in
RS. Analizzando nello specifico la quantità di RO prodotte in ogni gruppo d’età, si
nota come la quantità di risposte target cresca con l’aumentare dell’età, fatta eccezione per il gruppo di 8 anni (tab. 2).
Tabella 2 - Risultati dell’elicitazione di RO
L’ACQUISIZIONE DELLE FRASI RELATIVE RESTRITTIVE
67
Dai risultati di una regressione logistica per misure ripetute (Dixon, 2008; Jaeger,
2008), è risultato che G4 è stato più accurato di G2 nella produzione di RO (Wald
Z = 3.966, p < 0.001). Di tendenza opposta si è rivelata la produzione di RO con
elemento di ripresa, clitico o DP: all’aumentare dell’età, infatti, le percentuali descrescono, mostrando come questa strategia di risposta sia preferita dai bambini più
piccoli. L’asimmetria soggetto/oggetto riscontrata nei bambini con sviluppo tipico
è stata rilevata anche nei bambini con sviluppo atipico: sia i dislessici diagnosticati
(Wald Z = 7.084, p < 0.001) che i dislessici sospetti (Wald Z = 7.142, p < 0.001)
hanno prodotto una maggior quantità di RS rispetto alle RO. Tuttavia, si evidenziano alcune importanti differenze: i bambini con dislessia hanno prodotto una quantità decisamente inferiore di RO target e un maggior numero di RO con ripresa del
DP lessicale e RO trasformate in RS tramite inversione della testa come in (26).
I bambini con dislessia sospetta hanno prodotto, inoltre, un numero inferiore di
relative passive rispetto ai bambini con sviluppo tipico e rispetto anche ai dislessici
diagnosticati; d’altra parte, essi hanno preferito trasformare le RO target in RS tramite inversione della testa, oppure hanno prodotto semplici frasi SVO.
Nel compito di ripetizione, tutti i gruppi di bambini con sviluppo tipico hanno
ripetuto correttamente percentuali molto alte di RO, con un miglioramento nella
performance dipendente dall’età (tab. 3).
Tabella 3 - RO ripetute correttamente nel compito di ripetizione
La produzione di G1 è stata infatti meno accurata in confronto a tutti gli altri gruppi di età (G2 Wald Z = 2.153, p < 0.05; G3 Wald Z = 3.44, p < 0.001; G4 Wald Z =
2.911, p < 0.01). Il gruppo di adulti è risultato più accurato di G1 (Wald Z = 3.076,
p < 0.01) e G2 (Wald Z = 2.130, p < 0.05).
Anche nel compito di ripetizione, i bambini con sospetta dislessia hanno avuto
una performance meno accurata rispetto ai bambini con sviluppo tipico, nello specifico rispetto a G2 (Wald Z = -2.131, p < 0.05), G3 (Wald Z = -2.980, p < 0.01) e
G4 (Wald Z = -2.717, p < 0.01), mentre i dislessici sospetti risultano meno accurati
di G3 (Wald Z = 2.204, p < 0.05) e G4 (Wald Z = -2.161, p < 0.05).
5. Discussione
Nel presente studio, abbiamo elicitato frasi relative restrittive sul soggetto e sull’oggetto in bambini con sviluppo tipico o con dislessia diagnosticata o sospetta, allo
scopo di verificare se la dislessia evolutiva possa influenzare la produzione orale di
frasi relative restrittive, come è stato riscontrato nei bambini con Disturbo Specifico
del Linguaggio e nei bambini con sordità. I risultati nel Test della preferenza hanno confermato l’asimmetria soggetto/oggetto riscontrata in esperimenti precedenti
sull’italiano (Contemori, 2011; Guasti - Cardinaletti, 2003; Utzeri, 2006; 2007;
68
MARGHERITA PIVI - GIORGIA DEL PUPPO
Volpato, 2010). Tale asimmetria può essere spiegata come il risultato dell’evitamento di strutture sintattiche particolarmente complesse. Infatti, la produzione di una
RO richiede una maggiore quantità di risorse computazionali rispetto alla produzione di una RS, in quanto la relazione a distanza esistente fra l’antecedente della
relativa e la posizione in cui questo viene interpretato (indicata in corsivo tra parentesi uncinate) è più lunga in una RO (34) che in una RS (33) (De Vincenzi, 1991).
(33) Il papà che _ bacia i gatti.
[DP Il papà] [CP che [IP [DP <il papà>] bacia i gatti]]
(34) L’elefante che i nonni guardano _
[DP L’elefante] [CP che [IP i nonni guardano [DP <l’elefante >]]]
Recentemente, l’asimmetria soggetto/oggetto è stata spiegata in termini strutturali
(Friedmann et al., 2009; Minimalità relativizzata): in una RO come quelle da noi
attese, la presenza del sintagma nominale soggetto della frase relativa (i nonni in
(34)) tra la testa della relativa (l’elefante) e la posizione interna in cui essa viene
interpretata creerebbe un effetto di interferenza, assente in una RS, che rende la
computazione di una RO più difficoltosa rispetto a quella di una RS.
Per quanto riguarda le RO con ripresa del clitico e del DP riscontrate nel gruppo
di bambini con sviluppo tipico (6% e 5%, rispettivamente), si noti che queste strutture sono utilizzate da bambini parlanti diverse lingue, sia quelle che ammettono
la ripresa come una strategia per formare le relative restrittive standard, sia quelle
lingue che la utilizzano come sola forma colloquiale della lingua parlata (Cinque,
2011). Come ipotizzato da Suñer (1998), è possible che le RO con ripresa riscontrate nella produzione infantile di molte lingue debbano essere considerate delle
strategie alternative alla modalità standard per formare le relative restrittive, vale
a dire un parametro della Grammatica Universale esplorato prima di sintonizzarsi
sulle proprietà della propria lingua. Nello studio di Cinque (2011), si mostra come
nella lingua Kombai (Trans-New Guinea; Papua, Indonesia) le relative con raddoppiamento di DP lessicale siano attestate come forma standard di relativa restrittiva.
La frase in (35a) è una RO con due copie dello stesso DP lessicale, mentre in (35b)
il sostantivo esterno alla relativa è più generico. In (35c), riportiamo infine una RS
con ripresa del DP, dove il nome esterno è ancora una volta più generico (de Vries,
1993: 77-78, citato in Cinque, 2011).
(35) a. [[doü adiyano-no] doü] deyalukhe.
[[sago give3 PL.NONFUT-CONN] sago] finishedADJ.
The sago that they gave is finished.
b. [[gana gu fali-kha] ro] na-gana-y-a.
[[bush.knife 2SG carry-go2SGNONFUT] thing] my-bush.knife-TR-PRED
The bush knife that you took away, is my bush knife.
c. [[yare gamo khereja bogi-n-o] rumu] na-momof-a.
L’ACQUISIZIONE DELLE FRASI RELATIVE RESTRITTIVE
69
[[old.man join.SS work doDUR3SG.NF-TR-CONN] person] my-uncle-PRED
The old man who is joining the work is my uncle.
Se paragoniamo i risultati ottenuti nei vari gruppi sperimentali, vediamo innanzitutto che i bambini dislessici, diagnosticati o sospetti, mostrano la stessa asimmetria
soggetto/oggetto riscontrata nei bambini con sviluppo tipico e negli adulti, producendo un numero di RS pari a quello dei gruppi di controllo. Questo risultato è
in contrasto con lo studio di Contemori - Garraffa (2013) su bambini italiani con
DSL di età prescolare, i quali hanno avuto una prestazione decisamente inferiore
nella produzione di RS rispetto al gruppo di controllo. Ciò suggerisce che, per l’italiano, una produzione scarsa di RS possa rivelarsi un efficace indicatore di disabilità
linguistica nei bambini in età prescolare, ma non più nei bambini in età scolare.
Inoltre, alcuni bambini con diagnosi di dislessia e dislessia sospetta hanno prodotto delle frasi relative con ripresa del DP nella posizione di soggetto, mentre ciò
non si è mai verificato nei bambini con sviluppo tipico. Tale fenomeno è stato invece riscontrato per la lingua ebraica da Novogrodsky - Friedmann (2006) in bambini
con DSL e da Friedmann et al. (2008) in bambini con sordità. In questi studi, gli
autori hanno suggerito di considerare la ripresa nella posizione di soggetto come
indicatore di disabilità linguistica, vale a dire una strategia utilizzata dai bambini
per far fronte a limiti nel processamento del movimento sintattico. Anche nel caso
delle RO, i bambini dislessici hanno ampiamente utilizzato la ripresa del DP (21%
nei dislessici diagnosticati e 17% nei dislessici sospetti), mentre le RO target sono
state prodotte in percentuali più basse rispetto ai bambini normodotati. Inoltre, i
bambini dislessici hanno prodotto una maggiore quantità di RS con inversione della
testa, frasi SVO e frasi agrammaticali, e nei bambini con dislessia sospetta si riscontrano percentuali più basse di relative passive, anche rispetto ai bambini dislessici.
In aggiunta, si segnala che le frasi relative passive prodotte dal gruppo di bambini
dislessici sospetti provengono da un unico bambino di 6;6 anni: alcune di esse contengono l’ausiliare venire al passato prossimo (36) e una preposizione sbagliata, con,
invece di da per formare il complemento d’agente (37).
(36) “Quello che viene stato pettinato”.
(37) “Quella che viene stata guardata con i gatti”.
Le tipologie di errore prodotte dai bambini con dislessia sospetta, come l’uso di
un pronome clitico scorretto (38) o di una preposizione sbagliata (37), errori nella morfologia verbale (36), l’uso della ripresa del DP nella posizione di soggetto
(39) e il numero consistente di frasi SVO, inversioni della testa e frasi agrammaticali, ci lasciano supporre che all’interno di questo gruppo ci siano alcuni bambini
che manifestano un disturbo del linguaggio; in effetti, produzioni simili sono state
riscontrate in bambini con DSL o sordità in esperimenti condotti su altre lingue
(Contemori - Garraffa, 2010; Jakubowicz et al., 1998; Novogrodsky - Friedmann,
2006; Friedmann et al., 2008; Guasti, 2013).
70
MARGHERITA PIVI - GIORGIA DEL PUPPO
(38) Quello che gli orsi li accarezzano.
(39) A me piace quello che il bambino saluta le mucche.
In aggiunta, le alte percentuali di RO con ripresa del DP e la presenza della ripresa anche nella posizione di soggetto nelle RS prodotte dai dislessici diagnosticati lasciano supporre che anche questo gruppo di bambini possa avere un deficit di
linguaggio orale (cfr. Guasti, 2013 per conclusioni simili). Se confrontiamo i nostri risultati sullo sviluppo atipico con quelli di Novogrodsky - Friedmann (2006),
Friedmann et al. (2008) e Contemori - Garraffa (2010), vediamo emergere significativi parallelismi: nello studio di Novogrodsky - Friedmann (2006), i bambini con
DSL hanno prodotto meno RS, sia nel Test della preferenza (94% vs 99%) che nel
task di descrizione di figure (83% vs 98%) in misura significativa. Inoltre, i bambini
con DSL hanno impiegato una frase semplice SVO al posto di una RS il 6% delle
volte, così come i dislessici sospetti del nostro studio sono stati gli unici a produrre
frasi SVO quando si elicitava una RS. I bambini DSL esaminati da Novogrodsky
- Friedmann (2006) hanno a volte ripreso il soggetto di una RS con un pronome clitico (6%) o con un DP lessicale (5%), come è stato riscontrato anche da Friedmann
et al. (2008) nei bambini sordi e dal nostro studio nei bambini dislessici. Infine,
l’uso di frasi SVO e di frasi incomplete nei bambini DSL parlanti ebraico è stato
riscontrato anche quando si elicitava una RO, come nel gruppo dei sospetti dislessici del nostro esperimento. L’uso di semplici frasi dichiarative è attestato anche da
Contemori - Garraffa (2010) in bambini italiani con DSL (età 4;5-5;9).
Infine, i bambini con sviluppo atipico del nostro esperimento hanno ripetuto
correttamente percentuali inferiori di RO rispetto ai bambini normodotati. Questo
risultato sottolinea l’utilità di un compito di ripetizione ritardata nell’indagare la
capacità di ricostruire strutture sintattiche complesse, come le frasi relative restrittive, nei bambini con difficoltà di linguaggio.
6. Conclusioni
Nell’esperimento qui descritto, è stata elicitata la produzione di frasi relative soggetto e oggetto in bambini italiani con sviluppo tipico e atipico. A nostra conoscenza,
si tratta del primo studio sulla lingua italiana volto ad indagare la produzione di relative restrittive in bambini affetti da dislessia evolutiva. I risultati dell’esperimento
lasciano supporre che la dislessia, come il DSL e la sordità, possa influenzare la capacità del bambino di produrre strutture sintattiche di una certa complessità, come
le frasi relative restrittive. Infatti, sono emersi importanti parallelismi tra i bambini
dislessici del nostro esperimento e i bambini con DSL/sordità coinvolti in esperimenti precedenti sull’italiano e su altre lingue. Tali risultati trovano conferma in
studi molto recenti sull’italiano (Guasti, 2013; Zachou et al., 2013), in cui sono
stati riscontrati quadri divergenti nei bambini con dislessia per quanto riguarda la
produzione di strutture morfo-sintattiche complesse, quali i pronomi clitici e le
frasi interrogative introdotte da quale+NP. Resta da determinare se questi deficit
L’ACQUISIZIONE DELLE FRASI RELATIVE RESTRITTIVE
71
linguistici siano dovuti ad una comorbidità con il DSL, o piuttosto a caratteristiche intrinseche alla dislessia evolutiva non ancora indagate approfonditamente, che
porterebbero a considerare la dislessia non solo come una difficoltà di apprendimento, ma anche come una vera e propria disabilità linguistica.
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L’ACQUISIZIONE DELLE FRASI RELATIVE RESTRITTIVE
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MICHELA FRANCESCHINI1 - FRANCESCA VOLPATO1
Comprensione e produzione di frasi relative e frasi
passive: il caso di due bambini gemelli sordi italiani
Abstract: This study investigates the comprehension and production of relative and passive sentences by two orally trained male twins with mild-to-moderate hearing loss tested at the age of
7;6 and 9. It enters a lively debate on the acquisition of relative and passive sentences by children
with typical and atypical development and aims at determining whether the twins show the
same level of language proficiency and whether their performances differ from those of hearing
children.
The results reveal that despite the same degree of hearing loss and the same family background,
some differences between the twins’ performances are observed. The comparison with hearing
children shows that even mild-to-moderate hearing loss has effects on the syntactic competence
attained. Nonetheless, the longitudinal analysis highlights an improvement in relative and passive sentences comprehension for both children.
1. La sordità e le sue implicazioni
I bambini acquisiscono la propria lingua madre in modo naturale e spontaneo nei primi
anni di vita tramite esposizione diretta all’input linguistico. L’esposizione alla lingua
entro una determinata finestra temporale (il cosiddetto ‘periodo critico’) è fondamentale per stimolare il sistema linguistico del bambino (Lenneberg, 1967).
La mancanza di esposizione precoce alla lingua orale e l’accesso ad un input impoverito o degradato durante questo periodo può compromettere il normale sviluppo
delle abilità linguistiche (Furth, 1966), nonostante la presenza, in ciascun individuo,
di una facoltà del linguaggio integra. La differenza principale tra l’acquisizione della
lingua nei bambini normoudenti e l’acquisizione nei bambini sordi è che questi ultimi
non hanno accesso diretto all’input linguistico che, a causa di un danno al canale uditivo, risulta essere impoverito qualitativamente e quantitativamente. Anche se la facoltà del linguaggio e altre abilità cognitive non sono deficitarie, generalmente i soggetti
sordi manifestano difficoltà linguistiche specialmente morfosintattiche, rispetto ai coetanei normoudenti: vocabolario scarso, uso di frasi brevi, difficoltà nell’acquisizione
di frasi passive e frasi relative, errori di accordo di genere e numero, difficoltà nell’uso
di morfologia verbale (uso del verbo all’infinito, omissione di copula, ausiliari e verbi
modali), omissione o sostituzione di elementi funzionali (determinanti, pronomi clitici
e preposizioni) (Caselli et al., 1994; Chesi, 2006; Volpato, 2010).
1
Università Ca’ Foscari, Venezia.
76
MICHELA FRANCESCHINI - FRANCESCA VOLPATO
La maggior parte degli studi si è concentrata sull’analisi della competenza linguistica in soggetti con un’entità di perdita uditiva profonda, per i quali un danno al canale
uditivo compromette pesantemente lo sviluppo linguistico. È stato tuttavia osservato
che anche alcuni soggetti con grado di sordità medio-moderato mostrano comunque
difficoltà nell’acquisizione di diverse proprietà morfosintattiche del francese (Delage
- Tuller, 2007). Gli studi su tali popolazioni sono carenti, ma meritano una certa attenzione perché anche una sordità di entità lieve o moderato può comportare un ritardo
significativo nell’acquisizione della lingua.
La ricerca in questione si colloca all’interno del dibattito sull’acquisizione di frasi
relative e passive da parte di bambini con sviluppo tipico e atipico. Queste frasi sono
strutture complesse dal punto di vista linguistico in quanto comportano un movimento dei costituenti (dando origine, ad esempio nelle frasi relative sull’oggetto e nelle frasi
passive, ad un ordine non canonico degli elementi nella frase) e dipendenze a lunga
distanza tra gli elementi della frase. Queste frasi, in particolare le relative sull’oggetto
e le passive, sono tipiche del linguaggio formale, rare quindi nella lingua colloquiale,
frequenti nei testi scolastici e nei libri a cui i bambini sono esposti.
Partendo da tali premesse, questo studio si propone di indagare la comprensione e
la produzione di frasi complesse (frasi relative e frasi passive) in due gemelli con sordità
medio-moderata per valutare se questi soggetti hanno difficoltà con l’acquisizione della
lingua e con tali strutture. Un’analisi di tipo longitudinale permetterà di confrontare i
dati ottenuti in due momenti diversi, per determinare se si è osservato un miglioramento linguistico a distanza di 15 mesi tra la prima e la seconda somministrazione. Questo
studio intende confrontare la performance dei due bambini, cercando di valutare se i due
gemelli mostrano lo stesso livello di competenza linguistica, considerando che hanno lo
stesso background familiare e linguistico. Inoltre, questa ricerca si propone di confrontare la performance di ciascun bambino sordo con quella di bambini normoudenti per
stabilire se l’accesso ad un input impoverito in presenza di una perdita uditiva mediomoderata abbia influenzato l’acquisizione di determinate proprietà dell’italiano.
Questa ricerca contribuisce ad arricchire la letteratura sulla comprensione e la produzione di frasi relative e frasi passive da parte di bambini sordi italiani. Alcuni studi sulla comprensione e sulla produzione di frasi relative in italiano in un contesto di
sordità sono stati condotti su bambini con impianto cocleare (Volpato - Adani, 2009;
Volpato, 2012; Volpato - Vernice, 2014); tuttavia, per quanto riguarda l’acquisizione
di frasi passive, non ci sono ricerche effettuate su bambini sordi italiani. Inoltre, questo
risulta essere il primo studio effettuato su bambini gemelli, entrambi sordi.
2. Le frasi relative: struttura e acquisizione
Le frasi relative sono strutture subordinate complesse caratterizzate da dipendenze a
lunga distanza tra i costituenti sintattici. Esse comportano il movimento di un elemento (il soggetto o l’oggetto) dalla posizione in cui riceve interpretazione (interna a IP) ad
una posizione che precede il complementatore (Spec/CP), come mostrano gli esempi
in (1) e (2):
COMPRENSIONE E PRODUZIONE DI FRASI RELATIVE E FRASI PASSIVE
77
(1) [CP la tigre che [IP <la tigre> [VP colpisce gli elefanti]]]
(2) [CP gli elefanti che [IP la tigre [VP colpisce <gli elefanti>]]]
Nelle frasi relative, lo spostamento implica la creazione di una catena di tipo A’ (non
argomentale) che collega due posizioni, quella da cui si origina il movimento, occupata
dalla copia non pronunciata del costituente mosso, e la posizione finale in cui il costituente relativizzato viene pronunciato. Nelle relative sul soggetto (RS), come in (1), è il
soggetto che si muove dalla posizione incassata, mentre nelle relative sull’oggetto (RO),
come in (2), è l’oggetto a muoversi. Nelle RS l’ordine canonico soggetto-verbo-oggetto
(SVO) è preservato, mentre le RO sono caratterizzate da un ordine non canonico dei
costituenti, in cui l’oggetto precede linearmente il soggetto incassato.
Per la loro complessità strutturale, queste frasi sono acquisite relativamente tardi, in
alcuni casi oltre i 6 anni (Hakansson - Hansson, 2000; Sheldon, 1974;).
Studi effettuati su diverse popolazioni e su lingue diverse hanno dimostrato che le
RO sono più problematiche rispetto alle RS sia in comprensione sia in produzione.
Questa asimmetria tra RS e RO è stata osservata da diversi studi condotti sull’italiano (bambini normodotati: Adani, 2008; Guasti - Cardinaletti, 2003; Utzeri, 2007;
Volpato, 2010; adulti normodotati: De Vincenzi, 1991; Volpato, 2010; bambini con
disturbo specifico del linguaggio: Adani, 2008; pazienti agrammatici: Garraffa - Grillo,
2008; bambini con deficit uditivo: Volpato, 2012; Volpato - Vernice, 2014).
In produzione, le RO hanno percentuali di occorrenza piuttosto basse rispetto alle
RS. Per evitare la produzione di una RO, sia bambini sia adulti preferiscono adottare
altre strategie. In particolare, i bambini producono frasi con pronomi clitici, utilizzano
frasi causative, frasi passive, frasi semplici SVO. Negli adulti la strategia che prevale è
l’uso sistematico di passive relative.
Recentemente, per l’italiano, sono stati condotti alcuni studi sull’acquisizione delle
frasi relative in bambini affetti da sordità profonda (età: 7;9-10;8) a cui è stato applicato
l’impianto cocleare. Anche per questa popolazione è stata notata la tipica asimmetria
tra RS e RO sia in produzione (Volpato - Vernice, 2014), sia in comprensione (Volpato,
2012).
3. Le frasi passive: struttura e acquisizione
Le frasi passive sono strutture complesse caratterizzate anch’esse da dipendenze a lunga
distanza. La passivizzazione implica una riorganizzazione dei costituenti e lo spostamento dell’oggetto (tema) del verbo alla posizione di soggetto della frase.
(3) [IP Marco è visto da [VP Sara <visto Marco>]]
Questo tipo di movimento comporta la creazione di una catena argomentale (catena
A).
Alcuni studi condotti sull’acquisizione delle frasi passive in inglese hanno osservato
che l’acquisizione di tali costruzioni non avviene prima dei 5 anni poiché solo a partire
78
MICHELA FRANCESCHINI - FRANCESCA VOLPATO
da quell’età vi è accesso al meccanismo trasformazionale coinvolto nella formazione
delle frasi passive (Borer - Wexler, 1987; Maratsos et al., 1985). Per questo motivo, i
primi passivi prodotti e compresi dai bambini comportano un’interpretazione stativa,
in quanto sono considerati aggettivi e non verbi. Infatti, mentre i passivi verbali (o eventivi), che indicano un processo, sono il risultato di una trasformazione sintattica, quelli
aggettivali (o stativi), che descrivono stati, sono costruiti nel lessico (Wasow, 1977).
Studi sull’acquisizione del passivo da parte di bambini italiani normoudenti hanno
evidenziato un miglioramento nella comprensione e nella produzione di frasi passive
intorno ai 5 anni, quando vengono acquisite frasi passive contenenti verbi irreversibili
e verbi transitivi con soggetti inanimati. Il bambino è in grado di assimilare frasi reversibili e frasi il cui evento è improbabile all’età di 5;6 anni (Chilosi - Cipriani, 2006).
Tuttavia, studi più recenti (Volpato et al., 2013) hanno dimostrato che i bambini italiani già ad un’età compresa tra i 3;5 e i 6 anni sono in grado di comprendere correttamente strutture passive contenenti l’ausiliare venire (Marco viene spinto dalla mamma) che
sottolineano lo svolgimento di un evento espresso dal verbo. L’ausiliare venire, diversamente dall’ausiliare essere, permette solo una lettura di tipo eventivo; pertanto i passivi
dei bambini sono passivi verbali sin dalle prime fasi di acquisizione della lingua.
In produzione talvolta i bambini più piccoli, anziché produrre frasi passive, tipiche
di un registro formale, utilizzano strategie più colloquiali, comunque adeguate dal punto di vista pragmatico, come ad esempio frasi attive con pronomi clitici, oppure frasi
semplici SVO, che risultano invece inadeguate al contesto di elicitazione.
Gli studi sull’acquisizione delle frasi passive in soggetti sordi sono carenti. La maggior parte di essi sono stati condotti su adolescenti americani e risalgono agli anni
Settanta e Ottanta. Schmitt (1968) ha valutato la comprensione e la produzione di
frasi passive attraverso un task di selezione di figura proposto a 48 partecipanti di età
compresa tra 8 e 17 anni. I risultati hanno evidenziato difficoltà in comprensione e in
produzione fino ai 14 anni; inoltre, all’età di 17 anni, queste costruzioni non sono ancora acquisite pienamente. Uno studio successivo (Power - Quigley, 1973) ha mostrato
come le difficoltà maggiori in comprensione e in produzione sono legate all’assenza
della by-phrase, mentre alte percentuali di accuratezza sono state riscontrate in frasi irreversibili.
Uno studio condotto da Gormley - McGill-Franzen (1980) ha mostrato come l’esposizione continua a testi scritti contenenti frasi passive può facilitare la comprensione
di queste strutture. Al contrario, una frase in isolamento non aiuta il bambino nella
comprensione del significato perché priva di un contesto in grado di disambiguare le
relazioni grammaticali tra parole (Gormley - McGill-Franzen, 1980: 942).
4. L’esperimento
4.1 Partecipanti
Hanno partecipato all’esperimento due gemelli italiani, SA e SB, affetti da ipoacusia
neurosensoriale bilaterale di media entità, diagnosticata all’età di 2;6 anni. Dopo
la diagnosi, sono stati immediatamente protesizzati e hanno sempre indossato le
COMPRENSIONE E PRODUZIONE DI FRASI RELATIVE E FRASI PASSIVE
79
protesi acustiche convenzionali. Hanno un QI nella norma e non mostrano altre
disabilità associate. Sono nati da genitori udenti e nella loro famiglia non sono stati
riscontrati altri casi di sordità o disturbi di linguaggio. Non utilizzano e non conoscono la lingua dei segni. In ambiente familiare sono esposti alla lingua italiana e alla
varietà dialettale parlata nella provincia di Macerata.
Dai 3 ai 7 anni hanno svolto sedute di logopedia ininterrottamente e regolarmente, due volte la settimana. Attualmente, su suggerimento della terapista, i cicli
di logoterapia sono stati interrotti. SA e SB sono stati esaminati in due momenti
diversi: a dicembre 2011, all’età di 7;6 anni e a marzo 2013, all’età di 9 anni.
I risultati dei soggetti del gruppo sperimentale sono stati confrontati con quelli
di bambini italiani normoudenti che fungevano da controlli. Nello specifico, per
quanto riguarda la comprensione e la produzione delle frasi relative, la loro performance è stata confrontata con quella di un gruppo di 16 bambini normoudenti di
età compresa tra 5;3 e 7;5 anni (Volpato, 2010) e di 13 bambini normoudenti di età
compresa tra 7;5 e 10;3 anni (Volpato - Vernice, 2014).
Nel test di comprensione delle frasi passive il gruppo di controllo era composto
da 75 bambini normoudenti di età compresa tra 3;4 e 6;2 anni (Volpato et al., 2013),
mentre per il confronto delle performance sulla produzione sono stati selezionati 75
bambini normoudenti di età compresa tra 3;5 e 6;2 anni (Volpato et al., 2013).
4.2 Materiali e metodi
I test sulla comprensione e sulla produzione di frasi relative e frasi passive sono stati preceduti dalla somministrazione del Test di Comprensione Grammaticale per
Bambini (TCGB, Chilosi - Cipriani, 2006), un test standardizzato necessario per
misurare le loro abilità linguistiche e morfosintattiche generali. Questo test è utile
per valutare l’età linguistica dei soggetti sperimentali al fine di confrontare la loro
performance con quella dei soggetti normodotati.
Sulla base dei dati normativi del TCGB, nel 2011, all’età di 7;6 anni, la performance di SA era comparabile a quella di bambini di età pari a 6;6 anni, mentre quella
di SB corrispondeva a bambini di età pari a 6-6;6 anni. Nel 2013 si è osservato un
miglioramento nelle abilità linguistiche generali: all’età di 9 anni l’età linguistica di
SA era pari a 7;6 anni, quella di SB a circa 8 anni. SA e SB sono stati valutati individualmente in modalità orale in entrambe le sessioni, nella loro abitazione, in una
stanza neutra e senza alcun tipo di distrazione. I bambini normoudenti sono stati
esaminati in modalità orale in una o più sessioni nella scuola che frequentavano.
I test sulle frasi relative sono stati presentati su supporto cartaceo, mentre quelli
sulle frasi passive sono stati presentati su computer. Tutte le prove sono state precedute da una parte pre-sperimentale in cui è stata verificata la conoscenza del lessico
usato nei test.
4.3 Test di comprensione delle frasi relative
La comprensione delle frasi relative è stata valutata attraverso un task di selezione
d’agente (Volpato, 2010). Per ciascuno stimolo al partecipante venivano mostrate
80
MICHELA FRANCESCHINI - FRANCESCA VOLPATO
due immagini, una abbinata alla frase target e l’altra in cui l’azione era la stessa ma
con i ruoli tematici invertiti. Al soggetto era chiesto di scegliere il referente corretto
fra quattro possibili opzioni alla lettura della frase da parte dello sperimentatore. La
batteria sperimentale prevedeva 48 frasi sperimentali e 8 condizioni sperimentali2. Il
test si componeva di 12 frasi relative sul soggetto (RS), 24 frasi relative sull’oggetto
con il soggetto della subordinata in posizione pre-vebale (RO) e 12 frasi relative
sull’oggetto con il soggetto della subordinata in posizione post-verbale (ROp). In
ogni tipologia di frase sono stati anche manipolati i tratti di numero, per cui i sintagmi nominali (la testa della relativa e il DP incassato) potevano essere entrambi
singolari o plurali, oppure uno singolare e l’altro plurale (e viceversa).
La tabella 1 mostra tutte le condizioni sperimentali indagate.
Tabella 1 - Condizioni sperimentali frasi relative
La figura 1 mostra un esempio di item sperimentale abbinato alla frase RS Tocca il
coniglio che colpisce i topi.
Figura 1 - Esempio di item abbinato alla frase Tocca il coniglio che colpisce i topi
Nella batteria sperimentale tutte le frasi sono semanticamente reversibili, poiché entrambi i DP sono compatibili con l’azione espressa dal verbo. Le frasi sperimentali
Il test originale prevede anche 12 frasi ambigue, in cui per ciascun item è possibile una doppia lettura,
una sul soggetto e una sull’oggetto. Tuttavia, in questo studio non saranno prese in considerazione.
2
COMPRENSIONE E PRODUZIONE DI FRASI RELATIVE E FRASI PASSIVE
81
sono intervallate dalla presenza di 20 frasi filler, frasi semplici con soggetti animati e
verbi intransitivi o transitivi seguiti da un complemento oggetto inanimato. La presenza di queste frasi serve a distogliere l’attenzione del soggetto dal vero obiettivo
della prova e per incoraggiarlo, poiché sono item molto semplici a cui rispondere.
I nomi e i verbi usati per costruire le frasi sono stati controllati per numero di
sillabe e frequenza.
4.4 Test di produzione delle frasi relative
La produzione di RS e RO è stata indagata attraverso l’uso di un task di preferenza
(Volpato, 2010). Per le frasi sperimentali, lo sperimentatore mostrava e descriveva
al soggetto un disegno con due figure in cui veniva rappresentato un bambino o un
gruppo di bambini che compivano delle azioni. Il soggetto doveva esprimere una
preferenza fra le due possibilità essendo così forzato a produrre una frase relativa.
Il test prevedeva la produzione di 12 RS e 12 RO.
Nella figura 2 viene mostrato un esempio di tavola corrispondente ad una RS.
Figura 2 - Esempio di stimolo per l’elicitazione di una RS
(4) Sperimentatore: Ci sono due disegni. Nel primo i bambini accarezzano il gatto.
Nel secondo, i bambini colpiscono il gatto. Quali bambini ti piacciono?
Risposta target: “(Mi piacciono) i bambini che accarezzano/colpiscono il gatto”.
Un’immagine che presuppone la produzione di una RO è invece mostrata nella figura 3.
Figura 3 - Esempio di stimolo per l’elicitazione di una RO
(5) Sperimentatore: Ci sono due disegni. Nel primo, la maestra sgrida i bambini.
Nel secondo, la maestra premia i bambini. Quali bambini ti piacciono?
Risposta target: “(Mi piacciono) i bambini che la maestra sgrida/premia”.
Le frasi sperimentali sono tutte semanticamente reversibili, contenenti verbi transitivi con soggetti e oggetti animati.
La batteria contiene anche 12 frasi filler.
82
MICHELA FRANCESCHINI - FRANCESCA VOLPATO
4.5 Test di comprensione delle frasi passive
Per indagare la comprensione di frasi passive è stato utilizzato un task di abbinamento frase-foto (Verin, 2010). In questa prova il soggetto doveva selezionare la figura
corretta scegliendo tra tre opzioni proposte, dopo la lettura di una frase da parte
dello sperimentatore.
In questo task sono state presentate 40 frasi sperimentali, di cui 24 contenenti
verbi azionali e 16 contenenti verbi non azionali. Inoltre, di queste frasi, 20 item
sono stati costruiti con l’ausiliare essere e 20 con l’ausiliare venire. La tabella 2 mostra le condizioni sperimentali che sono state indagate:
Tabella 2 - Condizioni sperimentali frasi passive
La figura 4 mostra un esempio di stimolo utilizzato per verificare la comprensione
delle frasi passive.
Figura 4 - Esempio di stimolo per la comprensione delle frasi passive
Nella somministrazione del test, una sezione introduttiva precedeva la parte sperimentale e consisteva nella presentazione dei personaggi (Marco, Sara, la mamma e il
papà) e dei verbi utilizzati per costruire gli stimoli.
4.6 Test di produzione delle frasi passive
La produzione delle frasi passive è stata indagata utilizzando un task di produzione
elicitata (Verin, 2010). Per ciascuno stimolo, al soggetto sono state mostrate due
foto e gli è stata posta una domanda dall’esaminatore, in cui gli si chiedeva di descrivere cosa stava succedendo al paziente della frase in una delle due foto. Tale con-
COMPRENSIONE E PRODUZIONE DI FRASI RELATIVE E FRASI PASSIVE
83
testo, in cui il paziente è il topic del discorso, avrebbe dovuto forzare il soggetto a
produrre una frase passiva.
La batteria di stimoli comprendeva 12 item costruiti con verbi azionali e 12 item
con verbi non azionali.
La figura 5 e la descrizione in (6) mostrano un esempio di stimolo con verbo
azionale per l’elicitazione di una frase passiva.
Figura 5 - Esempio di stimolo per l’elicitazione delle frasi passive
(6) Sperimentatore: Nella prima foto Sara spinge Marco. Nella seconda foto, la mamma spinge Marco. Cosa succede a Marco nella prima foto?
Risposta target: Marco è/viene spinto da Sara.
La batteria includeva anche 12 frasi filler che si intervallavano alle frasi sperimentali.
In questi stimoli si chiedeva al soggetto di rispondere a domande semplici utilizzando frasi attive.
Le frasi sperimentali contenevano verbi transitivi in cui agente e paziente erano
soggetti animati, mentre le frasi filler contenevano verbi transitivi con soggetti inanimati.
5. Risultati
5.1 Risultati test di comprensione delle frasi relative
La tabella 3 riassume le percentuali di comprensione per ciascuna tipologia di frase
da parte dei singoli partecipanti e del gruppo di controllo (GC).
Dalla tabella si può notare immediatamente una differenza di performance nei
gemelli. SA non mostra la classica asimmetria tra RS e RO; infatti, le percentuali di
accuratezza ottenute nelle relative sull’oggetto con soggetto incassato pre-verbale
sono maggiori rispetto a quelle raggiunte nelle relative sul soggetto. SB, invece,
mantiene il pattern tipico: le relative sull’oggetto risultano più problematiche delle
relative sul soggetto. In SB, la comprensione di relative sul soggetto è pari al 100%
in entrambe le somministrazioni.
84
MICHELA FRANCESCHINI - FRANCESCA VOLPATO
Le relative sull’oggetto con soggetto incassato post-verbale risultano essere più
complesse, soprattutto per SB. Il gruppo di controllo presenta percentuali di accuratezza più basse dei gemelli sordi e conferma l’asimmetria presente tra RS e RO.
Tabella 3 - % di accuratezza per ciascuna tipologia di frase
5.2 Risultati test di produzione delle frasi relative
La tabella 4 mostra le percentuali di frasi relative sul soggetto e sull’oggetto prodotte da ciascun bambino e dai gruppi di controllo di comparabile età linguistica
(GC1) e di comparabile età anagrafica (GC2).
Tabella 4 - % di RS e RO prodotte
La tabella evidenzia la tipica asimmetria tra RS e RO in tutti i gruppi. Le RS hanno
percentuali di occorrenza più alte delle RO. Inoltre, vi è un miglioramento sia in SA
sia in SB alla seconda somministrazione.
5.3 Strategie di risposta nella produzione delle frasi relative
I soggetti, oltre alla produzione di RS e RO target, hanno adottato alcune strategie.
La tabella 5 mostra le strategie adottate quando era elicitata una RS.
È interessante osservare che la strategia utilizzata con maggior frequenza al posto
di una RS consiste nella produzione di frasi semplici SVO. Questa strategia è comune in SA. Nonostante la percentuale di SVO si riduca alla seconda somministrazione, rimane comunque più alta rispetto al soggetto SB e ai soggetti di controllo.
COMPRENSIONE E PRODUZIONE DI FRASI RELATIVE E FRASI PASSIVE
85
Tabella 5 - Strategie di risposta nell’elicitazione di RS
Tabella 6 - Strategie di risposta nell’elicitazione di RO
I risultati di questo test mostrano alcune divergenze tra i gemelli, soprattutto nella
produzione di RO. Mentre SB mostra percentuali di accuratezza più alte nella produzione di RO target, SA anche in questo caso produce poche frasi relative. La strategia
più comune utilizzata durante l’elicitazione di frasi RO consiste nell’uso di frasi con
clitico di ripresa e la percentuale è molto alta rispetto al gruppo di controllo.
Anche a 9 anni SA ha dei risultati comparabili a quelli dei bambini più piccoli.
Sia alla prima che alla seconda somministrazione, SB produce più frasi relative. Alla
seconda somministrazione SB produce più RO di tutti i gruppi.
È interessante notare come nella prima somministrazione SA produca frasi semplici SVO che solitamente si trovano nei bambini più piccoli, mentre nella seconda
tende ad utilizzare più frasi con clitici, strategia che prevale in SB e che raddoppia nella
seconda somministrazione. Queste frasi sono frequenti nella lingua colloquiale.
5.4 Risultati test di comprensione frasi passive
La tabella 7 mostra le percentuali di accuratezza dei soggetti SA e SB e dei 4 gruppi
di controllo nella comprensione di passivi azionali e passivi non azionali.
La tabella evidenzia delle percentuali più alte nella comprensione dei verbi azionali rispetto ai verbi non azionali per tutti i soggetti e tutti i gruppi di controllo.
È possibile inoltre osservare nei due bambini sordi un notevole incremento nelle
percentuali di accuratezza durante la seconda somministrazione.
86
MICHELA FRANCESCHINI - FRANCESCA VOLPATO
Tabella 7 - % di accuratezza nella comprensione di frasi passive
Il livello di comprensione è molto buono nei gemelli, se si considera l’elevata
percentuale di risposte corrette soprattutto con i verbi azionali. I verbi non azionali
risultano invece più problematici per tutti i gruppi. Tuttavia, il problema con i verbi
non azionali è riconducibile alla loro difficile rappresentazione, come era già stato
osservato per altri studi (Messenger et al., 2009). Per questa ragione, tali verbi non
saranno presi in considerazione in questa analisi.
Alla prima somministrazione, SA e SB sono comparabili con bambini più piccoli (GC1, GC2), mentre alla seconda somministrazione le percentuali aumentano
notevolmente, raggiungendo quasi livelli massimi. È interessante notare che i soggetti hanno percentuali molto elevate con i verbi azionali sia con l’ausiliare essere sia
con l’ausiliare venire.
5.5 Risultati test di produzione frasi passive
La tabella 8 mostra la percentuale di frasi passive e le strategie di risposta utilizzate
nel test di elicitazione delle frasi passive.
Tabella 8 - Strategie di risposta nel test di elicitazione di frasi passive
Dalla tabella si può notare che i gemelli non hanno mai prodotto una frase passiva, diversamente da quanto è possibile osservare per i bambini normoudenti dei gruppi di
controllo (ad eccezione del gruppo GC4). Sono state invece adottate alcune strategie,
le più interessanti delle quali sono l’uso di frasi attive SVO e di frasi attive con clitico.
Entrambi hanno prodotto frasi attive SVO in entrambe le somministrazioni, ma SA
con percentuali molto più alte. Le percentuali di frasi attive SVO sono comparabili a
quelle di bambini più piccoli, di età compresa tra i 4 e i 6 anni. Alla seconda somministrazione è evidente un miglioramento nei gemelli, poiché l’uso di questa strategia diminuisce notevolmente. Mentre la percentuale di frasi SVO prodotte da SA, nonostante
COMPRENSIONE E PRODUZIONE DI FRASI RELATIVE E FRASI PASSIVE
87
sia inferiore, non si discosta molto da GC4, in SB la percentuale di occorrenza di questa
strategia è piuttosto bassa.
SA e SB producono anche frasi attive con clitico, tipiche di un registro più colloquiale ma in misura inferiore rispetto ai gruppi di controllo. Numerose sono le percentuali
di ‘altre strategie’ osservate nei gemelli, ma presenti in misura inferiore nei bambini più
piccoli.
Nonostante i gemelli non abbiano una piena competenza nelle costruzioni passive, il
fatto che abbiano ottenuto risultati positivi nel test di comprensione dimostra che hanno accesso a queste strutture sintattiche.
6. Discussione
In questo studio sono state indagate la comprensione e la produzione di frasi relative e
frasi passive in due gemelli con deficit uditivo di entità medio-moderata, utilizzando test
linguistici opportunamente elaborati a tale scopo.
L’analisi dei risultati ha evidenziato che nonostante SA e SB abbiano lo stesso
background linguistico e familiare, SB mostra livelli di accuratezza maggiori rispetto a
SA nelle varie prove somministrate.
Un aspetto interessante per cui i due bambini si differenziano riguarda il pattern tipico di performance che caratterizza la comprensione e produzione delle frasi relative, e
che evidenzia un’asimmetria tra RS e RO. Infatti, mentre SB mostra la tipica asimmetria
per cui le RS sono più semplici delle RO, SA mostra un pattern atipico, con maggiori
difficoltà nelle relative che normalmente non comportano significativi problemi di interpretazione. Da entrambi i soggetti, tuttavia, le frasi relative sull’oggetto con soggetto
post-verbale sono comprese con più difficoltà. È da osservare come tali strutture siano
generalmente difficili anche per i bambini normoudenti, sensibili all’ordine canonico
soggetto-verbo-oggetto (SVO). I bambini sordi, essendo istruiti all’ordine SVO (Chesi,
2006), non si aspettano di incontrare il soggetto in posizione post-verbale. Pertanto,
interpretano una relativa sull’oggetto con soggetto incassato in posizione post-verbale
sulla base dell’ordine canonico, quindi come fosse una frase RS.
Anche nella produzione delle frasi relative la performance dei due soggetti si differenzia. Infatti SB produce un numero più elevato di strutture target (sia sul soggetto sia
sull’oggetto) rispetto a SA. Quando SA non produce una frase target tende a produrre,
in entrambi i casi, una maggiore percentuale di frasi semplici con ordine SVO, fenomeno osservato soprattutto all’età di 7;6 anni e poco frequente nei gruppi di controllo. È da
notare che, comunque, in altri studi questo comportamento è stato osservato in bambini
normoudenti molto piccoli (età: 4;10-5;10 anni).
Un’elevata frequenza di frasi SVO è osservabile anche nella prova di elicitazione delle frasi passive. Crucialmente entrambi i bambini non producono mai la frase target, ma
tendono a produrre frasi semplici attive in percentuale piuttosto elevata, soprattutto alla
prima somministrazione. Il confronto con i gruppi di controllo mostra in questo senso
un ritardo linguistico, poiché tale strategia è ampiamente utilizzata da bambini normoudenti più piccoli. Un notevole miglioramento si osserva alla seconda somministrazione,
88
MICHELA FRANCESCHINI - FRANCESCA VOLPATO
in cui la percentuale di queste frasi diminuisce. È inoltre interessante osservare come i
due gemelli, in alcuni item, producano frasi attive contenenti un clitico preferendo l’uso
di una strategia frequente nel contesto colloquiale, comunque adeguata dal punto di vista pragmatico, piuttosto che l’uso di una frase tipica del contesto formale.
Sebbene i soggetti non producano alcuna frase passiva, il test di comprensione mostra che questa struttura è acquisita correttamente, raggiungendo un’accuratezza quasi
perfetta soprattutto alla seconda somministrazione. Le percentuali di accuratezza, come
atteso, sono più alte con i verbi azionali. Le maggiori difficoltà con i verbi non azionali
sono attribuibili alla problematica rappresentazione di questa tipologia di verbi, com’era
già stato osservato in studi precedenti (Messenger et al., 2009).
In un confronto fra le due strutture è possibile notare un livello medio di accuratezza
maggiore nella comprensione di frasi passive (con verbi azionali) rispetto alle frasi relative. Questo risultato non sorprende, soprattutto se si considera la struttura linguistica
delle due tipologie di frase. Le frasi analizzate sono strutture complesse che presentano
un ordine marcato dei costituenti e sono tipiche del registro formale. Entrambe sono
derivate da movimento sintattico di un costituente dalla posizione in cui riceve interpretazione a quella in cui è pronunciato. Sia le frasi relative oggetto sia quelle passive sono
caratterizzate da una dipendenza sintattica a lunga distanza; tuttavia si distinguono per
il fatto che la frase relativa contiene una frase subordinata e forma una catena di tipo A’
(non argomentale), mentre la frase passiva è una frase che non contiene subordinazioni
ed è caratterizzata dalla presenza di una catena argomentale. Per questo motivo una frase
passiva può risultare più semplice da acquisire rispetto ad una frase relativa oggetto.
In produzione, invece, si verifica la tendenza inversa: mentre le frasi passive sono
comprese con più facilità, in produzione risultano essere più complesse. Infatti, in nessuna delle due somministrazioni SA e SB producono frasi passive target. Poiché il test dava
la possibilità di usare altri tipi di costruzioni, i due gemelli utilizzano alcune strategie
più colloquiali, meno formali, producendo ad esempio frasi contenenti pronomi clitici.
Questa stessa strategia è stata riscontrata anche nel test di produzione di frasi relative.
Inoltre, per evitare di produrre frasi relative e passive, i soggetti presi in esame hanno
prodotto soprattutto frasi attive SVO, riscontrabili in bambini più piccoli.
L’analisi dei dati relativi alla comprensione e alla produzione di frasi relative e frasi
passive nei due gemelli e il confronto con i vari gruppi di controllo hanno messo in evidenza che anche soggetti con una sordità medio-moderata hanno difficoltà con l’acquisizione di specifiche strutture della lingua. È interessante tuttavia notare come vi sia per
entrambi i bambini gemelli un miglioramento tra la prima e la seconda somministrazione, che mostra come, seppur con un po’ di ritardo rispetto ai bambini normoudenti, il
processo di acquisizione e sviluppo linguistico stia continuando.
7. Conclusioni
In questo studio sono state indagate la comprensione e la produzione delle frasi passive e
relative in due gemelli sordi con deficit uditivo di entità medio-moderata.
COMPRENSIONE E PRODUZIONE DI FRASI RELATIVE E FRASI PASSIVE
89
Il confronto con i gruppi di controllo composti da soggetti normoudenti ha mostrato come anche una sordità di tale livello ha effetti sulla performance in compiti che indagano la competenza sintattica. Mettendo in relazione i risultati dei gemelli, si può notare
che, nonostante l’input ricevuto sia qualitativamente e quantitativamente lo stesso per
entrambi, SA ha una competenza linguistica più bassa di SB.
L’analisi di tipo longitudinale ha evidenziato un notevole miglioramento del livello
linguistico nei gemelli. Nonostante il livello di comprensione sia molto buono, SA e SB
tendono ad evitare la produzione di strutture target, preferendo l’uso di costruzioni colloquiali appropriate al contesto (frasi contenenti pronomi clitici) e frasi attive SVO, riscontrabili nelle produzioni di bambini normoudenti più piccoli. Benché la produzione
di strutture target sia nulla, a favore di altre costruzioni, i risultati del test di comprensione dimostrano che i bambini hanno accesso a queste strutture. La difficoltà che i soggetti
mostrano con le strutture marcate rende auspicabile un intervento che possa favorire
l’uso di tali strutture. Pertanto, è necessario che l’input che un soggetto sordo riceve sia
più ricco di quello che abitualmente gli viene offerto.
Ringraziamenti
Ringraziamo i gemelli SA e SB, la loro famiglia e i numerosi partecipanti dei gruppi di
controllo, le loro famiglie e i loro insegnanti. Ringraziamo inoltre Anna Cardinaletti.
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PAOLO FRUGARELLO1 - FRANCESCA MENEGHELLO2
CARLO SEMENZA3 - ANNA CARDINALETTI4
Il ruolo del tratto di numero nella comprensione
delle frasi relative oggetto in pazienti afasici italiani
Abstract: This study investigates the role of number features in the agrammatic comprehension of object relative clauses with preverbal subjects. A sentence-picture matching task was
used to assess the performance of four Italian aphasic patients. Results show that the mismatch condition of number features (with the subject singular/plural and the object plural/
singular) is computationally the most complex one. In this condition, aphasic patients have
greatest difficulties in establishing the right set of syntactic relations among the constituents
of the sentence.
1. Introduzione
Questo lavoro si inserisce in un dibattito aperto da studi linguistici e psicolinguistici
sull’influenza del tratto di numero nella comprensione delle frasi relative in individui normodotati (Adani et al., 2010) e con problemi relativi al linguaggio (per
bambini sordi, Volpato, 2012; per bambini con disturbo specifico del linguaggio,
Adani et al., 2014) e ha lo scopo di valutare l’influenza del tratto di numero nella
comprensione di frasi relative oggetto in pazienti afasici, data la mancanza di analoghe ricerche su questi soggetti. La performance dei soggetti esaminati è stata valutata
usando un compito di abbinamento frase-immagine (sentence-picture matching task,
vedi Adani, 2008, Friedmann - Novogrodzky, 2004 e Volpato, 2010 per test simili).
2. La comprensione nell’agrammatismo
Sebbene l’afasia di Broca comporti un deficit più grave in produzione, le difficoltà
di questi soggetti in compiti di comprensione non sono meno importanti. Rivelati
per la prima volta dallo studio di Caramazza - Zurif (1976), questi disturbi riguardano in particolare la comprensione di frasi derivate da movimento sintattico. Il
movimento si applica ad esempio nelle frasi interrogative, come (1a), e nelle frasi relative, come (1b). Ogni elemento che si muove lascia una traccia nella sua posizione
Dipartimento di Scienze mediche, chirurgiche e neuroscienze, Università di Siena.
IRCCS Ospedale San Camillo, Venezia.
3
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Padova.
4
Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati, Università Ca’ Foscari Venezia.
1
2
92
P. FRUGARELLO - F. MENEGHELLO - C. SEMENZA - A. CARDINALETTI
d’origine, indicata graficamente negli esempi dalla copia dell’elemento spostato, in
corsivo e tra parentesi uncinate:
(1a) Cosa pensi che Paolo abbia fatto <cosa>?
(1b) Il libro che Paolo ha letto <il libro>
La traccia riceve il ruolo tematico dal verbo e lo trasmette all’elemento mosso tramite una catena, vale a dire una relazione tra la posizione di origine e quella finale
dell’elemento spostato. Ed è questa relazione ad essere compromessa in soggetti con
disturbo del linguaggio. Per la difficoltà di costruire tale configurazione sintattica,
la traccia nella posizione d’origine dell’elemento non viene identificata, il che causa
una incorretta assegnazione del ruolo tematico all’elemento mosso e una errata interpretazione della frase.
2.1 La teoria della cancellazione della traccia
La teoria della cancellazione della traccia (Trace Deletion Hypothesis), proposta da
Grodzinsky (1984), predice un deficit parziale nel sistema sintattico degli agrammatici, precisamente nell’assegnazione dei ruoli tematici agli elementi della frase che
si muovono in posizioni sintattiche diverse da quelle in cui si stabilisce la relazione
semantica con il verbo. La cancellazione delle tracce non permette l’elaborazione
dei ruoli tematici, poiché le tracce sono essenziali per l’assegnazione del corretto set
di proprietà agli elementi spostati. Questa teoria predice correttamente che la comprensione delle frasi senza movimento non è compromessa. L’ipotesi di Grodzinsky
è però contrastata dai risultati ottenuti nella comprensione delle frasi relative soggetto e delle frasi scisse soggetto in pazienti afasici, poiché queste frasi sono interpretate a livello above chance, pur essendo anch’esse caratterizzate da movimento:
(2a) Ho premiato il bambino che <il bambino> ha letto il libro
(2b) È il bambino che <il bambino> ha letto il libro!
Per risolvere questa apparente contraddizione, Grodzinsky elaborò l’ipotesi di una
default strategy, un principio extralinguistico secondo cui il primo sintagma nominale della frase riceve sempre un ruolo agentivo di default. Questo spiega la buona
performance nelle relative soggetto e nelle scisse soggetto, dove il primo sintagma
nominale ha effettivamente un ruolo agentivo. Questa stessa strategia causa invece
la mancata comprensione di frasi in cui il primo sintagma nominale ha il ruolo di
paziente (come nelle frasi relative oggetto, nelle frasi scisse oggetto e nelle frasi passive).
2.2 Gli effetti della Minimalità relativizzata sulla comprensione agrammatica
Ipotizzando che la performance degli afasici nelle frasi complesse sia influenzata da capacità sintattiche limitate, che ostacolerebbero la corretta elaborazione dei tratti morfosintattici, Grillo (2005) ha proposto che il responsabile delle asimmetrie soggetto/
IL RUOLO DEL TRATTO DI NUMERO NELLA COMPRENSIONE DELLE FRASI RELATIVE
93
oggetto nella comprensione agrammatica sia il principio della Minimalità relativizzata (Rizzi, 1990; 2001): il movimento di un sintagma nominale risulta ostacolato
ogniqualvolta ne incontri un altro dai tratti morfosintattici simili. Ne consegue che
frasi a lunga distanza, con un sintagma interveniente, siano più difficili da computare
rispetto a frasi caratterizzate da movimento breve o da movimento lungo senza alcun
elemento interveniente. La Minimalità relativizzata predice infatti che la comprensione delle frasi relative oggetto sia deficitaria per la presenza di un elemento di classe
argomentale simile, il soggetto della frase relativa, posizionato tra l’elemento spostato
e la sua traccia (Friedmann et al., 2009). Due tratti sintattici sono definiti simili quando appartengono alla stessa classe:
(3) –
–
–
–
argomentale: persona, genere, numero, caso;
quantificazionale: interrogativo, negazione, focus, relativo...;
modificatori: valutativo, frequentativo, misura, maniera...;
topic.
Prendiamo ad esempio la frase relativa sull’oggetto «Il gatto che il cane insegue <il
gatto>». Sia il sintagma nominale (NP) mosso (il gatto) che la sua traccia hanno i
tratti [+NP] (nominal phrase) e [+R] (elemento della relativa). Il sintagma nominale soggetto il cane invece ha solo il tratto [+NP]. Grillo (2005) ipotizza che nei
soggetti con disturbo del linguaggio, il tratto [+R] sia cancellato e non sia dunque
computato nell’analisi della frase. Di conseguenza, la presenza dello stesso tratto
[+NP] nell’interveniente (il cane), nell’elemento mosso e nella sua traccia ostacola
la relazione tra questi due, di fatto interrompendola:
Le frasi relative soggetto, come in (2a), dovrebbero essere comprese meglio, grazie
all’assenza di un sintagma nominale interveniente tra l’elemento che si muove e la
sua traccia, evitando così effetti di Minimalità relativizzata.
Gli effetti della Minimalità relativizzata si presenterebbero ogniqualvolta un sintagma nominale appartenga alla stessa classe di un altro. In caso di limitate abilità
sintattiche, l’insieme dei tratti utilizzati nell’interpretazione della frase risulta impoverito e, di conseguenza, aumenta la possibilità di subire interferenze durante la
comprensione della frase. La sottospecificazione dei tratti morfosintattici può essere causata da limitazioni nelle capacità computazionali, da un rapido decadimento
dell’informazione lessicale, da un deficit generale nel recupero dell’informazione
(Grillo, 2005: 111).
94
P. FRUGARELLO - F. MENEGHELLO - C. SEMENZA - A. CARDINALETTI
2.3. Il deficit agrammatico come conseguenza di una riduzione intermittente
delle capacità computazionali o di una sintassi lenta/debole
Negli studi di Caplan (Caplan, 2006; Caplan et al., 2007) viene introdotto il concetto di funzionamento intermittente del meccanismo interpretativo, che si verificherebbe con maggiore probabilità nelle frasi che richiedono un costo computazionale
più alto; queste perdite intermittenti di risorse variano in gravità e in frequenza, da
paziente a paziente.
L’ipotesi di una sintassi lenta o debole (slow/weak syntax model) è invece formulata da Piñango (1999), e sostenuta da Avrutin (2006) e Burkhardt et al. (2008),
con lo scopo di spiegare l’estrema varietà dei deficit agrammatici. Secondo queste
teorie, gli agrammatici non perderebbero nessuna delle abilità necessarie per costruire una struttura sintattica e non soffrirebbero nemmeno di una riduzione di risorse.
Il danno agrammatico dipenderebbe altresì da un accesso ritardato alle operazioni
sintattiche (per un accesso lento alle categorie lessicali o per un rapido decadimento
della rappresentazione sintattica), con la conseguenza che la struttura sintattica non
sarebbe completata in tempo. Il deficit agrammatico diviene visibile ogniqualvolta l’interpretazione della frase richieda operazioni sintattiche complesse o quando
l’interpretazione ottenuta tramite principi extra-linguistici, ad esempio tramite
l’ordine lineare degli elementi, non corrisponde a quella sintattica. Di conseguenza,
il deficit agrammatico non riguarda tanto la costruzione della struttura sintattica
(come sostenuto da Grodzinsky, 1990), quanto un ritardo nel processo di costruzione della frase. Non potendo usare l’informazione sintattica, gli agrammatici farebbero affidamento su principi extra-linguistici.
3. Lo statuto sintattico del tratto di numero e l’influenza
sull’interpretazione della frase
In italiano il tratto di numero facilita la decodifica di frasi ambigue. Esso diventa
un indizio morfologico che semplifica la distinzione tra il sintagma nominale che
concorda con il verbo (il soggetto) e il sintagma che ha altri tratti di numero (l’oggetto). I risultati dello studio di De Vincenzi - Di Domenico (1999) sull’italiano
confermano i risultati di Nicol (1988) relativamente all’importanza del tratto di
numero nella comprensione di frasi ambigue.
Per ciò che riguarda le frasi relative oggetto, la Minimalità relativizzata predice
che la loro comprensione potrebbe essere influenzata dai tratti di numero presenti
sui sintagmi nominali coinvolti e migliorare se questi tratti sono differenti. Per verificare questa ipotesi, Adani et al. (2010) hanno valutato la comprensione di frasi relative oggetto, con incassamento centrale, con tratti di numero di volta in volta adeguatamente manipolati, in bambini italiani con sviluppo tipico. I risultati indicano
che il tratto di numero esercita effettivamente una qualche influenza nei soggetti
normali, la cui comprensione sarebbe favorita dal mismatch dei tratti di numero (in
cui cioè soggetto e oggetto della frase differiscono per i tratti di numero). Per comprendere questo dato, si può far riferimento all’ipotesi di Ferrari (2005), secondo
IL RUOLO DEL TRATTO DI NUMERO NELLA COMPRENSIONE DELLE FRASI RELATIVE
95
cui la proiezione del tratto di numero è realizzata solo nel plurale; i soggetti normali
sarebbero quindi in grado di distinguere tra singolare e plurale grazie all’assenza/
presenza della proiezione del tratto di numero.
La discrepanza di performance tra il match e il mismatch di numero è riscontrata
anche in bambini con disturbo specifico del linguaggio: analogamente ai soggetti
con sviluppo normale, la condizione di mismatch sembra migliorare la loro performance (Adani et al., 2014), confermando l’ipotesi che il controllo dei tratti di accordo non è danneggiato nei disturbi specifici del linguaggio (van der Lely, 1998).
Al contrario, il mismatch di numero rende più difficoltosa l’interpretazione della
frase in soggetti ipoacusici, i quali non sembrano sensibili a questo tratto (Volpato,
2012). In questi soggetti il tratto marcato del plurale potrebbe quindi essere sottospecificato o non accessibile affatto.
Sebbene non ci siano studi approfonditi sull’effetto del tratto di numero nella comprensione agrammatica, i risultati di Chinellato (2004) suggeriscono che la
condizione di mismatch di numero sia computazionalmente più pesante da elaborare per gli afasici.
4. Il test
Il nostro studio ha lo scopo di verificare se il tratto di numero possa influenzare la
comprensione di frasi relative oggetto in pazienti afasici. La loro performance è stata
valutata tramite un compito di abbinamento frase-immagine nel quale il paziente
deve abbinare alla frase pronunciata dall’esaminatore l’immagine che la raffigura.
4.1 Materiali e metodi
Il test utilizzato è composto da 96 frasi relative oggetto con soggetto pre-verbale,
divise in 48 frasi reversibili, in cui entrambi i sintagmi nominali possono essere l’agente del verbo della frase relativa (es. Tocca la bambina che la mamma pettina) e
l’interpretazione della frase si deve dunque basare sulle conoscenze sintattiche, e
48 frasi irreversibili (es. Tocca il bicchiere che i ragazzi lavano), in cui le conoscenze
del mondo potrebbero essere sufficienti per interpretare la frase. Il numero sintattico dell’oggetto (testa della relativa) e del soggetto della relativa è stato manipolato
in modo da ottenere condizioni di mismatch (in cui oggetto e soggetto hanno un
diverso tratto di numero) e di match di numero (in cui oggetto e soggetto hanno
lo stesso tratto di numero). Condizioni di mismatch si possono avere con l’oggetto
plurale e il soggetto singolare o viceversa (PLUR-SING; SING-PLUR), mentre il
match di numero può avere entrambi i sintagmi singolari o plurali (SING-SING;
PLUR-PLUR). Per ogni tipologia il test contiene 12 frasi. Per evitare che effetti di
complessità verbale possano influenzare la performance, i verbi usati nel test sono
stati scelti in base alla loro frequenza d’uso, utilizzando quelli con una frequenza
fondamentale o con un uso estensivo. I verbi appartengono per lo più alla prima
coniugazione dell’italiano e tutte le forme usate sono coniugate al presente indicativo. Un’altra variabile presa in considerazione è il tratto di genere dei sintagmi. Per
96
P. FRUGARELLO - F. MENEGHELLO - C. SEMENZA - A. CARDINALETTI
evitare qualsiasi interferenza di questa informazione, il soggetto e l’oggetto della
frase relativa mostrano sempre lo stesso genere.
Per evitare che i pazienti possano scegliere a caso l’immagine target, per ogni
frase viene presentato un foglio con 4 immagini, di cui solo una corrisponde alla
frase pronunciata dallo sperimentatore, mentre le altre 3 immagini presentano le
altre combinazioni di numero, come si può vedere nella figura 1.
Figura 1 - Esempio di un trial del test «Tocca il bambino che i pagliacci divertono»
Le immagini sono colorate e disposte simmetricamente l’una all’altra nel foglio, per
evitare ogni effetto di preminenza. L’immagine corretta è stata posizionata in maniera casuale nelle 4 posizioni possibili.
32 frasi filler sono intervallate alle frasi del test, per alleviare il carico computazionale (16 per ciascuna sessione, v. sotto). Si tratta di frasi relative sul soggetto irreversibili, caratterizzate da verbi transitivi e oggetti inanimati, come Tocca la ragazza
che guarda le stelle. Anche le frasi filler presentano in modo casuale le 4 combinazioni possibili dei tratti di numero.
I pazienti sono stati esaminati in 2 sessioni, somministrando in un primo momento le frasi irreversibili e in un secondo tempo le frasi reversibili. La somministrazione del test è avvenuta in una stanza silenziosa dell’IRCSS San Camillo di
Venezia, la struttura dove i pazienti erano ricoverati.
4.2 I pazienti e il gruppo di controllo
Al test hanno partecipato tre popolazioni. Il primo gruppo è composto da 2 individui agrammatici, A1 e A2, parlanti italiani nativi. A1 aveva 56 anni al momento
dell’esperimento, con 17 anni di scolarizzazione, mentre A2 ne aveva 49 con 8 anni
di scolarizzazione. Il secondo gruppo è composto da 2 individui con afasia fluente,
F1 e F2, parlanti italiani nativi. F1 aveva 38 anni al momento dell’esperimento e 10
IL RUOLO DEL TRATTO DI NUMERO NELLA COMPRENSIONE DELLE FRASI RELATIVE
97
anni di scolarizzazione. F2 ne aveva 56 con 8 anni di scolarizzazione. La tabella 1
riporta i dati relativi alle loro risposte nel test AAT (Luzzatti et al., 1987).
Tabella1 - I punteggi dei quattro pazienti afasici nel test AAT
Il terzo gruppo è quello di controllo, composto da 5 parlanti nativi italiani senza
disturbi del linguaggio (C1, C2, C3, C4, C5), paragonabili per età, sesso e scolarizzazione agli individui degli altri due gruppi. Avevano tra i 44 e i 55 anni d’età (età
media 50;4 anni) e tra i 5 e i 18 anni di scolarizzazione (media 13;4 anni di scolarizzazione) al momento del test.
5. Risultati quantitativi nelle frasi relative reversibili e irreversibili
Le relative oggetto reversibili e irreversibili mostrano entrambe percentuali molto
alte di accuratezza, in ogni gruppo, ma le prime presentano in totale più errori (25)
rispetto alle seconde (7). I soggetti di controllo raggiungono il 100% di risposte
corrette sia nelle irreversibili che nelle reversibili. A1 e F1 raggiungono il 100% di
risposte corrette nelle frasi irreversibili, mentre sono molto vicini a livelli di ceiling
nelle reversibili: A1 è corretto in 44/48 frasi (91,66% di accuratezza), mentre F1
arriva a 45/48 risposte corrette (93,75%). A2 e F2 hanno prestazioni più basse, ma
raggiungono comunque un livello di above chance. A2 commette errori in 10 frasi
reversibili su 48 (79,16% di accuratezza), mentre F2 ne sbaglia 8 su 48 (83,33%
di accuratezza). Si noti come questi due soggetti presentino problemi anche nelle
frasi irreversibili: A2 in un caso, F2 in 6, corrispondenti al 12,5% del totale. Le percentuali delle risposte corrette nelle relative oggetto reversibili e irreversibili sono
riportate nella tabella seguente.
Tabella 2 - Risultati nelle frasi reversibili e irreversibili
Nelle frasi filler che, ricordiamo, consistevano in frasi relative soggetto irreversibili,
tutti i soggetti hanno risposto correttamente il 100% delle volte.
98
P. FRUGARELLO - F. MENEGHELLO - C. SEMENZA - A. CARDINALETTI
6. Errori nel match e nel mismatch di numero
Come menzionato in precedenza, sia le frasi reversibili che quelle irreversibili sono
divise per combinazione (match/mismatch) di numero e ogni tipologia prevede 12
stimoli. La condizione di mismatch di numero è risultata la più complessa, con 22
errori rispetto ai 10 nella condizione di match. In particolare:
– A1 compie errori solo nella condizione di mismatch di numero nelle frasi reversibili (in 2 SING-PLUR e in 2 PLUR-SING);
– anche F1 compie errori solo nella condizione di mismatch di numero nelle reversibili (3 SING-PLUR);
– A2 commette una serie di errori nelle frasi reversibili, sia nella condizione di
match (3 SING-SING; 2 PLUR-PLUR) che in quella di mismatch (3 PLURSING; 2 SING-PLUR). Anche una frase irreversibile con mismatch di numero
(PLUR-SING) risulta errata;
– F2 compie diversi errori nelle frasi reversibili, sia nel match di numero (1 SINGSING e 1 PLUR-PLUR) che nel mismatch (2 PLUR-SING e 4 SING-PLUR),
e nelle frasi irreversibili, sia nel match di numero (3 PLUR-PLUR) che nel mismatch (3 SING-PLUR).
Nelle tabelle 3 e 4 sono riportate le performance dei soggetti sperimentali nelle
diverse tipologie di frasi.
Tabella 3 - Risultati nel match e mismatch di numero nelle frasi reversibili
Tabella 4 - Risultati nel match e mismatch di numero nelle frasi irreversibili
7. Classificazione degli errori
Gli errori dei soggetti sperimentali sono stati classificati in tre categorie:
– errori di inversione dei tratti di numero: la figura indicata dal paziente raffigura
una frase con tratti di numero invertiti rispetto alla frase target. Ricorrono in
IL RUOLO DEL TRATTO DI NUMERO NELLA COMPRENSIONE DELLE FRASI RELATIVE
99
tutti i soggetti con problemi di linguaggio (ad esempio, target: Tocca l’uomo che
i bambini mordono → figura indicata: Tocca gli uomini che il bambino morde);
– errori di cambio del tratto di numero nella testa della relativa (nell’oggetto): la
figura indicata dal paziente rappresenta la frase con tratto di numero invertito
nella testa della relativa. Si verificano solo in due soggetti, A2 e F2: in A2 in condizioni di match di numero, in F2 nella condizione di mismatch. Questi soggetti
commettono lo stesso tipo di errore anche nelle frasi irreversibili: A2 in una frase
con condizione di mismatch, mentre F2 in 3 frasi con mismatch SING-PLUR e
in 3 con match di numero PLUR-PLUR (ad esempio, target: Tocca il bambino
che il papà pettina → figura indicata: Tocca i bambini che il papà pettina);
– errori di cambio del tratto di numero nell’accordo soggetto-verbo: la figura scelta rappresenta la frase con tratto di numero diverso nell’accordo soggetto-verbo,
rispetto alla frase target. Si riscontrano solo in F2, nella condizione di match di
numero in frasi reversibili (ad esempio, target: Tocca la bambina che la donna
saluta → figura indicata: Tocca la bambina che le donne salutano).
La tabella 5 riassume gli errori riscontrati nei pazienti esaminati.
Tabella 5 - Tipologie di errori riscontrati
I risultati rivelano una scala implicazionale degli errori di cambio del tratto di numero come in (5):
(5) errore di cambio del tratto di numero nell’accordo soggetto-verbo > errore di cambio di numero nella testa della relativa > errore di inversione dei tratti di numero.
100
P. FRUGARELLO - F. MENEGHELLO - C. SEMENZA - A. CARDINALETTI
8. Discussione
Abbiamo visto come sia nelle frasi irreversibili che in quelle reversibili i pazienti
mostrino un’alta percentuale di accuratezza: A1 e F1 sono molto vicini ai livelli del
gruppo di controllo nelle reversibili, mentre eguagliano la loro performance nelle
irreversibili (100%). Sebbene anche le risposte di A2 e F2 si situino abbondantemente al di sopra del livello di chance, essi mostrano prestazioni più basse nelle frasi
reversibili e incontrano qualche difficoltà (specialmente F2) anche nelle frasi irreversibili.
La seguente discussione si propone di interpretare le differenze di prestazione
dei soggetti con disturbo del linguaggio, basandosi in particolare su Ferrari (2005).
Ferrari propone che la proiezione sintattica del numero si realizzi solo in presenza
del tratto di numero del plurale, ipotizzando implicitamente che la condizione di
mismatch di numero possa essere computazionalmente più complessa, in condizioni di danni al linguaggio, come già riscontrato da Chinellato (2004) per soggetti
agrammatici e da Volpato (2012) per soggetti sordi. Al contrario, ricordiamo che il
mismatch di numero facilita la comprensione delle frasi relative in soggetti a sviluppo tipico e con disturbo specifico del linguaggio (Adani et al. 2010; 2014).
Riguardo ai nostri pazienti, i risultati mostrano come la condizione di mismatch
di numero risulti più complicata e causi un numero maggiore di errori (18 in totale
nelle reversibili: A1 4/24; A2 5/24; F1 3/24; F2 6/24; 4 in totale nelle irreversibili:
A2 1/24; F2 3/24). Nella condizione di match di numero, invece, solo due soggetti
(A2 e F2, i soggetti con basso livello di comprensione nel test AAT) commettono
errori (7 in totale nelle reversibili: A2 5/24; F2 2/24; 3 nelle irreversibili: F2 3/24).
Si osservi anche che la condizione di mismatch SING-PLUR risulta quella con più
errori, 14, rispetto a PLUR-SING, 8 errori. Nella condizione di match, la combinazione PLUR-PLUR risulta più problematica di quella SING-SING (6 vs. 4 errori).
In entrambe le condizioni più difficoltose (SING-PLUR e PLUR-PLUR), si osservi che il soggetto e il verbo della frase relativa presentano il numero marcato, cioè il
plurale.
I risultati rivelano inoltre una scala implicazionale degli errori: errore di cambio
del tratto di numero nell’accordo soggetto-verbo > errore di cambio del tratto di
numero nella testa della relativa > errore di inversione dei tratti di numero. Questo
dipende dal fatto che il numero dell’accordo soggetto-verbo è più stabile rispetto al
numero dell’oggetto, essendo controllato due volte durante la derivazione sintattica
della frase (per AGREE e per accordo specificatore-testa, Guasti - Rizzi 2002); se
il paziente modifica questo tratto, si verificheranno anche le altre due tipologie di
errori.
L’alta variabilità della performance dei soggetti con disturbi del linguaggio può
essere attribuita a diversi problemi linguistici e computazionali: i) il fenomeno
dell’attrazione (Franck et al., 2006); ii) gli effetti della Minimalità relativizzata causati dalla sottospecificazione dei tratti morfosintattici (Grillo, 2005); iii) la temporanea riduzione delle capacità computazionali (Caplan, 2006; Caplan et al., 2007).
IL RUOLO DEL TRATTO DI NUMERO NELLA COMPRENSIONE DELLE FRASI RELATIVE
101
8.1 La prima tipologia di errore: inversione dei tratti di numero
Si è visto che l’inversione dei tratti di numero ricorre in tutti i soggetti con problemi
di linguaggio. In particolare, la condizione SING-PLUR è risultata essere quella
con più errori, forse perché pesante computazionalmente, a causa della presenza del
numero marcato sul soggetto e sul verbo della frase relativa.
(6) SING-PLUR: Oggetto...
[+Num]
[+Num]
[Soggetto... Verbo < Oggetto>]
In questo caso, l’errore potrebbe essere riconducibile all’interferenza dell’oggetto
sull’accordo soggetto-verbo, che “attrae” l’accordo del verbo. Vigliocco - Nicol
(1998) provano che è la posizione gerarchica ad essere responsabile dell’attrazione,
non l’ordine di superficie degli elementi. Analogamente Franck et al. (2002) affermano che il sintagma nominale più lontano dal verbo ha maggior potere attrattivo.
L’elemento più lontano, l’oggetto, deve perciò occupare una posizione intermedia
durante la sua derivazione sintattica, e questa posizione intermedia deve essere interna alla relazione tra soggetto e verbo:
(7) SING-PLUR: Oggetto...
[+Num]
[Soggetto...<Oggetto>...
[+Num]
Verbo < Oggetto>]
Chinellato (2004) e Volpato (2012), muovendo dagli studi di Kayne (1989), mostrano che, in condizioni di linguaggio danneggiato, persino un verbo marcato può
essere attratto da una testa non marcata. Quindi, l’oggetto singolare (non marcato)
può esercitare attrazione sul verbo al plurale (marcato), causando la cancellazione
del tratto di numero sul verbo:
[+Num]
(8a) SING-PLUR: Oggetto... [Soggetto...
[+Num]
(8b) SING-PLUR: Oggetto... [Soggetto...
[+Num]
Verbo...]
[+Num]
Verbo...]
L’attrazione può essere dovuta a ridotte capacità di elaborazione del movimento
dell’oggetto, oppure a un intermittente accesso alle capacità sintattiche. In questi
casi, i pazienti possono fare affidamento solo sull’ordine lineare della frase, interpretando l’oggetto/paziente della frase come il soggetto/agente dell’azione e stabilendo così un errato accordo “falso soggetto” - verbo. A questo punto della derivazione,
l’accordo tra il vero soggetto e il verbo verrebbe riparato, facendo affidamento sul
nuovo tratto di numero del verbo, il singolare; tuttavia, i due sintagmi nominali
della frase si ritrovano adesso a condividere lo stesso tratto di numero, il singolare.
Per differenziare i due sintagmi ed evitare effetti di interferenza, ipotizziamo che i
nostri pazienti aggiungano la proiezione di numero sull’oggetto:
102
P. FRUGARELLO - F. MENEGHELLO - C. SEMENZA - A. CARDINALETTI
[+Num]
(9) SING-PLUR → PLUR-SING: Oggetto... Soggetto... Verbo...
Se l’attrazione nella condizione SING-PLUR era in qualche modo prevista, i nostri
pazienti commettono errori inaspettati anche nella condizione di mismatch PLURSING, la direzione opposta rispetto alla proposta di Kayne (1989), portandoci a
ipotizzare che anche una testa marcata possa attrarre un verbo non marcato. Si può
ipotizzare che il principio di Kayne non si applichi nell’agrammatismo, poiché in
questa patologia del linguaggio il costo computazionale di una particolare struttura sintattica può superare le capacità di elaborazione, portando ad un’assegnazione
casuale dei ruoli tematici. Facendo affidamento sull’ordine lineare, i pazienti assegnerebbero il ruolo di soggetto al primo sintagma incontrato, stabilendo così un accordo errato con il verbo e non prestando attenzione agli indizi sintattici costituiti
dai tratti di numero.
8.2 La seconda tipologia di errore: il cambio di numero nella testa della relativa
A differenza della prima tipologia di errori, il cambio di numero nella testa della relativa si verifica solo nei soggetti con bassi livelli di comprensione nel test AAT (A2
e F2) ed è stato riscontrato sia nella condizione di match che di mismatch dei tratti
di numero. Consideriamo per prima la condizione di match:
(10) target: Tocca il bambino che il papà pettina → figura indicata: Tocca i bambini
che il papà pettina
Questo errore può essere considerato una conseguenza degli effetti della Minimalità
relativizzata. Nella frase (10), l’oggetto spostato scavalca il soggetto, causando effetti di Minimalità relativizzata dal momento che i due sintagmi condivono gli stessi
tratti morfosintattici:
Per evitare interferenza, gli afasici differenzierebbero i due sintagmi nominali aggiungendo una proiezione di numero all’oggetto, il sintagma con i tratti di numero
più deboli:
[+Num]
NP
[+Num]
(12) [i bambini che [il papà pettina <i bambini>]
Questa tipologia di errore avviene anche nella direzione opposta (PLUR-PLUR →
SING-PLUR), nel qual caso ipotizziamo la cancellazione del tratto di numero sulla
testa della relativa piuttosto che la sua introduzione.
IL RUOLO DEL TRATTO DI NUMERO NELLA COMPRENSIONE DELLE FRASI RELATIVE
103
Infine, F2 in 2 frasi reversibili (SING-PLUR → PLUR-PLUR) e in 3 frasi irreversibili (SING-PLUR → PLUR-PLUR) e A2 in una frase irreversibile (PLURSING → SING-SING) modificano il numero della testa della relativa anche nella
condizione di mismatch. In questo caso, non si può far appello alla necessità di modificare il numero dei due sintagmi nominali per differenziarli, ma piuttosto all’impiego di tutte le risorse computazionali per costruire l’accordo tra soggetto e verbo.
Ipotizziamo che non ci siano risorse sufficienti per mantenere differenziati i due
sintagmi nominali e che l’oggetto subisca l’interferenza del numero dell’accordo
soggetto-verbo quando si muove oltrepassandolo, assumendone il tratto di numero
(v. 8.1).
8.3 La terza tipologia di errore: il cambio del numero dell’accordo soggetto-verbo
Il cambio del numero dell’accordo soggetto-verbo compare solo nel paziente F2,
che presenta nel test AAT i livelli di comprensione più bassi. Questo errore è in
effetti inaspettato, data la maggiore stabilità del tratto di numero dell’accordo soggetto-verbo rispetto al tratto di numero dell’oggetto. Chiaramente non economico
computazionalmente, questo errore compare solamente due volte, nella condizione
di match di numero; in (13) vediamo il caso SING-SING → SING-PLUR, in (14)
la direzione opposta PLUR-PLUR → PLUR-SING:
(13) target:
Tocca la bambina che la donna saluta →
[+Num] [+Num]
figura indicata: Tocca la bambina che le donne salutano
[+Num]
[+Num] [+Num]
(14) target:
Tocca le bambine che le commesse consigliano →
[+Num]
figura indicata: Tocca le bambine che la commessa consiglia
Questa strategia potrebbe essere impiegata a causa di un temporaneo black out computazionale, che impedirebbe la corretta interpretazione della frase, forzando ad
assegnare casualmente i ruoli tematici tramite la concomitante inserzione o cancellazione del tratto di numero sul soggetto e il verbo della frase relativa.
8.4 Considerazioni finali
I risultati mostrano come tutti i nostri soggetti con problemi di linguaggio commettano errori nella condizione di mismatch dei tratti di numero (SING-PLUR;
PLUR-SING). In presenza di bassi livelli di comprensione, come in A2 e F2, anche
la condizione di match di numero può essere disturbata. Come abbiamo visto, la
performance dei soggetti con disturbo del linguaggio è inficiata da diversi problemi
linguistici e computazionali. L’alta variabilità delle loro performance ci porta a ipo-
104
P. FRUGARELLO - F. MENEGHELLO - C. SEMENZA - A. CARDINALETTI
tizzare la presenza di vari fenomeni distorsivi: la sottospecificazione dei tratti morfosintattici; gli effetti della Minimalità relativizzata; il fenomeno dell’attrazione.
Le interferenze nell’implementazione della struttura sintattica sono dovute alla
posizione intermedia che l’oggetto occupa durante il suo movimento, poiché disturba il corretto stabilirsi dell’accordo soggetto-verbo. Il movimento dell’oggetto
causa anche problemi di Minimalità relativizzata poiché, scavalcando il soggetto,
si creano interferenze in caso di sottospecificazione dei tratti morfosintattici, e
l’assegnazione dei ruoli tematici non può avvenire in modo corretto. In un caso o
nell’altro, le risorse computazionali sono ulteriormente ridotte dall’aggiunta o cancellazione dei tratti di numero, operazioni utilizzate per cercare di differenziare i
due sintagmi nominali.
I tratti di numero modificati sono più spesso quelli dell’oggetto, più deboli in
termini sintattici, rispetto al tratto di numero dell’accordo soggetto-verbo, che è
strettamente controllato durante la derivazione sintattica. Il paziente F2, tuttavia,
modifica in due occasioni anche il tratto di numero dell’accordo soggetto-verbo.
Chiaramente non economica, questa strategia può essere spiegata ipotizzando un
temporaneo black out computazionale, in cui F2 assegnerebbe i ruoli tematici a caso.
Questi errori confermano la precarietà del tratto di numero in questi soggetti. In
presenza di risorse computazionali intermittenti, l’elaborazione dei ruoli tematici
può occupare tutte le risorse disponibili e impedire in tal modo la corretta elaborazione di altri tratti morfosintattici. I risultati indicano comunque che il danno
agrammatico di questi pazienti non può riguardare la cancellazione della conoscenza della sintassi. Se le capacità sintattiche dei pazienti afasici fossero definitivamente
compromesse, non sarebbe possibile aggiungere o togliere proiezioni di numero.
Abbiamo invece proposto che il tratto di numero è computato, ma soggetto a precarietà e a possibili modificazioni. Il danno agrammatico di questi pazienti dovrebbe piuttosto risiedere in una debolezza delle abilità procedurali, o in una riduzione
delle risorse procedurali. I pazienti sarebbero affetti da una intermittente riduzione
delle risorse implicate nell’elaborazione, che occasionalmente non farebbero assegnare correttamente i ruoli tematici. Queste riduzioni varierebbero in gravità e frequenza da un soggetto all’altro (Caplan 2006; Caplan et al., 2007).
9. Conclusioni
Lo scopo di questo lavoro è investigare l’influenza dei tratti di numero nella comprensione agrammatica delle frasi relative oggetto reversibili e irreversibili. Per
raggiungere questo scopo, abbiamo costruito un compito di abbinamento fraseimmagine, che abbiamo sottoposto a 2 soggetti agrammatici, 2 pazienti fluenti e
un gruppo di controllo, costituito da 5 parlanti nativi italiani senza disturbo del
linguaggio, simili ai pazienti afasici per età e scolarizzazione. Il tratto di numero
dei sintagmi nominali è stato manipolato, rendendoli simili (condizione di match
di numero: SING-SING; PLUR-PLUR) o dissimili (mismatch di numero: SINGPLUR; PLUR-SING) per il numero. Gli errori commessi sono stati divisi in tre
IL RUOLO DEL TRATTO DI NUMERO NELLA COMPRENSIONE DELLE FRASI RELATIVE
105
tipologie: errori di inversione dei tratti di numero (si verificano in tutti i pazienti);
errori di cambio di numero nella testa della relativa (in A2 e F2); errori di cambio di
numero nell’accordo soggetto-verbo (solo in F2).
I risultati mostrano che la condizione di mismatch di numero è la più deficitaria,
registrando la maggior parte degli errori. La sua complessità può essere compresa
alla luce della proposta di Ferrari (2005), la quale ipotizza che la proiezione di numero sia realizzata solo al plurale, rendendo in tal modo la frase più complessa dal
punto di vista computazionale. La grande variabilità della performance dei pazienti
ci ha indotto a pensare che diversi fenomeni linguistici e computazionali possano
disturbare il processo di comprensione dei soggetti in esame: il fenomeno dell’attrazione, la temporanea sottospecificazione dei tratti morfosintattici, l’interferenza
prodotta da un elemento interveniente lungo il percorso dell’oggetto spostato.
Le interferenze sarebbero dovute alla posizione intermedia dell’oggetto, che interferisce nello stabilirsi della relazione di accordo soggetto-verbo, e al fatto che nel
suo movimento l’oggetto scavalca il soggetto, dal quale non è differenziabile data
la sottospecificazione dei tratti morfosintattici. I pazienti tentano quindi di modificare i tratti di numero, con lo scopo di evitare i fenomeni di interferenza sopra
descritti, modificando principalmente la proiezione di numero più debole, quella
sull’oggetto, mentre il numero del soggetto è maggiormente preservato, data la presenza dell’accordo soggetto-verbo (fa eccezione il paziente F2, che in due occasioni
modifica, in modo inaspettato, il tratto di numero dell’accordo soggetto-verbo).
La performance dei nostri pazienti è altresì inquadrabile in una disponibilità a
intermittenza delle risorse computazionali, che occasionalmente li priverebbe delle necessarie capacità sintattiche. Queste riduzioni variano per gravità e frequenza,
a seconda del danno cognitivo presentato. Essendo occupati dalla costruzione dei
ruoli tematici, e soffrendo di riduzioni improvvise e temporanee delle loro capacità
computazionali, questi soggetti ignorerebbero a volte la corretta elaborazione dei
tratti di numero.
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PARTE II
STRATEGIE DI ELABORAZIONE
DELLA GRAMMATICA
REBEKAH RAST1
Primi passi in un nuovo sistema linguistico
A theory of second (or third) language acquisition needs to account for how learners acquire
grammatical structures at all proficiency levels: from first exposure to the novel language
through mastery of that language. The focus of this article is the very initial phases of this
process, how learners begin to ‘crack the code’ of the new morphosyntactic system and begin
to learn something about this system. Following a theoretical introduction about the initial
stages of adult language acquisition, the article presents results of data collected from first exposure participants and beginning learners, concentrating in particular on a cross-linguistic
European study currently in progress, Varieties of Initial Learners in Language Acquisition:
Controlled classroom input and elementary forms of linguistic organisation (VILLA).
1. Introduzione
Cercare di capire una lingua sconosciuta può essere un’esperienza scoraggiante, specialmente se ci si propone di impararla. A seconda della lingua bersaglio e di quelle
già note (background languages, nei termini di Hammarberg, 2010) sarà possibile
afferrare frammenti di parlato, oppure nulla del tutto.
Dapprima gli apprendenti iniziano gradualmente a rilevare i tratti più salienti della fonologia della nuova lingua, imparando a distinguere suoni fino ad allora
sconosciuti (Best, 1995; Flege, 1995; Shoemaker - Rast, 2013a); cominciano anche
i primi tentativi di segmentazione del flusso di parlato in unità portatrici di significato, dotate di una semantica di volta in volta più o meno conforme a quella della
parola corrispondente nella lingua bersaglio.
Contemporaneamente il parlato viene a poco a poco segmentato in unità inferiori (es. sillabe e morfemi) e superiori (es. sintagmi e frasi), in seguito all’analisi delle
forme e delle strutture morfosintattiche incontrate con il procedere dell’esposizione
all’input (Rast, 2008: cap. 9). Proprio sull’elaborazione della grammatica bersaglio
si concentra questo capitolo: in che modo gli apprendenti riescono a estrarre informazioni grammaticali dall’input, analizzandole e utilizzandole nei primi tentativi
di produzione linguistica?
Basandosi su dati di diversi studi, in questo lavoro verranno discusse due influenti ipotesi relative agli stadi iniziali dell’acquisizione di un nuovo sistema linguistico
da parte di apprendenti adulti. Verrà trattato in particolare il progetto VILLA, un’iniziativa europea volta a esplorare le primissime varietà di apprendimento di una
nuova lingua in prospettiva interlinguistica (Dimroth et al., 2003).
The American University of Paris & CNRS (UMR 7023-SFL). La traduzione in italiano è stata
curata da Jacopo Saturno.
1
112
REBEKAH RAST
2. Primi stadi dell’acquisizione della grammatica: problemi teorici
e metodologici
Studiare l’acquisizione della grammatica in una nuova lingua richiede una teoria
che spieghi non solo il modo in cui l’apprendente elabora e utilizza le strutture morfosintattiche, ma anche l’influsso di vari fattori capaci di guidare o condizionare
l’apprendimento: nonostante numerosi modelli siano stati proposti, due in particolare si sono imposti fra gli anni Ottanta e Novanta. Il primo nasce dai risultati di un
progetto della European Science Foundation (ESF) riguardante l’acquisizione spontanea di una L2 (Perdue, 1993). Lo studio comprendeva 6 L1 e 5 L2 per un totale di
10 combinazioni, la cui analisi in prospettiva interlinguistica portò a identificare la
Varietà Basica (VB), una varietà di apprendimento descritta come «a well-structured, efficient and simple form of language» (Klein - Perdue, 1997: 301).
Per analizzare gli stadi più primitivi di una L2, i ricercatori raccolsero buona parte del materiale studiando apprendenti iniziali. I risultati mostrano che la struttura
dell’enunciato nella VB è determinata dall’interazione di un numero limitato di
regole e principi organizzativi, e che inoltre essa è largamente indipendente sia della
L1 sia della L2 (Klein - Perdue, 1997; Starren, 2001).
Gli autori argomentano che l’acquisizione di una L2 implica la creazione di una
lingua “dalla base” (Perdue, 2006) secondo i processi propri della facoltà di linguaggio umana:
To the extent that learner varieties also exhibit properties which are independent of
source and target language, we must assume they immediately reflect creative processes of the underlying human language faculty. Where else should these properties
come from? (Klein, 2001: 90)
La scoperta che l’organizzazione degli enunciati prodotti dagli apprendenti sembra indipendente non solo dalla struttura della L1, ma anche dalla lingua bersaglio
portò i ricercatori a concentrarsi sull’ambiente linguistico in cui sono immersi gli
apprendenti, comunemente noto come input.
Muovendosi nell’ambito dell’approccio funzionalista, Klein e Perdue affermano
che l’acquisizione di L2 si può spiegare ricorrendo a capacità cognitive generali, tra
cui i principi di organizzazione dell’informazione. Affinché questi possano guidare
l’acquisizione, però, gli apprendenti devono essere esposti all’input, contenente il
materiale linguistico necessario, il quale potrà essere analizzato grazie alle conoscenze a disposizione e alle capacità cognitive innate.
L’altra ipotesi forte sull’acquisizione iniziale di L2, proposta da Schwartz Sprouse (1996) col nome di Full Transfer/Full Access (FT/FA), affronta il problema
dalla prospettiva generativista.
Secondo questo modello, l’acquisizione parte da uno stato di piena padronanza
della grammatica della L1 (Full Transfer) ed è guidata dalla Grammatica Universale,
a cui l’apprendente adulto ha accesso completo (Full Access).
Di conseguenza, lo stadio iniziale della L2 è costituito dall’intera grammatica
della L1 (Schwartz - Eubank, 1996). Secondo questa ipotesi,
PRIMI PASSI IN UN NUOVO SISTEMA LINGUISTICO
113
[...] the starting point of L2 acquisition is quite distinct from that of L1 acquisition:
in particular, it contends that all the principles and parameter values as instantiated
in the L1 grammar immediately carry over as the initial state of a new grammatical system on first exposure to input from the target language (Schwartz - Sprouse,
1996: 41).
Contrariamente al modello della VB, l’ipotesi FT/FA prevede che il ruolo dell’input sia di innescare un cambiamento nella configurazione iniziale della L2. Ciò avviene quando il sistema non è in grado di elaborare una rappresentazione dell’input,
evidenziando la necessità di una ristrutturazione: questa può poi variare nella sua
velocità o addirittura non aver luogo, per esempio a causa di input particolarmente
povero o oscuro.
L’input a cui gli apprendenti sono esposti ha dunque il ruolo fondamentale di
innescare un cambiamento nel sistema. È importante segnalare che questo può avvenire in tempi anche molto rapidi se nell’input sono presenti strutture largamente predominanti: Sprouse (2009) per esempio suggerisce che degli apprendenti di
giapponese L2 con L1 inglese dovrebbero essere in grado di impostare il parametro
dell’ordine delle parole su SOV quasi immediatamente, in quanto tutte le frasi giapponesi contenenti i tre costituenti maggiori sono organizzate secondo quest’ordine.
La divergenza tra le due ipotesi appena discusse è bene espressa dalle domande
essenziali a cui si propongono di rispondere. Quella di Schwartz e Sprouse è: come
si può descrivere lo stadio iniziale della L2? La parola “stadio” rimanda a un’idea
di staticità e si riferisce in particolare alla configurazione della grammatica dell’apprendente al momento del primo contatto con la L2, secondo la prospettiva della
Grammatica Universale.
Per Klein e Perdue il quesito essenziale è invece: che cosa sono in grado di fare
gli apprendenti al momento del primo contatto con una L2? Tale approccio implica
un processo dinamico per cui, se una grammatica dell’interlingua è effettivamente
attiva sin dalle prime fasi di acquisizione, allora gli apprendenti saranno in grado di
utilizzarla, e il suo prodotto potrà essere osservato.
Sin dalla loro comparsa, questi due approcci allo studio degli stadi iniziali di una
L2 hanno ispirato larga parte della ricerca acquisizionale. Un’analisi approfondita
dei dati su cui sono basate le ipotesi, tuttavia, rivela in entrambi i casi una lacuna:
quando i due modelli vennero proposti negli anni Novanta, nessuno aveva mai studiato il comportamento degli apprendenti al momento del primissimo contatto con
la lingua bersaglio. Per quanto possa sembrare una carenza sorprendente, ciò ha in
realtà delle motivazioni molto concrete.
Nel caso della proposta di Schwartz e Sprouse, dedicata specificamente alla morfosintassi, al fine di osservare il sistema è necessario studiare il comportamento di
apprendenti che siano già in grado di giudicare la correttezza di strutture sintattiche
e di produrne essi stessi. Di conseguenza tali studi possono essere condotti solo su
apprendenti che possiedano già un sistema morfosintattico, più o meno sviluppato.
Come Grüter et al. (2008: 54) fanno notare, «[...] testing learners at the very outset
114
REBEKAH RAST
of L2 acquisition is generally not feasible, as they would be unable to fulfil even
basic task demands in the L2».
L’ipotesi di Klein e Perdue, d’altra parte, non soffre di queste limitazioni: l’assenza di dati relativi ad apprendenti iniziali in questo caso era dovuta alla natura e
agli obiettivi del progetto ESF, il quale era stato concepito per indagare l’acquisizione non guidata di una L2 a partire dal primo momento concretamente possibile e
lungo un arco di tre anni. Pur avendo osservato il ruolo importante dell’input nei
dati dei loro apprendenti, i ricercatori non avevano tuttavia alcun controllo su di
esso. Inoltre i partecipanti allo studio, recentemente immigrati nel Paese ospitante,
inevitabilmente erano già stati esposti all’input prima dell’inizio delle rilevazioni,
per quanto fossero stati selezionati in modo che il tempo trascorso dall’arrivo fosse
il più breve possibile (da uno a 19 mesi; Perdue, 1993: 46).
Come nota Perdue (1993, Vol. 1: 40), l’ideale sarebbe stato «[...] to find adult
monolinguals with very little TL knowledge and a good prognosis for acquisition»;
più realisticamente, però, poco oltre si legge che «ideal informants tend to exist in
the heads of researchers» (1993: 42). Di fatto, c’era la possibilità che gli apprendenti possedessero già una loro competenza morfosintattica nella L2; soprattutto,
però, non era possibile descrivere pienamente l’atto di creazione del sistema, perché
il processo era cominciato prima dell’inizio dello studio.
Indipendentemente dal paradigma teorico di riferimento, divenne evidente ai
ricercatori che per verificare le loro ipotesi sull’acquisizione iniziale di L2 erano necessari dati da apprendenti senza alcuna esperienza della lingua bersaglio. Perdue
(1996: 138) riconosce esplicitamente la lacuna: «Far too little empirical attention
has been paid to the very beginnings of the acquisition process». Anche da parte
generativista si arrivò a simili conclusioni: «[...] in order to make any claims about
the learner’s initial state, data need to be collected from learners at the earliest stages
of acquisition» (Vainikka - Young-Scholten, 1998: 31).
C’è accordo quindi sul fatto che una descrizione più precisa dei primissimi stadi
dell’acquisizione di L2 sia necessaria. Poiché però il modello FT/FA e quello della
VB teorizzano ruoli diversi per l’input in queste fasi iniziali, tale descrizione può
essere raggiunta solo grazie a esperimenti che permettano di esercitare un pieno controllo sull’input a cui i soggetti sono esposti, dal momento del primo contatto con
la nuova lingua e poi lungo un arco di tempo più o meno esteso, analizzando il loro
comportamento in relazione all’input e alla L1.
Esperimenti di questo tipo sono per natura ambiziosi, oltre che estremamente
dispendiosi in termini di tempo e denaro; inoltre, richiedono notevoli competenze e risorse tecnologiche. Pur riconoscendo che queste difficoltà oggettive possano
essere un ostacolo impegnativo, nel suo articolo Give input a chance! l’influente fonologo Jim Flege (2009: 190) sostiene questa linea di ricerca:
In sum, more and better research will be needed to determine if, as some claim, input
is relatively unimportant in L2 learning. To adequately assess the role of L2 input,
the input that learners of an L2 actually receive must be assessed more accurately.
Measuring L2 input may be impossible, but better estimates of L2 input can and
PRIMI PASSI IN UN NUOVO SISTEMA LINGUISTICO
115
must be obtained. Doing this will require the expenditure of substantial resources
(time, money, creativity). For this to happen, researchers must first decide to give L2
input a chance to explain variation in L2 learning.
3. Studi precedenti sugli stadi iniziali dell’acquisizione di L2
Diversi progetti di ricerca hanno cercato di affrontare il problema del controllo
dell’input utilizzando lingue artificiali in miniatura. Spesso di natura statistica, questi studi indagano l’acquisizione di lingue bersaglio appositamente inventate e che si
caratterizzano per determinati tratti scelti in modo da essere condivisi o meno dalla L1 degli apprendenti (es. Hudson Kam - Newport, 2005; Reber, 1967; Saffran,
Newport - Aslin, 1996).
La ricerca sull’acquisizione delle lingue artificiali ha portato a risultati significativi, come per esempio la scoperta del ruolo svolto dalle regolarità statistiche nell’apprendimento del lessico (Saffran et al., 1996), mostrando però che l’apprendimento
di lingue naturali e artificiali sono due processi distinti (Robinson, 2010), principalmente a causa dell’eccessiva semplificazione delle lingue in miniatura ( Johnson,
2006).
Un altro filone di ricerca si concentra invece su brevi periodi di esposizione a
input naturale, per quanto controllato. In una serie di studi condotti all’università
di Calgary (Canada), un gruppo di apprendenti senza alcuna esperienza della lingua
bersaglio (il tedesco) è stato esposto a un input attentamente controllato: lo scopo
dell’esperimento è misurare la rapidità con cui gli apprendenti riescono a segmentare il flusso del parlato in modo da identificare delle forme di parola e associarle
a un significato. I risultati indicano che ciò può avvenire anche dopo solo poche
occorrenze degli elementi lessicali bersaglio, specie nel caso di parole etimologicamente imparentate con l’equivalente nella L1 (Carroll, 2012; 2013; 2014). Il lavoro di Carroll - Widjaja (2013: 219) indaga invece la capacità dei loro apprendenti
di indonesiano L2 con L1 inglese di ricordare elementi lessicali nel tempo e di generalizzare regole grammaticali. I risultati mostrano che i partecipanti erano in grado
di acquisire le strutture morfosintattiche bersaglio dopo pochissime occorrenze, associando correttamente le forme del plurale al significato corrispondente.
In un ampio progetto del Max Planck Institute di Psicolinguistica di Nimega,
a un gruppo di apprendenti olandesi senza esperienza di cinese è stato mostrato un
video di 7 minuti in questa lingua senza fornire loro ulteriori istruzioni. I successivi
test mostrano che quando le parole erano associate a dei gesti, i partecipanti erano in grado di estrarre diverse informazioni relative sia alla forma sia al significato
(Gullberg et al., 2012): in particolare, 7 minuti di esposizione possono essere sufficienti per riconoscere elementi lessicali ricorrenti, estrarre regole fonotattiche e
perfino identificare significati referenziali (Gullberg et al., 2010; Ristin-Kaufmann
- Gullberg, 2014).
Queste ricerche suggeriscono che l’apprendimento implicito svolga un ruolo
importante nelle fasi più iniziali dell’apprendimento di una L2, almeno per quei
116
REBEKAH RAST
processi che richiedono di estrarre informazioni da un flusso continuo di parlato,
come per esempio il riconoscimento di parole.
Un’altra serie di studi osserva gruppi di apprendenti guidati nel contesto della
didattica in classe, in cui è possibile esercitare un pieno controllo sull’input. È attualmente in corso all’università di Parigi 8 un progetto sull’acquisizione del polacco da
parte di apprendenti francesi, il quale si propone di indagare quali fattori agevolino
l’acquisizione di parole e strutture morfosintattiche al momento del primo contatto
con la lingua bersaglio e nelle ore immediatamente successive.
Come anche Carroll (2012), Rast (2008) rileva un ruolo importante per le parole etimologicamente imparentate nell’apprendimento del lessico, in particolar
modo per quanto riguarda la segmentazione e la ripetizione del parlato.
Le abilità di percezione e comprensione sono anche influenzate da altri fattori,
quali la posizione dell’accento lessicale, la familiarità dell’apprendente con la fonologia della L2, e la posizione dell’elemento bersaglio nell’enunciato.
Effetti immediati per la frequenza, dove per “frequenti” si intendono parole con
più di 20 occorrenze, non sono stati rilevati in un test di ripetizione di enunciati2;
già dopo 8 ore di esposizione è però possibile notare che a una maggiore frequenza dell’elemento bersaglio corrispondono ripetizioni più precise. Shoemaker - Rast
(2013b) hanno confermato il contributo importante della trasparenza all’estrazione di parole dal flusso del parlato, mentre Rast et al. (2014) affermano che questo
parametro influenza anche la capacità degli apprendenti di produrre morfologia
nominale e giudicarne la grammaticalità. La frequenza non sembra influenzare il
riconoscimento di parole3 nel flusso del parlato (Shoemaker - Rast, 2013b), ma se
ne rilevano gli effetti nei giudizi di grammaticalità della morfologia flessionale (Rast
et al., 2014).
Infine, un ulteriore approccio allo studio delle varietà iniziali prevede l’esposizione degli apprendenti a input spontaneo scritto o orale, con l’obiettivo di verificare anche con apprendenti iniziali i principi di elaborazione dell’input formulati
da VanPatten (1996; 2004), per cui il significato avrebbe la precedenza nell’elaborazione rispetto alla forma. I risultati suggeriscono che gli apprendenti sono in grado
di elaborare la forma anche al momento della prima esposizione, rimandando l’elaborazione del significato a stadi più avanzati (Han - Lui, 2013; Han - Peverly, 2007;
Park, 2011; 2014; vedi anche VanPatten, 2014).
Sintetizzando, gli apprendenti sono in grado di estrarre parole dal flusso del
parlato e assegnarle al significato corrispondente già nel corso dei primi minuti di
esposizione. La L1 sembra avere un ruolo rilevante, almeno nell’acquisizione del
lessico, mentre non si spiegano ancora del tutto gli effetti di altri fattori, come la
frequenza. Sono inoltre più chiari i processi di segmentazione del parlato e dell’apprendimento del lessico, che a loro volta portano all’elaborazione della grammati-
L’apprendente sente una frase polacca e deve ripeterla il più accuratamente possibile.
I partecipanti sentono una frase polacca seguita da una parola in isolamento; il loro compito è di
determinare se la parola era presente nella frase.
2
3
PRIMI PASSI IN UN NUOVO SISTEMA LINGUISTICO
117
ca4. Gli studi sull’acquisizione iniziale tuttavia sono ancora poco numerosi, spesso
definiscono le loro variabili in maniera contrastante, e indagano una vasta gamma
di fenomeni linguistici attraverso associazioni non sempre confrontabili di L1 e L2.
Quasi mai, inoltre, vengono replicati, rendendo molto difficile la generalizzazione
dei risultati. Un gruppo di ricercatori europei ha perciò deciso di unire le forze per
avviare un progetto dall’approccio interlinguistico, il quale prevede il controllo non
solo dell’input in classe, ma anche di numerose altre variabili attraverso cinque L1 e
un’unica lingua bersaglio.
4. L’acquisizione iniziale della grammatica nella L2: un approccio per varietà
di apprendimento
Nel progetto VILLA (Varieties of Initial Learners in Language Acquisition), 10
gruppi di apprendenti con 5 diverse L1 (nederlandese, inglese, francese, tedesco e
italiano) e senza alcuna esperienza di polacco sono stati esposti a un input di questa
lingua totalmente controllato e proposto sotto forma di un corso della durata di 14
ore. Tutte le attività erano svolte interamente in polacco e oralmente, con il solo ausilio di alcune presentazioni Powerpoint. Le lezioni sono state interamente filmate,
registrate e trascritte nel formato CHAT (MacWhinney, 2000). Fra i principali oggetti di interesse del progetto rientra l’acquisizione delle strutture morfosintattiche
nelle prime ore di apprendimento, su cui ci concentriamo in questa sezione: i dati
che discuteremo si riferiscono a 2 gruppi di apprendenti, di lingua rispettivamente
francese (17) e tedesca (20).
4.1 Input: frequenza e trasparenza
In tutti i Paesi aderenti la trasparenza è stata misurata mediante una prova di traduzione proposta a vari gruppi di partecipanti con profili simili agli apprendenti del
progetto.
Le parole sono state così suddivise in opache, radicalmente diverse dal loro equivalente nella L1 degli informanti (es. tłumatczka, it. ‘traduttrice’, fr. ‘interprète’, ing.
‘interpreter’, ted. ‘Dolmetscherin’, ned. ‘tolk’), e trasparenti, di solito etimologicamente imparentate con l’equvalente nella L1, (es. fotografem, it. ‘fotografo’, fr. ‘photographe’, ing. ‘photographer’, ted. ‘Fotograf ’, ned. ‘fotograaf ’).
La trasparenza ha un ruolo di primo piano sia nei modelli teorici che assegnano
grande importanza all’interferenza interlinguistica, come il FT/FA, sia in quello
della VB, in cui la L1 costituisce pur sempre una parte consistente delle conoscenze
di partenza dell’apprendente. In effetti diversi studi (es. Carroll, 2012; Rast, 2008;
Rast - Dommergues, 2003; Shoemaker - Rast, 2013b) hanno rilevato notevoli effetti della trasparenza lessicale (cognate effects, vedi Carroll, 1992); in questo lavoro verrà discusso un diverso effetto di questo fattore, cioè se l’ausilio fornito dalla
4
Per ulteriori dettagli vedi anche Ellis - Sagarra (2010) e Bardel - Falk (2007).
118
REBEKAH RAST
trasparenza alla segmentazione del parlato faciliti anche la produzione e il giudizio
sulla grammaticalità di forme flesse.
Per quanto riguarda la frequenza, ciascun elemento bersaglio dell’input VILLA
è stato classificato come assente o presente a seconda del numero di occorrenze. Il
ruolo preciso della frequenza rimane al tempo stesso poco chiaro e controverso (vedi
Carroll, 2013): Carroll (2012) e Carroll - Widjaja (2013) sostengono che la frequenza ha un ruolo marginale nella segmentazione dell’input, d’accordo con Shoemaker
- Rast (2013b) che non ne hanno rilevato alcun effetto sul riconoscimento di parole.
Rast - Dommergues (2003), d’altra parte, hanno rilevato un effetto di questo fattore dopo 8 ore di esposizione, inferendo da ciò che la sua influenza non è evidente da
subito ma diventa rilevante già dopo poche ore. Gullberg et al. (2012) riferiscono di
un importante impatto della frequenza associata a gesti sul riconoscimento di parole
dopo solo pochi minuti di esposizione. Secondo Klein - Perdue (1997), la salienza
percettiva facilita l’analisi dell’input, e tale salienza può essere dovuta alla frequenza
o regolarità con cui l’elemento linguistico compare nell’input (Peters, 1985; Slobin,
1985). Ne consegue che il modello della VB prevede che la frequenza abbia un ruolo
facilitante in operazioni basate sia sulla percezione sia sulla produzione. Il modello
FT/FA, d’altra parte, non si sbilancia riguardo a questo fattore (vedi però Rastelli,
2014 per una interessante discussione dalla prospettiva generativista).
4.3 L’acquisizione della morfologia nominale
La morfologia flessiva rappresenta una seria sfida per gli apprendenti di lingua straniera a tutti i livelli: a quelli più bassi, in particolare, si è trovato che gli apprendenti
tendono a prestare scarsa attenzione alle marche morfologiche, specie nella produzione orale (Bardovi-Harlig, 1992; Klein - Perdue, 1997; Starren, 2001; VanPatten,
2004). Gli apprendenti francesi senza esperienza di polacco dello studio di Rast
(2008), però, includevano spontaneamente informazioni su genere e numero nelle
loro traduzioni delle parole bersaglio. Oltre a ciò, alcuni di essi riuscivano a identificare e correggere errori di morfologia verbale dopo solo poche ore di esposizione
all’input (vedi Rast et al., 2014).
4.4 Morfologia nominale in polacco, tedesco e francese
Il polacco si distingue notevolmente dalle lingue madri degli apprendenti per il suo
sistema morfosintattico estremamente complesso, comprendente 3 generi (maschile, femminile e neutro), 2 numeri (singolare e plurale) e 7 casi, espressi fusivamente
dalla terminazione.
Anche il tedesco presenta 3 generi (maschile, femminile e neutro) e 2 numeri:
dispone tuttavia di 4 casi soltanto, codificati più dal determinante che dalla marca
morfologica sul nome.
Il francese, dall’altra parte, mostra una morfologia nominale estremamente ridotta, priva di caso e con 2 soli generi grammaticali (maschile e femminile). Nella
varietà scritta il numero è spesso marcato mediante una <s> finale, ma questa è normalmente muta nella varietà orale.
PRIMI PASSI IN UN NUOVO SISTEMA LINGUISTICO
119
4.5 Ipotesi e test
L’acquisizione della morfologia di caso e genere in polacco è stata analizzata con
2 esperimenti correlati: un giudizio di grammaticalità (grammaticality judgement,
GJ) e un test di domanda e risposta (question/answer, QA), entrambi presentati
oralmente (vedi Hinz et al., 2013). I due gruppi di apprendenti hanno sostenuto i
test in coppia dopo il medesimo periodo di esposizione, in modo da poter confrontare i risultati. Gli stessi test sono stati proposti a due riprese per osservare l’andamento dell’acquisizione nel tempo, dopo 4 ore e 30 minuti di input il giorno 3 (T1)
e poi dopo 10 ore e 30 minuti il giorno 7 (T2).
4.5.1 Test
Il test GJ verifica la capacità degli apprendenti di identificare le terminazioni nominali corrette in termini di caso e genere. I partecipanti sentono una frase in polacco
e devono indicare se a loro parere la frase è grammaticalmente corretta premendo
un pulsante. Il test, creato in E-Prime (Schneider et al., 2002) consta di 32 distrattori e 64 frasi bersaglio, queste ultime costruite secondo la struttura Nome Proprio
+ è + nazionalità/professione (es. Sebastian jest architektem ‘Sebastian-NOM è [un]
architetto-STR’). L’elemento di cui si chiede un giudizio di grammaticalità è la terminazione del complemento: gli elementi grammaticali presentano la terminazione
del caso strumentale (–em /ɛm/ maschile o –ą /ɑ̃/ femminile) che si oppone alla
terminazione del caso nominativo (-ø maschile o –a /a/ femminile) degli elementi
agrammaticali.
L’obiettivo del test QA è di verificare la produttività della morfologia nominale
nella varietà di apprendimento. Ai partecipanti è richiesto di produrre una semplice frase copulare affermativa in risposta a una domanda relativa alla nazionalità o
professione di un personaggio. Le informazioni da includere nella risposta vengono
presentate a schermo mediante delle diapositive indicanti il genere e la nazionalità o
professione del personaggio.
Le domande richiedono nella risposta alternativamente un sintagma nominale
al caso nominativo o al caso strumentale; gli elementi bersaglio sono identici a quelli
del test GJ.
4.5.2 Ipotesi
Basandosi sui risultati appena discussi e sulle predizioni dei modelli FT/FT e VB, è
possibile ipotizzare l’effetto delle 4 variabili isolate dall’esperimento:
1. tempo di esposizione all’input: il punteggio per entrambi i gruppi sarà più alto
al T2 che non al T1;
2. L1: in generale il gruppo tedesco avrà risultati migliori in entrambi i test grazie
alla presenza della categoria del caso nella propria L1;
3. trasparenza: in tutte le rilevazioni l’effetto della trasparenza sarà più rilevante
nel test GJ che non in QA;
4. frequenza: in tutte le rilevazioni gli elementi lessicali più frequenti nell’input
verranno giudicati e prodotti con maggior precisione di quelli assenti.
120
REBEKAH RAST
4.6 Risultati
Tempo di esposizione: da una rilevazione all’altra il gruppo francese ha mostrato un
miglioramento in entrambi i test, come previsto, mentre per il gruppo tedesco si è
trovato un miglioramento significativo nel test QA, ma non in GJ.
Effetto della L1: nel test GJ il gruppo tedesco ha riportato un punteggio molto
elevato (80%) e significativamente migliore del gruppo francese al T1, ma non al
T2: si può ipotizzare che questo vantaggio iniziale sia dovuto al fatto che il tedesco
possiede diverse marche di caso, a differenza del francese. Non sono invece state trovate differenza significative tra i 2 gruppi nel test QA, il che suggerisce che l’effetto
della L1 dipenda dal compito richiesto. Effetti della L1 sono anche stati identificati
per trasparenza e frequenza.
Trasparenza: nel test GJ il gruppo tedesco si è rivelato più preciso nelle frasi che
contenevano parole trasparenti. La tendenza si fa più marcata al T2, il che sembra
indicare che gli apprendenti si affidino maggiormente alla trasparenza con il passare
del tempo. Non è stato trovato alcun effetto nei dati francesi. In tutte le rilevazioni
del test QA le parole opache sono state sorprendentemente associate alla terminazione corretta più spesso di quelle trasparenti. Una possibile spiegazione è che le
parole trasparenti attivino le parole equivalenti nella L1 degli apprendenti, le quali
non possiedono marche di caso (nemmeno in tedesco nei contesti considerati qui).
Le parole opache, d’altra parte, sin dall’inizio sono state imparate con le loro terminazioni di caso, così che quando richiesto emerge l’intera forma flessa della parola. Tale risultato inatteso giustifica l’insistenza di Klein e Perdue sull’importanza
dell’input, oltre a fornire indicazioni preziose sul ruolo della L1: almeno in fase di
produzione, questa sembrerebbe un utile ausilio per l’associazione tra forma e significato lessicale, ma non per l’espressione delle informazioni grammaticali veicolate
dalla terminazione. Come quello della L1, anche l’effetto della trasparenza sembra
dipendere dal compito richiesto.
Frequenza: nel GJ non sono stati trovati effetti per la frequenza, laddove in tutte
le rilevazioni del test QA gli elementi presenti nell’input sono stati elaborati in maniera nettamente migliore di quelli assenti. Di nuovo, la frequenza sembra un’ulteriore variabile il cui effetto dipende dal compito richiesto.
Infine, non bisogna dimenticare che le variabili non agiscono in isolamento:
complesse interazioni sono state individuate tra frequenza e trasparenza per entrambi i gruppi in entrambi i test5. Un fatto particolarmente interessante emerso dal test
GJ del gruppo francese è che gli apprendenti migliorano in modo significativo tra
T1 e T2 sugli elementi al tempo stesso opachi e assenti dall’input, il che suggerisce che abbiano generalizzato le regole della flessione nominale a elementi del tutto
nuovi.
5
Per ulteriori dettagli su questi test, vedi Hinz et al. (2013).
PRIMI PASSI IN UN NUOVO SISTEMA LINGUISTICO
121
5. Conclusioni
Gli studi sulla prima acquisizione cominciano a presentare un quadro più chiaro
dello stato iniziale della L2 e di ciò che gli apprendenti sono in grado di fare in questo stadio così precoce. I risultati non sono ancora abbastanza solidi da confermare
o smentire completamente il modello FT/FA o quello concorrente della VB; d’altra
parte, i risultati sembrano in accordo alternativamente con l’una o l’altra di queste
proposte.
Più specificamente, si è visto come la L1 abbia un ruolo importante nello sviluppo dell’interlingua, come postulato dal modello FT/FA. Allo stesso tempo, l’analisi dell’input operata dagli apprendenti mostra anche le tracce di processi creativi:
come previsto dal modello della VB gli apprendenti non si basano sulla sola L1, ma
estraggono informazioni dal flusso del parlato e le usano per creare forme che possono essere riconosciute e assegnate a dei significati.
Gli apprendenti riconoscono anche alcune strutture familiari, che possono essere analizzate più facilmente per estrarre informazioni grammaticali e utilizzate nelle
prime produzioni. La trasparenza lessicale facilita questo processo; il ruolo della frequenza rimane meno chiaro.
Lo sviluppo di un nuovo sistema morfosintattico è un’operazione complessa che
coinvolge l’intera attività linguistica, dalla percezione di foni alla segmentazione di
parole, fino all’associazione con il significato corrispondente e all’estrazione delle
informazioni grammaticali.
Il progetto VILLA e gli altri studi sulle prime fasi dell’acquisizione continuano
a investigare i problemi che abbiamo delineato, producendo sempre nuovi dati empirici che vanno ad aggiungersi ai risultati già noti. Per il momento, abbiamo chiari
indizi che gli apprendenti siano già in grado di fare molto dopo periodi brevissimi di
esposizione all’input. Inoltre sappiamo ormai che non solo studiare questo tipo di
attività linguistica è possibile, ma anche che descrivere con precisione questi primi
stadi si rivelerà di importanza cruciale per comprendere l’intero processo acquisizionale (Perdue, 1996).
Ringraziamenti
Ogni membro del progetto ha avuto un ruolo essenziale. Voglio ringraziare in particolare l’insegnante che ha tenuto i corsi di polacco, Monika Krzempek, per il suo straordinario impegno. Ringrazio anche i componenti del gruppo di ricerca di Parigi: le ricercatrici
Marzena Watorek, Agnieszka Latos, Heather Hilton, Ewa Lenart, Ula Paprocka, Ellenor
Shoemaker, Pascale Trévisiol; le assistenti Paulina Kurzepa, Tiphaine Medam, Yolande
Zancan; il tecnico del suono Jasmine Scheuermann. Infine, ringraziamenti sinceri anche ai referenti del progetto negli altri Paesi: Giuliano Bernini, Marina Chini, Christine
Dimroth, Henriette Hendriks, Leah Roberts, Marianne Starren, Marzena Watorek, e a
tutti i loro colleghi e studenti.
122
REBEKAH RAST
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STEFANO RASTELLI1 - ARIANNA ZUANAZZI2
Il processing delle dipendenze filler-gap nella seconda
lingua. Uno studio su apprendenti cinesi di italiano L2
We test syntactic knowledge, associative-lexical memory (AM) and working memory
(WM) in the processing of filler-gap dependencies (FGD) in 27 lower-intermediate L1
Chinese, L2 Italian learners. To test structural knowledge, pictures of a Cross-Modal Picture
Priming task were presented either at structurally defined gap position or at post-gap control position. To test memory resources, we factorized separately AM and WM scores. No
antecedent reactivation (structural) effect was found at gap position in reaction time analysis. Instead, a semantic-priming effect was found in high-WM score, but not in high-AM
score learners. Efficient L2 processing of FGD seems to correlate only with learners’ capacity
of keeping the fronted element on hold as the sentence unfolds and not with associative,
declarative memory. Moreover while AM memory scores correlated with our learners’ proficiency scores, WM scores did not.
1. Introduzione
Le dipendenze filler-gap (FGD) sono esempi concreti del fenomeno del displacement: un elemento è pronunciato in un posto nella frase ed è mentalmente interpretato in un altro. Le domande wh- e le frasi relative oggetto tipicamente esibiscono
questa proprietà. Nelle domande wh-, come (1), il SN spostato which book è pronunciato in posizione iniziale, ma è interpretato solo dopo che il lettore/ascoltatore incontra l’elemento che assegna il ruolo-theta (o sottocategorizzatore; in questo
caso, il verbo read):
(1) Which book1 did the woman say that she read __1 with great pleasure?
Nella terminologia utilizzata negli studi sul processing, il filler è la parte pronunciata
mentre il gap corrisponde alla posizione in cui l’elemento è mentalmente interpretato3.
CAROLE, University of Greenwich.
CIMEC - Università di Trento.
3
La parola inglese gap suggerisce anche visivamente che il filler, dopo il movimento, si lascia dietro
un posto vuoto occupato da una traccia che mantiene le caratteristiche legate ai suoi tratti semantici
e sottocategoriali. Nella terminologia introdotta nel programma minimalista (Chomsky, 1995) si abbandonano le nozioni di movimento e di traccia. Si propone piuttosto che una copia del filler venga
eliminata all’interfaccia articolatorio-percettiva. In questo studio siamo interessati alle conseguenze
psicologiche del fenomeno del displacement, cioè, al fatto che solo la copia strutturalmente rilevante
1
2
126
STEFANO RASTELLI - ARIANNA ZUANAZZI
Si ritiene che il processing efficiente delle FGD nelle prime lingue sia una funzione di tre variabili: (a) le capacità di memoria del parlante, (b) la disponibilità di
informazione lessicale e (c) la competenza sintattico-categoriale (Kluender - Kutas,
1993; Hawkins, 1999). Le capacità di memoria del parlante/ascoltatore sono una
funzione della distanza lineare tra il filler e il gap. La memoria è maggiormente messa alla prova via via che aumenta il numero di parole tra filler e gap perché l’elemento
spostato a inizio frase deve essere tenuto a mente mentre il resto della frase viene
letto o pronunciato. L’informazione lessicale è ciò che permette al lettore/ascoltatore di identificare il corretto sottocategorizzatore del filler, cioè, il posto nella
frase in cui il filler può essere scaricato dalla memoria di lavoro affinché la frase riceva un’interpretazione corretta. Questo tipo di informazione include le relazioni
tematiche, il quadro argomentale e anche l’informazione sulla plausibilità semantica e pragmatica tra gli elementi che sono candidati a essere prima confrontati e
poi collegati. Infine, la competenza sintattico-categoriale può essere descritta come
la consapevolezza della relazione che filler e gap stabiliscono attraverso la distanza
strutturale, cioè rispettando i vincoli universali della non-linearità delle relazioni
frasali. Distanza strutturale e distanza lineare differiscono perché solo la prima è
caratterizzata da limitazioni al movimento, all’estrazione di costituenti e dalla presenza di gap intermedi (vedi sotto) (Chomsky, 2013: 7).
Le FGD sono particolarmente difficili da acquisire da parte di apprendenti adulti di una seconda lingua. Le teorie acquisizionali si dividono sui motivi di questa
difficoltà. Il problema centrale è stabilire se l’informazione sintattica sia pienamente
disponibile oppure no ad apprendenti adulti. Le cosiddette teorie della discontinuità sostengono che le risorse necessarie per rappresentare e processare fenomeni
sintattici complessi (come le FGD) non sono più disponibili dopo la chiusura del
“periodo di opportunità”, che in genere si fa coincidere con la fine dell’età pre-puberale. La Shallow Structure Hypothesis (SSH) (Clahsen, 2006; Clahsen - Felser, 2006;
Clahsen et al., 2013; Felser et al., 2012) è una teoria della discontinuità secondo
cui il processing della prima e della seconda lingua sono inerentemente differenti. In
base alla SSH, durante il processing on line delle FGD gli apprendenti non hanno
problemi di tipo lessicale, ma problemi legati a risorse di memoria insufficienti e
alla scarsa disponibilità di informazioni categoriali e strutturali (§ 2). Gli apprendenti perciò sarebbero capaci di identificare il filler (l’elemento wh-) e di integrare
il suo significato con quello di elementi adiacenti nella frase. Tuttavia, diversamente da quanto avviene nel processing dei parlanti nativi, questa capacità non sarebbe
mediata dall’informazione sintattica. Questo tipo di processing meno dettagliato
è chiamato ‘debole’ (in inglese shallow). Il processing è debole se (a) la strategia di
default messa in atto dagli apprendenti consiste nel tentare sempre prima di tutto
una interpretazione locale per il costituente SN mosso (which book della frase (1));
(b) se gli apprendenti tendono a evitare di computare algoritmi che implichino il
calcolo su elementi e istruzioni astratti del tipo “se il SN mosso è un oggetto diretto
sia pronunciata, indipendentemente dal fatto che l’altra rimanga o meno mentalmente visibile dove è
stata generata (perlomeno all’interfaccia intenzionale-concettuale) (Chomsky, 1995: 222; 2013: 9).
IL PROCESSING DELLE DIPENDENZE FILLER-GAP NELLA SECONDA LINGUA
127
devi cercare un verbo transitivo”, a maggior ragione se gli elementi che devono essere
collegati non sono adiacenti. Questa conoscenza sintattica difettosa della seconda
lingua è stata oggetto di studi sperimentali con lettura auto-regolata (self-paced-reading). Questi studi hanno mostrato che gli apprendenti trovano più accettabile dei
parlanti nativi l’estrazione di costituenti-wh- da isole come le frasi relative (2).
(2) *Which book1 did the woman [who read 1 _] laugh out loud?
L’insensibilità ai cosiddetti island constraint indicherebbe che gli apprendenti tendono a interpretare il filler sempre su base locale e semantica. Poiché la parola book
nella frase (2) è semanticamente compatibile con la parola read, il gap post-verbale
segnalato con 1 corrisponde alla posizione in cui book probabilmente riceverà la sua
interpretazione, indipendentemente dal fatto che il dominio sintattico da cui read
viene estratto sia invalicabile.
La conoscenza sintattica difettiva è anche ciò che impedisce agli apprendenti di
rappresentarsi i gap intermedi. Quando una frase è troppo lunga, i gap intermedi
permettono ai parlanti/lettori di spezzarla in parti più piccole e di scaricare il filler
dalla memoria di lavoro in siti provvisori ma, per così dire, “autorizzati” (per esempio, un SN oggetto viene scaricato temporaneamente dopo il primo verbo transitivo
a disposizione, anche se non è il verbo giusto). Questo deposito temporaneo supporta la memoria durante il movimento per fasi proprio della derivazione sintattica
(almeno secondo il modello sintattico proposto nel Programma Minimalista: cfr.
Chomsky, 1995). Se però la conoscenza sintattica è difettosa, allora questa active
filler strategy (così viene anche chiamata negli studi sul processing) è disabilitata e
l’elemento wh- nella frase (1) non può essere scaricato temporaneamente dopo il
verbo say, complicando così il lavoro del parser e aumentando il carico per la memoria di lavoro:
(1) [Which book] 1 did the woman say _ [CP e 1 that she read 1 _ with great pleasure]
Diversamente dalle teorie della discontinuità, le teorie della continuità di sviluppo
sostengono che nella prima e nella seconda lingua il processing è istruito dai medesimi algoritmi, anche se gli schemi temporali nel secondo caso possono essere alterati
(in genere rallentati) dalle differenze tra la lingua di partenza e quella di arrivo. I
modelli teorici della continuità di sviluppo sostengono che le affinità e le differenze tra il processing della L1 e quello della L2 dipendono da (a) fattori ambientali
(tipo e quantità di esposizione degli apprendenti alla lingua bersaglio); (b) sovrapposizione parametrica tra la L1 e la L2 e (c) livello di proficiency. Secondo questi
modelli, sul lungo periodo gli apprendenti possono imparare a processare le FGD
come i parlanti nativi, anche se negli stadi iniziali sono più lenti e meno accurati.
Sebbene il processing delle FGD possa apparire diverso per qualche aspetto, l’algoritmo è essenzialmente unico nella L1 e nella L2. Steinhauer et al. (2009) e White
et al. (2012) sostengono che i processi neurocognitivi che sono sottesi alla compo-
128
STEFANO RASTELLI - ARIANNA ZUANAZZI
nente P600 (che negli studi sui potenziali evento-correlati è presa come indice di
avvenuta grammaticalizzazione di un fenomeno) sono modulati dai livelli individuali di apprendimento e uso della seconda lingua. Pertanto, è lecito aspettarsi che
anche i meccanismi che guidano la computazione sintattica delle FGD finiscano
per diventare identici a quelli dei parlanti nativi a mano a mano che la competenza
nella L2 aumenta. Pliatsikas - Marinis (2013) nel loro studio mostrano che solo gli
apprendenti con esposizione limitata e nessuna immersione nella lingua bersaglio
ricorrono al processing debole. Invece gli apprendenti avanzati e con un’esperienza
di contatto prolungata con parlanti nativi utilizzano i gap intermedi nel processing
delle FGD (per risultati simili si vedano anche Dekydspotter et al., 2006; Omaki Schulz, 2011).
2. Il fattore memoria negli studi sull’acquisizione della seconda lingua
Secondo la SSH, gli apprendenti fanno ricorso a una strategia di processing meno efficace non solo a causa di rappresentazioni sintattiche difettose, ma anche per evitare sovraccarichi di memoria. Teorie che sono in disaccordo sul grado di competenza
sintattica degli apprendenti concordano invece sul fatto che le capacità di memoria
sono il vero punto debole nell’acquisizione e nel processing della seconda lingua. Le
capacità di memoria sono messe alla prova nelle FGD perché l’elemento spostato
deve essere tenuto “in attesa” mentre la frase continua. La memoria nei bilingui di
solito è già messa a dura prova dagli sforzi aggiuntivi richiesti dalla funzione cognitiva detta del “controllo esecutivo” (executive control), sia attenzionale sia inibitorio.
Parlando di memoria nella seconda lingua si dovrebbe sempre fare una distinzione tra due diversi costrutti: memoria di lavoro e memoria associativa. La memoria di
lavoro è un’unità specializzata che ha lo scopo di immagazzinare temporaneamente
gli elementi (nel nostro caso, le parole della frase) e di renderli disponibili durante
il processing. Alcuni componenti della memoria di lavoro risiedono nel giro frontale
inferiore sinistro (BA 44, 45) e in zone circostanti. Secondo Grodzinsky (2005)
e Santi - Grodzinsky (2007), questa regione ospita i meccanismi che computano
trasformazioni sintattiche e movimento (come nelle FDG) e nessun’altra relazione
sintattica (per esempio il legamento). Invece altri studi (Meyer et al., 2012; 2013)
hanno mostrato che l’immagazzinamento nella memoria di lavoro verbale durante
il processing avviene a opera delle regioni temporo-parietali sinistre (specialmente il
solco frontale inferiore) mentre la pars opercularis dell’area di Broca (BA 45) supporta specificamente l’ordinamento gerarchico dei costituenti (per esempio l’embedding nelle frasi relative).
La memoria associativa (chiamata anche memoria lessicale) è ospitata nelle regioni del lobo mediano temporale sinistro (regione ippocampale, corteccia entorinale e
pararinale, corteccia paraippocampale) e in regioni neocorticali parieto-temporali.
La memoria associativa è spesso anche chiamata memoria dichiarativa. Il sistema
della memoria dichiarativa sottende all’acquisizione, all’immagazzinamento e all’uso della conoscenza di fatti, eventi e anche di parole. La memoria associativa suppor-
IL PROCESSING DELLE DIPENDENZE FILLER-GAP NELLA SECONDA LINGUA
129
ta il consolidamento di alcuni aspetti nel lessico mentale (mental lexicon4). Ciò che
memoria lessicale e memoria di fatti/eventi hanno in comune è che in entrambe gli
elementi di cui sono composte sono tenuti assieme da relazioni arbitrarie (Ullman,
2005a: 143). L’accoppiamento tra forma e significato nel linguaggio è un esempio
rilevante di un’associazione arbitraria che è appresa, immagazzinata e recuperata dal
sistema della memoria dichiarativa.
La memoria di lavoro e la memoria associativa sono dissociate neuro-anatomicamente e sono anche funzionalmente indipendenti, benché interconnesse per alcuni
aspetti specifici e alcuni compiti. Di conseguenza gli apprendenti possono essere
capaci di integrare il significato di due parole nella frase (utilizzando la memoria
associativa) senza tuttavia essere in grado di tenere in memoria il filler abbastanza
a lungo o di identificare il gap strutturalmente, categorialmente e tematicamente
appropriato dove lo stesso filler può essere scaricato per interpretare la frase (Dallas
et al., 2013). Infine, a differenza della memoria di lavoro, solo la memoria associativa
è usata negli studi sull’acquisizione della L2 come indice e misura della proficiency
degli apprendenti.
3. Obiettivo e rationale della ricerca
L’obiettivo del nostro studio è di verificare se l’integrazione del filler nelle FGD è
mediata dalla conoscenza sintattica degli apprendenti e dalle loro risorse di memoria di lavoro e di memoria associativa. Il rationale dello studio è mutuato dal test di
priming semantico proposto e utilizzato negli esperimenti sulla Trace Reactivation
Hypothesis (TRA, Love - Swinney, 1996; Nicol - Swinney, 1989). Quest’ipotesi sostiene che i filler sono tenuti in memoria per tutta la frase e che sono recuperati (o
attivati) due volte: la prima volta che sono incontrati (quando il parlante sente o
legge l’elemento wh-) e poi nella posizione di gap. La TRA propone un modo in
cui è possibile osservare l’interazione di conoscenza sintattica e semantica. Nel test
di priming semantico (§ 5.3), i partecipanti devono decidere se uno stimolo target
possiede o meno un certo tratto semantico (per esempio, se è un essere animato).
La decisione deve essere presa immediatamente dopo che un altro stimolo visivo o
uditivo è stato letto o pronunciato nella frase. In questo test ci si aspetta che i parC’è una certa confusione nel modo in cui i termini lexicon e vocabulary sono usati e interscambiati
nel modello dichiarativo-procedurale (DPM) così come è stato sistematizzato da Michel Paradis e
Michael Ullman a partire dagli anni Novanta. Per esempio, l’uso che Ullman fa della parola lexicon
sembra a volte molto simile e a volte molto differente da quello di Paradis. Nei lavori di Ullman, lexicon
sembra corrispondere a quello che per Paradis (2009: 15-19) è vocabulary (accoppiamento tra forma
e significato). In articoli molto recenti, Paradis sembra concordare che gli item lessicali (lexical items)
sono comparabili con i vocabulary items definiti come form-meaning pairs che sono immagazzinati
nella memoria dichiarativa (Paradis, 2013). Nel presente lavoro, per lexicon non intendiamo l’insieme
completo e strutturalmente definito degli schemi di combinazione tra gli item che formano un network di radici combinabili con affissi (come nella versione di Paradis del DPM). Intendiamo invece
l’insieme chiuso di accoppiamenti tra forma e significato che sono immagazzinati come forme non
analizzate nel sistema della memoria dichiarativa.
4
130
STEFANO RASTELLI - ARIANNA ZUANAZZI
tecipanti prendano una decisione più veloce se lo stimolo target viene presentato in
alcuni punti strutturalmente rilevanti della frase. Uno di questi punti è appunto la
posizione di gap, perché la traccia mantiene ancora l’impronta dei tratti semantici
e categoriali dell’elemento mosso. Dunque se lo stimolo target condivide alcuni di
questi tratti (per esempio, [+animato]) con l’antecedente mosso (il filler), questi
tratti possono essere disponibili più facilmente in questa posizione e facilitare la
risposta alla domanda task (per esempio, è un essere animato?).
4. Studi precedenti sul processing delle FGD
Il fenomeno del priming dell’antecedente nel processing delle FGD è stato precedentemente analizzato in parlanti adulti, bambini e negli apprendenti di una L2.
Nakano et al. (2002) indagano l’effetto di priming dell’antecedente in 80 parlanti
nativi adulti di giapponese con un test di Cross-Modal Lexical Priming. I risultati
indicano che i partecipanti con alto span di memoria hanno tempi di reazione più
brevi per le parole-target identiche nella posizione di gap rispetto alla posizione di
controllo. Questo risultato indica la presenza di un effetto priming nella posizione di traccia e suggerisce che la riattivazione della traccia dipenda dalla capacità di
memoria dei partecipanti. Roberts et al. (2007) indagano la riattivazione del costituente mosso nella posizione di gap in bambini con inglese L1 (46 soggetti, con
un’età compresa tra i 5 e i 7 anni). Lo studio analizza il ruolo della memoria nel processing delle FGD utilizzando la tecnica del Cross-Modal Picture-Priming (CMPP).
Il gruppo di controllo è costituito da 54 parlanti adulti L1 inglese. I risultati mostrano la presenza di un effetto priming dell’oggetto indiretto nella posizione di
gap esclusivamente nei partecipanti con alto span di memoria, suggerendo l’effettiva
presenza di un effetto della memoria di lavoro nel processing delle strutture filler-gap.
Infine, Felser - Roberts (2007) valutano il processing delle frasi FGD con oggetto
indiretto e il ruolo della memoria in 24 apprendenti avanzati di inglese, attraverso
la tecnica del CMPP. Gli apprendenti di questo studio non mostrano un effetto
priming dell’antecedente nella posizione di gap dell’oggetto indiretto. Questo risultato è indipendente dalla memoria di lavoro dei partecipanti. Questo studio porta
dati a sostegno dell’ipotesi che gli apprendenti mantengano (e non riattivino) lungo
la frase alcune caratteristiche semantiche del costituente mosso, indipendentemente
dalle proprietà della struttura.
5. L’esperimento
5.1 Partecipanti
27 parlanti adulti di cinese con italiano come L2 hanno partecipato a questo esperimento (età media: 19,1). Al momento dell’esperimento i partecipanti stavano seguendo un corso di lingua italiana presso l’Università degli Studi di Pavia. I partecipanti sono stati selezionati all’interno di un gruppo più ampio di studenti attraverso
IL PROCESSING DELLE DIPENDENZE FILLER-GAP NELLA SECONDA LINGUA
131
un test di piazzamento5: solo gli studenti con il punteggio più alto sono stati scelti
per l’esperimento. Nessuno dei partecipanti è stato informato dello scopo dell’esperimento prima del suo completamento e la partecipazione è stata volontaria, senza
compenso.
5.2 Test di memoria di lavoro e di memoria associativa
Tutti i partecipanti hanno svolto un test di word-span in italiano per valutare la
memoria di lavoro. Il test è consistito in un adattamento di quello proposto da Juffs
(2006).
Il materiale consisteva in liste di parole. Ogni lista conteneva varie sequenze
di parole scelte tra quelle precedentemente esercitate in classe. Le parole di ogni
sequenza erano lette dallo sperimentatore alla velocità di una parola al secondo. I
partecipanti dovevano ascoltare le parole della sequenza e ripeterle nell’ordine di
ascolto. Il numero di parole di ogni sequenza aumentava progressivamente (2, 3, 4,
5, 6) passando da una lista a quella successiva. Lo sperimentatore passava da una lista
con sequenze di meno parole a una lista con sequenze di più parole solo se almeno 2
sequenze di parole su 3 venivano ripetute correttamente dal partecipante. Il punteggio di word-span corrispondeva al numero di parole (da 0 a 6) ripetute correttamente. Gli apprendenti hanno totalizzato un punteggio medio di 3.59 (range: 3-4.5;
SD: 0.5). Sulla base del valore della mediana dei risultati, il gruppo di apprendenti è
stato diviso in due sottogruppi: uno con basso span di memoria di lavoro (word-span
< 3.5, n = 9) e uno con alto span (word-span ≥ 3.5, n = 18).
Per far esercitare il lessico usato nell’esperimento, e quindi facilitare l’associazione nome-immagine, e allo scopo di ottenere una misura della memoria associativa, agli studenti cinesi è stato proposto anche un test lessicale. Il test è consistito
nell’ascolto e nella successiva memorizzazione di un nome associato a un’immagine
riprodotta su una scheda cartacea. Dopo aver ripassato la coppia nome-immagine, ai
partecipanti è stato chiesto di ascoltare nuovamente i nomi (letti in un altro ordine)
e di ordinare le immagini su una scheda, nello stesso ordine ascoltato. Ogni accoppiamento corretto corrispondeva a un punto. La somma di tutti gli accoppiamenti
corretti (fino a 75) ha rappresentato il punteggio del test lessicale. Questo punteggio
è stato usato come fattore di covarianza nell’analisi statistica. Gli apprendenti hanno totalizzato un punteggio medio di 70.55 (range: 55.5-75; SD: 5.75).
5.3 Materiali
Il CMPP test comprendeva 20 frasi relative con oggetto diretto in italiano, presentate attraverso le cuffie. Riportiamo in (3) un esempio di frase.
Si tratta di un test ufficiale di lingua italiana CILS (livello A2 del Quadro Comune Europeo) dell’Università per Stranieri di Siena. Il test consiste in 2 esercizi di comprensione audio, 2 esercizi di comprensione del testo, di un cloze-test sul tempo passato e di un test di completamento di frasi.
5
132
STEFANO RASTELLI - ARIANNA ZUANAZZI
(3) Questa è la balena che l’infermiera con i capelli biondi probabilmente ha visto
nell’acquario ieri pomeriggio.
Il test comprendeva inoltre 20 frasi filler. Sono stati utilizzati 2 gruppi di figure:
immagini semanticamente correlate con il referente dell’antecedente, ovvero immagini che rappresentano animali, e immagini non correlate con il referente dell’antecedente, ovvero immagini di oggetti o piante.
Per facilitare la comprensione, le parole target sono state scelte dal libro di testo
usato durante il corso di italiano. Sono stati utilizzati solo 4 verbi: vedere, trovare,
cercare e comprare6. Questi verbi sono stati selezionati perché possono reggere un
complemento oggetto con un animale come referente. Durante il test, le immagini
sono state presentate in 2 punti differenti della frase: nella posizione di gap e 500
ms dopo (post-gap). La posizione post-gap (anziché una posizione pre-gap, scelta invece da Felser - Roberts, 2007 e da Roberts et al., 2007) è stata scelta per valutare
una possibile riattivazione ritardata dell’antecedente (Burkhardt et al., 2008). La
scelta di misurare i tempi di reazione anche mezzo secondo dopo la posizione di
gap è doppiamente funzionale: (a) ci consente di verificare se una posizione sintatticamente rilevante ha veramente un effetto facilitante; (b) ci consente di testare
l’ipotesi (propria delle teorie della continuità) secondo la quale il processing nella L2
è qualitativamente identico a quello nella L1, benché più lento.
Tutte le 45 frasi sono lette da un parlante nativo di italiano a una velocità normale e
rielaborate attraverso il software PRAAT7. Ogni partecipante ha ascoltato ciascuna
frase una sola volta (ovvero ha ascoltato 5 frasi per ogni condizione sperimentale).
Prima del test, i partecipanti sono stati sottoposti a una classificazione di immagini:
animali, piante e oggetti menzionati nell’esperimento sono stati stampati su delle
figurine e agli apprendenti è stato richiesto di decidere se l’immagine rappresentasse o meno un organismo vivente. Il fatto che le coppie di parole-immagini fossero
state precedentemente esercitate e che fossero le stesse utilizzate sia come prime (il
filler) sia come target ha garantito sul fatto che i risultati del test lessicale cui gli
apprendenti sono stati sottoposti prima del test fossero rappresentativi non tanto
di una generica capacità di accoppiare una parola a un’immagine, quanto piuttosto
della capacità degli apprendenti di collegare semanticamente i filler ai lor potenziali
sottocategorizzatori (i verbi presenti nelle frasi).
5.4 Procedura
Durante l’esperimento, i partecipanti erano seduti di fronte a un computer e indossavano delle cuffie. È stato chiesto loro di ascoltare attentamente e capire le
frasi che sentivano. Il compito principale era di rispondere ‘sì/no’ alla domanda ‘È
un organismo vivente?’. La domanda riguardava l’immagine che compariva sullo
I verbi sono stati controllati per la frequenza sul BADIP (Banca Dati dello Italiano Parlato, http://
badip.uni-graz.at/index.php).
7
http://www.fon.hum.uva.nl/praat.
6
IL PROCESSING DELLE DIPENDENZE FILLER-GAP NELLA SECONDA LINGUA
133
schermo contemporaneamente all’ascolto delle frasi. I partecipanti rispondevano
alla domanda mediante la pressione di un tasto del mouse. Sono stati registrati i
tempi di reazione (RT) rispetto a questo compito. Per assicurarsi che i partecipanti
comprendessero le frasi, sono state inserite, in ordine casuale all’interno del test, 7
domande di comprensione circa le frasi ascoltate.
6. Disegno sperimentale e risultati
Il nostro studio ha utilizzato un disegno fattoriale misto 2x2, con i risultati di span
di memoria di lavoro e memoria associativa come variabili indipendenti tra i soggetti e con abbinamento (immagine semanticamente correlata e semanticamente non
correlata con l’antecedente) e posizione (gap e post-gap) come variabili indipendenti
entro i soggetti. L’accuratezza delle risposte e i RT dei partecipanti sono stati utilizzati come variabili dipendenti.
6.1 Domande di comprensione e accuratezza nel compito di classificazione semantica
La percentuale di risposte corrette alle 7 domande di comprensione sparse tra le
frasi-stimolo è stata del 73%. Poiché l’oggetto di uno studio comportamentale e
psicolinguistico sulla comprensione è quello di verificare come gli apprendenti processano esclusivamente le frasi che mostrano di capire, si è resa necessaria un’ulteriore verifica per escludere un’eventuale correlazione tra frasi non comprese e RT.
Bisogna infatti escludere l’eventualità che i partecipanti con i RT più alti fossero gli
stessi che mostravano di non avere capito le frasi. I RT sono entrati dunque come
variabile dipendente in una regressione assieme alla percentuale di accuratezza nelle
domande di comprensione. Non è stata trovata alcuna correlazione tra RT e risposte
di comprensione. Per quanto riguarda l’accuratezza nel compito di classificazione
semantica (‘è un organismo vivente?’), i partecipanti hanno classificato correttamente il 97% delle immagini. Concludiamo con un certo margine di sicurezza che
gli apprendenti non hanno incontrato particolari difficoltà relativamente al tipo di
compito comportamentale richiesto dal test.
6.2 Tempi di reazione
Nell’analisi statistica sono state incluse solo le risposte corrette. Le risposte con RT
oltre i 2000 ms sono state escluse dall’analisi. Come analisi preliminare è stata eseguita una ANOVA univariata con RT come variabile dipendente e punteggio di
memoria di lavoro (alto vs basso) come fattore tra i partecipanti e con memoria associativa e proficiency (il risultato del test di piazzamento) come covariate. I risultati
mostrano un effetto principale di memoria di lavoro (F(1,24) = 4.76, p = .039) e
memoria associativa (F(1,24) = 5.59, p = .026), ma non di proficiency.
Sebbene la memoria associativa risulti essere un effetto principale, la correlazione
Pearson eseguita tra memoria associativa e RT mostra un’associazione positiva (r =
.352). Questo potrebbe indicare che gli apprendenti con punteggio di memoria asso-
134
STEFANO RASTELLI - ARIANNA ZUANAZZI
ciativa più alto tendono (ma in maniera solo debolmente significativa, p = .07) a essere
più lenti degli apprendenti con punteggio più basso. Nel complesso questi risultati
suggeriscono che solo gli apprendenti con alto span di memoria di lavoro – ma non
quelli con alto punteggio di memoria associativa – sono più veloci rispetto a quelli con
span più basso. Ciò vale indipendentemente dal livello di proficiency degli apprendenti. Il graf. 1 rappresenta i RT rispettivamente ai due livelli di memoria di lavoro.
Grafico 1 - RT di apprendenti con alto e basso span di memoria di lavoro
Reacting Times of Low and High Memory Span NNs
Inoltre, la regressione lineare tra proficiency e memoria associativa e tra proficiency e
memoria di lavoro mostra che la proficiency è decisamente un buon predittore di memoria associativa (Beta =. 153, p = .057) ma non di memoria di lavoro.
Per determinare se i RT relativi alle immagini semanticamente correlate all’antecedente fossero più brevi di quelli relativi alle immagini semanticamente non correlate, nella posizione di gap (la qual cosa rappresenterebbe un’evidenza a favore di una
riattivazione strutturale dell’antecedente), sono state eseguite due ANOVA a misure
ripetute utilizzando come fattori entro i soggetti l’abbinamento (immagini semanticamente correlate vs semanticamente non correlate con l’antecedente) e la posizione (gap
vs post-gap), separatamente per apprendenti con alto e basso span di memoria di lavoro.
Negli apprendenti con alto span di memoria di lavoro i risultati mostrano un effetto principale dell’abbinamento (F(1,17) = 7.82, p = .012) ma non della posizione.
Questo significa che, quando l’immagine è semanticamente correlata con l’antecedente, i RT sono significativamente più brevi rispetto a quando l’immagine non lo è. Ciò
accade sia in posizione gap (t(17) = -2.09, p = .05) sia in posizione post-gap (t(17) =
IL PROCESSING DELLE DIPENDENZE FILLER-GAP NELLA SECONDA LINGUA
135
-2.11, p = .05), come si può osservare nei graff. 2 e 3. Lo stesso effetto semantico non è
stato trovato negli apprendenti con basso span di memoria di lavoro.
Grafico 2 - RT relativi all’abbinamento in posizione gap
Reaction Times of MatchingNo and MatchingYes in PositionGap in High Memory Span NNs
Grafico 3 - RT relativi all’abbinamento in posizione post-gap
Reaction Times of MatchingYes and MatchingNo in PositionPostGap in High Memory Span NNs
136
STEFANO RASTELLI - ARIANNA ZUANAZZI
7. Discussione e conclusioni
I nostri risultati mostrano che (a) gli apprendenti non sembrano sensibili all’effetto
della riattivazione strutturale e (b) solo gli apprendenti con alto span di memoria
di lavoro sono sensibili ai tratti semantici del filler per tutta la durata della frase.
L’effetto priming del filler non sembra limitato dunque alla posizione di gap e questo confermerebbe la presenza di un mantenimento dell’attivazione come identificato da Felser - Roberts (2007).
Il risultato principale del nostro studio è che la memoria di lavoro e la memoria
associativa non sono ugualmente necessarie nel processing delle FGD nella L2. In
§ 2 avevamo ipotizzato che gli apprendenti potrebbero essere capaci di integrare il
significato di due parole della frase senza tuttavia essere capaci di tenere il filler nella
memoria di lavoro per il tempo necessario mentre leggono la frase. Di fatto nel nostro studio abbiamo trovato che le capacità di memoria di lavoro sono essenziali per
supportare l’attivazione continua dei tratti semantici del costituente mosso. Invece
le operazioni di controllo di compatibilità che sottendono l’integrazione di filler
e gap sembrano essere (a) non problematiche o di importanza secondaria nel processing delle FGD, oppure (b) non modulate dalle capacità di memoria associativa.
Più precisamente, il punto (b) potrebbe anche significare che – se il processing delle
FGD a bassi livelli di proficiency è basato sulla verifica della compatibilità semantica
tra filler e gap – questo processo non usa solo la memoria associativa.
Nei nostri dati abbiamo visto che i tratti semantici del SN mosso sarebbero attivati immediatamente e senza difficoltà dagli apprendenti. Invece, la maggior parte
delle risorse degli apprendenti sarebbe dirottata a mantenere questi tratti vivi nella
memoria lungo tutta la frase. Capacità di memoria di lavoro, e non di memoria associativa, è dunque ciò che fa la differenza tra processing efficace delle FGD nella
seconda lingua. Inoltre, se è vero che la memoria di lavoro – diversamente dalla memoria associativa – non correla con la proficiency nella L2, allora si rafforza l’ipotesi
che il processing efficiente di fenomeni complessi nelle seconde lingue richieda tanto
la presenza di rappresentazioni linguistiche adeguate quanto capacità generali (memoria, attenzione, capacità di fare inferenze).
I nostri risultati non possono invece suggerire la conclusione che nel processing
delle FGD non c’è nessuna conoscenza sintattica in opera. Prima di tutto non abbiamo paragonato apprendenti con parlanti nativi. Non abbiamo dunque potuto
concludere che il processing dei primi è debole mentre quello dei secondi è robusto.
Ci siamo invece concentrati sul processing delle FGD da parte dei parlanti non nativi
e abbiamo trovato che la memoria di lavoro potrebbe avere un ruolo più importante della memoria associativa. Questo non esclude che il processing delle FGD sia
mediato anche dalla conoscenza sintattica. Ci sono infatti alcune limitazioni sperimentali che potrebbero avere impedito alla conoscenza sintattica degli apprendenti di emergere nei nostri dati. Prima di tutto i nostri partecipanti sono parlanti
monolingui con cinese L1. Non abbiamo incluso altri soggetti, magari con lingue
più vicine tipologicamente all’italiano. Secondo, può essere il caso che la memoria
associativa non sia stata testata appropriatamente. Per esempio, il tempo intercorso
IL PROCESSING DELLE DIPENDENZE FILLER-GAP NELLA SECONDA LINGUA
137
tra la memorizzazione delle coppie immagine-parola da parte degli apprendenti e
l’esperimento può non essere stato sufficiente per il consolidamento della memoria
associativa. Terzo, la metodologia adottata (il CMPP test) potrebbe essere di grana
troppo grossa e quindi insensibile ai deboli segnali di competenza sintattica propri di una grammatica mentale ancora in sviluppo. Infine, i 500 ms. della posizione
post-gap potrebbero essere una misura inadatta per valutare i deboli segnali di una
competenza sintattica in maturazione.
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JACOPO TORREGROSSA1
Asimmetrie tra percezione e produzione
nell’acquisizione L2 della fonologia:
uno studio pilota sulle interrogative polari inglesi
2
This paper investigates the relationship between production and perception of suprasegmental features in L2, focusing on the acquisition of English polar question intonation by
Italian learners. 30 ESL learners performed two tasks. One was used for the elicitation of
English polar questions. The other was a discrimination task assessing the perception of the
contrast between declarative vs interrogative intonation. The results show that accuracy in
production does not necessarily correlate with accuracy in perception.
1. Introduzione
Nell’ambito delle ricerche sul parlato in L2, si è spesso fatto riferimento alla difficoltà da parte dell’apprendente di eliminare il cosiddetto “accento straniero”, dovuta
principalmente all’imprinting dei tratti fonetici e prosodici propri della L1 (cfr., per
esempio, Marotta - Boula de Mareüil, 2010). A partire da questa osservazione, si è
indagato se la mancanza di accuratezza nella produzione corrispondesse a un deficit
nella percezione dei suoni della L2. Per esempio, Flege (1993) analizza il livello di
competenza percettiva e produttiva di un gruppo di apprendenti (cinese L1/inglese
L2) rispetto al contrasto tra occlusive sorde e sonore in posizione finale di parola in
inglese. L’autore mostra che l’accuratezza nella produzione dei due fonemi dipende
dall’adeguatezza della loro rappresentazione mentale. I risultati dello studio di Flege
sono compatibili con il modello percettivo elaborato da Best (1995), secondo cui
percezione e produzione costituiscono due aspetti di uno stesso dominio cognitivo,
in cui i fonemi sono rappresentati in termini di gesti articolatori.
Tuttavia, alcuni studi empirici condotti in L2 negli ultimi anni mettono in dubbio l’idea del parallelismo tra le due attività. Sulla base di una complessa batteria di
task somministrata a un gruppo di apprendenti (giapponese L1/inglese L2), Hattori
- Iverson (2010) mostrano che la correlazione tra il grado di accuratezza nella percezione e produzione dei fonemi /l/ e /r/ della lingua inglese è debole. Risultati analoghi
emergono dagli studi di Peperkamp - Bouchon (2011) e di Kartushina - Frauenfelder
(2013). Il primo verifica la sensibilità al contrasto tra le vocali inglesi /i/-/ɪ/ da parte di
Università di Verona.
Lo studio è stato svolto nell’ambito del progetto PRIN 2009 Acquisizione e insegnamento della grammatica dell’italiano come lingua seconda: vincoli morfosintattici e scelte pragmatico-discorsive cofinanziato
dal MIUR e dall’Università di Verona (il responsabile scientifico dell’Unità locale è Camilla Bettoni).
1
2
142
JACOPO TORREGROSSA
parlanti nativi di lingua francese, mentre il secondo osserva l’opposizione tra le vocali
francesi /ø/-/oe/ nella produzione e percezione di parlanti di madrelingua spagnola.
Sulla base di questi studi, si può concludere che i processi di produzione e percezione
appartengono a due domini cognitivi diversi, fondati su rappresentazioni irriducibili
l’una all’altra (rispettivamente, articolatorie vs acustiche).
Il presente lavoro intende contribuire al dibattito sulla relazione tra percezione e
produzione in L2, analizzando lo sviluppo della fonologia soprasegmentale. Si tratta
di un dominio empirico nuovo rispetto ai lavori menzionati in precedenza, incentrati
sull’acquisizione di contrasti segmentali non presenti nella L1. Nello specifico, si analizzerà la correlazione tra la produzione e la percezione del contorno prosodico delle
interrogative polari inglesi da parte di parlanti nativi italiani.
Prima di presentare lo studio, la natura dei dati empirici che verranno presi in esame impone una premessa. Nella maggior parte delle lingue del mondo, la modalità interrogativa viene espressa per mezzo di un contorno prosodico ascendente, mentre le
dichiarative sono caratterizzate da un’intonazione discendente. Secondo alcuni autori,
l’associazione tra la forma del contorno prosodico (ascendente vs discendente) e la funzione (modalità interrogativa vs dichiarativa) è un universale linguistico (cfr., per esempio, Bolinger, 1978 e Gussenhoven - Chen, 2012, e la nozione di Frequency Code in
Ohala, 1983, per una spiegazione basata sulla biologia). Altri autori, invece, sostengono
l’esistenza di un lessico intonativo specifico per ciascuna lingua (cfr. Lieberman, 1975).
È evidente che dalle due teorie (universalista vs lessicalista, cfr. Gussenhoven - Chen,
2012 per una ricostruzione del dibattito) derivano ipotesi contrastanti sull’acquisizione L2 della prosodia delle interrogative e delle dichiarative. La teoria universalista
prevede, di fatto, che non ci sia acquisizione: l’apprendente associa “automaticamente”
il profilo ascendente alla modalità interrogativa e quello discendente alla dichiarativa,
sia nella percezione che nella produzione. Al contrario, in base alla teoria lessicalista, la
corretta associazione tra forma prosodica e funzione comunicativa è parte del processo
di acquisizione.
Nel § 2 mostrerò alcuni dati riguardanti la prosodia delle interrogative polari e delle
dichiarative in inglese, accennando al comportamento delle corrispondenti strutture
italiane. Nei §§ 3 e 4 introdurrò i metodi dello studio e mostrerò i risultati. Infine, nel §
5, discuterò i dati riferendomi alle questioni sollevate fino a questo punto.
2. L’intonazione delle frasi interrogative polari e dichiarative in inglese
Le Figg. 1 e 2 mostrano il contorno prosodico ascendente che è tipicamente associato alle interrogative polari inglesi. In entrambi i casi, l’accento in posizione nucleare
è di tipo H* (‘H’ si riferisce al tono e sta per high, ‘alto’) ed è seguito da un tono
alto di confine (H%). Inoltre, gli esempi mostrano che il valore della variazione di
frequenza nella curva prosodica (misurata come la differenza tra la frequenza massima e quella minima) è inversamente proporzionale alla lunghezza dell’enunciato
(cfr. Cooper - Sorensen, 1981): nell’interrogativa nella fig. 1, costituita da 6 sillabe,
è pari a 218 Hz, mentre in quella nella fig. 2, di 8 sillabe, corrisponde a 184 Hz. In
ASIMMETRIE TRA PERCEZIONE E PRODUZIONE NELL’ACQUISIZIONE L2
143
entrambe (come nelle figure successive), partendo dall’alto, i tre livelli indicano: (1)
le singole parole; (2) i bersagli tonali (H o L, alto o basso); e (3) il tipo di accento. Le
interrogative polari in italiano sono realizzate per mezzo della stessa configurazione
prosodica H*H-H% (cfr. Avesani, 1990).
Figura 1 - Contorno prosodico dell’interrogativa polare Are you a good dancer?
Figura 2 - Contorno prosodico dell’interrogativa polare Have you taken a break recently?
Le figg. 3 e 4 esemplificano il contorno intonativo associato alle dichiarative in inglese.
Entrambi gli enunciati hanno un contorno prosodico discendente, realizzato per mezzo
144
JACOPO TORREGROSSA
di un accento nucleare alto (H*) seguito da un tono di confine basso (L%). In questo
caso, la lunghezza degli enunciati influenza il valore della frequenza dell’accento nucleare, pari a 183,5 Hz nell’enunciato di 5 sillabe in fig. 3 e a 168,30 nell’enunciato di 12
sillabe in fig. 4. Per quanto riguarda l’intonazione delle dichiarative, l’italiano si distingue dall’inglese nella scelta di un accento nucleare basso (H+L*). Al contrario, il tono di
confine è basso (L%) in entrambe le lingue (Avesani, 1990).
Figura 3 - Contorno prosodico della frase dichiarativa He’s a director
Figura 4 - Contorno prosodico della frase dichiarativa There have been elections in Italy this week
ASIMMETRIE TRA PERCEZIONE E PRODUZIONE NELL’ACQUISIZIONE L2
145
In conclusione, l’italiano e l’inglese esemplificano la tendenza (universale, secondo
alcuni) a esprimere la modalità interrogativa attraverso un contorno prosodico ascendente e quella dichiarativa attraverso il contorno discendente. Tuttavia, la realizzazione fonologica dei due profili intonativi è soggetta a variazione linguistica, come viene
suggerito dalla scelta di due accenti nucleari differenti nelle dichiarative. Queste osservazioni saranno rilevanti per la discussione dei risultati dello studio (§ 5).
3. Metodologia
3.1 Partecipanti
Lo studio è stato condotto su 30 soggetti di madrelingua italiana (11 di sesso maschile e 19 di sesso femminile) di età compresa tra i 13 e i 60 anni. Tutti gli apprendenti frequentavano corsi di lingua inglese tenuti da docenti madrelingua, presso
l’Università di Verona o in scuole private della città, e avevano differenti livelli di
interlingua (cfr. § 4). Prima di partecipare all’attività, hanno dichiarato di non essere
bilingui e di non avere problemi uditivi. Ha inoltre partecipato allo studio un’insegnante di madrelingua inglese, che ha svolto gli stessi task e fornito così gli stimoli
(§ 3.2).
3.2 Stimoli
Il materiale consta di frasi dichiarative e interrogative polari prodotte da una parlante nativa dell’inglese di Liverpool, che lavora come lettrice presso l’Università di Verona. Gli enunciati sono stati elicitati per mezzo di un task (cfr. Bettoni
- Torregrossa, 2013), finalizzato principalmente alla produzione spontanea di frasi
interrogative. Al soggetto veniva chiesto di fingere di essere un giornalista e di intervistare l’attrice Julia Roberts. Le frasi interrogative polari dovevano essere formulate
sulla base di immagini e parole isolate che apparivano in sequenza su diapositive di
una presentazione Power Point. Per esempio, la diapositiva contenente l’immagine
di una ballerina e la parola good ha indotto la parlante a produrre la frase interrogativa polare Are you a good dancer?. Le diapositive finalizzate all’elicitazione delle
frasi interrogative erano intervallate da diapositive contenenti frasi dichiarative, che
apparivano in fumetti associati all’immagine del giornalista interpretato dal soggetto. Queste ultime dovevano essere lette. Prima di iniziare l’attività, si chiedeva di
parlare in modo naturale e spontaneo.
Dal corpus di enunciati prodotti dalla parlante nativa sono state estratte 12 frasi
(6 dichiarative e 6 interrogative polari). Gli enunciati sono stati divisi in due gruppi,
ciascuno composto di 3 frasi dichiarative e 3 interrogative polari. In alcuni casi, le
frasi del Gruppo 1 formano coppie minime con le frasi del Gruppo 2 (dichiarative
vs interrogative, cfr. a-d nella tab. 1). Questa eventualità non si è potuta verificare in
tutti i casi (cfr. e-f ), poiché la natura dell’attività permetteva di controllare la produzione del soggetto solo parzialmente.
146
JACOPO TORREGROSSA
Infine, gli enunciati sono stati filtrati a una frequenza di 1.5 KHz. In questo
modo, i singoli segmenti fonologici sono stati resi irriconoscibili e si è garantito che,
nell’attività di identificazione della natura degli enunciati (dichiarativa vs interrogativa), i soggetti si basassero soltanto su evidenza prosodica e non, per esempio,
sintattica (cfr. inversione dell’ausiliare).
Tabella 1 - Lista degli enunciati utilizzati per il task di riconoscimento
delle frasi dichiarative e interrogative polari
3.3 Procedura
A ogni apprendente veniva chiesto di svolgere due attività. La prima consisteva nella
produzione di interrogative polari sulla base del task descritto nel paragrafo precedente. In questo modo, si intendeva verificare il livello della competenza nella
realizzazione di frasi interrogative dal punto di vista sia sintattico che prosodico. La
seconda attività consisteva nel riconoscimento della natura degli enunciati della tab.
1, elicitati e manipolati acusticamente secondo le modalità descritte nel paragrafo
precedente. Gli enunciati erano presentati in formato audio. Dopo aver ascoltato
ciascuno degli stimoli, il soggetto doveva indicare, parlando in inglese, se si trattasse di una frase dichiarativa (statement) o interrogativa polare (question). In questo
modo, si intendeva verificare la competenza dell’apprendente di riconoscere il profilo intonativo delle interrogative polari e di distinguerlo da quello delle dichiarative.
4. Risultati
4.1 La produzione delle interrogative polari inglesi
In base all’Ipotesi della Prominenza (Bettoni - Di Biase, in stampa) elaborata
nell’ambito della Teoria della Processabilità di Pienemann et al. (2005), Di Biase
et al. (in stampa) sostengono che lo sviluppo della sintassi delle interrogative polari inglesi in L2 procede secondo una sequenza di stadi implicazionali caratterizzati da una crescente flessibilità nell’assegnazione della funzione grammaticale ai
costituenti sintattici. Tralasciando lo stadio in cui la produzione degli apprendenti
consiste in parole singole e formule (stadio lemmatico), le interrogative polari dello
stadio iniziale manifestano l’ordine canonico SVO (es., Your boyfriend cook pasta?).
Allo stadio intermedio, le interrogative polari sono caratterizzate da un costituente
interrogativo seguito dall’ordine canonico degli elementi (INT + SVO). Tale costi-
ASIMMETRIE TRA PERCEZIONE E PRODUZIONE NELL’ACQUISIZIONE L2
147
tuente ha la forma di un ausiliare, ma non è specificato né per accordo con il soggetto (es., Do he train a lot?) né per accordo participiale all’interno del sintagma verbale (es., Have you live in New York?). In altri termini, l’ausiliare si comporta come
un elemento di natura lessicale, più che come un costituente sintattico. L’ordine
non-canonico emerge all’ultimo stadio, in cui l’ausiliare è integrato sintatticamente
alla struttura della frase interrogativa e la funzione grammaticale di soggetto viene assegnata in posizione marcata. Bettoni - Torregrossa (2013) propongono che
quest’ultimo stadio sia articolato in due sequenze: nella prima emergono le interrogative polari di tipo copulare (COP SOGG PRED), mentre nella seconda quelle
costituite da un verbo lessicale (AUS SOGG V (OGG)). Essi mostrano, inoltre,
che esiste una stretta correlazione tra gli stadi di acquisizione della sintassi e quelli
relativi allo sviluppo della prosodia delle interrogative polari. Ovvero, gli enunciati
prodotti allo stadio SVO sono caratterizzati da un’intonazione leggermente ascendente. La forza illocutiva della domanda viene così veicolata solo attraverso mezzi
prosodici. Le interrogative polari prodotte allo stadio INT + SVO, invece, vengono
realizzate con un’intonazione piatta. E ciò suggerisce che, a questo stadio, le risorse
dell’apprendente non sono sufficienti per integrare le due strategie (morfosintattica e prosodica) finalizzate all’espressione della modalità interrogativa. Allo stadio
AUS SOGG V compare nuovamente l’intonazione ascendente. Così, più nello specifico, le strutture prodotte manifestano una progressiva approssimazione al livello
di frequenza che è tipicamente associato al contorno ascendente nella lingua bersaglio. Dal punto di vista intonativo, le due sequenze che costituiscono quest’ultimo
stadio (COP SOGG PRED e AUS SOGG V (OGG)) si distinguono in quanto
nella prima l’ausiliare è portatore di accento lessicale, mentre nella seconda costituisce un’unità prosodica integrata al costituente successivo, proprio come avviene nella lingua bersaglio. È interessante osservare che l’assenza di integrazione prosodica
corrisponde all’assenza di integrazione sintattica notata in precedenza e conferma
dunque la natura lessicale dell’ausiliare.
4.2 La percezione dell’intonazione delle interrogative polari inglesi
Le prime due colonne della tab. 2 riassumono quanto è stato detto fino a questo
punto. La terza colonna mostra i 30 apprendenti non solo raggruppati tra i tre stadi
ma anche ordinati in base al livello di accuratezza raggiunto nella realizzazione sintattica e prosodica delle interrogative polari secondo i criteri che sono stati illustrati
sopra. Rimando a Bettoni - Torregrossa (2013) e a Torregrossa et al. (in preparazione) per i dettagli dell’analisi. La quarta colonna indica il numero di risposte corrette
nel task di percezione. Si ricordi che ciascun apprendente è stato sottoposto a 6 stimoli. Dalla tabella si evince che i due apprendenti che si trovano allo stadio iniziale
(31 F e 41 M) distinguono correttamente le interrogative dalle dichiarative in quattro casi su sei. Invece, i due apprendenti più avanzati (24 M e 25 F) sanno identificare la modalità associata al contorno prosodico percepito solo in tre casi. Si riscontra,
inoltre, una grande variabilità tra i soggetti. Insomma, i dati suggeriscono che non è
possibile stabilire alcuna connessione tra produzione e percezione: gli apprendenti
148
JACOPO TORREGROSSA
allo stadio più alto dello sviluppo della prosodia (e della sintassi) realizzano punteggi uguali, se non addirittura inferiori, agli apprendenti degli stadi inferiori.
Tabella 2 - Distribuzione degli apprendenti tra i tre stadi sintattico-prosodici e correlazione tra
competenza produttiva e percettiva per ciascuno dei 30 apprendenti
La tab. 3 riporta la percentuale di risposte esatte per ciascuno stimolo del task di
percezione. Le percentuali più alte si riscontrano in corrispondenza delle interrogative più brevi (cfr. Gruppo 1 b-c e Gruppo 2 a ed e) e delle dichiarative più lunghe
(cfr. Gruppo 1 e-f e Gruppo 2 d). Tuttavia, solo due tipi di stimoli sono identificati
correttamente da tutti i parlanti (cfr. Gruppo 1 e, Gruppo 2 e). I risultati peggiori, invece, riguardano due tipi di enunciati: le dichiarative più brevi (Gruppo 1 a,
Gruppo 2 b-c) e le interrogative più lunghe (Gruppo 1 d, Gruppo 2 f ). In entrambi
i casi, si registrano percentuali inferiori del 50%.
ASIMMETRIE TRA PERCEZIONE E PRODUZIONE NELL’ACQUISIZIONE L2
149
Tabella 3 - Percentuale di risposte corrette per ciascuno stimolo nel task di percezione
5. Conclusione
I risultati indicano chiaramente che i processi di percezione si sviluppano autonomamente rispetto a quelli di produzione. Nella discussione introduttiva, si è fatto
riferimento al dibattito sulla natura universale (o particolare) dell’intonazione associata alle modalità interrogativa e dichiarativa. I dati dello studio non sono sufficienti a risolvere una questione tanto fondamentale per la teoria del linguaggio.
Tuttavia, forniscono indicazioni utili per ulteriori indagini. Come è già stato accennato, la presenza di errori nel riconoscimento delle due modalità di intonazione non
è prevista dalla teoria universalista. L’apprendente dovrebbe “automaticamente” riconoscere i profili ascendente e discendente. Tuttavia, la tab. 3 mostra che solo due
su dodici stimoli sono identificati correttamente da tutti i parlanti. È significativo,
inoltre, che la maggior parte degli errori riguardino due tipi di enunciati: le dichiarative più brevi e le interrogative più lunghe. La teoria lessicalista si applica bene al
primo caso. Nel § 2 si è notato che le dichiarative italiane si distinguono da quelle
inglesi per il tipo di accento nucleare (L* vs H*) e che la frequenza dei toni alti in
posizione nucleare è maggiore se l’enunciato è breve. È plausibile, quindi, che l’errore sia indotto dalla percezione (particolarmente netta) di un tono alto nella parte
finale dell’enunciato. In altre parole, l’apprendente italiano non è ancora sensibile al
lessico intonativo della lingua inglese. Di più difficile spiegazione è il caso delle interrogative “lunghe”. Si può ipotizzare che l’errore derivi dal fatto che il tono alto di
confine è meno marcato rispetto alle interrogative “corte” (cfr. § 2) e, quindi, meno
percettibile. In teoria, questo tipo di errore può essere interpretato in chiave universalista: non si ha domanda se non si percepisce il contorno ascendente (o, nel caso in
questione, se non lo si percepisce adeguatamente). È necessario ricordare, però, che
l’italiano e l’inglese non differiscono nella realizzazione intonativa della modalità
interrogativa. Nel caso in questione, l’ipotesi universalista sarebbe confermata in
modo più netto, se il dato relativo alle interrogative “lunghe” emergesse dall’analisi
di apprendenti di una lingua nativa in cui le interrogative sono marcate per mezzo di
un contorno discendente (si tratta di rare eccezioni; cfr., per esempio, Gussenhoven
2000 riguardo all’olandese parlato nella città di Roerdom).
150
JACOPO TORREGROSSA
Ringraziamenti
Ringrazio Bruno Di Biase per avermi suggerito di intraprendere questo studio,
Camilla Bettoni per aver discusso i dettagli dell’analisi, i trenta apprendenti e l’Associazione culturale ARCI PASSEPARTOUT di Verona per l’enorme disponibilità.
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CHIARA BRANCHINI1 - CATERINA DONATI2
Gli enunciati misti bimodali: un “esperimento naturale”
Abstract: The article focuses on the code-mixing production of 6 Italian-Italian Sign
Language bimodal bilinguals aged 8-10 years and on the grammatical judgements of adult
bimodals. Our data confirm that the most common pattern of language mixing in bimodals
is simultaneous blending: the simultaneous production of two language strings. We describe
5 different blending typologies connected with the autonomy of the two strings activated.
The data show that different phenomena are at play during code-blending: either the full activation of only one grammar and the selection of the lexicon of the non activated grammar
(as claimed in the Matrix Language Frame), or the simultaneous activation of two independent grammars (as in the Lexicalist Model), thus providing exceptional data to the hypothesis
of the online contemporary use of two autonomous grammars.
1. Introduzione
I bilingui sono per definizione competenti in due lingue, che sono in grado di tenere distinte quando richiesto dalla situazione comunicativa e sociolinguistica. Più i
bilingui sono bilanciati e competenti nelle due lingue, il che si correla di solito con il
bilinguismo più precoce e simultaneo, più sono capaci di usare i due sistemi in autonomia, senza manifestare effetti di interferenza o di “compensazione” di un sistema
sull’altro (Meisel, 1990 tra molti altri). Esula completamente da questo quadro il
fenomeno degli enunciati mistilingui, quando cioè il bilingue usa più o meno consapevolmente elementi appartenenti ai due sistemi di cui è competente all’interno
dello stesso enunciato.
Mentre fino agli anni Settanta prevaleva un’interpretazione di questo comportamento come sintomo di un sistema misto, e quindi di una confusione associata
alla situazione bilingue (Volterra - Taeschner, 1978), oggi è chiaro che gli enunciati mistilingui sono un fenomeno naturale e intrinseco al bilinguismo, che non va
ascritto a un’imperfetta acquisizione, ma è al contrario frutto diretto della doppia
competenza (Genesee, 1989). In questo senso gli enunciati mistilingui non si possono considerare e magari accantonare come una sorta di “incidente di esecuzione”,
al pari di lapsus e altri “errori”, e neanche il frutto di una competenza anomala, ma
prodotto centrale della competenza bilingue: un fenomeno linguistico in questo
senso cruciale per comprendere come funzionano le due grammatiche di un bilingue, come interagiscono, e che tipo di accesso reciproco consentono.
1
2
Università Ca’ Foscari Venezia.
Laboratoire de Linguistique Formelle, Université de Paris 7 Diderot.
154
CHIARA BRANCHINI - CATERINA DONATI
Tra i bilingui, i bilingui bimodali, che sono cioè competenti in due lingue appartenenti a due diverse modalità, e tipicamente una lingua parlata e una lingua dei
segni, sono particolarmente interessanti. Rispetto ai bilingui “unimodali”, infatti,
hanno possibilità di accesso a due canali articolatori: quello visivo-gestuale e quello
acustico-articolatorio. Osservare gli enunciati mistilingui dei bilingui bimodali rappresenta in questo senso una sorta di “esperimento naturale” unico per verificare la
natura profonda della relazione tra le due lingue in gioco. Il bilinguismo bimodale
ci consente infatti di fare almeno in parte astrazione dei filtri articolatori che solitamente condizionano fortemente la produzione mistilingue, osservando i meccanismi profondi che regolano i due sistemi nell’architettura della competenza bilingue.
Per intenderci, i bilingui bimodali non sono costretti ad alternare le due lingue, che
competono per lo stesso canale, ma possono in teoria attivarle entrambe sfruttando
i due canali disponibili.
La prima domanda che ci porremmo quindi in questo articolo è se i bilingui bimodali lo fanno davvero, cioè se sono davvero in grado di produrre elementi di due
lingue diverse in simultanea, o se invece alternano come i bilingui unimodali i due
codici. Affronteremo questa prima domanda nel paragrafo 2, riportando per lo più
dati e osservazioni già discussi in letteratura. A partire dal paragrafo 3, entreremo
più da vicino nell’analisi delle caratteristiche formali degli enunciati mistilingui e
delle poste in gioco a livello teorico. Nel paragrafo 4 introdurremo il corpus di dati
che intendiamo descrivere, dettagliando le caratteristiche dei soggetti che abbiamo
registrato, il setting con cui sono stati raccolti i dati, e la loro natura. Nel paragrafo
5 daremo un descrizione per così dire classificatoria dei diversi tipi di enunciati mistilingui che abbiamo estratto dal corpus, ordinandoli sostanzialmente in base al
diverso grado di autonomia/dipendenza tra i due sistemi linguistici che i diversi tipi
sembrano esibire. Il paragrafo 6 trae delle prime conclusioni su queste osservazioni
e apre diverse direzioni di ricerca.
2. Enunciati mistilingui simultanei? Il code blending
In una serie di articoli, Karen Emmorey e la sua equipe si posero il problema di capire come si comportino degli individui bilingui che abbiano accesso a due canali
indipendenti (Emmorey et al., 2003; 2005; 2008). La posta in gioco era importante.
Se per definizione i bilingui sono competenti in due lingue, e se di solito ne producono una sola, dal punto di vista psicolinguistico la situazione può essere descritta
in due modi diametralmente opposti.
Una prima possibilità è che per i bilingui sia costoso attivare contemporaneamente i due sistemi, e che quindi gli enunciati mistilingui siano casi eccezionali in
cui si alternano i due sistemi attivati.
Una seconda possibilità è che invece per i bilingui sia necessario e costoso inibire
uno dei due sistemi, e che quindi gli enunciati mistilingui siano casi in cui questa
inibizione per così dire si allenta.
GLI ENUNCIATI MISTI BIMODALI: UN “ESPERIMENTO NATURALE”
155
I bilingui bimodali possono fornire un’indicazione molto chiara su quale sia la
possibilità più plausibile. Ricordiamo che hanno a disposizione due canali articolatori indipendenti: la mano e la bocca, per semplificare. Se ad essere costosa è l’attivazione di due lingue, ci aspetteremmo che i bilingui bimodali non si comportino
troppo diversamente dai bilingui tout court: anche loro eviteranno la doppia articolazione, alternando al massimo i due sistemi nello stesso enunciato. Ci aspetteremmo quindi che anche i bilingui bimodali producano enunciati mistilingui alternati.
Se invece ad essere costosa è l’inibizione, ci aspetteremmo che gli enunciati mistilingui dei bimodali siano completamente diversi: avendo a disposizione due canali articolatori, non dovrebbero essere costretti a inibire (sempre) una delle due
lingue e quindi ad alternarle, ma dovrebbero invece attivarle entrambe. Ci aspetteremmo quindi che i bilingui bimodali producano enunciati mistilingui simultanei.
Questo è esattamente quanto trovarono non solo Emmorey e i suoi nel loro studio, che riguardava bimodali inglese/American Sign Language (ASL), ma quanto è
stato nel frattempo confermato in tutti i bilingui bimodali finora osservati: si vedano per esempio francese/Lingua dei segni del Québec (LSQ): Petitto et al., 2001;
olandese/Lingua dei segni olandese (NGT): van der Bogaerde - Baker, 2006; portoghese e Lingua dei segni brasiliana (LIBRAS): Lillo Martin - Quadros Müller,
2009.
Anche il nostro studio, che si è concentrato naturalmente su bimodali competenti di italiano e lingua dei segni italiana (LIS), conferma la robustezza di questa conclusione: i bilingui bimodali, anche quando attivano la modalità bilingue
(Muysken, 2000) che li porta come tutti i bilingui a produrre enunciati mistilingui
in determinate situazioni, non alternano mai o quasi mai le due lingue: gli enunciati
mistilingui sono per loro per lo più simultanei. Per usare una terminologia tecnica,
diremo che i bilingui bimodali non fanno code switching o code mixing, ma code
blending.
3. Gli enunciati mistilingui e la competenza bilingue: tipologie e modelli
La natura e la distribuzione degli enunciati mistilingui sono al centro di un’ampia
letteratura e di un vero e proprio dibattito. Le posizioni teoriche si possono ricondurre a due grandi famiglie di modelli. Nel primo modello, sviluppatosi soprattutto
negli anni Ottanta e poi Novanta (cfr. Poplack, 1980; Di Sciullo et al., 1986; Belazi
et al., 1994 tra molti altri), si è insistito molto sulle condizioni che appaiono condizionare le possibili commutazioni di lingua all’interno di uno stesso enunciato, proponendo diversi principi generali che le regolerebbero. Un esempio è la condizione
dell’equivalenza (equivalence constraint) proposta da Poplack, che prescrive che il
cambio di codice possa avvenire solo in quei punti in cui le strutture superficiali delle due lingue coincidono (Poplack, 1980). Questa condizione spiega per esempio
perché non sia possibile un enunciato mistilingue inglese/spagnolo come (1).
156
CHIARA BRANCHINI - CATERINA DONATI
(1) a. *The casa white
b. *The blanca house
Entrambe le versioni di (1) sono agrammaticali perché le regole delle due lingue
non sono equivalenti nel punto della commutazione: lo spagnolo prescriverebbe
l’ordine nome aggettivo, e l’inglese quello aggettivo nome.
Questo tipo di condizioni è problematico per almeno due ordini di motivi: la
loro validità empirica, soprattutto in senso interlinguistico, appare abbastanza limitata, per cui si sono accumulati negli anni i controesempi a queste generalizzazioni.
L’altro problema è invece di natura teorica: di che tipo di condizioni si tratta e,
soprattutto, da dove scaturiscono? Si deve postulare nei bilingui una sorta di terza
grammatica responsabile dei contatti tra le altre due?
Appartiene a questa famiglia di modelli, ma è più generale e quindi anche più
riconosciuto come valido, il modello di Myers-Scotton, della cosiddetta lingua matrice (Matrix Language Frame, Myers-Scotton, 1993; Jake et al., 2002). L’idea di
base, che possiamo riassumere in due righe, è che le lingue coinvolte in un enunciato
mistilingue rivestano sempre una funzione asimmetrica: una lingua è la matrice, e
fornisce in quanto tale l’ossatura funzionale dell’enunciato e la posizione superficiale degli elementi; l’altra lingua, detta lingua incassata o embedded language, si limita
a fornire gli elementi lessicali.
Questo tipo di modello spiega bene una tipologia di enunciato mistilingue che
è effettivamente molto frequente, che Muysken (2000) chiama insertion, illustrata
in (2).
(2) Yo anduve in a state of shock por dos dias
‘Ho camminato in uno stato di choc per due giorni’
In (2) appare chiaro che l’enunciato è per così dire governato da un’unica grammatica, quella spagnola, e che l’inglese si limita a fornire una sorta di inserimento. Altri
tipi di enunciati mistilingui, come quello che introduciamo brevemente sotto, non
mostrano una chiara asimmetria dei due sistemi, e si prestano quindi meno bene a
essere interpretati nei termini del modello a lingua matrice.
L’altra famiglia di modelli, che potremmo definire lessicalista, si rifà al
Programma minimalista chomskiano e acquista peso a partire dalla fine degli anni
Novanta (MacSwan, 2000; 2010; González-Vilbazo - López, 2012). Anche in questo caso, possiamo riassumerne l’idea centrale in modo molto semplice: l’idea è che i
bilingui abbiano semplicemente due lessici, e che questa sia l’unica particolarità che
li caratterizza. Avendo due lessici, possono occasionalmente attingere a elementi appartenenti a entrambi producendo così enunciati mistilingui. Nessuna condizione
deve o può essere imposta alla natura di questa operazione di selezione lessicale, e
le caratteristiche e i limiti degli enunciati mistilingui saranno solo e unicamente derivabili dalla compatibilità o meno dei tratti lessicali associati alle parole coinvolte.
GLI ENUNCIATI MISTI BIMODALI: UN “ESPERIMENTO NATURALE”
157
Per tornare all’esempio di Poplack (1), è possibile spiegare la difficoltà di questa
produzione se si assume che l’aggettivo inglese e quello spagnolo selezionano due
opzioni di linearizzazione (pre-nominale in inglese; post-nominale in spagnolo)
che sono incompatibili.
Il vantaggio di questi modelli sta chiaramente nella loro semplicità. La sfida è capire se un modello così semplice ed effettivamente elegante sia sufficiente a rendere
conto della complessità dei fenomeni di commistione che si osservano.
È chiaro per esempio che rendono conto molto facilmente di quel tipo di enunciato mistilingue in cui i due sistemi appaiono contribuire in maniera del tutto
egualitaria, o comunque indistinguibile: si tratta del tipo che Muysken chiama
Congruent Lexicalization, illustrato con un esempio classico in (3).
(3) Bueno, in other words, el flight que sale de Chicago around three o’clock
‘Bene, in altre parole, il volo che parte da Chicago intorno alle tre’
I dati che discutiamo in questo lavoro, e che introduciamo finalmente nel prossimo
paragrafo, frutto come sono di quell’esperimento naturale che è la condizione di
bimodalità, possono aiutare a gettare luce sulla natura dei fenomeni di commistione
in relazione a questi diversi modelli.
4. Il corpus
La nostra ricerca si basa su dati naturalistici provenienti da un corpus di enunciati
mistilingui prodotti da 6 bambini KODA (Kids of Deaf Adults, ovvero bambini di
adulti sordi), competenti in italiano e LIS. Abbiamo raccolto questo piccolo corpus
durante 10 incontri videoregistrati di approssimativamente 2 ore l’uno avvenuti durante gli ultimi 3 anni per orientare lo studio e per rispondere ai quesiti di ricerca.
Nel far questo, ci siamo concentrati su alcuni aspetti qualitativi relativi in particolare alla (in)dipendenza delle due stringhe linguistiche prodotte durante gli enunciati mistilingui simultanei, che chiameremo qui sempre blending. Le dimensioni
limitate del corpus preso in esame non hanno consentito uno studio quantitativo
dei dati: non abbiamo calcolato la loro occorrenza né la loro frequenza nel corpus e
non abbiamo analizzato la modalità con cui i blending si alternano alla produzione
monolingue.
4.1 I soggetti
I soggetti che hanno preso parte alla nostra ricerca sono 6 bambini udenti di età
compresa tra gli 8 e i 10 anni provenienti dalle regioni centrali dell’Italia: Romagna
(Rimini), Marche (Ancona e Senigallia) e Lazio (Roma).
Si tratta di bambini bilingui bimodali madrelingua di una lingua vocale, l’italiano, e di una lingua dei segni, la LIS. Il nucleo famigliare è composto per tutti i bambini da entrambi i genitori sordi e, per due di loro, da fratelli o sorelle sordi. I bambini sono stati dunque esposti alla lingua dei segni dalla nascita e continuamente
158
CHIARA BRANCHINI - CATERINA DONATI
in ambito famigliare e, in alcuni casi, anche in ambito scolastico frequentando una
scuola bilingue italiano-LIS, e all’italiano attraverso l’interazione con componenti
della famiglia allargata, coetanei, insegnanti, e in diversi ambiti sociali.
Il nostro corpus testimonia la competenza bilanciata dei bambini nelle due lingue,
che è ben riscontrabile nella vasta produzione monolingue in italiano o LIS che abbiamo registrato accanto alla produzione in modalità blending, quando cioè le due lingue
vengono prodotte simultaneamente. Durante i nostri incontri, i bambini hanno dimostrato un’ottima competenza comunicativa, scegliendo quale lingua usare in base alla
situazione e alla competenza linguistica degli interlocutori presenti.
4.2 Il setting
Durante gli incontri erano presenti due adulti bilingui bimodali, uno sordo e uno
udente, che fornivano ai bambini un input linguistico bilingue passando frequentemente e in maniera naturale da una lingua all’altra. Per facilitare la produzione di
blending e la naturalezza degli scambi comunicativi, gli incontri avvenivano a casa
dei bambini, alla presenza di più bambini bimodali che intrattenevano già rapporti
di amicizia, e di persone sia sorde (famigliari, amici), con le quali era necessario
usare la lingua dei segni, sia udenti (eventuali componenti udenti della famiglia,
amici), non competenti in lingua dei segni, con i quali l’uso della lingua vocale era
necessario.
Il setting creato durante gli incontri era informale e giocoso, mirato alla produzione di dati naturalistici: i bambini venivano incoraggiati ad interagire spontaneamente tra loro e con i ricercatori, che proponevano argomenti di possibile interesse
per loro.
Il corpus si compone dunque in larga parte di conversazioni spontanee. Abbiamo
tuttavia impiegato anche alcuni compiti semi-strutturati, come la richiesta diretta ai bambini di raccontare storie attraverso l’uso di carte illustrate o favole prima
mostrate loro tramite un DVD nel quale un segnante madrelingua raccontava loro
una storia in LIS. Attività più strutturate prevedevano un compito di ripetizione
elicitata, nel quale ai bambini veniva chiesto di ripetere produzioni monolingui e
mistilingui registrate precedentemente da CODA (Children of Deaf Adults, ovvero
figli di adulti sordi3) adulti e proposte loro attraverso il computer; o un compito di
comprensione durante il quale i bambini visionavano al computer delle produzioni
monolingui o mistilingui e rispondevano poi a semplici domande volte a verificarne
la comprensione.
Gli incontri sono stati videoregistrati con una videocamera digitale da un tecnico esterno al setting sperimentale, in seguito convertiti in filmati Quick time per
essere caricati nel sofware ELAN appositamente creato per glossare, codificare e
analizzare dati in lingua dei segni4.
CODA (Children of Deaf Adults) include figli di adulti sordi in generale, mentre KODA (Kids of
Deaf Adults, cfr. inizio § 4) è utilizzato con riferimento ai CODA di età inferiore ai 18 anni.
4
Il software ELAN è stato creato presso il Max Planck Institute for Psycholinguistics ed è scaricabile
gratuitamente al sito http://tla.mpi.nl/tools/tla-tools/elan.
3
GLI ENUNCIATI MISTI BIMODALI: UN “ESPERIMENTO NATURALE”
159
4.3 I giudizi di grammaticalità degli adulti
Dopo la prima fase di raccolta e analisi dei dati naturalistici contenuti nel corpus,
abbiamo esteso la nostra indagine ai giudizi di grammaticalità e alla produzione
elicitata di due informanti adulti CODA italiano-LIS, per tentare di rispondere alle
domande di ricerca scaturite dall’osservazione dei dati contenuti nel corpus e fornirne un’analisi più raffinata.
In particolare, volevamo essere certe che i pattern linguistici osservati nella produzione dei bambini non fossero un fenomeno di maturazione dovuto ad un’acquisizione imperfetta di una delle due lingue. Inoltre, come già sottolineato, il nostro
corpus non era abbastanza vasto da consentire conclusioni statistiche solide. Era
dunque necessario controllare che i modelli di produzione osservati nei dati naturalistici fossero confermati da giudizi di grammaticalità categorici.
Un ulteriore obiettivo di questa seconda fase di ricerca è stato quello di ovviare
ad un noto inconveniente insito nei dati naturalistici, ovvero la mancanza di evidenza negativa. I parlanti bilingui possiedono chiare intuizioni sull’accettabilità o
inaccettabilità delle produzioni mistilingui (Toribio, 2001a; 2001b), sono dunque
in grado di fornire evidenza negativa informando il ricercatore su ciò che si può e
non si può fare durante la produzione mistilingue in enunciati bilingui bimodali.
4.4 Convenzioni sulle glosse
In questo articolo adottiamo la convenzione largamente impiegata in letteratura
di rappresentare i segni della LIS tramite lettere maiuscole. Seguiamo la tradizione nell’impiego di forme citazionali per le glosse che traducono i segni per i verbi.
Le glosse riportate in questo articolo sono semplificate dal punto di vista sintattico
poiché non riportano l’uso di componenti non manuali o di segni deittici verbali
e nominali che indicano relazioni di accordo, in quanto non direttamente rilevanti
per la descrizione dei dati.
Negli enunciati in modalità blending, la stringa italiana è trascritta al di sopra
della stringa in lingua dei segni ed è preceduta dall’abbreviazione It. La stringa in
Lingua dei Segni Italiana è invece preceduta e segnalata dall’abbreviazione LIS. La
trascrizione dei dati segue l’allineamento temporale delle due stringhe linguistiche
riportando segni e parole prodotti simultaneamente allineati in colonna.
5. I dati: tipologie di blending
In questo articolo intendiamo offrire una prima classificazione degli enunciati mistilingui simultanei (blending) presenti nel nostro corpus di italiano-Lingua dei Segni
Italiana nel tentativo di contribuire a chiarire il fenomeno e il ruolo della commistione linguistica all’interno della competenza bilingue. Sulla base dell’autonomia
delle due stringhe attivate durante la produzione mistilingue contenuta nel corpus,
distinguiamo cinque diverse tipologie di blending.
160
CHIARA BRANCHINI - CATERINA DONATI
La prima tipologia prevede la presenza di un enunciato completo in una lingua
simultaneamente alla produzione di singoli frammenti nell’altra lingua.
(4) It: La regina dice
LIS: DIRE DIRE
‘La regina dice...’
In (4), l’enunciato completo è dato in italiano, e contemporaneamente, il bambino
produce solo il verbo in LIS. Dunque l’unica stringa autonoma è quella dell’italiano.
Nella seconda tipologia identificata, osserviamo due stringhe linguistiche per
così dire complete dal punto di vista delle parole che contengono, ma che seguono
entrambe una sola grammatica, quella dell’italiano.
(5) It: Una bambina va
LIS: BAMBINA
ANDARE
‘Una bambina va allo zoo’
allo zoo
ZOO
In (5), entrambe le stringhe sono complete dal punto di vista dei costituenti che
le compongono ma solo la stringa italiana mostra una grammatica autonoma. In
particolare, la stringa in LIS non segue l’ordine non marcato di questa lingua, che
prescriverebbe il locativo in posizione preverbale e il verbo alla periferia destra della
frase, ma riproduce l’ordine non marcato dell’italiano, che prevede il locativo in
posizione post-verbale.
Nella terza tipologia, per così dire speculare alla precedente, osserviamo la presenza di due stringhe linguistiche complete, ma che seguono entrambe una sola
grammatica, quella della LIS.
(6) It: Zio
zia
vero
Roma
abita
LIS: ZIO
ZIA
VERO ROMA ABITARE
‘Veramente mio zio e mia zia abitano a Roma’
In (6), abbiamo due stringhe linguistiche complete ma solo la stringa della LIS è autonoma dal punto di vista della grammatica. La stringa in italiano infatti non segue l’ordine non marcato imposto dalla lingua, che prevede il locativo in posizione post-verbale,
ma riproduce l’ordine non marcato della LIS, che prescrive la posizione del verbo dopo
il locativo. Inoltre, è interessante notare che nella stringa italiana c’è un mancato accordo tra il soggetto di terza persona plurale e il verbo alla terza persona singolare.
La quarta tipologia prevede la presenza di due stringhe linguistiche complete,
che seguono ognuna la relativa grammatica.
(7) It: Non ho
capito
LIS: CAPIRE NON
‘Non ho capito’
GLI ENUNCIATI MISTI BIMODALI: UN “ESPERIMENTO NATURALE”
(8) It: Cosa
ha mangiato
LIS: RANA MANGIARE
‘Cosa ha mangiato la rana?’
161
la rana?
COSA
In (7) e (8), le due stringhe linguistiche sono complete e autonome sia dal punto di
vista dei costituenti presenti che della loro grammatica. In particolare, ognuna delle
due stringhe riproduce simultaneamente l’ordine imposto loro dalla propria lingua:
in (7), la negazione è pre-verbale in italiano e post-verbale in LIS, mentre in (8), il
sintagma interrogativo occupa una posizione iniziale di frase in italiano e finale in
LIS. In entrambi i casi, il risultato è la produzione simultanea di stringhe linguistiche non allineate nei loro costituenti.
Un’ultima tipologia di blending presente nel nostro corpus prevede la presenza
di un enunciato misto formato da costituenti provenienti da entrambe le lingue.
(9) It:
Parla
con Biancaneve
LIS: PARLARE CACCIATORE
‘Il cacciatore parla con Biancaneve’
(10) It:
Dalla regina cattiva
LIS: ANDARE CATTIVA
‘Va dalla regina cattiva’
In (9) e in (10) solo unendo i costituenti prodotti in entrambe le lingue è possibile
ottenere un enunciato completo: in (9), il soggetto (post-verbale) CACCIATORE
è fornito solo in LIS, l’oggetto indiretto ‘Biancaneve’ è prodotto solo in italiano,
mentre il verbo è presente in entrambe le stringhe; in (10), il verbo ANDARE è
prodotto solo in LIS, il costituente locativo ‘dalla regina’ è prodotto solo in italiano, mentre l’aggettivo modificatore ‘cattiva’ è presente in entrambe le stringhe. In
questa tipologia di blending non è possibile parlare di ordine lineare dei costituenti in quanto la loro realizzazione nelle due lingue è simultanea. In altri termini, a
differenza delle tipologie di blending descritte in precedenza, questa tipologia non
prevede la linearizzazione dei costituenti nelle due stringhe linguistiche.
6. Conclusioni: cosa ci dice il blending sulla competenza bilingue
La prima impressione che suscita la classificazione appena descritta è quella di una
grande diversità: quello che si osserva nel blending è in effetti di natura molto diversa. In particolare, cambia molto lo status degli enunciati (o dei frammenti di enunciati) prodotti in simultaneità.
Nei primi tre tipi, infatti, è chiaro che si ha a che fare con un’unica grammatica:
o perché c’è un unico enunciato dominante e completo (tipo 1) o perché entrambi gli enunciati sono di fatto governati da un’unica grammatica (quella italiana nel
tipo 2; quella LIS nel tipo 3). Questi tipi fanno immediatamente pensare a una re-
162
CHIARA BRANCHINI - CATERINA DONATI
alizzazione di quanto prescritto dal modello a matrix language: una lingua fornisce l’ossatura grammaticale e funzionale e l’altra quella lessicale. L’unica differenza,
perfettamente naturale date le condizioni eccezionali fornite dalla bimodalità, è che
in questi casi la lessicalizzazione può anche essere doppia e simultanea, e non deve
essere alternata. Ma se si eccettua questa differenza superficiale e che pare di natura
prettamente articolatoria, si osserva qui una chiara asimmetria nella funzione delle
lingue coinvolte, che parrebbe dare ragione a Myers-Scotton e alla sua visione.
Un caso per così dire opposto è dato dal tipo 4: in questa tipologia si osserva chiaramente l’azione di due grammatiche, distinte, autonome ed entrambe operative nel
governare l’ordine delle parole delle rispettive stringhe “di competenza”. In questo
caso non è possibile rilevare alcuna asimmetria, almeno in apparenza, e il modello di
Myers-Scotton pare del tutto inadeguato. Lo stesso vale per quegli approcci, come
quello di Poplack (1980) brevemente descritto sopra, che prescrivono restrizioni
di parallelismo o di equivalenza a governare le possibilità di commutazione. Nella
misura in cui queste condizioni sono operative negli enunciati mistilingui unimodali, sono chiaramente e clamorosamente violate in questi casi: negli esempi in (7)
e (8) sono coinvolte regole della grammatica che non sono affatto equivalenti nelle
due lingue in contatto: la negazione è postverbale in LIS e naturalmente preverbale
in italiano; l’interrogativo si sposta alla periferia destra in LIS e a quella sinistra in
italiano. Eppure, questi enunciati mistilingui sono stati prodotti spontaneamente (e
massicciamente) nel nostro corpus. Questo significa che la validità di queste condizioni di equivalenza deve essere necessariamente legata a fenomeni superficiali di
linearizzazione o, in altre parole, al filtro articolatorio che forza l’alternanza tra le
lingue negli enunciati mistilingui unimodali, ma non a condizioni profonde sull’uso
di due grammatiche online.
Il tipo 5, infine, rappresenta una possibile realizzazione di quanto previsto dal
modello lessicalista. Lo si può vedere come una versione simultanea e non linearizzata del tipo a congruent lexicalization di Muysken illustrato in (3): in entrambi
i casi, è impossibile determinare quale grammatica faccia cosa e l’enunciato sembra
il prodotto di un lessico misto (e in questo caso sparso su due canali) assemblato on
line.
Al di là del suo impatto destruens su alcuni modelli di bilinguismo che abbiamo
discusso, il tipo 4 rimane quello più affascinante e più problematico. In nessuno dei
modelli di spiegazione disponibili, infatti, è prevista la possibilità che i bilingui siano in grado di proiettare due complete e complesse strutture grammaticali, in tutto
autonome e al tempo stesso simultanee. Se questo tipo di blending sia effettivamente il risultato di una doppia derivazione globale come questa, o se sia invece il prodotto di qualche processo più superficiale, rimane ancora da verificare (cfr. Donati
- Branchini, 2013 per una discussione). Sarà necessario in particolare controllare
sistematicamente se i fatti di ordine delle parole che abbiamo osservato, e che sembrano denunciare l’azione di due grammatiche, si correlino a fatti di ordine diverso,
come prosodia e morfologia flessiva. Dobbiamo rimandare questa importante verifica, e le importanti conseguenze che se ne possono trarre, a una prossima ricerca.
GLI ENUNCIATI MISTI BIMODALI: UN “ESPERIMENTO NATURALE”
163
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ELISA PELLEGRINO1 - ANNA DE MEO1 - VALERIA CARUSO1
Chi compie l’azione? L’applicazione del Competition
Model su sordi italiani
Abstract: This paper investigates the applicability of the Competition Model to the strategies of sentence processing used by deaf learners of Italian. In order to find if the communicative channel of the L1 influences the strength of the cues necessary to identify the agent
(word order, agreement, animacy, case and accent), 6 hearing Italians, 6 deaf (2 mild and 4
profound) with Italian as L1, and 6 profound deaf with Italian Sign Language as L1 were
administered a test consisting of written and signed items. The written test results show that
agreement is the strongest cue to agent identification, for both hearing and the mild-deaf
participants; word order is the strongest cue to agent identification for the profound deaf.
The outcomes of the signed test show, conversely, that the agent identification is guided by
word order for the mild-deaf subjects and by agreement for the profound deaf.
1. Introduzione
Questo studio mira a verificare l’applicabilità del quadro teorico proposto dal
Competition Model all’analisi delle strategie di sentence processing utilizzate dai sordi
italiani, una categoria di apprendenti sui quali non si è ancora estensivamente indagato. Il Competition Model è un approccio sviluppato alla fine degli anni Ottanta
del secolo scorso da Elisabeth Bates e Brian MacWhinney, per spiegare i meccanismi regolativi della comprensione e dell’acquisizione del linguaggio operanti
sia negli adulti, sia nei bambini (Bates - MacWhinney, 1987; MacWhinney, 1987;
MacWhinney - Bates, 1989).
Ispirandosi al funzionalismo di stampo lessicalista (Givón, 1979; Lakoff, 1987;
Massaro, 1987), il modello assume che i processi di analisi sintattica, elaborazione
e acquisizione linguistica siano controllati dagli elementi lessicali. Ciascuna entrata
lessicale viene a configurarsi come una struttura organizzata su due divelli, quello
della funzione interna e quello della forma esterna. La prima riguarda le proprietà
semantiche dell’elemento, la seconda si riferisce alle sue caratteristiche acustiche.
Diversamente dai modelli formalisti, che richiamavano la completa autonomia delle
forme rispetto alle funzioni, alla base del Competition Model vige il principio funzionalista secondo cui «the forms of natural languages are created, governed, constrained, acquired and used in the service of communicative functions» (MacWhinney
et al., 1984: 128).
1
Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”.
166
ELISA PELLEGRINO - ANNA DE MEO - VALERIA CARUSO
In questo quadro, la relazione postulata tra la forma e la funzione è di tipo “diretto” e “molti-a-molti”. Ciascuna forma superficiale, detta anche “indizio formale”,
mappa una funzione in modo diretto ma non esclusivo. Dato che nelle lingue naturali gli indizi sono numericamente limitati, funzioni diverse possono essere mappate dalla stessa forma superficiale. L’agentività, ad esempio, può essere espressa da
diversi indizi formali, quali l’ordine delle parole, l’animatezza, l’accordo, il caso e, a
livello prosodico, può essere marcata dall’accento contrastivo (MacWhinney, 1982;
1992). Tuttavia, ciascuno di tali indizi può mappare anche altre funzioni. La posizione pre-verbale e l’accento contrastivo, infatti, sono indizi utili anche ai fini della
determinazione della topicalizzazione.
Fra gli indizi che consentono di esprimere la stessa funzione possono figurarsi
due tipi di rapporti: collaborazione e competizione.
Si considerino le seguenti frasi:
(1) Mia sorella legge i fumetti
(2) Il libro di Fisica lo prendo io
(3) Le auto blu hanno scortato il Presidente della Repubblica
(4) *Gli scolari saluta i maestri.
Nella frase (1), tra i due elementi candidabili a svolgere la funzione di agente (“mia
sorella” e “i fumetti”) il primo ha sicuramente maggiore probabilità di essere interpretato come tale, poiché in questo caso gli indizi collaborano. Il primo elemento,
infatti, si trova in posizione pre-verbale, si accorda con il verbo ed è animato. Le
frasi successive (2-3), invece, manifestano condizioni di competizione. Nella frase
(2) cede l’ordine delle parole, perché l’agente è in ultima posizione; nella frase (3)
fallisce l’animatezza perché l’agente è un essere inanimato. L’unico indizio che non
può mai cedere in italiano è l’accordo tra il soggetto e il verbo (4).
Nel quadro teorico offerto dal Competition Model, l’acquisizione e l’elaborazione del linguaggio si configurano come processi interattivi di sviluppo e attivazione
di mappature “forma e funzione”. Rifiutando la proposta generativista di un organo specifico del linguaggio (Chomsky, 1965), Bates e MacWhinney fanno propri i
principi del sentence processing offerti dai modelli connessionisti (McClelland et al.,
1986). Pertanto, il consolidarsi delle connessioni forma-funzione non viene imputato all’applicazione di principi linguistici predeterminati, bensì alle proprietà statistiche ed informative dell’input. La forza di un indizio si misura su tre parametri:
– affidabilità: frequenza con cui una forma si associa ad una funzione;
– disponibilità: frequenza con cui un indizio ricorre nell’input;
– validità nel conflitto: rapporto tra il numero di volte in cui un indizio si aggiudica la competizione con altri indizi e il numero delle volte in cui si trova in
conflitto.
Allo stato iniziale del processo acquisizionale, il bambino attribuirà a ciascuna
mappatura forma-funzione un grado di forza pari a zero. Solo progredendo nel-
CHI COMPIE L’AZIONE? L’APPLICAZIONE DEL COMPETITION MODEL
167
lo sviluppo del linguaggio, potrà assegnare pesi diversi alle diverse connessioni.
All’aumentare dell’esposizione all’input e in base agli esiti della competizione tra
gli indizi, alcuni collegamenti forma-funzione si rafforzeranno, altri invece si indeboliranno.
Per un bambino italiano, quindi, l’associazione tra la posizione pre-verbale
dell’agente e l’animatezza finirà per perdere di valore via via che andrà sperimentando la forza dell’accordo. Lo stesso meccanismo non si realizzerà per un bambino
inglese. Quest’ultimo, sulla base dell’accresciuta esposizione alla propria L1, si accorgerà della frequenza con cui l’ordine delle parole vince nella competizione con
gli altri indizi.
La forza delle forme superficiali, dunque, riflette le proprietà psicologiche e
soggettive dell’indizio sviluppate dal bambino nel processo di acquisizione (Year,
2003). Tale condizione ha come ricaduta immediata la variabilità inter- e intralinguistica dell’affidabilità, disponibilità e validità degli indizi. Studi condotti su un
ampio campione di lingue hanno, infatti, mostrato come il peso degli indizi vari da
lingua a lingua. Per gli italiani, ad esempio, l’indizio più forte sembra essere l’accordo (Devescovi et al., 1998; McDonald - Heilenmann, 1991), per gli anglofoni
l’ordine delle parole (McDonald, 1987), per i tedeschi il caso (MacWhinney et al.,
1984).
Va inoltre specificato che la forza di un indizio varia da lingua a lingua non solo
qualitativamente, ma anche quantitativamente. Bates et al., (1999), ad esempio,
hanno verificato che soggetti italiani ed americani, posti di fronte a frasi con ordine
delle parole SVO e con condizioni di accordo e animatezza ambigui, differiscono
nella misura in cui interpretano il primo nome come agente: gli anglofoni lo hanno
selezionato nel 92% dei casi, gli italiani nel 71%.
I risultati degli studi condotti su lingue diverse portano alla conclusione che la
conoscenza linguistica non si ottiene applicando una serie di principi predeterminati e specifici per dominio, ma fissando una serie di mappature forma-funzione sulla
base delle caratteristiche statistiche ed informative dell’input.
Il Competition Model è stato successivamente utilizzato anche per spiegare i processi di comprensione e produzione nella L2 (Kilborn, 1989; MacWhinney, 1992;
1997), nei casi del bilinguismo emergente (MacWhinney, 2005; Reyes - Hernandéz,
2006) e dei disturbi del linguaggio (Bates et al., 1987; Evans - MacWhinney, 1999).
Per quanto riguarda l’italiano, ci sono diversi studi condotti sia su adulti sia su
bambini (Devescovi et al., 1998; Devescovi et al., 1999; MacWhinney et al., 1984).
Mancano, tuttavia, lavori sulla Lingua dei Segni Italiana (LIS) e sull’uso combinato
di questa e dell’italiano vocale da parte di sordi italiani.
2. Lo studio
2.1 Obiettivi
Questo studio intende verificare la possibilità di estendere il quadro teorico proposto dal Competition Model ad una particolare categoria di apprendenti, i sordi
168
ELISA PELLEGRINO - ANNA DE MEO - VALERIA CARUSO
italiani. Ulteriore obiettivo del lavoro è quello di evincere l’influenza esercitata dalla
lingua materna (italiano vocale o LIS) e dal canale comunicativo (acustico-uditivo o
visivo-gestuale) nella scelta dei canditati alla funzione di agente.
2.2 Partecipanti
Lo studio è stato condotto su 18 informanti campani, 6 udenti e 12 sordi, di età
compresa fra i 20 e i 40 anni. Il gruppo dei sordi era composto da due tipologie di
partecipanti:
– 6 soggetti avevano dichiarato di avere la LIS come lingua materna e l’italiano
vocale come L2; tutti provenienti da famiglie sorde, con un livello profondo di
sordità, avevano seguito un percorso di scolarizzazione in istituti per sordi;
– 6 soggetti avevano dichiarato l’italiano vocale come lingua materna e la LIS come
seconda lingua; provenienti da famiglie di udenti, 2 avevano un livello medio di
sordità e 4 profondo, ma tutti avevano completato il ciclo di studi superiori in
scuole per udenti, conseguendo un diploma di istruzione tecnico-professionale.
Sebbene i soggetti di quest’ultimo gruppo rappresentino un campione omogeneo
per contesto familiare, livello di scolarizzazione e lingua materna dichiarata, la variabilità dei risultati ottenuti nel test ha suggerito la necessità di recuperare ulteriori
informazioni. Interviste condotte successivamente alla somministrazione del test
hanno consentito di rilevare due diverse condizioni di bilinguismo tra i sordi medi
e quelli profondi del gruppo. I primi, infatti, avevano una buona competenza dell’italiano scritto e una scarsa competenza della LIS; i secondi, invece, avevano una
competenza migliore per la LIS che per l’italiano. Le ragioni dello sbilanciamento
tra le due competenze linguistiche sono riconducibili alla quantità di esposizione
alla LIS e al livello di integrazione all’interno della comunità dei sordi. I 2 sordi
medi, infatti, hanno genitori non segnanti e sono scarsamente integrati all’interno
della comunità dei sordi. Al contrario, i 4 sordi profondi hanno genitori competenti
nella LIS e sono ben integrati nella comunità sorda napoletana.
Alla luce di tali considerazioni, è stato necessario suddividere il gruppo per livello di ipoacusia, creando due sotto-gruppi separati, anche se non equilibrati nella
composizione numerica.
2.3 Il test
La procedura tradizionalmente utilizzata per verificare la collaborazione e/o la
competizione tra i vari indizi formali nella determinazione dell’agente (ordine delle
parole, accordo, animatezza, caso e accento) è stata adattata alle modalità comunicative degli informanti. Trattandosi di sordi, gli stimoli acustici sono stati sostituiti da
frasi scritte in italiano e da video di frasi segnate in LIS. Compito degli informanti
era quello di identificare l’agente della frase, scegliendo fra due alternative date. Per
agevolare la comprensione degli item, le opzioni di risposta erano corredate da immagini che ne riproducevano il referente.
CHI COMPIE L’AZIONE? L’APPLICAZIONE DEL COMPETITION MODEL
169
Il test scritto è stato validato mediante un pre-test somministrato a 40 italiani
udenti, di età compresa tra i 20 e i 25 anni. I risultati hanno confermato la scala
di rilevanza degli indizi individuata per l’italiano: accordo > animatezza > ordine
delle parole.
Il test è stato successivamente somministrato in due sessioni distinte. Nella prima sono state presentate, in ordine randomizzato, 84 frasi scritte, costituite da due
nomi ed un verbo, combinati tra di loro al fine di riprodurre tre ordini di parole, tre
diverse condizioni di accordo, quattro condizioni di animatezza. Tutte le frasi erano
grammaticalmente ben formate (tab. 1).
Tabella 1 - Combinazione ortogonale degli indizi nel test scritto
Tabella 2 - Combinazione ortogonale degli indizi nel test segnato
La seconda fase del test ha coinvolto solo i sordi. 21 frasi del corpus di italiano scritto sono state tradotte in LIS, selezionando esclusivamente gli item compatibili con
la struttura sintattica della LIS (NNV e ACC 1 e 2), evitando le combinazioni che
avrebbero comportato la traduzione in italiano segnato (tab. 2). Tale scelta è stata
definita con la consulenza di un’interprete LIS e di un esperto linguista sordo.
170
ELISA PELLEGRINO - ANNA DE MEO - VALERIA CARUSO
3. I risultati
3.1 Test scritto
I risultati del test scritto hanno evidenziato sia l’applicabilità operativa del
Competition Model su soggetti affetti da deficit uditivi, sia il ricorso a strategie di
identificazione dell’agente differenziate in base alla lingua materna dei partecipanti,
al canale comunicativo e al grado di sordità.
Nel commento dei risultati, i gruppi verranno identificati mediante le seguenti
sigle:
– udenti ITA_L1;
– sordi medi ITA_L1;
– sordi profondi ITA_L1;
– sordi profondi LIS_L1.
I sordi medi ITA_L1 hanno messo in atto strategie di comprensione comparabili a
quelle impiegate dal gruppo di udenti. Come mostrato in fig. 1, sia per gli udenti sia
per i sordi medi ITA_L1 l’indizio più forte è rappresentato dall’accordo.
Figura 1 - Accordo
La percentuale di corretta identificazione dell’agente nelle condizioni di ACC 1 e
ACC 2 è infatti superiore al 90%. Gli udenti e i sordi medi indicano il primo nome
come agente rispettivamente nel 95% e nel 94% dei casi quando il verbo si accorda
col primo nome; la preferenza per il primo elemento precipita al 9% e al 2% quando
il verbo si accorda col secondo nome. Nelle frasi ad ACC 0, il primo elemento viene
scelto nel 50% dei casi dagli udenti e nel 65% dai sordi medi. L’accordo non gioca
un ruolo altrettanto dirimente per i sordi profondi ITA_L1 e quelli LIS_L1. Nelle
CHI COMPIE L’AZIONE? L’APPLICAZIONE DEL COMPETITION MODEL
171
condizioni di ACC 2, in cui l’ordine delle parole entra in competizione con l’accordo, la scelta del primo o del secondo elemento come agente è del tutto casuale.
Meno significativo rispetto all’accordo è il peso giocato dall’indizio dell’animatezza (fig. 2).
Figura 2 - Animatezza
Nelle frasi in cui si manifesta l’opposizione di animatezza, l’elemento animato viene
selezionato come agente in media nel 64% dei casi dagli udenti (AI, IA = 64,81%),
nel 71,9% dai sordi medi ITA_L1 (AI = 66,7%; IA = 77,2%), nel 60% dai sordi
profondi ITA_L1 (AI = 68%; IA = 48,6) e nel 67% dai sordi profondi LIS_L1
(AI = 75%; IA = 59,3). Indipendentemente dal canale comunicativo, dalla L1 e dal
livello di sordità, negli item in cui l’indizio è ambiguo la scelta dell’agente risulta di
poco superiore alla casualità.
Per quanto riguarda l’ordine delle parole (fig. 3), quest’ultimo non rappresenta
un indizio sicuro negli udenti e nei sordi medi poiché nei tre ordini considerati
(NVN, VNN e NNV) il primo nome viene identificato come agente in media nel
52% dei casi. Leggermente superiore alla casualità è la percentuale di scelte del “primo elemento” da parte dei sordi profondi ITA_L1 (58%) e di quelli LIS_L1 (61%).
172
ELISA PELLEGRINO - ANNA DE MEO - VALERIA CARUSO
Figura 3 - Ordine delle parole
Incrociando i dati relativi all’accordo e all’animatezza, il primo si aggiudica la competizione nei tre ordini di parole considerati sia per gli udenti, sia per i sordi medi
ITA_L1(figg. 4-6).
Figura 4 - Accordo e animatezza nelle sequenze NVN
Figura 5 - Accordo e animatezza nelle sequenze NNV
CHI COMPIE L’AZIONE? L’APPLICAZIONE DEL COMPETITION MODEL
173
Figura 6 - Accordo e animatezza nelle sequenze VNN
Quando il verbo si accorda con il primo nome e questo è inanimato (ACC 1, IA),
il primo elemento viene selezionato come agente nel 100% dei casi nelle sequenze
NVN e nell’80% in quelle NNV e VNN. Nelle frasi in cui l’accordo è sul secondo
nome e il secondo nome è inanimato (ACC 2, AI), la percentuale di risposte “primo
elemento” è sempre nulla per i sordi medi. Per gli udenti è pari a zero nelle condizioni di NVN, raggiunge l’8% nelle sequenze VNN e sale al 17% in quelle NNV. Nelle
condizioni di accordo ambiguo (ACC 0) e opposizione di animatezza (AI e IA), gli
udenti e i sordi medi ITA_L1 individuano l’agente nell’elemento animato. Nelle
condizioni di accordo e animatezza ambigui (ACC 0, II e AA):
– le sequenze NVN vengono interpretate come SVO sia dagli udenti sia dai sordi
medi ITA_L1;
– le sequenze VNN vengono intese come VSO dai sordi medi ITA_L1 e come
esemplificative di un processo di topicalizzazione (VOS) da parte degli udenti
ITA_L1;
– le sequenze NNV vengono intese come SOV dai sordi medi ITA_L1. Nessuna
strategia specifica è riconoscibile negli udenti.
Le risposte fornite dai sordi profondi ITA_L1 e da quelli LIS_L1 suggeriscono il
ricorso a strategie di elaborazione completamente diverse. L’indizio che sembra guidare la decodifica dell’agente è quello dell’ordine delle parole. Nella maggior parte
delle condizioni di animatezza ed accordo considerate, il primo elemento viene scelto in percentuale pari o superiore al 60%. Vale la pena accennare alla tendenza dei
sordi profondi LIS_L1 a selezionare l’elemento animato come agente negli item che
mostrano la quarta condizione di animatezza (IA). Nelle sequenze VNN, l’agente
corrisponde all’essere animato nel 60% dei casi quando il verbo si accorda col primo
elemento, nel 67% quando l’accordo è ambiguo e nel 75% quando accordo e animatezza collaborano.
3.2 Test segnato
I dati relativi al test in LIS mostrano un’inversione di tendenza rispetto al test sull’italiano scritto per quanto riguarda la forza attribuita ai singoli indizi. L’accordo
174
ELISA PELLEGRINO - ANNA DE MEO - VALERIA CARUSO
rappresenta una strategia vincente ai fini della corretta interpretazione delle frasi,
tanto per il gruppo dei sordi profondi ITA_L1 quanto per i sordi LIS_L1 (fig. 7).
Figura 7 - Accordo
Tale indizio viene reso in LIS, per i verbi della II classe prodotti nello spazio neutro
con due punti di articolazione, attraverso il parametro formazionale dello spazio,
la direzionalità e l’orientamento del movimento (Volterra, 2004). L’elemento dal
quale si origina il movimento del segno rappresenta chi compie l’azione e questo
viene indicato come agente in media nel 68% dei casi dai sordi profondi ITA_L1
(ACC 1 = 66%; ACC 2 = 70%) e nel 66% degli item dai sordi LIS_L1 (ACC 1 =
62%; ACC 2 = 70%). L’accordo, che nel test scritto aveva guidato in maniera sicura
i sordi medi ITA_L1, non è altrettanto dirimente nell’individuazione dell’agente
nelle frasi segnate, trattandosi probabilmente di una regola non ancora del tutto
interiorizzata dai soggetti con bilinguismo sbilanciato a scapito della LIS. Nei casi di
ACC 1, il primo elemento viene selezionato come agente nell’88% dei casi; casuale,
invece, è la scelta dell’agente nelle condizioni di ACC 2 (56% di risposte “secondo
elemento”).
Analizzando i dati relativi all’animatezza (fig. 8), si nota che essa cede all’ordine
delle parole per i sordi medi ITA_L1.
CHI COMPIE L’AZIONE? L’APPLICAZIONE DEL COMPETITION MODEL
175
Figura 8 - Animatezza
Nelle quattro condizioni previste (II, AA, AI e IA), il primo elemento viene giudicato come agente in media nel 68% dei casi. Meno certe le scelte effettuate dai sordi
profondi ITA_L1 e da quelli del gruppo LIS_L1. Negli item II, AA e AI le risposte
non si discostano molto dal livello della casualità. Solo nelle frasi in cui l’elemento
inanimato precede quello animato (IA), l’agente viene tendenzialmente abbinato al
secondo elemento (sordi profondi ITA_L1 = 77%; sordi profondi LIS_L1 = 65%).
Incrociando i dati relativi all’animatezza con quelli relativi all’accordo (fig. 9) si
manifesta ancora più palesemente il ricorso alla strategia dell’ordine delle parole da
parte dei sordi medi ITA_L1.
Figura 9 - Accordo e animatezza
176
ELISA PELLEGRINO - ANNA DE MEO - VALERIA CARUSO
Nei casi di ACC 1, il primo elemento viene selezionato in media nell’80% dei casi;
nelle condizioni di ACC 2, le risposte rientrano nella soglia della casualità. L’unica
eccezione è rappresentata dalle sequenze AI, in cui il secondo elemento, seppur inanimato, viene scelto come agente nell’80% circa dei casi.
L’accordo sembra essere più dirimente dell’animatezza e dell’ordine delle parole
per i sordi profondi LIS_L1, ma soprattutto per quelli ITA_L1. Nelle condizioni
di ACC 2, quest’ultimo gruppo, infatti, sceglie come agente il secondo elemento
nel 75% (AA), 69% (AI) e 100% (IA) dei casi. Nella stessa direzione vanno le risposte del gruppo dei sordi profondi LIS_L1, anche se con punte meno accentuate.
L’elemento da cui parte il segno viene indicato come agente nel 92% (AA), 62%
(AI) e 67% (IA) dei casi.
4. Conclusioni
I risultati dello studio hanno evidenziato l’influenza esercitata dal canale comunicativo, dalla lingua materna e dalla quantità di esposizione alla LIS nella messa in atto
delle strategie di elaborazione e comprensione linguistica fin qui discusse.
I dati derivanti dal test scritto, infatti, dimostrano che i sordi medi ITA_L1, provenienti da famiglie di udenti, con scarsa competenza in LIS e poco integrati nella
comunità sorda campana, si avvalgono degli stessi indizi utilizzati dagli udenti per
l’identificazione dell’agente. Per entrambi i gruppi è infatti possibile ipotizzare la
seguente scala di rilevanza degli indizi: accordo>animatezza>ordine delle parole.
Le risposte fornite dai sordi profondi ITA_L1, al contrario, evidenziano come
tali soggetti risentano dell’influenza della LIS più che di quella dell’italiano nell’esecuzione del test scritto e segnato. Nella determinazione dell’agente essi, infatti,
adottano strategie di elaborazione linguistica comparabili a quelle dei sordi profondi LIS_L1. Nel test scritto scelgono tendenzialmente come agente il primo elemento della sequenza; nel test segnato, invece, si avvalgono dell’accordo per determinare chi compie l’azione.
A riprova dell’influenza esercitata dalla familiarità con la LIS nell’orientare le
scelte dei sordi profondi ITA_L1, i sordi medi ITA_L1 con scarsa competenza della
Lingua dei Segni Italiana e poco integrati all’interno delle comunità sorda si avvalgono dell’ordine delle parole e non dell’accordo nella scelta dell’agente. Quest’ultimo
tende a coincidere con il primo elemento della sequenza frastica, come era avvenuto
per i sordi profondi ITA_L1 e LIS_L1 nel test in italiano scritto.
Alla luce di tali considerazioni si può quindi ipotizzare che, per i sordi, nel caso
dell’acquisizione dell’italiano e della LIS come lingue seconde, la posizione iniziale
nella frase rappresenti l’indizio di default per il riconoscimento dell’agentività sia
nell’italiano vocale sia nella LIS. Tale parametro sembra essere selezionato automaticamente dall’apprendente finché l’input ricevuto e il livello di competenza della
L2 non siano sufficienti a cambiarne la forza.
CHI COMPIE L’AZIONE? L’APPLICAZIONE DEL COMPETITION MODEL
177
Ringraziamenti
Per la realizzazione dello studio si ringrazia il dott. Giuseppe Amorini, presidente
dell’Ente Nazionale Sordi di Napoli, e l’interprete LIS Maria Rosaria Mignano per
aver collaborato all’ideazione e alla creazione del corpus segnato.
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IRENE CALOI1
La competenza sintattica in parlanti con deficit
cognitivo. Il caso della demenza di Alzheimer
Abstract: This paper presents data from a sentence-to-picture matching task run on a group
of elderly speakers affected by Alzheimer’s Disease in order to verify their proficiency on
the comprehension of relative clauses. The subjects’ lower accuracy with respect to healthy
controls reveals the presence of a syntactic deficit, whose severity increases along with the
worsening of the disease. The subjects are then divided into three subgroups according to
their level of dementia and to their performance, thus contributing to the description of
how linguistic disruption takes place in Alzheimer’s Disease.
1. Introduzione
Il presente contributo vuole indagare la presenza di deficit sintattico in parlanti caratterizzati da un sistema cognitivo compromesso; in particolar modo l’attenzione
sarà rivolta a soggetti affetti da demenza di Alzheimer, le cui abilità sintattiche non
hanno ancora trovato a oggi una adeguata descrizione.
Obiettivo dello studio è quello di rispondere alle seguenti domande:
1. Esiste nella demenza di Alzheimer una forma di deficit sintattico?
2. Quando e come si manifesta l’eventuale deficit sintattico nel corso del declino
cognitivo dei pazienti?
La necessità ed attualità di queste domande verranno messe in luce nel contributo, mentre dati sperimentali raccolti attraverso test su parlanti italiani affetti da
Alzheimer ci permetteranno di avanzare una prima risposta a questi quesiti.
Il contributo è organizzato come descritto di seguito. Il paragrafo 2 introduce
alle principali caratteristiche della demenza di Alzheimer dal punto di vista del decadimento cognitivo; alcune brevi informazioni sul deficit linguistico ci aiuteranno
a completare il profilo dei parlanti in oggetto.
Una rassegna dei lavori che abbiano precedentemente affrontato la questione
del deficit sintattico nell’Alzheimer viene quindi proposta nel paragrafo 3, per sottolineare come la questione sia di grande attualità a causa della povertà di studi a
nostra disposizione. La mancanza di un inquadramento teorico e linguistico preciso
e di uniformità tra le tecniche investigative adottate in precedenza rende ancora più
difficile ricostruire il quadro delle conoscenze ad oggi disponibili in letteratura.
1
Goethe-Universität Frankfurt am Main.
180
IRENE CALOI
L’analisi della competenza sintattica di uno specifico profilo di parlanti è in ogni
caso una questione complessa e per ragioni di spazio mi dovrò limitare a prenderne
qui in considerazione un unico aspetto; la computazione di frasi relative sembra
particolarmente adatta al raggiungimento di tale scopo: si tratta, infatti, di un costrutto sintattico che ha ricevuto (e che riceve) una particolare attenzione per la
sua complessità strutturale intrinseca, abbinata anche a una considerevole presenza
nelle lingue naturali. Il paragrafo 4 ci aiuterà quindi ad illustrare il fenomeno linguistico indagato.
Il paragrafo 5 costituisce il corpo centrale del presente contributo ed è dedicato
alla presentazione del materiale sperimentale in uso e del profilo di parlanti esaminati, nonché ad una prima presentazione e analisi dei dati raccolti attraverso un test
di comprensione di frasi relative. I dati saranno poi discussi all’interno del paragrafo
6. In conclusione, nel paragrafo 7, saranno formulate le risposte ai quesiti iniziali.
2. La Demenza di Alzheimer
La Demenza di Alzheimer è una forma di demenza senile, determinata da un processo neurodegenerativo: componenti del sistema nervoso centrale sono progressivamente danneggiate a causa di una eccessiva concentrazione di sostanze che interferiscono con il normale funzionamento dei tessuti e ne causano l’atrofia. Nella
maggior parte dei pazienti, il focolaio in cui iniziano a prodursi e diffondersi anomalie funzionali è il sistema limbico. Dopo un lasso di tempo la cui durata è altamente variabile tra i pazienti, le lesioni raggiungono la neo-corteccia cerebrale e
in particolare la porzione corrispondente ai lobi temporale prima e parietale poi
(Cambier et al., 2009: 255-256).
Nel complesso quadro di sintomi associati alla demenza di Alzheimer, un posto
di rilevanza va assegnato all’amnesia: le diverse componenti del sistema mnemonico
sono infatti, pur con tempistiche diverse, tutte gravemente intaccate e depotenziate.
La vita quotidiana del paziente è poi fortemente compromessa da disturbi comportamentali e neuropsicologici, che ne alterano visibilmente la condotta e i costumi.
Il generale deficit cognitivo si manifesta inoltre sottoforma di agnosia e aprassia.
Per quanto riguarda il deficit linguistico, oggetto di interesse primario nel presente contributo, questo si manifesta nella demenza di Alzheimer come una forma
di afasia fluente, nella quale non sono generalmente riscontrate significative alterazioni della capacità di articolazione. Viene invece riscontrata una grave forma di
anomia, che porta il soggetto a diminuire progressivamente, ma drasticamente, la
propria competenza lessicale. I primi episodi di anomia si manifestano solitamente
come difficoltà a ricordare il nome di persone familiari; a ciò si aggiungono presto
episodi legati al recupero di lessemi a bassa frequenza e dal denso contenuto semantico. Infine, anche il lessico di alta frequenza e uso quotidiano arriva a essere interessato dal fenomeno e l’anomia a questo punto interferisce con la capacità di partecipare con successo allo scambio comunicativo, poiché, semplicemente, il soggetto
non ha più le parole per farlo. Il fenomeno ha catalizzato l’attenzione degli studiosi,
LA COMPETENZA SINTATTICA IN PARLANTI CON DEFICIT COGNITIVO
181
stimolati dal desiderio di comprendere la natura di questa forma di anomia e capire
se sia dovuta a un problema di accesso al lessico o di perdita completa di porzioni di
questo. Nella varietà di lavori disponibili, vale la pena ricordare l’influente contributo di Chertkow e Bub (1990), i quali arrivarono a dimostrare come il deficit sia
caratterizzato da un’effettiva perdita del lessico (e non da un problema di accesso),
a sua volta determinata da una diminuzione delle conoscenze semantiche. La scomparsa di un lessema sarebbe infatti il risultato finale di una progressiva riduzione
delle conoscenze legate al suo referente.
Le difficoltà riscontrate a livello lessicale si riflettono anche nella morfologia verbale non regolare. I verbi caratterizzati da una coniugazione irregolare, soprattutto
se di bassa frequenza, subiscono in molti casi un processo di regolarizzazione da parte del parlante affetto da Alzheimer (Colombo et al., 2009; Walenski et al., 2009).
L’osservazione offre pertanto lo spunto per sottolineare come le abilità morfologiche del soggetto rimangano inalterate nel loro aspetto regolare. A livello procedurale
(Pinker, 1999; Ullman, 2001) il sistema cognitivo del soggetto non subisce infatti il
grave deterioramento subito dalle componenti dichiarative, come sottolineato dalla
dissociazione tra morfologia verbale regolare e irregolare nei pazienti.
Ragioni di spazio non ci permettono di entrare in maggiori dettagli e quanto
qui presentato è in verità solo un modesto tentativo di riassumere l’esito di un lungo e proficuo dibattito in merito a natura e forma della grave anomia riscontrata.
Quanto affermato invece sul versante procedurale e morfologico emerge come risultato consistente attraverso un esiguo, ma per l’appunto molto coerente nei risultati,
gruppo di studi realizzati con parlanti di lingue diverse.
Nel prossimo paragrafo procederò invece ad una analisi dei materiali a disposizione in merito alle competenze sintattiche nella demenza di Alzheimer.
3. Il deficit sintattico nella Demenza di Alzheimer
Vorrei iniziare questa breve rassegna dal contributo di Lyons e colleghi (1994), i
quali hanno messo in evidenza una complessiva riduzione della complessità strutturale e frasale nell’eloquio spontaneo di soggetti affetti da Alzheimer. Simili osservazioni erano emerse precedentemente anche dal lavoro di Kemper e colleghi (1993),
basato sull’analisi di testi scritti prodotti da adulti sottoposti a esami di screening per
la demenza; anche in questo caso gli autori rilevavano una riduzione nella lunghezza
complessiva della frase e nella varietà di strutture morfosintattiche in uso in individui affetti da demenza di Alzheimer, con una particolare diminuzione dell’impiego
di strutture secondarie e incassate, a favore invece di frasi principali.
I lavori appena citati sembrano indicare pertanto la presenza di una compromissione sintattica, senza però arrivare ad approfondire la natura e i meccanismi di
tale deficit. Allo scopo di esaminare puntualmente strutture sintattiche, Waters et
al. (1998) somministrano ai propri pazienti un test di sentence-to-picture matching
nel quale tre diversi fattori di complessità sintattica sono manipolati: si tratta del
numero di argomenti nella frase, della canonicità o meno nell’assegnazione dei ruoli
182
IRENE CALOI
tematici e del numero complessivo di predicati nella frase. Il risultato di tale manipolazione sottopone quindi alla comprensione dei soggetti una varietà di frasi tra
cui ritroviamo ad esempio frasi attive, attive con voce passiva, strutture passive troncate, relative e frasi in coordinazione. Secondo gli autori, il numero di predicati nella
frase emerge nei risultati come principale fattore di successo per la comprensione,
sulla base del fatto che per i pazienti Alzheimer una struttura principale seguita da
una relativa sarebbe più complessa da comprendere di una sola frase attiva.
Un impianto sperimentale simile è adottato anche in Small et al. (2000), con la
differenza che il task richiesto è la ripetizioni di frasi e i fattori di complessità sintattica in uso sono, oltre al numero di predicati nella frase e alla canonicità di assegnazione dei ruoli tematici, attraverso la cui manipolazione sono ottenute frasi principali e frasi relative sul soggetto e sull’oggetto, anche la direzione di branching delle
frasi relative, con la distinzione tra relative con testa sul soggetto della principale
(left-branching) e relative con testa sull’oggetto (right-branching). In questo caso gli
autori individuano una aumentata difficoltà di ripetizioni nelle frasi caratterizzate
da un’assegnazione non canonica dei ruoli, vale a dire delle frasi relative oggetto
rispetto alle soggetto, e da una posizione strutturale incassata (left-branching) delle
relative.
Nel complesso, i dati raccolti nei due lavori qui citati (Waters et al., 1998, e Small
et al., 2000) sembrano indicare nell’uso in ambito sperimentale di frasi relative una
via percorribile per la rilevazione di un eventuale deficit a livello sintattico. Ciò che
manca però in questi lavori è un impianto teorico solido per l’analisi del fenomeno
linguistico considerato, che permetta di fare ipotesi più precise e analisi approfondite, che possano beneficiare anche del confronto con lavori condotti parallelamente
su altre popolazioni.
Nel prossimo paragrafo provvederò pertanto a riformulare nel poco spazio a disposizione alcune informazioni in merito alle strutture relative secondo il quadro
teorico adottato, che saranno utili ai fini della comprensione del disegno sperimentale realizzato.
4. Le frasi relative
Le proposizioni relative sono strutture sintattiche complesse, che svolgono la funzione di modificatori di un sintagma nominale. Sono implementate attraverso un’operazione di astrazione che, a partire dalla posizione del sintagma interno alla relativa (il relativization site), collega questo al costituente da modificare nella principale
(la relative head, testa della relativa). Il sintagma testa della relativa che pronunciamo svolge quindi un doppio ruolo all’interno della struttura: è un costituente della
frase principale che contemporaneamente soddisfa anche i tratti di selezione del
verbo interno alla proposizione relativa (Bianchi, 2002). I due NP coinvolti, quello
interno alla frase matrice e quello interno alla proposizione relativa, sono quindi
necessariamente vincolati da un rapporto di coreferenza.
LA COMPETENZA SINTATTICA IN PARLANTI CON DEFICIT COGNITIVO
183
Oggetto del presente studio sono le relative sul soggetto e le relative sull’oggetto.
Queste si differenziano in base alla posizione dalla quale è realizzato il movimento
di estrazione: nelle relative sul soggetto (SR) il movimento ha origine dalla posizione del soggetto della frase relativa; mentre nelle relative sull’oggetto (OR) il movimento prende avvio dalla posizione interna al VP della relativa. Il punto da cui gli
elementi sono mossi corrisponde alla posizione in cui questi vengono effettivamente
interpretati (ma non pronunciati) nella computazione della proposizione relativa.
Vediamo due esempi:
(1) SR: La bambina che ______ abbraccia la mamma
(2) OR: La bambina che la mamma abbraccia _____
In letteratura è possibile trovare frequentemente riferimenti alle due strutture in
termini di asimmetria: SR e OR sembrano infatti essere caratterizzate da tratti strutturali e da una difficoltà di processing non del tutto equivalenti, come emerge dalla
raccolta e dall’analisi di dati sperimentali. Le relative sul soggetto sono prodotte e
comprese con maggiore accuratezza e con un certo vantaggio temporale dai bambini nel corso dell’acquisizione della L1: in un task di produzione elicitata Belletti
e Contemori (2010) provano come i bambini con madrelingua italiana siano in
grado di produrre restrittive sul soggetto già all’età di 3 anni (il 79% delle loro produzioni corrisponde alla struttura target attesa) e mostrino a partire dal quarto anno
di vita una competenza ben consolidata, che addirittura supera il 90% di accuratezza nelle relative sul soggetto elicitate. Le relative oggetto, invece, sono prodotte
nella forma target con percentuali nettamente inferiori (intorno al 36% e al 42%
nei bambini rispettivamente di 3 e 4 anni) ed evitate non appena il ricorso ad altre
strutture sintattiche lo permetta, ad esempio preferendo una struttura passiva che
permette in ultima analisi di estrarre il sintagma da una posizione soggetto anziché
oggetto. L’uso ampiamente diffuso di questa strategia conferma quanto riscontrato
anche nelle produzioni di giovani adulti di lingua italiana, i quali, in test di elicitazione, preferiscono la produzione di relative oggetto con struttura passiva (POR
nell’esempio 3) alla produzione di OR2 (Belletti, 2009; Belletti - Contemori, 2010):
(3) POR: La bambina che è abbracciata dalla mamma.
Le osservazioni sull’italiano confermano ulteriormente i dati sulla lettura da parte
di soggetti adulti di frasi relative sul soggetto e sull’oggetto, dati raccolti attraverso
l’utilizzo della strumentazione di eye-tracking, che hanno evidenziato una maggiore
difficoltà di processing delle relative sull’oggetto (Traxler et al., 2002).
La comprovata asimmetria ha stimolato molti e diversi tentativi di spiegazione,
ma gli sforzi si sono concentrati negli ultimi anni intorno ad una proposta che si rifà
I dati riportati da Belletti - Contemori (2010) parlano di una produzione di POR nell’88% dei casi,
a fronte di un 10.8% di OR sul totale di relative oggetto elicitate in sede sperimentale da 28 parlanti
adulti.
2
184
IRENE CALOI
al concetto di località e al principio della Relatività minimalizzata (Rizzi, 1990).
Vediamo come: se riprendiamo i due esempi in (1) e (2) e li riformuliamo con particolare attenzione ai tratti morfosintattici e discorsivi che caratterizzano i costituenti
interessati, nonché al tipo e all’ampiezza di movimento richiesto ai fini dell’estrazione del sintagma da relativizzare, otteniamo il seguente risultato3:
Nel secondo caso, in (5), l’estrazione del sintagma dalla sua posizione oggetto verso
la posizione finale di testa della relativa è problematica secondo Friedmann et al.
(2009), in quanto richiede un movimento attraverso il sintagma soggetto della frase
relativa, ragione per la quale si innescherebbe un potenziale pericolo di intervento.
In altre parole, il movimento dell’oggetto non rispetterebbe il principio di località,
data la presenza di un sintagma nominale (il soggetto) interposto tra la posizione
originale di estrazione dell’oggetto e la posizione target. Al contrario, la struttura
rappresentata in (4) per la formazione di una relativa sul soggetto non comporterebbe nessuna delle difficoltà illustrate, in quanto il soggetto estratto può raggiungere
direttamente la posizione target di testa della relativa senza attraversare altri elementi di pari natura.
L’ipotesi avanzata nel lavoro citato ha poi trovato ampio consenso nella comunità scientifica, all’interno della quale stiamo assistendo ad una considerevole
produzione di lavori volti ad indagare nei suoi molteplici aspetti le implicazioni
e manifestazioni linguistiche correlate al principio della Relatività minimalizzata
contestualmente alle frasi relative. Sono stati in particolar modo valutati e isolati fattori ritenuti responsabili di una riduzione dell’asimmetria tra soggetto e oggetto, come appunto il citato utilizzo di una struttura passiva nelle relative oggetto
(Belletti - Rizzi, 2013) e l’impiego di pronomi clitici oggetto di ripresa all’interno
di OR, opzione, quest’ultima, che ha dato per la verità risultati non omogenei attraverso i diversi test4. Ciò che invece sembra essere particolarmente rilevante ai fini
della computazione è la distribuzione di tratti discorsivi e morfosintattici attraverso
Sulla base di quanto esemplificato per la prima volta in Friedmann et al. (2009).
La presenza di pronomi clitici di ripresa all’interno di OR sembra emergere spontaneamente nelle
produzioni di bambini con L1 italiano durante la fase di acquisizione in una misura che generalmente
supera la ripresa attraverso la ripetizione dell’intero DP. L’uso però di tale pronome clitico di ripresa
in test di comprensione non ha dato risultati altrettanto netti. Il pronome di ripresa, opzione che ricordiamo non essere grammaticale per adulti con L1 italiano, emerge quindi nell’acquisizione in L1 in
produzione, ma non facilita la produzione (Contemori - Belletti, 2013).
3
4
LA COMPETENZA SINTATTICA IN PARLANTI CON DEFICIT COGNITIVO
185
le posizioni interessate: quanto più il sintagma estratto e la sua rispettiva posizione
target sono definiti e distinti in termini di tratti rispetto all’argomento esterno, tanto più il rischio di intervento sarà ridotto, con maggiori probabilità per il parlante
di completare con successo la computazione. Tra i tratti che possono essere determinanti ricordiamo in particolare un mismatch in numero (Adani et al., 2010) ed
in genere (Belletti et al., 2012) tra i costituenti interessati, nonché la natura del costituente e la presenza o meno di una restrizione lessicale (Friedmann et al., 2009).
Tali fattori di riduzione dell’asimmetria tra tipi di relative sono ripresi anche
nel presente lavoro, nell’elaborazione di un test volto alla verifica delle abilità di
comprensione in soggetti affetti da demenza; il seguente paragrafo ne illustrerà le
principali caratteristiche.
5. Dati sperimentali sula comprensione di frasi relative in soggetti
affetti da Alzheimer
Precedenti lavori (Small et al., 2000; Waters et al., 1998) hanno già sondato l’ipotesi
che la computazione di frasi relative possa costituire un anello debole nell’insieme
delle abilità linguistiche di soggetti affetti da Alzheimer.
Per rispondere alle due domande alle quali il presente studio si propone di fornire una risposta (1. Esiste nella demenza di Alzheimer una forma di deficit sintattico?
2. Quando e come si manifesta l’eventuale deficit sintattico nel corso del declino
cognitivo dei soggetti?) mi limiterò in questa sede a prendere in esame solamente
il livello di accuratezza complessivo raggiunto dai parlanti nella comprensione dei
diversi tipi di frasi, senza entrare nel dettaglio delle diverse condizioni sperimentali
e dei risultati raggiunti in ciascuna di queste e rinviando il lettore interessato ad una
analisi più dettagliata ad altra pubblicazione (Caloi, in preparazione).
5.1 Materiale
I soggetti inseriti nello studio sono stati sottoposti ad un test di comprensione di
frasi composto da un totale di 48 item, equamente distribuiti attraverso sei diverse
condizioni sperimentali, per un totale di 8 frasi per ciascuna condizione. La scelta
delle condizioni sperimentali è stata determinata dai risultati presentati e dai quesiti
aperti in lavori precedenti sul tema (cfr. § 4). Un approfondimento delle motivazioni, dei quesiti e dei dati inerenti a ciascuna condizione non è qui realizzabile per
ragioni di spazio e pertanto mi limiterò ad una esemplificazione delle sei condizioni
sperimentali adottate:
1. SVO: frase con ordine non marcato degli elementi. Soggetto e Oggetto sono
due sintagmi nominali (DP) lessicalmente pieni. Es.: La nonna bacia la bambina;
2. SR: frase relativa sul soggetto. Es.: Mostrami la nonna che bacia la bambina;
3. OR: frase relativa sull’oggetto. Es.: Mostrami la nonna che la bambina bacia;
4. POR: frase relativa sul soggetto con voce passiva. Es.: Mostrami la nonna che è
baciata dalla bambina;
186
IRENE CALOI
5. ORdem: frase relativa sull’oggetto. Il pronome dimostrativo quello ricopre il
ruolo di testa della relativa. Es.: Mostrami quella che la nonna bacia;
6. ORclitic: frase relativa sull’oggetto con pronome atono di ripresa. Es.: Mostrami
la nonna che la bambina la bacia.
Il tipo di task adottato è un sentence-to-picture matching task, un test di comprensione incentrato su un doppio input, visivo e uditivo: il partecipante ascolta una frase
e deve scegliere tra due immagini quella che rappresenta il significato della frase
ascoltata. Le coppie di immagini sono costruite in modo da raffigurare gli stessi
personaggi impegnati nella stessa azione ma con ruoli inversi (fig. 1). Oltre all’immagine corretta, viene proposto quindi un foil di tipo sintattico, che corrisponde ad
una comprensione della frase in cui i ruoli tematici di agente e paziente siano stati
inversamente assegnati.
Figura 1 - Un esempio delle immagini utilizzate nel task
Fonte: Friedmann - Novrogrodsky, 2002
Il materiale grafico in uso è tratto da Friedmann - Novrogrodsky (2002); un breve
esercizio preliminare ha inoltre permesso di sincerarsi che tutti i soggetti ammessi al
LA COMPETENZA SINTATTICA IN PARLANTI CON DEFICIT COGNITIVO
187
test fossero in grado di riconoscere le figure visualizzate e di utilizzarne i corrispettivi
lessemi, in modo tale da evitare che le osservazioni sul comportamento sintattico dei
parlanti fossero turbate da eventuali deficit lessicali.
Le due immagini sono proposte in stampa a colori su un foglio di dimensioni A4
ad orientamento verticale (una immagine sotto l’altra); l’ordine di presentazione dei
due elementi (porzione superiore o inferiore del foglio) rimane invariato attraverso i
quattro trials in cui questi vengono utilizzati. A cambiare è invece la posizione dell’immagine corrispondente alla risposta corretta: la risposta target corrisponde nel 50% dei
casi all’immagine superiore e nel rimanente 50% all’immagine inferiore.
Le frasi sperimentali sono sempre proposte oralmente dallo sperimentatore. Su richiesta del soggetto lo stimolo può essere ripetuto più volte, ma solamente le risposte
fornite entro la seconda esecuzione di ciascuna frase sono registrate al fine dell’elaborazione dei dati; le scelte indicate dopo la seconda ripetizione o oltre sono automaticamente registrate come erronee, indipendentemente dalla loro compatibilità o meno
con l’immagine target. Le eventuali richieste di ripetizione della frase sono sempre accolte, al fine di evitare un senso di frustrazione nel paziente.
5.2 Partecipanti
Lo studio ha coinvolto un gruppo sperimentale composto da 30 parlanti nativi di italiano con una demenza di Alzheimer diagnosticata da almeno sei mesi. I soggetti sono
stati tutti contattati attraverso l’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico
Fatebenefratelli di Brescia, centro di ricerca votato alle demenze di natura senile, con
una particolare specializzazione nella demenza di Alzheimer.
Al gruppo sperimentale si è aggiunto poi un gruppo di controllo formato da 7 parlanti nativi di italiano con caratteristiche simili a quelle dei soggetti affetti da Alzheimer
per quanto riguarda età e livello di istruzione, ma con un quadro delle facoltà cognitive
complessivamente intatto e compatibile con un processo di naturale invecchiamento,
non alterato da particolari complicazioni mediche.
Il livello di gravità della malattia è stato misurato nei soggetti attraverso la somministrazione da parte del personale medico della struttura del Mini Mental State
Examination Test (MMSE, Folstein et al., 1975). Il test si compone di 30 item e misura
lo stato cognitivo della persona attraverso la verifica di diverse abilità, tra cui l’orientamento temporale e spaziale, l’aritmetica (intesa come capacità di portare a termine
semplici operazioni), la prassia e il linguaggio. I risultati del test possono variare da un
minimo di zero (non somministrabile) ad un massimo di 30 punti; in questa scala, punteggi superiori corrispondono ad uno stato cognitivo maggiormente preservato, mentre punteggi inferiori indicano un progressivo aggravarsi della malattia.
La tabella 1 riporta i dati inerenti all’età e al livello di scolarizzazione dei due gruppi,
soggetti affetti da Alzheimer (PAD) nella prima colonna e gruppo di controllo (CO)
nella seconda; la stessa, riporta anche i punteggi medi raccolti attraverso il MMSE.
188
IRENE CALOI
Tabella 1 - Pazienti (PAD) e gruppo di controllo (CO) a confronto per età,
livello di istruzione e punteggio MMSE
I due gruppi sono caratterizzati da valori equivalenti per quanto riguarda l’età media
e quasi equivalenti per il livello di istruzione5, con il gruppo di controllo che si distingue per un valore medio leggermente inferiore in questo secondo parametro. Per
quanto riguarda il punteggio MMSE, i partecipanti inclusi nel gruppo di controllo hanno tutti dimostrato la propria integrità cognitiva raggiungendo il punteggio
massimo. Il gruppo di pazienti Alzheimer mostra invece, come atteso, un grado di
variabilità superiore nel numero di risposte corrette fornite. La distribuzione dei
punteggi MMSE varia infatti da un minimo di 12 ad un massimo di 27, come avremo modo di vedere nel dettaglio nel corso di una prima presentazione dei risultati.
Soggetti con un MMSE inferiore a 12 non sono stati inseriti nella ricerca, in
quanto la persona con valori al di sotto di tale punteggio non è generalmente in
grado di comprendere task anche piuttosto semplici e di mantenere l’attenzione
durante il periodo di tempo necessario a portarli a termine.
5.3 Risultati
Come anticipato, in questo contributo sarà presa in esame solamente la performance complessiva di ciascun soggetto, senza entrare nel merito delle singole condizioni sperimentali
e di eventuali asimmetrie tra queste.
Per quanto riguarda il gruppo di controllo, i 7 partecipanti hanno tutti dimostrato una
elevata accuratezza nel comprendere le frasi proposte e il numero di errori commessi non
ha superato in alcun caso le tre unità sul totale di 48 frasi proposte. È possibile pertanto
concludere che il test è adeguato alle competenze di parlanti anziani con un basso livello
di istruzione e quindi somministrabile anche a soggetti affetti da demenza. Inoltre, vista
la complessiva assenza di particolari problematiche nei risultati del gruppo di controllo, i
relativi dati non saranno ulteriormente trattati, per lasciare spazio invece alla valutazione
del comportamento del gruppo sperimentale.
Seguendo le linee guida per la registrazione dei risultati illustrate nel precedente paragrafo, è stato determinato innanzitutto il numero di risposte corrette fornite da ciascun
soggetto sul totale di 48 frasi sperimentali proposte. La figura 2 mette in correlazione tale
dato con il punteggio raggiunto nel test MMSE. Ciascun punto rappresenta quindi un
singolo soggetto e la sua collocazione all’interno del grafico è determinata dai risultati
raggiunti nelle due prove.
Il livello di istruzione è valutato sulla base del numero di anni di istruzione formale completati in
giovane età.
5
LA COMPETENZA SINTATTICA IN PARLANTI CON DEFICIT COGNITIVO
189
Figura 2 - Risultati relativi al gruppo sperimentale (PAD)
La linea evidenziata nel grafico rappresenta il livello soglia minimo, fissato in corrispondenza di un numero di risposte corrette pari a 31, e dunque superiore al 60%,
in grado di assicurarci che il soggetto abbia ben compreso ed eseguito il test e non
abbia semplicemente risposto in maniera casuale alle domande, strategia con la quale potrebbe comunque raggiungere una performance definita at chance-level, corrispondente grossomodo a un 50% di risposte corrette.
Anche ad un primo sguardo appare evidente come ci sia una tendenza verso una
diminuzione della capacità di comprendere le frasi proposte in concomitanza con
un declino nel quadro cognitivo generale misurato attraverso il punteggio MMSE.
Una più attenta osservazione mostra anche che il gruppo sperimentale è suddivisibile in almeno tre sottogruppi, definiti in base ai risultati del MMSE, ai quali
corrispondono tre diversi profili di performance nel task di comprensione. Tale suddivisione in sottogruppi è proposta nella figura 3.
Figura 3 - Suddivisione dei soggetti in base a livello di accuratezza e punteggio MMSE
190
IRENE CALOI
6. Discussione
La figura 3 presentata nel precedente paragrafo ci permette di iniziare a formulare
alcune considerazioni sulle abilità di comprensione in soggetti affetti da demenza
di Alzheimer. Come già osservato, i soggetti si distinguono dal gruppo di controllo
per una minore accuratezza nell’esecuzione del task e per una tendenza ad un progressivo declino. Tale declino, almeno stando ai dati a nostra disposizione, non si
manifesterebbe però in una forma progressiva strettamente lineare, ma andrebbe
ad assumere piuttosto una conformazione che permette di individuare almeno tre
diversi profili di soggetti. Tali profili sono caratterizzati per un verso dal livello di
demenza complessivo, misurato attraverso il test MMSE, per l’altro dal loro livello
di accuratezza nella comprensione di frasi relative.
I soggetti con un livello di demenza lieve, e quindi con un punteggio MMSE
pari o superiore a 22, riescono a completare con successo questo tipo di compito,
fornendo un numero di risposte corrette che non lascia spazio a dubbi sulle loro capacità di comprensione del tipo di esecuzione richiesta prima e delle frasi proposte
poi. Faremo riferimento a questi soggetti con la dicitura di Gruppo 1 (PAD1 nella
figura).
All’altro estremo di questo pattern di declino troviamo invece i soggetti del
Gruppo 3 (PAD3 nella figura), i quali si contraddistinguono non solo per livelli
di demenza superiori, ma anche per una capacità di comprensione altamente compromessa. I soggetti con un punteggio MMSE inferiore a 18 non riescono infatti
a completare il task con un numero di risposte corrette sufficienti a segnalare e rimarcare una adeguata comprensione dell’esercizio e delle frasi in esso contenute. A
tale livello di demenza possiamo pertanto far corrispondere una capacità di computazione sintattica ormai gravemente compromessa, tanto da non permettere la
comprensione delle frasi proposte.
I dati più interessanti riguardano i soggetti con un punteggio MMSE compreso
tra 18 e 21 e pertanto con un livello di demenza di tipo moderato. Il loro comportamento rispetto al task proposto non è omogeneo, poiché i punteggi raggiunti si
distribuiscono con grande variabilità al di sopra e al di sotto della soglia delle 31
risposte corrette precedentemente fissata e illustrata.
La variabilità di performance riscontrata nel Gruppo 2, in particolare se confrontata con i profili più netti riscontrati nei Gruppi 1 e 3, fa pensare che questi soggetti
stiano attraversando una fase delicata per le proprie abilità linguistiche e sintattiche,
durante la quale si verificherebbe un decisivo cambiamento volto al declino della
capacità di comprensione. I soggetti transitano quindi da una situazione generalmente caratterizzata da buone capacità di comprensione e manipolazione di fattori
sintattici a una incapacità di computazione di questi ultimi e ciò avviene in una
fase ben precisa del loro declino cognitivo corrispondente a un livello di demenza
intermedio, indicato secondo il test MMSE in un punteggio compreso tra 18 e 21.
Il declino delle abilità sintattiche non segue pertanto un percorso del tutto lineare e
graduato poiché queste abilità, in base ai dati raccolti, subiscono un crollo decisivo e
irreversibile in una fase che potremmo definire di demenza moderata.
LA COMPETENZA SINTATTICA IN PARLANTI CON DEFICIT COGNITIVO
191
7. Conclusioni
Le ragioni del presente lavoro muovevano dalla volontà di fare chiarezza in merito
al deficit sintattico all’interno della demenza di Alzheimer e di offrire un contributo
all’insieme di informazioni a nostra disposizione in materia. Abbiamo visto, infatti,
come il deficit linguistico nella demenza di Alzheimer sia stato affrontato per lo più
nei suoi aspetti semantico-lessicali e morfologici, meno in quelli sintattici.
In questo lavoro, ho voluto pertanto ripartire da due domande di base, nella speranza di gettare le basi per approfondimenti futuri. Rispetto alla prima domanda,
relativa all’esistenza di una forma di deficit sintattico all’interno della demenza di
Alzheimer, posso ora avanzare una prima risposta e affermare che i soggetti affetti
da Alzheimer soffrono anche di un disturbo di tipo sintattico, evidenziato in questo
caso da percentuali di accuratezza inferiori rispetto ai risultati raggiunti dai loro
coetanei sani nella comprensione di diversi tipi di frasi. Pertanto, i soggetti, non
solo tendono a semplificare le strutture sintattiche adottate in fase di produzione
(Kemper et al., 1993; Lyons et al., 1994), ma manifestano anche una difficoltà di
comprensione.
Rispetto alla seconda domanda, incentrata su un’eventuale correlazione tra livello di demenza e deficit sintattico, questione questa che, in base alle conoscenze
della scrivente, viene qui affrontata per la prima volta in letteratura, il test somministrato si è dimostrato sufficientemente sensibile da rilevare un progressivo declino delle competenze di computazione frasale in accordo con un declino generale
delle facoltà cognitive. Dai dati sono emersi almeno tre diversi profili di soggetti:
i soggetti nel Gruppo 1, caratterizzati da punteggi MMSE uguali o superiori a 23,
dimostrano tutti una buona padronanza delle abilità sintattiche e di computazione.
Al contrario, i soggetti nel Gruppo 3, il cui punteggio MMSE s’inserisce nella fascia
tra 12 e 18, non riescono a raggiungere un livello di accuratezza sufficiente e la loro
performance rimane chiaramente al di sotto del chance-level. Nella fascia intermedia,
i soggetti con un punteggio MMSE compreso tra 18 e 21, i quali si distribuiscono
alternativamente al di sopra e al di sotto del livello di sufficienza, rivelano come
questo possa essere precisamente il livello di demenza in corrispondenza del quale si
verificano i maggiori cambiamenti nella competenza sintattica, nel segno in particolare di un repentino declino di tali facoltà.
I dati fin qui analizzati ci restituiscono solamente l’immagine più superficiale del fenomeno e non ci permettono di approfondire la natura di questo deficit
sintattico, né di trarre conclusioni sulle strategie di parsing adottate dai soggetti
esaminati. Un’analisi più dettagliata dei risultati raggiunti nelle diverse condizioni
sperimentali permetterà di fornire una risposta anche a questi ulteriori quesiti e di
fare maggiore luce sulle abilità sintattiche nell’Alzheimer. Per ragioni di spazio, non
è possibile affrontare qui la questione e l’autrice è costretta a rimandare il lettore
interessato ad altra pubblicazione (Caloi, in preparazione).
192
IRENE CALOI
Ringraziamenti
L’autrice desidera ringraziare l’IRCCS Fatebenefratelli di Brescia per il supporto
fornito nel contatto con i pazienti e per la grande professionalità e umanità dimostrata da tutto il personale. Il presente lavoro ha inoltre beneficiato dei suggerimenti
e dei commenti della Prof. Poletto. Ogni imprecisione o errore è da attribuirsi invece all’autrice.
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PARTE III
LA GRAMMATICA IN CLASSE
GIORGIO GRAFFI1
Teorie linguistiche e insegnamento della grammatica
Abstract: The usefulness of grammatical teaching was seriously questioned during the 1970s,
but already twenty years later it was generally recognized that such teaching could not be
abandoned. However, the problem arises of what grammar to teach: traditional grammar is
certainly inadequate, but it can serve as a starting point, if properly integrated with the results achieved by modern linguistic theories. Here we present how such a program is carried
out in a series of recently published volumes. In particular, we examine the treatment of 1)
the parts of speech; 2) the notion of subject; 3) the various kinds of complements; 4) the
sentences showing a “marked” word-order; 5) the notion of conjunction. It is argued that
grammar can play an important educational role, as already acknowledged in the past, e.g.,
by the educational reforms undertaken in France at the revolutionary time.
1. Il dibattito sull’insegnamento della grammatica negli anni Settanta
Chi scrive non ha un cattivo ricordo degli anni Settanta del secolo scorso, forse perché la sua data di nascita lo pone nella stessa situazione della vecchia marchesa francese che, nell’epoca della Restaurazione, diceva che l’anno più bello della sua vita
era stato il 1793, e, alla sbigottita reazione della sua giovane dama di compagnia che
esclamava «Ma allora c’era il Terrore!», rispondeva pacifica: «È vero, però avevo
vent’anni». A parte comunque questo dettaglio personale, mi piace ricordare che
quella fu un’epoca di espansione della democrazia (ricordiamo, tra l’altro, la caduta
delle dittature in Grecia, Spagna, Portogallo) e di grande crescita delle forme di protezione sociale (in Italia, ci furono lo Statuto dei Lavoratori e la riforma sanitaria).
Certo, non si può dimenticare che, nel nostro paese, gli anni Settanta furono anche i
tristi “anni di piombo”; e che in molti casi il furore ideologico finì col trasformarsi in
quello che un giornalista conservatore definì, anni dopo, «carnevale ideologico».
Io non concordo affatto con le posizioni che in quest’ultima definizione si riconoscono: e trovo comunque preferibile il «carnevale ideologico» alla triste “crisi delle
ideologie” che caratterizza questo inizio di millennio; anzi, più che di crisi delle
ideologie si dovrebbe parlare del dominio di quella che potremmo chiamare “ideologia del mercato”, che si è surrettiziamente imposta anche grazie a tanti intellettuali e strumenti di comunicazione un tempo definiti “di sinistra”. Tuttavia, venendo
all’argomento di questa relazione, non si può negare che il furore ideologico abbia
prodotto qualche danno anche nel campo di cui vorrei occuparmi, ossia l’insegnamento della grammatica, che veniva ad essere considerato inutile e anzi, in certi casi,
1
Università di Verona.
198
GIORGIO GRAFFI
dannoso. Così infatti scriveva un documento che ebbe un’importanza epocale, ossia le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del GISCEL (“Gruppo per
l’Intervento e lo Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica”) apparse nel 1975
e subito destinate ad avere un largo impatto, in particolare tra gli insegnanti seriamente preoccupati della formazione dei propri allievi in funzione del riscatto e della
promozione sociale. La settima tesi, infatti, al punto Db sosteneva quanto segue:
Se anche le grammatiche tradizionali fossero strumenti perfetti di conoscenza scientifica, il loro studio servirebbe allo sviluppo delle capacità linguistiche effettive soltanto assai poco, cioè solo per quel tanto che, tra i caratteri del linguaggio verbale c’è
anche la capacità di parlare e riflettere su se stesso [...]; pensare che lo studio riflesso
di una regola grammaticale ne agevoli il rispetto effettivo è, più o meno, come pensare che chi meglio conosce l’anatomia delle gambe corre più svelto, chi sa meglio
l’ottica vede più lontano, ecc. (cit. da Colombo, 1979: 82).
Le tesi del GISCEL avevano uno scopo nobilissimo: stimolate anzitutto dal pensiero e dall’azione di Don Lorenzo Milani e della sua Scuola di Barbiana, esse erano
il portavoce di chi aspirava a fare della scuola italiana non la scuola che insegna a
chi già sa (com’era, in buona parte, fino ad allora), ma che vuole insegnare a chi
ha bisogno di sapere. In particolare, la loro attenzione si rivolgeva al primo veicolo
del sapere, cioè la lingua italiana, considerato che, ancora negli anni Settanta, molti
dei ragazzi che frequentavano la scuola dell’obbligo provenivano da famiglie esclusivamente dialettofone o quasi. A questo scopo, la grammatica certamente era di
ben scarso aiuto, e in particolar modo la cosiddetta “grammatica tradizionale”, che
era inoltre alquanto carente dal punto di vista dell’attendibilità scientifica, come la
tesi citata correttamente rilevava. Ma che cos’è e cosa si intendeva esattamente con
“grammatica tradizionale”? Nei termini in cui M.G. Lo Duca riassumeva la questione, una trentina d’anni più tardi,
l’addestramento grammaticale degli allievi aveva [...] il suo fulcro proprio nel riconoscimento delle diverse categorie e sotto categorie di cui si compone la lingua, e nel
riconoscimento delle diverse possibili combinazioni di tali categorie in strutture di
varia complessità. È a quest’insieme di pratiche grammaticali tradizionali - comunemente designate con “analisi grammaticale”, “analisi logica” e “analisi del periodo”
- che ci si riferisce di solito quando si usa l’espressione di modello “tradizionale” (Lo
Duca, 2003: 143).
Tra le carenze del “modello tradizionale” Lo Duca segnala le seguenti:
[...] l’assenza di speciale considerazione per il lessico e per la semantica; l’assenza
[...] della fondamentale distinzione tra complementi necessari (o nucleari) e complementi facoltativi (o circostanziali) [...]; la totale disattenzione per il problema delle
funzioni della lingua, che ha impedito di “vedere” certi fenomeni grammaticali particolarmente interessanti quali [...] la relazione esistente tra la struttura informazionale delle frasi e l’ordine delle parole, quindi la differenza tra io compro il libro, il libro
lo compro io e lo compro io, il libro; l’assenza di considerazioni sociolinguistiche [...];
la scarsa considerazione per fenomeni grammaticali che interessino frammenti di lingua superiori alla frase o al periodo, quali l’anafora o i connettivi testuali, compresi,
TEORIE LINGUISTICHE E INSEGNAMENTO DELLA GRAMMATICA
199
questi ultimi, nella assai vaga e incerta categoria delle “congiunzioni coordinanti”
(Lo Duca, 2003: 145).
Quindi la posizione del GISCEL sembrava perfettamente corretta: la grammatica
tradizionale era un corpus di dottrine inadeguato alla trattazione del suo stesso oggetto, cioè la struttura e le funzioni della lingua, e perciò risultava del tutto inutile,
se non dannosa, all’insegnamento della lingua madre (e anche delle lingue straniere,
possiamo aggiungere). Queste considerazioni spinsero, in molti casi, all’abbandono
totale dell’insegnamento grammaticale. Cito ancora una volta Lo Duca:
Le risposte alla pioggia di critiche che da ogni parte si abbattevano sull’insegnamento grammaticale tradizionale furono diverse. Molti insegnanti, disorientati e
contemporaneamente del tutto impreparati a sostituire lo strumentario grammaticale tradizionale con modelli più aggiornati, preferirono rinunciare. Piuttosto che
insegnare nozioni e concetti sgangherati e anacronistici puntarono su altri obiettivi
dell’educazione linguistica su cui si sentivano più preparati, tralasciando, del tutto o
in parte, la grammatica (Lo Duca, 2003: 147-148).
Più tardi, tuttavia, si ebbe l’impressione di aver buttato via il bambino con l’acqua
sporca. Ma che cos’era l’acqua sporca e che cos’era il bambino? Ossia, che cosa c’era
di sbagliato nell’insegnamento grammaticale tradizionale e che cosa invece c’era di
utile e quindi bisognoso di essere conservato, sia pure con scopi e metodi nuovi? In
realtà, già in quegli stessi anni Settanta alcuni linguisti avevano suggerito una possibile risposta; qui mi limiterò a citare G. Cinque e M.T. Vigolo, ma su questa linea si
muovevano anche altri studiosi, tra cui in particolare Lorenzo Renzi:
Se la grammatica può avere una funzione nell’apprendimento della lingua, l’ha solo
a un livello molto più avanzato, quando ad esempio si possono stabilire confronti tra
lingua scritta e lingua parlata, tra i vari stili o linguaggi settoriali. Tutto questo però,
come abbiamo già osservato, presuppone una conoscenza base di italiano standard
parlato che si deve ottenere con altri mezzi. Dove invece l’insegnamento della grammatica può avere un compito importante e forse nuovo è in un’attività di riflessione
sul linguaggio. Alla media e alle superiori siamo stati finora abituati a riflettere su varie cose: fisiologia, fisica, biologia, ecc. Non si vede perché una qualche riflessione sul
fenomeno del linguaggio debba essere completamente trascurata. L’insegnamento
della grammatica potrebbe offrire uno spunto in questo senso (Cinque - Vigolo,
2007 [1975]: 3).
La grammatica non serve dunque a parlare, leggere o scrivere («tranne che a un
livello molto più avanzato», come scrivono Cinque e Vigolo; v. comunque le interessanti osservazioni e proposte contenute in Serianni, 2006; Serianni, 2010: cap.
6), ma a riflettere sul linguaggio, cioè sull’esperienza intellettuale più immediata e
fondamentale della specie umana. È interessante notare che questa posizione ha un
precedente molto illustre in un linguista della prima metà del Novecento:
A great many people seem to think that the study of grammar is a very dry subject
indeed, but that it is extremely useful, assisting the pupils in writing and in speaking
the language in question. Now I hold the exactly opposite view. I think that the
study of grammar is really more or less useless, but that it is extremely fascinating.
200
GIORGIO GRAFFI
I don’t think that the study of grammar, at least in the way in which grammar has
been studied hitherto, has been of very material assistance to any one of the masters
of English prose or poetry, but I think that there are a great many things in grammar
that are interesting and that can be made interesting to any normal schoolboy or
schoolgirl ( Jespersen, 1910: 530).
Una volta però chiariti lo scopo e la possibile utilità della grammatica, rimane aperto
il problema di quale grammatica insegnare. Questa era la domanda che si ponevano
Cinque e Vigolo (loc. cit.), che proseguivano così: «Quella puristica tradizionale
accoppiata all’analisi logica? Oppure i testi modernizzanti che riecheggiano i risultati e le soluzioni delle teorie linguistiche più recenti?». Nel resto di questo lavoro,
proverò a dare una risposta a tale domanda.
2. Quale modello grammaticale scegliere?
A mio avviso, il punto di partenza non può essere che la grammatica tradizionale,
che è carente sotto molti punti di vista, come quelli ricordati nel paragrafo precedente, ma che contiene comunque molti concetti tuttora imprescindibili. Questa
era del resto l’opinione di Cinque e Vigolo nel saggio già citato:
Ciò che rimane ancora valido [...] riguarda il tipo di categorie grammaticali che le
grammatiche tradizionali ci hanno trasmesso. Queste categorie sono tutt’altro che
‘superate’ come da alcuni si vuol far credere, sfruttando a sproposito certi risultati
delle teorie moderne. Categorie come ‘nome’, ‘verbo’, ‘aggettivo’, ‘soggetto’ o classificazioni di frasi come ‘frasi relative, concessive’ e così via, sono ancora utili se non
altro come denominazioni di oggetti, in questo caso linguistici, di cui servirsi eventualmente nell’apprendimento di una lingua straniera o su cui in qualche modo riflettere (Cinque - Vigolo, 2007 [1975]: 3).
Inoltre, come osservava Renzi (1977: 22), «la grammatica tradizionale [..] fornisce praticamente la base, il terreno d’intesa [...] per ogni discussione». Infatti, la
terminologia della grammatica tradizionale (pur con le differenze proprie di ogni
tradizione nazionale: si pensi, ad es., ad attribut francese che corrisponde non ad
‘attributo’, ma a ‘predicato’ in italiano) è generalmente condivisa, mentre quella delle varie teorie linguistiche “moderne” è spaventosamente diversificata, spesso per
indicare le stesse entità. Questa differenza di statuto terminologico si riconduce ad
una differenza più essenziale tra la grammatica tradizionale e i vari tipi di linguistica
“moderna” dall’altro; come scrive Colombo (2012: 22):
Il termine linguistica moderna è puramente convenzionale: a differenza di grammatica tradizionale, non indica un corpo abbastanza compatto di presupposti e di idee
cresciuto linearmente nel tempo, ma un insieme non omogeneo di teorie e ricerche
sviluppatesi a partire dai primi del Novecento, a volte in conflitto fra loro, a volte
ignorandosi.
La strada sembra dunque quella indicata da Lo Duca (2003: 163), ossia, come già
proposto una ventina d’anni prima da M. Berretta e G. Berruto, quella di «un ra-
TEORIE LINGUISTICHE E INSEGNAMENTO DELLA GRAMMATICA
201
gionato e critico eclettismo». È proprio all’insegna di un tale eclettismo che, con
alcuni colleghi, abbiamo pubblicato una serie di brevi volumi intitolata proprio
Grammatica tradizionale e linguistica moderna (Colombo, 2012; Ferrari, 2012;
Graffi, 2012; Prandi, 2013; Salvi, 2013; Acquaviva, 2013; Squartini, di prossima
pubblicazione). Il punto di partenza comune a tutti questi volumi è rappresentato
dalla grammatica tradizionale: come testi di riferimento di quest’ultima sono stati
utilizzati in primo luogo le opere più complete e complesse, ossia Fornaciari (1882;
1884) e Serianni (1989). Oltre a queste, gli autori dei diversi volumi hanno più o
meno occasionalmente citato grammatiche scolastiche pubblicate, normalmente,
nell’ultimo mezzo secolo. I problemi affrontati sono sostanzialmente di due tipi: da
un lato, si è cercato di integrare e correggere le nozioni tradizionali che si mostrassero carenti nella loro motivazione o nella loro definizione; dall’altro, si è cercato di
dare conto di fenomeni linguistici normalmente trascurati dalla grammatica tradizionale, o trattati in modo sommario. Nella prossima sezione fornirò alcuni esempi
di problemi dell’uno e dell’altro tipo e delle soluzioni proposte.
3. Esame di alcuni casi
3.1 Le parti del discorso
Il punto di partenza non poteva che essere la classificazione della grammatica tradizionale (per l’italiano, nove parti del discorso: nome, aggettivo, articolo, pronome,
verbo, avverbio, preposizione, congiunzione, interiezione), per poi eventualmente
proporne una correzione (cf. Salvi, 2013: 15). Questa correzione si rende necessaria
per più motivi; uno di essi è che le parti del discorso sono definite, nella grammatica
tradizionale, in base a tre criteri, che non sempre danno risultati soddisfacenti:
1. il criterio nozionale (o semantico) individua le parti del discorso in base al significato delle parole;
2. il criterio morfologico individua le parti del discorso in base alla flessione delle
parole;
3. il criterio sintattico-funzionale individua le diverse parti del discorso in base alle
funzioni che le parole svolgono nella struttura della frase o in base alla loro distribuzione sintattica (Salvi, 2013: 16).
Il criterio nozionale è prevalentemente usato, nella grammatica tradizionale, per definire le parti del discorso “variabili”, in particolare nomi, verbi e aggettivi: si dice infatti che «i nomi sono normalmente usati per indicare entità come persone, animali
o cose (papà, gatto, auto), gli aggettivi qualificativi per indicare proprietà di queste
entità (buono, rosso, veloce) e i verbi per indicare eventi [...]» (Salvi, 2013: 17). La
debolezza di questo criterio è però evidente, una volta che ci si rifletta un po’:
[...] uno stesso aspetto del reale può essere espresso con parti del discorso diverse: per
es. la proprietà di essere ‘bianco’, oltre che dall’aggettivo bianco, può essere espressa
202
GIORGIO GRAFFI
anche dal nome bianchezza e dal verbo biancheggiare; l’evento di ‘correre’, oltre che
dal verbo correre, può essere espresso anche dal nome corsa, ecc. (ibidem).
Si può allora pensare di ricorrere al criterio morfologico (come infatti fa la grammatica tradizionale). Ma anche in questo caso ci troviamo di fronte a difficoltà, dato
che tale criterio non solo è inapplicabile nelle lingue in cui la flessione non esiste,
come il cinese, ma è insufficiente anche per lingue come l’italiano, in cui quattro
parti del discorso (avverbi, preposizioni, congiunzioni e interiezioni) sono morfologicamente invariabili, ed esistono, anche all’interno delle parti variabili, lessemi
invariabili («per es. nomi come casinò o crisi e aggettivi come pari»; Salvi 2013:
18-19). Occorrerà dunque ricorrere al criterio sintattico-funzionale. A questo fine,
però, è necessario introdurre alcune nozioni solitamente assenti dalla grammatica
tradizionale, ossia quelle di sintagma (o gruppo di parole), di predicatore e di argomenti. La prima di esse è assente dalla grammatica tradizionale (ma non da quella di
Serianni, 1989), in quanto quest’ultima in genere riconosce due soli tipi di entità,
a livello sintattico, ossia la parola e la frase. Il sintagma poi manifesta anche una
struttura interna, in quanto «le diverse parole che compongono un sintagma non
stanno tutte sullo stesso piano» (Salvi, 2013: 21). Ad es., entrano tre gatti è perfettamente accettabile, mentre *entrano tre calli è perlomeno bizzarro: la ragione
del contrasto «è evidentemente dovuta alla scelta di calli, e non a quella di tre»
(ibidem). «Calli» (o «gatti») è dunque la testa del sintagma, cioè l’elemento che
ne caratterizza le proprietà. Per quanto riguarda le nozioni di predicatore e di argomento, osserviamo che una frase può essere considerata come la descrizione di un
evento in cui sono coinvolti uno o più partecipanti (“attanti”): il predicatore [...] è
«l’espressione che realizza l’evento»; gli argomenti «le espressioni che realizzano
gli attanti» (Salvi, 2013: 22). Il predicatore non coincide con il predicato: in una
frase, «uno degli argomenti viene prima scelto come l’argomento saliente, e l’evento
viene presentato in riferimento ad esso» (Salvi, 2013: 24). L’«argomento saliente»
è il soggetto; il predicato è «quella parte della frase che viene riferita al soggetto preso
come punto di partenza nella presentazione dell’evento» (ibidem). Così, in una frase come i miei amici accarezzano il gatto, «i miei amici» è il soggetto, «accarezzano»
il predicatore, e «accarezzano il gatto» il predicato. «Le frasi hanno quindi anche
una struttura soggetto-predicato» (Salvi, 2013: 23-24). «La relazione tra predicatore
e argomenti costituisce la struttura portante della frase. Su questa si innestano altre
relazioni secondarie che realizzano la funzione attributiva» (ibidem). Sulla base di
queste nozioni, è possibile ridefinire nome, verbo ed aggettivo come segue:
1. il nome è quella parte del discorso che fornisce la testa dei sintagmi che fungono
da argomenti;
2. il verbo è quella parte del discorso che funge da predicatore;
3. l’aggettivo è quella parte del discorso che fornisce la testa dei sintagmi che fungono da attributo di un nome (Salvi, 2013: 25-26).
(In realtà, per quanto riguarda l’aggettivo la definizione deve essere integrata per
rendere conto di altre funzioni di tale parte del discorso, ossia quella attributiva
TEORIE LINGUISTICHE E INSEGNAMENTO DELLA GRAMMATICA
203
appositiva, come buon in il buon Carlo, e quella argomentale, come americana in la
vittoria americana. Per maggiori dettagli, v. Salvi, 2013: 46-47).
Ricorrendo dunque al criterio sintattico-funzionale, opportunamente integrato
con le nozioni appena introdotte, è possibile dare una definizione di nome, verbo
ed aggettivo che non incorre nelle difficoltà di quelle tradizionali, siano esse di tipo
nozionale oppure di tipo morfologico.
3.2 La nozione di soggetto
La grammatica tradizionale definisce il soggetto come «colui che compie l’azione»
o come «ciò di cui parla il predicato» (Serianni, 1989: 89). A queste definizioni si
oppongono però numerosi esempi. In particolare, in frasi come Maria capisce la matematica o Maria ha subito molti torti, il soggetto Maria non può essere certamente
definito come colui che compie l’azione. Certamente, la definizione del soggetto
come «ciò di cui parla il predicato» resta valida anche per queste frasi; ma essa
non è però valida per frasi come A Maria piace la matematica oppure Nel giardino
ci sono erbe e fiori. Infatti, nella prima delle due ciò di cui parla il predicato è Maria,
e nella seconda, il giardino. Anche il secondo tipo di definizione del soggetto (che,
in realtà, è cronologicamente il più antico) si rivela dunque insoddisfacente. Certo,
la grammatica tradizionale individua correttamente il soggetto in tutte queste frasi
(Maria nelle prime due, la matematica nella terza, erbe e fiori nella quarta), ma non
ne dà una definizione adeguata. Il problema sta nel fatto che essa identifica la nozione sintattica di soggetto con quella semantica di agente e con quella comunicativa
(o informazionale) di tema (= «ciò di cui si parla»); tali nozioni, pur essendo in
molte frasi (come Maria ha picchiato Paolo) espresse dalla stessa parola o dallo stesso sintagma, sono intrinsecamente diverse, e quindi, come accade nelle frasi citate,
possono essere espresse da entità diverse: ad es. in A Maria piace la matematica il
soggetto è «la matematica», mentre «Maria» è il tema. Occorre quindi trovare
una definizione di soggetto che sia di tipo puramente sintattico. Adattando alla nostra terminologia la definizione che si legge in Jespersen (1927: 206-207), diremo
dunque che il soggetto è l’argomento «che si accorda con il verbo in persona e in
numero» (Graffi, 2012: 74).
3.3 Tipi di complementi
Il termine stesso di complemento sembra suggerire che si tratti di un’entità non
strettamente necessaria, a differenza del soggetto e del predicato; quindi tutti i complementi, compreso il complemento oggetto, sarebbero elementi accessori della frase. Una tale concezione dei complementi appare però abbandonata già da Fornaciari
(1884: xi), il quale definisce il soggetto, il predicato e l’oggetto «elementi principali» della frase, e li distacca dai complementi, a loro volta distinti in «attributivi»
ed «avverbiali». Una posizione simile, sia pure in modo meno chiaro, è assunta
anche da Serianni (1989: 98). Entrambe le grammatiche tradizionali più autorevoli,
dunque, suggeriscono una gerarchia all’interno della frase, e in particolar modo tra
i diversi tipi di complementi. Questi suggerimenti vanno però ulteriormente defi-
204
GIORGIO GRAFFI
niti: in particolare, come osserva Prandi (2013: 27-28), commentando il passo di
Fornaciari a cui abbiamo fatto riferimento, «le determinazioni accessorie, a loro
volta, non formano “una selva infinita” [...], ma si dispongono in una gerarchia di
strati diversi». Si tratta ora di definire più esattamente questa gerarchia.
Una delle distinzioni più importanti introdotte dalla linguistica moderna è proprio la distinzione tra complementi necessari (o nucleari) e complementi facoltativi
(o circostanziali), introdotta a partire da Tesnière (1959). La distinzione fondamentale tra elementi nucleari e circostanziali si basa sulla obbligatorietà dei primi contrapposta alla facoltatività dei secondi:
(1) Ieri Mario ha incontrato Gino
(2) *Ieri Mario ha incontrato
(3) Mario ha incontrato Gino
(4) Mario ha dato un libro a Maria
(5) *Mario ha dato un libro
Gli esempi (1)-(5) ci mostrano che gli elementi nucleari sono il soggetto, il complemento oggetto e il complemento di termine dell’analisi logica tradizionale: con
l’aggiunta di quest’ultimo, essi corrispondono dunque agli «elementi principali»
già riconosciuti da Fornaciari. Tutti gli altri complementi indiretti sono quindi
dei circostanziali; tuttavia, essi non formano semplicemente la «selva infinita»
di Fornaciari, ma presentano al loro interno un’ulteriore gerarchia, in quanto costituiscono dei margini di vario tipo: margini del processo (ossia circostanziali in
senso stretto), margini del predicato e modificatori del verbo (cf. Prandi, 2013: 33).
Questi tre tipi di margini possono essere esemplificati come segue (cf. Prandi 2013,
pp. 43-45):
Margini del processo (“circostanziali” in senso stretto):
(6a) Ieri all’alba, il camion dei pompieri ha tamponato l’utilitaria di mio fratello
(6b) Il camion dei pompieri ha tamponato l’utilitaria di mio fratello; (questo) è
accaduto ieri all’alba
Margini del predicato:
(7a) Giulio ha potato le rose con queste forbici
(7b) Giulio ha potato le rose; (Giulio) l’ha fatto con queste forbici
(7c) *Giulio ha potato le rose. È accaduto con queste forbici
Modificatori del verbo:
(8a) La palla ha colpito il palo con violenza
(8b) *Il calciatore ha colpito a morte la palla
Come si vede, i margini del processo possono essere “staccati” dal resto della frase e
collocati in un’altra frase il cui verbo è accadere (cf. 6a vs. 6b); i margini del predicato
devono invece comparire in una frase il cui predicato è fare (cf. 7b vs. 7c); infine, i
TEORIE LINGUISTICHE E INSEGNAMENTO DELLA GRAMMATICA
205
modificatori del verbo si caratterizzano per il fatto di essere utilizzabili con certi
verbi, ma non con altri, in relazione al significato dei verbi stessi e dei loro argomenti
(per es., in (8) il modificatore a morte è utilizzabile sono con un oggetto animato).
La gerarchia strutturale della frase può essere dunque riassunta come segue:
Il soggetto e i principali complementi del verbo sono relazioni grammaticali vuote,
definite sulla base della loro forma e della loro posizione nella struttura grammaticale
della frase. Il soggetto, ad esempio, è un’espressione nominale che concorda con la
forma verbale finita del predicato; il complemento oggetto è un’espressione nominale, secondo argomento di un verbo transitivo, che diventa soggetto in una frase passiva. Le relazioni grammaticali non hanno un contenuto proprio, ma lo ricevono di
volta in volta dal verbo: così, il soggetto di cucinare è un agente, quello di soffrire un
paziente. [...] I margini, viceversa, sono innanzitutto relazioni concettuali: ad esempio, la causa, il fine, il tempo e il luogo. Le forme di espressione hanno la funzione
strumentale di renderli riconoscibili (Prandi, 2013: 34).
3.4 Tipi di frase: le “frasi marcate”
Questo paragrafo e il successivo riguardano problemi del secondo tipo tra quelli
elencati sopra (§ 2, fine), ossia fenomeni grammaticali poco trattati, se non trascurati, dalla grammatica tradizionale. Uno di tali fenomeni è quello delle cosiddette frasi
marcate, che sono quelle in cui l’ordine delle parole appare diverso da quello canonico dell’italiano, ossia Soggetto-Verbo-Complemento (cfr. Ferrari, 2012: 18, con
riferimento a Salvi - Vanelli, 2004): Piero mangia la minestra è dunque un esempio
di frase sintatticamente non marcata, La minestra, la mangia Piero oppure Piero la
mangia, la minestra sono esempi di frasi sintatticamente marcate. Nella linguistica
moderna, le frasi marcate dell’italiano sono normalmente ricondotte alla seguente
tipologia (cfr. Ferrari, 2012: 19-21):
Frasi con soggetto posposto al verbo:
(9) Ha telefonato Piero
Frasi con dislocazione a sinistra e con altri tipi di spostamento a sinistra:
(10) Piero, non lo vedo mai
(11) Questo signore, Dio gli ha toccato il cuore (Manzoni)
Frasi con dislocazione a destra:
(12) (L’) Ho dato a Maria, l’anello
Frasi scisse:
(13) È Gianni che parlerà stasera alla cittadinanza
Alle frasi marcate le grammatiche dell’italiano hanno dato poca importanza, in
quanto esse caratterizzano soprattutto l’italiano parlato, cioè una varietà solitamente trascurata dalle grammatiche tradizionali. Non bisogna però pensare che questo
tipo di frasi sia un fenomeno relativamente recente dell’italiano: esse sono infatti
attestate fin dall’italiano delle origini (si pensi al Sao ke kelle terre, per quelli fini
che ki contene ecc. dei Placiti Capuani). Il fatto che siano trascurate dalle grammati-
206
GIORGIO GRAFFI
che dell’italiano è, come osserva Ferrari (2012: 73), «sostanzialmente una storia di
esclusione: tali strutture sono state di volta in volta o ignorate, o considerate come
errori». Probabilmente a questa esclusione ha contribuito anche la mancanza, nel
quadro della grammatica tradizionale non solo italiana, di un preciso riconoscimento dello statuto delle frasi marcate; come osserva ancora Ferrari,
diversamente da quanto assumono le grammatiche tradizionali, le frasi marcate non
sono manifestazioni marginali e contingenti della parole, che non appartengono alla
norma grammaticale, e non sono neppure meccanismi da affrontare nella retorica,
mescolati con altri fenomeni più puntuali che interrogano l’ordine delle parole non
usuale (Ferrari, 2012: 36).
Perché le frasi marcate venissero riconosciute come strutture sintattiche dotate di uno
statuto proprio si sono dovuti aspettare gli anni ’30 del Novecento, con la scuola di
Ginevra (in particolare Bally) da un lato, e la scuola di Praga (in particolare Mathesius)
dall’altro. Nella prospettiva di Bally, le frasi marcate «rappresentano una delle tre forme caratteristiche dell’enunciazione, andando ad affiancarsi alle “frasi coordinate” e
alla “frasi legate”» (Ferrari, ibidem). Queste correnti della linguistica moderna hanno
dunque permesso di dare un riconoscimento esplicito a strutture sintattiche che la
tradizione grammaticale italiana aveva, di fatto, emarginato.
3.5 Coordinazione, testo e periodo
L’ultimo caso che vorrei discutere in un certo senso coniuga uno dei problemi del
primo tipo tra quelli accennati alla fine del § 2, ossia l’integrazione e la correzione
di alcune analisi della grammatica tradizionale, con uno del secondo tipo, ossia l’allargamento dell’analisi a fenomeni che la grammatica tradizionale ha abitualmente
trascurato. In particolare, mi riferirò alla classe di parole nota come congiunzioni,
per esaminare se tutti gli elementi che varie grammatiche tradizionali vi hanno collocato siano in realtà dello stesso tipo: come si vedrà, una soluzione adeguata potrà
venire soltanto aggiungendo alle nozioni tradizionali di frase e periodo quella più
moderna di testo.
Partiamo ancora una volta dalla definizione dei vari tipi di formazione del periodo che troviamo in una grammatica tradizionale:
Seguendo la partizione e la terminologia più tradizionali e diffuse, possiamo distinguere tre diversi tipi di relazione fra due o più proposizioni di un periodo:
I. Coordinazione (o paratassi). [...]
II. Subordinazione (o ipotassi). [...]
III. Giustapposizione (o asindeto) (Serianni, 1989: 529-531).
Una volta date queste definizioni, Serianni prosegue dando questo esempio di «relazione tra frasi in un periodo»:
(14) Chi è? te lo dico io chi è! è un perfetto imbecille! (da Lessico famigliare di N.
Ginzburg).
TEORIE LINGUISTICHE E INSEGNAMENTO DELLA GRAMMATICA
207
A proposito di questo esempio, Colombo (2012: 20) osserva che «[...] molti indizi potrebbero spingere ad assegnare a periodi diversi almeno le due prime frasi: la
prima è interrogativa e la seconda esclamativa, e il soggetto cambia». Colombo si
domanda «che cosa potrebbe impedire, a questo punto, di vedere un unico periodo
[...] in tutto un capitolo di Lessico famigliare». Il problema sta dunque nel fatto che
l’unità linguistica di maggiore estensione riconosciuta dalla grammatica tradizionale è il periodo, mentre esistono relazioni grammaticali che superano i confini del
periodo, e caratterizzano, appunto, il testo. Lascio ancora la parola a Colombo:
Probabilmente questa dilatazione dell’idea di periodo dipende da due fattori: dal
non concepire nessuna unità di analisi al di sopra del periodo [...] e dalla concezione
della frase come «unità minima di comunicazione dotata di senso compiuto» [...].
[...] La linguistica della seconda metà del Novecento ha elaborato la nozione di testo
fondata appunto su questa trama di riferimenti, dal ritorno di oggetti e temi del discorso che stabiliscono una continuità di periodo in periodo e assicurano una certa
unità e compiutezza di senso [...]. Si tratta comunque di una continuità testuale, che
si vale anche di mezzi grammaticali (ad esempio i pronomi), ma è di natura diversa
dalla unità sintattica che chiamiamo frase, inclusa la frase complessa o periodo. Nel
primo caso parleremo di coesione testuale, nel secondo di legami strutturali all’interno del periodo, quali la coordinazione e la subordinazione (Colombo, 2012: 20-1).
Distinguendo il periodo dal testo, è possibile anche mettere un po’ d’ordine
nell’elenco degli elementi definiti come congiunzioni coordinanti. Come ricorda
Colombo (2012: 53), mentre Fornaciari «restringeva le “congiunzioni primitive
o propriamente dette” a e, o, ma per le coordinanti [...] nelle grammatiche della seconda metà del Novecento la lista si arricchisce di elementi e di categorie». Una
grammatica recente (Lo Duca - Solarino, 2004: 40), ad es., distingue tra congiunzioni coordinanti a) «additive o copulative»: e, (e) anche, (e) pure, inoltre, per di
più, né, (e) neanche, (e) nemmeno; b) «disgiuntive»: o, oppure, altrimenti, in caso
contrario; c) «correlative»: o...o, e...e, sia...sia, né...né, non solo... ma anche, da una
parte... dall’altra; d) «avversative»: ma, però, d’altra parte, tuttavia, anzi, piuttosto;
e) «dichiarative o esplicative»: cioè, ossia, ovvero, vale a dire, infatti; f ) «conclusive»: così, pertanto, quindi, dunque, allora, ebbene, perciò. Questa lista, prosegue
Colombo, contiene in realtà elementi abbastanza eterogenei, come possiamo notare
dal loro comportamento sintattico, in particolare per quanto riguarda l’ordine delle
parole e le possibilità o meno di cooccorrenza. Si noti, ad es., che una congiunzione
come ma deve sempre apparire all’inizio della seconda frase coordinata, mentre due
“congiunzioni” come però e inoltre possono ricorrere anche in altre posizioni (da
Colombo, 2012: 54-55):
(15) Tentavo di scherzare ma il sorriso si spegneva presto tra le barbe lunghe e sporche (Rigoni Stern).
(16) *Tentavo di scherzare, il sorriso ma si spegneva presto tra le barbe lunghe e
sporche.
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GIORGIO GRAFFI
(17) Tentavo di scherzare, però il sorriso si spegneva presto tra le barbe lunghe e
sporche.
(18) Tentavo di scherzare, il sorriso però si spegneva presto tra le barbe lunghe e
sporche.
Dal punto di vista delle possibilità di cooccorrenza, mentre è chiaro che e, o e ma
non possono mai ricorrere insieme (*Ho incontrato Gianni, ma e non gli ho detto
niente; come osserva Colombo, 2012: 60, e/o non è l’unione di due congiunzioni,
ma una diversa congiunzione), esse possono ricorrere assieme ad altre “congiunzioni
coordinanti” della lista di Lo Duca - Solarino (2004):
(19) Alcuni esseri viventi, come i batteri o i protozoi, sono formati da una sola cellula e perciò sono detti organismi unicellulari (Universo scienze).
(20) Portano via dunque i rifiuti delle fogne, ma anche concimi e diserbanti dalle
campagne (Orizzonti).
Colombo propone dunque di riservare il termine congiunzioni coordinanti alle tre
«congiunzioni primitive propriamente dette» di Fornaciari, ossia e, o e ma, e di
chiamare le altre avverbi connettori. Altre terminologie possono essere utilizzate:
ad es. Prandi (2013) parla di «avverbi anaforici» per riferirsi ad espressioni come
quindi, ecc. L’adozione di una terminologia standard è un fatto importante e non
può essere trascurato, soprattutto ai fini didattici; in ogni caso, il primo passo da
compiere è una classificazione più adeguata delle varie parole finora genericamente
collocate nella classe delle congiunzioni, e a questo fine è fondamentale, come si è
visto, la distinzione tra testo e periodo.
4. Perché, come e quando insegnare la grammatica?
Alla prima di queste domande si può rispondere con alcune considerazioni svolte
da due dei maggiori esperti italiani nel campo dell’educazione linguistica. Secondo
Lo Duca, «la riflessione sulla lingua – questa volta potremmo dire sulla grammatica
della lingua» può
svolgere un ruolo importante nel migliorare le abilità cognitive di base. [...] Qui
basti dire che a nostro parere questo fine, vale a dire l’addestramento dei meccanismi cognitivi di base, basterebbe da solo a “giustificare” la riflessione grammaticale
sull’oggetto lingua: tale riflessione infatti aiuta ad esercitare la mente, perché questa
possa essere messa in grado di sfruttare al meglio le sue straordinarie potenzialità (Lo
Duca, 2003: 167).
Secondo Colombo (1997: 54), «la riflessione sulla lingua madre ha il compito di
fungere anche da “grammatica generale”, di fornire un’attrezzatura concettuale riutilizzabile nell’apprendimento della lingua nuova». Sviluppando con un esempio
questa osservazione di Colombo, potremmo dire che una regola come «in inglese,
non si usa il verbo do quando la frase interrogativa verte sul soggetto», ha un grande
TEORIE LINGUISTICHE E INSEGNAMENTO DELLA GRAMMATICA
209
valore pratico, ma a condizione che si abbiano ben chiari i concetti di frase interrogativa, verbo e soggetto, e quindi si conoscano i fondamenti dell’analisi del periodo,
dell’analisi grammaticale e dell’analisi logica. Non a caso questi erano gli argomenti
che stavano al centro dell’insegnamento grammaticale tradizionale: si tratta quindi
di riprenderli, correggendone le limitazioni e contraddizioni sulla base di analisi
come quelle che abbiamo svolto nel paragrafo precedente.
A questo punto si pone il problema di come insegnare la grammatica, e, più precisamente, di come equilibrare l’aspetto “tradizionale” con quello “moderno”. Una
prima distinzione dovrebbe essere ovvia, anche se è spesso trascurata: la grammatica
che gli insegnanti devono conoscere non è la stessa che devono insegnare agli allievi. Ritengo quindi che l’insegnamento debba basarsi sulla grammatica tradizionale,
correggendone ed integrandone i punti deboli: questa sarebbe un’ottima occasione per «migliorare le abilità cognitive di base», nel senso indicato dalla Lo Duca.
Quindi, meglio scegliere testi dichiaratamente tradizionali, piuttosto che artificiosamente modernizzanti. Un errore certamente da evitare è quello di riempire la testa
dei ragazzi con una quantità di neologismi, attribuendo loro chissà quali capacità
taumaturgiche. Compito degli insegnanti dovrebbe dunque essere quello di utilizzare gli strumenti concettuali della linguistica moderna cercando di appesantire il
meno possibile l’apparato terminologico. L’operazione è tutt’altro che facile, e non
essendo il sottoscritto un esperto dell’insegnamento, mi asterrò da ogni indicazione
in proposito, pur continuando a ritenere che questa sia la strada giusta. A monte di
questo problema ce n’è un altro: quello di formare gli insegnanti, ossia di introdurli
ai concetti della linguistica moderna e a una loro possibile utilizzazione didattica.
Questo compito non può che essere svolto dalle Università, prima, e dai vari canali
di formazione degli insegnanti poi. Sulla difficoltà di assimilazione delle “nuove”
teorie linguistiche da parte dei futuri insegnanti Lo Duca ha scritto:
[...] una volta uscita, un’opera grammaticale, specie se innovativa, ha bisogno di
molto tempo per “entrare in circolo” e diventare bagaglio comune, e questo avviene
solo a patto che i luoghi deputati alla formazione universitaria degli insegnanti se ne
facciano carico. [...] Quale meraviglia se i contenuti di queste opere faticano ancora
a raggiungere la generalità del mondo della scuola? La raggiungeranno, forse, ma
solo dopo che i giovani, futuri insegnanti, li avranno studiati nelle aule universitarie o nelle scuole di specializzazione: solo allora potranno funzionare davvero come
motore per il rinnovamento dei contenuti grammaticali in senso stretto (Lo Duca,
2003: 169-170).
Quindi, necessità che i futuri insegnanti conoscano la linguistica moderna (e la
linguistica in genere; un po’ di linguistica storica serve a chiarire molti dubbi e ad
eliminare molti dogmi, per es. a proposito dell’ortografia, ma non solo): dovrebbe
essere un’ovvietà, ma è un fatto che essa non appaia tale a molti colleghi delle stesse
facoltà umanistiche. Un’opera di sensibilizzazione in tal senso, rivolta alle “persone
colte” in genere, potrebbe essere utile: un mezzo potrebbe essere quello da noi utilizzato, cioè mostrare come la linguistica moderna sia un modo per risolvere alcuni
210
GIORGIO GRAFFI
problemi tradizionali, e costituire quindi un interessante esercizio intellettuale; se
ne possono, naturalmente, immaginare molti altri.
Il terzo interrogativo riguarda l’età scolare a cui insegnare la grammatica. La nostra
tradizione poneva l’insegnamento grammaticale soltanto nei livelli scolastici più “bassi”, ossia la scuola elementare e la scuola media inferiore, lasciando all’insegnamento
superiore esclusivamente lo studio delle forme linguistiche “con valore d’arte”, ossia
della letteratura. Ora, a quanto mi risulta, le cose stanno cambiando, anche se forse per
quel motivo sbagliato di cui si parlava all’inizio: l’illusione che la grammatica serva ad
“imparare la lingua”. Una proposta molto più motivata ed organica è stata invece ancora
una volta avanzata da Lo Duca:
C’è [...] una seconda ottima ragione per fare grammatica anche nel triennio superiore: a
noi pare che questa fascia scolare costituisca il momento ideale per procedere ad un’opera di attenta revisione e di sistematizzazione di tutto il sapere grammaticale accumulato
dagli allievi nel corso degli anni. È il momento in cui le osservazioni occasionali e i percorsi programmati, le attività più astratte e le analisi degli usi e dei testi concreti dovrebbero fondersi in una visione organica, anche se necessariamente ancora incompleta, di
questo oggetto complesso che è la lingua (Lo Duca, 2003: 177).
Personalmente, questa proposta mi trova perfettamente consenziente, e credo che sarebbe pienamente sottoscritta (se non lo è stata di fatto) da molti degli studiosi che ho
citato in precedenza, come Cinque e Vigolo, o Colombo. Scavando nella storia dell’istruzione, possiamo notare un precedente storico molto interessante, risalente agli anni
della Rivoluzione Francese. Il Décret sur l’organisation de l’instruction publique del 3
brumaio anno IV [25 Ottobre 1795], che istituiva le écoles centrales (una sorta di scuole
medie superiori), stabiliva che nella troisième section (riservata ai ragazzi dai sedici anni
in su) ci fosse, tra gli altri, un professore di grammaire générale; gli altri professori erano
di belles-lettres, di storia e di legislazione. Quali erano i compiti del professore di grammatica generale? Cito qualche passo da Plans d’enseignement suivis par les professeurs
à l’école centrale du Département du Doubs, Besançon, à l’imprimerie de Briot, an IX
[1800-1801]:
Le professeur de grammaire générale ne se borne point, ainsi que plusieurs de ses collègues d’autres départements, à enseigner les règles de la langue française. Convaincu
que la grammaire particulière n’est qu’une branche accessoire à son cours, et qu’on ne
doit s’y arrêter que pour y appliquer les principes généraux des langues, principes qui
ne peuvent être découverts que par l’analyse de l’entendement humain, et par une suite
méthodique de réflexions concernant les signes en général, l’institution de signes artificiels, leur influence sur les facultés de l’âme, et en particulier sur le raisonnement, etc.
il cherche, en prenant Condillac pour guide, à montrer que l’art de raisonner et l’art
de parler, ayant une source commune, ne peuvent faire que des progrès mutuels, et que
toutes les règles de la logique se réduisent à n’employer qu’une langue bien faite.
Di fatto, dunque, all’insegnamento della grammatica generale si assegnava il compito in
altre epoche assegnato a quello della filosofia (e infatti non c’è posto per un professore
di filosofia nella terza sezione delle écoles centrales).
TEORIE LINGUISTICHE E INSEGNAMENTO DELLA GRAMMATICA
211
Come si vede, pur nell’ovvia differenza dei concetti e dei punti di riferimento intellettuale, c’è una convergenza significativa tra questo progetto di insegnamento e alcune delle proposte che abbiamo ricordato più sopra (Cinque e Vigolo, Colombo, Lo
Duca). Lo studio della grammatica non si limita a quella della lingua madre, ma ha lo
scopo di avviare allo studio della “grammatica generale” e la grammatica generale può
essere l’occasione per riflettere su una delle capacità umane fondamentali: il linguaggio.
Questa riflessione deve essere posta, ovviamente, non all’inizio, ma alla conclusione
dello studio della grammatica.
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ADRIANO COLOMBO1
“Applicazione”? Linguistica teorica e grammatiche
scolastiche
The chapter deals with the relationship between L1 grammar teaching in Italian schools and
recent linguistic research; this relationship should not be one of “application”, but rather of
“use”. A short review of major trends in current grammatical research shows that none can
per se supply the basis for grammar teaching. It is argued however that all trends share some
common assumptions, both methodological and substantial, that could form a “basic theory” which may ground a school teaching informed by a scientific approach (i.e. employing
explicit databases and making falsifiable claims).
Twenty-five Italian grammar textbooks designed for pupils from primary to high school
are tested on some crucial points, showing that current approaches are still dogmatic, far
remote from making verifiable claims, despite the occasional introduction of some terms or
concepts of modern linguistics.
1. “Applicare” o usare?
Ho sempre guardato con un certo distacco all’espressione “linguistica applicata”,
riferita all’educazione linguistica. Ritengo che compito dell’educazione non sia “applicare” i risultati di una ricerca che si svolge in altre sedi, ma se mai usarne i risultati
per i propri fini.
Forse la mia titubanza sconta l’effetto dei primi maldestri tentativi (anni Sessanta
e Settanta del secolo scorso) di “applicare” la linguistica del Novecento ai manuali di
riflessione sulla lingua, quando qualcuno credette che il rinnovamento consistesse
nell’inserire in un manuale di impianto tradizionale un capitoletto sulle sei funzioni
di Jakobson; oppure in qualche sostituzione terminologica.
Un effetto di “applicazioni” troppo frettolose è ancora oggi tra molti insegnanti
l’impressione che parlare in termini di linguistica moderna significhi parlare d’altro rispetto agli oggetti tradizionali della riflessione grammaticale, scardinando non
solo i suoi presupposti, metodi, criteri, ma il suo stesso oggetto. Risulta ancora difficile convincerli che criticare le definizioni sostanzialiste di nome, verbo, aggettivo
non significa negare il fondamento di queste categorie; che di soggetto e predicato
parlano tutte le teorie novecentesche e così via. Qui entra in gioco la persistente impreparazione linguistica della categoria insegnante; ma questo punto meriterebbe
un discorso a parte.
1
GISCEL.
214
ADRIANO COLOMBO
Chi tenta una traduzione didattica di uno dei modelli grammaticali accreditati
nella ricerca si scontra con un altro ostacolo. Una grammatica scolastica deve avere una copertura ampia, nel senso che deve essere in grado di descrivere un’ampia
varietà di situazioni testuali. La grammatica della tradizione scolastica esibisce illusoriamente questa copertura, pare che con le sue “tre analisi” possa parlare di qualunque testo (che poi quel che ha da dire siano banalità tautologiche, come che in
“colpevole di omicidio” c’è un “complemento di colpa”, è uno dei motivi per cui
va superata). Le teorie grammaticali novecentesche si sono concentrate su alcuni
meccanismi essenziali della sintassi, ma di rado hanno tentato di produrre una sistematica completa, del resto la ricerca è per sua natura aperta, quindi incompleta. Chi
ha tentato di trasferire una di queste teorie in una grammatica scolastica si è trovato
di fronte a delle zone vuote, e spesso si è ridotto a riempirle ricorrendo a pezzi della
tradizione, creando degli ibridi.
Oggi disponiamo di teorie grammaticali più evolute rispetto a mezzo secolo fa;
ma sussiste l’impossibilità di “applicarle” direttamente alla riflessione grammaticale
a scuola. Chi volesse applicare una versione semplificata della grammatica generativa (GG) si scontrerebbe almeno col problema della coordinazione, un fenomeno
che riguarda forse il 50% delle relazioni sintattiche in gran parte dei testi (Colombo,
2012). La voce “coordinazione” nei testi recenti di GG non compare nell’indice
analitico, che si tratti di un’opera di ricerca come Chomsky (1995) o di un testo di
sintesi come Graffi (1994). Si trova in un ottimo manuale divulgativo come Donati
(2008), ma per constatare che «sulla struttura da dare alla coordinazione non c’è
accordo tra i ricercatori» (203), e una spiegazione si può intuire: la coordinazione
mette in crisi il dogma binario insediatosi nella teoria generativa in concomitanza
con la teoria della “x-barra”. La difficoltà è degna del massimo rispetto, ma non potrebbe essere scaricata sulle spalle degli studenti a scuola.
Se ci volgiamo alla Grammatica Lessico-Funzionale (LFG), possiamo contare su
un impianto teorico più flessibile, ma in vista di un’applicazione didattica sorge un
altro ostacolo: le categorie sintattiche come Soggetto, Oggetto, Obliquo, Aggiunto
ecc., centrali in questa teoria, non solo non sono definite in termini configurazionali come nella GG, ma non sono proprio definite, sono assunte come termini primitivi (Darlymple, 2001: 432). Niente da eccepire sul piano teorico; già da Hjelmslev
(1961: 14-17) abbiamo imparato che una teoria non ha bisogno di giustificare i
propri primitivi, a patto che risulti coerente e adeguata a spiegare un gran numero
di dati. Ma possiamo trasferire questo principio sul piano didattico? Uno studente
non ha bisogno per prima cosa di capire come si giustificano e si riconoscono le
categorie?
Non può essere preso in considerazione a fini didattici l’approccio che oggi pare
contendere l’egemonia a quello generativo, l’approccio detto tipologico. In effetti la
padronanza di concetti base della teoria grammaticale pare più un presupposto che
Vedi anche Mereu (2004: 147). Bresnan (2001: 98) precisa che le funzioni sintattiche sono primitive
«in senso categoriale», ma derivate da strutture semantiche più profonde (ivi: 302 segg.); la spiegazione è comunque troppo complessa per qualunque traduzione didattica.
2
“APPLICAZIONE”? LINGUISTICA TEORICA E GRAMMATICHE SCOLASTICHE
215
un oggetto dei lavori ispirati a questo approccio; e il solo fatto che ogni contributo
muova dalla conoscenza di qualche decina di lingue sembra escluderlo dal campo
della didattica.
L’approccio valenziale iniziato dall’opera postuma di Lucien Tesnière (1959)
merita un discorso più articolato. Molti tentativi importanti di rifondare la grammatica scolastica si rifanno oggi alle idee fondamentali proposte da quell’opera: la
valenza e la traslazione di categoria. Ma il successo stesso di queste idee, la loro pervasività nella ricerca grammaticale contemporanea, non permettono di attribuirle a
un modello definito. La teoria delle valenze non compare più nella versione del suo
fondatore, si è incrociata con l’influenza della logica dei predicati (che a Tesnière
era estranea) e con l’ipotesi dei “casi profondi” o ruoli tematici. Sia nella GG che
nella LFG si è contaminata con la tradizionale analisi bipartita della frase (sintagma
nominale soggetto, sintagma verbale predicato), che Tesnière rifiutava nettamente
(1959: 103-105). In sostanza, il pensiero di questo linguista è onnipresente oggi
nella ricerca e si affaccia nella didattica, ma forse non può più essere considerato
come l’origine di una tendenza.
2. “Basic linguistic theory”?
Negando che sia possibile costruire una grammatica scolastica a partire da una delle
proposte scientifiche del Novecento non intendo negare l’importanza della ricerca per la didattica. Sicuramente ogni ipotesi di riflessione sulla lingua a scuola ha
molto da imparare da tutta la linguistica moderna a partire dallo strutturalismo,
molto dalla GG e dalla LFG, moltissimo dalla teoria delle valenze. Talvolta tra chi si
occupa della materia è circolata l’idea che una grammatica scolastica potesse essere
teoricamente eclettica3. Non rinnegherei oggi questa ipotesi, a patto di precisarla.
Parlare di modelli molteplici, di scuole e tendenze che sono state a volte in polemica tra loro, più spesso si sono ignorate reciprocamente, non implica che la linguistica novecentesca (e del secolo seguente) sia un caos senza senso. Attraverso i
decenni alcuni risultati si sono sedimentati e si è attuato un progresso cumulativo di
conoscenze. Valga qualche esempio. L’idea saussuriana della lingua come “sistema”
in cui “tutto si tiene” sarà stata discussa e corretta in certe formulazioni radicalmente formaliste, ma non mi pare che sia stata rigettata da nessuno. L’idea della
sintassi del periodo fondata sulle stesse relazioni della frase semplice, risultato della
“complementazione” di frasi, può avere diverse formulazioni formali ma è da tempo
patrimonio comune (tranne che per molte grammatiche scolastiche4). Della pervasività della teoria delle valenze ho detto.
C’è dunque una base di acquisizioni condivise di cui ogni grammatica scolastica
dovrebbe tener conto. Qualcosa di simile viene oggi affermato da quegli studiosi di
Vedi Colombo (1982: 48), con riferimento a un precedente intervento di Monica Berretta. Si pronunciava invece per l’adesione a un solo modello teorico Daniela Bertocchi (1986: 256-259).
4
Si tratta di un concetto che compare in Germania già nella prima metà dell’Ottocento, cfr. Graffi
(2001: 116).
3
216
ADRIANO COLOMBO
orientamento tipologico che parlano di una “basic linguistic theory” come «the
fundamental theoretical apparatus that underlies all work in describing languages»
in opposizione a «the invention of a number of restricted sets of formalisms, that
have been called ‘theories’. (Dixon, 1997: 131). Dryer (2006) riprende l’idea in termini di conservazione: «basic linguistic theory (...) can thus be roughly described
as traditional grammar, minus its bad features (...), plus necessary concepts absent
from traditional grammar. It has supplemented traditional grammar with a variety of ideas from structuralism, generative grammar (especially pre-1975 generative
grammar and relational grammar), and typology».
Viene fatto di pensare alla “grammatica ragionevole” che proponeva Lorenzo
Renzi (1977). Ma mentre Renzi si diffondeva a chiarire che cosa era da salvare e
che cosa da buttare della grammatica tradizionale, i due autori citati non precisano
i contenuti della “basic linguistic theory”. Per parte mia in quel che segue assumerò
come “basici” alcuni concetti come un approccio formale e non nozionale alle categorie lessicali e sintattiche, la nozione di sintagma, la concezione della frase come
sistema di relazioni gerarchiche, e infine un approccio alla distinzione tra coordinazione e subordinazione fondato su un paio di studi “classici” sull’argomento (Dik,
1968; Lang, 1984).
3. Una lezione di metodo
Al di là di una certa batteria di concetti, c’è qualcosa di più importante che si dovrebbe acquisire dal mondo della ricerca. Tutti i linguisti, da Saussure in poi, hanno
aspirato a essere “scientifici”. Qui “scientifico” non significa, come in certo senso
comune, “assodato una volta per tutte”, ma al contrario significa soggetto a controversia, in base a procedure e criteri di verifica dichiarati.
Tutti i modelli grammaticali aspirano a partire da dati osservativi, anche se non
c’è poi accordo sulla natura dei dati più rilevanti. Tutti esplicitano i procedimenti
con cui costruiscono categorie e generalizzazioni e i relativi criteri di verifica. È soprattutto questo che la riflessione sulla lingua dovrebbe imparare dalla ricerca.
L’esigenza di rigore metodologico è prima di tutto un’esigenza di onestà intellettuale, quella di «non insegnare ai ragazzini delle balle», come mi accadde di definirla in gioventù (Colombo, 1982: 51). Ecco un esempio, che risale a quegli anni. In
una lezione tenuta con metodo dialogico in una classe di scuola media e registrata,
un ragazzino che non aveva classificato la forma può come un verbo, spiegava, «perché forse non mi dava la sensazione del movimento» (Colombo, 1987). Quel ragazzino stava applicando correttamente la definizione che aveva imparato (“il verbo
indica l’azione”, indubbiamente l’azione implica movimento), eppure l’insegnante
avrà dovuto spiegargli che può è una forma verbale, in base a un criterio morfologico
che l’insegnamento tradizionale sottace. In altre parole, io ti insegno una cosa, tu
devi capirne un’altra, altrimenti sbagli.
L’esigenza di rigore coincide dunque con un’esigenza pedagogica di trasparenza nell’insegnamento grammaticale. Procedere per generalizzazioni motivate, sulla
“APPLICAZIONE”? LINGUISTICA TEORICA E GRAMMATICHE SCOLASTICHE
217
base di dati testuali, sottoporre ogni affermazione a verifica, dunque potenzialmente a controversia, significa fare della riflessione grammaticale un campo di educazione alla razionalità. Nell’insegnamento tradizionale accade spesso il contrario: la
grammatica è il luogo delle affermazioni dogmatiche. Traggo un altro esempio dallo
stesso materiale5: i ragazzi discutono la classificazione delle parole avanti e indietro
nell’espressione «il cigolio del sedile che va avanti e indietro» (si descrive un signore che usa il vogatore per dimagrire). Qualcuno asserisce: «È un verbo, io vado
avanti, tu vai avanti...», qualcun altro: «Indietro è un verbo, perché una persona
fa un’azione». L’insegnante conclude: «Secondo la grammatica avanti e indietro
sono due avverbi di luogo». La grammatica è una specie di Corte di Cassazione che
emette sentenze inappellabili.
La riflessione grammaticale a scuola dovrebbe presentarsi invece come un campo di ricerca, esplorazione, discussione; tutti conosciamo una splendida esemplificazione di questo approccio negli Esperimenti grammaticali di Maria G. Lo Duca
(1997). Non è questa la sede per riprendere la questione della presenza della riflessione grammaticale a scuola, ma almeno una giustificazione è qui necessario accennare, il suo essere un terreno adatto a proporre un’esperienza di approccio scientifico a un ambito fondamentale della realtà umana. Solo in questo senso mi pare
valido l’appello a rifarsi alle grammatiche dei linguisti.
Qualcuno potrebbe chiedersi se un approccio che parta dall’osservazione di campioni testuali per rilevare fenomeni, ricorrenze e costruire generalizzazioni è possibile all’età di otto o nove anni, a cui si fa cominciare un insegnamento grammaticale
sistematico. Una prima risposta è che se a una certa età non è possibile ragionare su
una data tematica, allora bisogna rimandare la sua presenza nel curricolo. Ma credo
che la possibilità ci sia, a patto che il punto di vista sia morfologico, cioè formale.
Non è possibile a un bambino osservare la presenza dei fenomeni di accordo, così
pervasiva nella nostra lingua? E notare che ci sono parole che non sono soggette ad
accordo perché invariabili? Se tra i primi elementi tutti i libri di testo propongono
le categorie del numero e del genere, non sarà possibile mostrare la corrispondenza
sistematica tra differenze di significato e differenze di forma6? Non mi spingo più
oltre, perché proseguire significherebbe delineare un curricolo di riflessione sulla
lingua lungo gli anni di scuola. Lo ho fatto altrove (Colombo, 2012-2013); ma si
converrà che verificare se a una variazione di forma corrisponde una variazione di
significato, o se la terminazione di una parola controlla quella di altre parole vicine,
non è “più difficile” che fare scelte impossibili (spessore designa una “cosa” o una
“qualità”?), come si chiede correntemente a bambini di otto o nove anni.
Si tratta di un fascicolo edito del 1982 da una scuola media di Sassuolo sotto il titolo Pensare le parole,
che riportava la registrazione di conversazioni di argomento grammaticale tenute in diverse classi.
6
Degli undici manuali di riflessione grammaticale in uso nella scuola primaria che ho esaminato, non
uno fa cenno al fenomeno della concordanza. La distinzione tra parole variabili e invariabili appare in
due, solo come criterio di classificazione delle parti del discorso; in cinque compare la distinzione tra
“radice” e “desinenza”, ma solo in quattro si accenna alla corrispondenza tra variazione di significato e
variazione di forma.
5
218
ADRIANO COLOMBO
4. Descrizione vs norma
Dare alla grammatica scolastica un approccio di tipo scientifico significa ovviamente in primo luogo sbarazzarla del compito di tutore della norma e censore delle sue
violazioni. L’aspetto normativo delle grammatiche scolastiche è il più studiato, e
resta ai margini di questo intervento. Mi limiterò a osservare che non mi sento di
condividere del tutto il pessimismo dello studio più recente in materia (Bachis,
2013), che analizzando le grammatiche più adottate nelle scuole medie e nei bienni (rispettivamente sette e sette) conclude che «non si registrano scossoni rispetto
alla tradizione normativa precedente (quella, per intenderci, già stigmatizzata da
Simone - Cardona7)» (Bachis, 2013: 345).
L’analisi di Bachis prende in considerazione ovviamente l’uso di lui, lei, loro
come soggetto, e nota che esso è riconosciuto corretto da quasi tutte le grammatiche esaminate, ma negli esempi, negli esercizi e nelle tabelle di coniugazione ricompaiono egli ed ella. L’analisi che ho condotto in parte sugli stessi testi, in parte su
altri, ed estesa alle grammatiche per la scuola elementare8, conferma questi dati; ma
ciò non può oscurare il fatto che i pronomi un tempo censurati compaiano quasi
ovunque fin dai primi elenchi dei pronomi personali soggetto alla pari con le forme
della tradizione grammaticale (a volte lui è affiancato a egli tra parentesi, a volte
accade il contrario); fanno eccezione solo due delle sette grammatiche per la quarta
elementare, in una delle quali compare un commento di sapore puristico, «lui/lei
oggi si usano spesso come soggetto, anche se andrebbero usati come complemento»
(P45-3: 43). Lo stesso si può dire delle sei grammatiche per la scuola media9, tre
delle quali si soffermano anzi a elencare i casi in cui è necessario usare lui, lei, loro
(M2: 234; M4: 213; M6: 228); e pazienza se si incontra un commento storicamente
sbagliato perché dà l’impressione che si tratti di innovazione recente, «Egli, ella
(...) oggi vengono sempre più sostituiti da lui e lei» (M4, ibid.). Uguale unanimità
si riscontra nelle cinque grammatiche per il biennio, una delle quali fa la cosa più
giusta a questo livello di studi, introducendo una breve scheda storica sull’uso dei
pronomi soggetto (S3, 195); la stessa introduce lui e loro come soggetti nelle tabelle
di coniugazione, mentre altre due liberano finalmente le tabelle dal tic di porre un
soggetto pronominale davanti a ogni forma verbale (S4: 743-744; S5: 227).
Venendo a un altro punto critico del sistema dei pronomi personali italiani,
a proposito degli usi di gli per il plurale e per il femminile Bachis commenta che
«poco o nulla sembra cambiato». In base ai miei spogli, concordo solo in parte.
Delle sette grammatiche per la quarta e quinta elementare, solo due censurano questi usi, con segnali come «ALT!» (P45-4: 45), o «Fai attenzione» (P45-6: 94); le
altre ignorano il problema. Più compatta la censura delle grammatiche per la scuola
Il riferimento è al noto studio di Simone - Cardona (1971).
L’elenco dei testi, indicati con una sigla, si trova in Appendice. La complicazione delle edizioni in due
volumi per la scuola media ha fatto sì che di un testo (M3) potessi avere a disposizione solo il volume
A contenente la morfologia, di un altro (M5) solo il volume B contenente la sintassi.
9
Già Sgroi, esaminando sei grammatiche per la scuola media in uso negli anni Novanta, trovava che in
quattro l’uso era citato e non censurato, in due non era nominato (2010: 75).
7
8
“APPLICAZIONE”? LINGUISTICA TEORICA E GRAMMATICHE SCOLASTICHE
219
media: quattro condannano, una ignora. Ma due introducono la distinzione, già
registrata da Serianni (2006: 86), tra la diffusa accettazione del gli plurale e il crescente rifiuto del gli femminile tra le persone colte (M7: 16710; M8: 113). Lo stesso
posso dire delle grammatiche per il biennio: due delle cinque consultate parlano di
«errori da evitare» (S2: 253) o di «forme ormai accettate nell’orale, ma che non
sono accettabili nello scritto» (S5: 354); due si attengono alla distinzione tra uso
per il femminile e per il plurale, con qualche indicazione di registro (S1: 147; S4:
762), una introduce senz’altro in tabella gli per il dativo plurale (S3: 192). Mi pare
che si possano cogliere i segni di una situazione in movimento.
5. Categorie lessicali
Il terreno di confronto più significativo tra grammatiche scolastiche e linguistica teorica non sono a mio parere gli aspetti normativi, ma proprio le “strutture teoriche”
(Simone - Cardona, 1971). Le definizioni delle categorie lessicali maggiori sono
importanti sia perché fanno trasparire «la batteria di nozioni teoriche di cui ciascuna grammatica scolastica italiana si serve nella descrizione della lingua», sia perché
forniscono agli studenti gli strumenti che useranno per identificare le categorie. E
in questo campo non si registrano cambiamenti nemmeno tendenziali rispetto alla
situazione denunciata dai due autori:
La distinzione e la definizione delle parti del discorso è forse il punto in cui più
chiaramente si rivela la discendenza delle grammatiche scolastiche italiane da un archetipo che possiamo chiamare aristotelico-scolastico» (ivi: 370).
Scorrendo grammatiche che coprono l’arco dalla terza elementare al biennio secondario superiore, colpisce una desolante uniformità. Vediamo ad esempio la definizione del nome. Il nome, si sa, indica persone, animali, cose11, questo non manca mai
nei manuali per la scuola elementare12; ma la lista è chiaramente insufficiente, per
cui è necessario, aggiungere ad esempio «creature immaginarie, idee e sentimenti»
(P3-4: 162). La sintesi più brillante può essere questa: «ci sono nomi che indicano
animali, persone, cose, luoghi, sentimenti, periodi di tempo, fenomeni atmosferici...
Abitualmente però, i nomi si raggruppano in tre grandi insiemi, nomi di persona,
nomi di animale, nomi di cosa» (P45-4: 21). Così lo scolaro è avvertito che nell’analisi grammaticale accanto a giornata dovrà scrivere “nome di cosa”; e perché la giornata è una cosa? Perché giornata è un nome. Ecco un esempio di quel che intendo se
parlo della grammatica come (dis)educazione alla razionalità.
Dove non manca un consueto errore di prospettiva storica: «oggigiorno si sta diffondendo l’abitudine di usare gli con il significato di “(a) loro”». Evidentemente la lettura dei classici della nostra
letteratura non è molto familiare agli autori di grammatiche scolastiche.
11
Una sola grammatica, destinata alla terza elementare (P3-4: 162), aggiunge “piante”, colmando una
storica lacuna nel catalogo dei regni della natura.
12
Alcuni manuali per la quarta e quinta elementare danno per nota la definizione, essendo il nome
un argomento “di terza”. Uno per la terza, poi, introduce l’argomento con «Io ricordo!» (P3-3: 196),
presupponendo che sia già stato trattato in seconda.
10
220
ADRIANO COLOMBO
Nelle grammatiche per la scuola media la lista si allunga fino a nove elementi
(M6: 93); ma dato che non c’è catalogo che possa esaurire l’universo del nominabile, di solito si trova una “norma di chiusura” come la seguente: «In una parola
tutto ciò che esiste o che possiamo immaginare» (M2: 110). Le grammatiche per
il biennio si pongono sulla stessa linea, che perseguita con rigore porta a questo
risultato: «È nome tutto quello che noi identifichiamo come un oggetto a sé stante,
di cui facciamo una qualche esperienza, tanto da permetterci di dargli un nome specifico...» (S5: 301). Qui la circolarità è perfetta: il nome designa ciò che può essere
designato da un nome.
Nessuna di queste definizioni è falsa, è vero che i nomi designano oggetti fisici e
mentali. Ma l’idea che una definizione possa servire come criterio che verifica o falsifica l’attribuzione di un membro a una classe è estranea a tutti i manuali di grammatica che ho esaminato. Le presunte definizioni sono considerazioni utili a chi sa
già riconoscere in una parola un nome. L’assenza di verificabilità si associa all’assenza di una considerazione formale della categoria: queste definizioni si trovano in
sezioni dei manuali intitolate alla morfologia, e di morfologico non hanno niente.
Un approccio morfologico e verificabile potrebbe muovere dall’osservazione che
i nomi possiedono intrinsecamente un genere e si flettono secondo il numero (mentre aggettivi e determinanti si flettono secondo entrambe le categorie). Ma questa
osservazione è sistematicamente ignorata dalle grammatiche scolastiche, che pongono genere e numero dei nomi sullo stesso piano: i nomi «possono essere di genere
maschile o femminile (...) possono essere di numero singolare o plurale» (M2: 120,
129). Si offrono esempi ed esercizi di conversione maschile/femminile centrati sui
nomi di animale e di professione (gatto/gatta, pittore/pittrice), che vengono presentati come se fossero il caso più generale13. Se questi nomi “mobili” fossero assimilati
agli aggettivi, in quanto dotati di quattro desinenze, per mantenere la distinzione
senza uscire dalle considerazioni formali basterebbe notare che i nomi “comandano”
l’accordo con gli aggettivi e i determinanti: un modo di rendere palpabile la fumosa
distinzione tra “sostanza” e “qualità”14.
Le conseguenze dell’approccio semantico alle categorie sono documentate, per
anni ormai lontani, nelle registrazioni in classe già citate15. Un ragazzo di scuola
media afferma: «Io intendo per nomi le cose, gli oggetti». Tutta una classe non
classifica difficoltà tra i nomi con questa motivazione: «non è un nome, non è un
oggetto, non è un animale, una persona, è una cosa che non si può toccare, è astratta
e quindi è un aggettivo». Per anni più recenti abbiamo la ricerca di Lo Duca - Polato
(2009) sul riconoscimento dei nomi. In un nutrito campione di studenti dalla terza
Come è noto, a livello scientifico questo fenomeno è trattato come un caso di derivazione (“mozione”), non di flessione (Grossmann - Rainer, 2004: 220 segg.; Schwarze, 2009: 355).
14
Di accordo le grammatiche scolastiche parlano di solito a proposito dell’aggettivo e dell’articolo, più
di rado nei paragrafi sul nome. In ogni caso non ne fanno un criterio di riconoscimento (un’eccezione:
M6). Trovo però in una grammatica per il biennio (S5: 308): «la pratica tradizionale dell’analisi grammaticale non mostra questa differenza fra genere del nome (stabile) e genere dell’aggettivo (variabile)
e quindi può risultare imprecisa».
15
Vedi nota 5.
13
“APPLICAZIONE”? LINGUISTICA TEORICA E GRAMMATICHE SCOLASTICHE
221
elementare alla terza secondaria superiore, meno della metà riconosce nomi astratti
come nomina, distribuzione, fortuna, ritardo, senza differenze rilevanti tra i diversi
livelli di scuola. Insomma le liste che seguono “il nome indica...” possono allungarsi
quanto si vuole, quello che resta nelle menti è l’identificazione con gli oggetti fisici.
Le definizioni dell’aggettivo sono ancora più uniformi, con una sola variazione:
«gli aggettivi qualificativi descrivono le qualità di una persona, un animale, una
cosa e accompagnano un nome» (P3-1: 141); «l’aggettivo qualificativo si aggiunge al nome per indicarne una qualità» (P3-2: 42). Nel primo caso la “qualità” è
attribuita al referente del nome, nel secondo direttamente al nome: sono i nomi ad
essere belli o brutti, grassi o magri. La distinzione è troppo sottile per gli autori di
grammatiche, tanto che le due versioni ricorrono dalla terza elementare al biennio;
ma di lì passa la differenza tra l’identificazione magica e primitiva tra parola e cosa e
una concezione simbolica della lingua.
Quanto ai verbi, si sa, indicano azioni ma non solo azioni. Il tentativo di catturare in una formula un universo di funzioni semantiche porta a definizioni come
questa: «I verbi indicano azioni, modi di essere, uno stato o una condizione» (P34: 174). Sfido chiunque a individuare un verbo su questa scorta, anche se non ha
otto anni come i destinatari del testo citato. Questo approccio si intreccia con un
altro di tipo sintattico: il verbo è «la parte variabile del discorso che fornisce informazioni sulle azioni che il soggetto della frase compie o subisce, sui suoi modi di
essere, sui suoi modi di presentarsi» (M4: 256); peccato che i libri che definiscono
il verbo in funzione del soggetto parlino di soggetto decine o centinaia di pagine
più avanti. L’approccio sintattico insiste per lo più sulla centralità del verbo nella
frase, con variazioni metaforiche come «il verbo è dunque una sorta di centro vitale
del messaggio» (M1: 207), «è la parola per eccellenza» (M2: 276), «è l’elemento
dinamico che, con il suo significato, mette in moto nella nostra mente il meccanismo
centrale della frase» (S4: 129). Espressioni lontanissime da un criterio di classificazione e di verifica. Un solo testo, sui venticinque esaminati, si ricorda di come un
adulto scolarizzato riconosce un verbo: «il verbo si coniuga. In fondo questo è ciò
che distingue un verbo da altre parti del discorso che pure indicano “azione”» (S5:
217). Un’affermazione eversiva, che rimette la grammatica coi piedi per terra, può
essere avanzata solo con cautela: “in fondo...”.
6. L’analisi della frase semplice
6.1 Il sintagma
L’analisi della frase è il terreno in cui apparentemente la linguistica del Novecento
ha segnato in modo più esteso le grammatiche scolastiche. Questo è vero solo in parte per il concetto basilare di sintagma (o costituente sintattico), comune a tutte le
tendenze novecentesche, senza il quale «non è possibile compiere un’analisi sintattica adeguata» (Graffi, 1994: 76). Il termine compare in due delle quattro grammatiche per la terza elementare esaminate (P3-1: 161; P3-3: 223), dove naturalmente è
presentato in modo ostensivo, ma ricompare poi in una sola delle otto per la quarta
222
ADRIANO COLOMBO
e quinta (P45-3: 65), dove è una pura (e superflua) premessa «per svolgere l’analisi
logica». In una grammatica per la scuola media il sintagma appare in una scheda “di
approfondimento”, del tutto priva di conseguenze su una tradizionalissima analisi
logica (M4: 433). Siamo al peggio degli anni Settanta: una inutile spolveratura terminologica sovrapposta a un’impostazione tradizionale.
Una sola delle grammatiche per la scuola media presenta il sintagma in modo sistematico, nel quadro di un approccio all’analisi di frase basato sulla scomposizione
binaria risalente allo strutturalismo americano (M3: 442 segg.); un’impostazione simile appare in una per il biennio (S1: 287). Le altre per la media ignorano il termine
e il concetto. Al biennio, due testi introducono il concetto (S3: 427 segg.; S5:, 308,
398) mentre altri due lo ignorano, uno (S2), comprensibilmente, in un contesto
di analisi logica tradizionale; meno comprensibilmente S4, che è tutto giocato su
un’articolata grammatica delle valenze, ha scelto di ignorare la nozione di sintagma,
con conseguenze a mio parere criticabili (ma non è questo il luogo per entrare in
particolari).
Parlare di sintagmi sarebbe necessario, ma forse sarebbe ancora più importante
provare il fondamento della nozione e fornire criteri per individuarli. Dei cinque
criteri indicati da Graffi (1994: 76-80) nessuno compare in un testo scolastico.
6.2 L’analisi della frase
Di tutta la ricerca grammaticale del Novecento, un’idea ha sicuramente trionfato
nella scuola: la “frase minima” a due membri, soggetto e verbo, attinta all’opera di
André Martinet (1961: 122). Un’idea infelice di un grande linguista. Infelice in
primo luogo perché Martinet non ha mai preso in considerazione, neppure nella
Syntaxe générale (1985: 119), i verbi che esigono un secondo argomento che non
può essere sottinteso né cancellato o generalizzato. In secondo luogo la “frase minima” in sede didattica è inevitabilmente concepita come ciò che resta dopo che si è
tolto da una frase tutto ciò che è meno importante e un bambino o un adolescente
tende a interpretare “meno importante” in senso comunicativo, non formale; ma
non è detto che il nucleo di una frase debba contenere il focus dell’enunciazione.
La confusione tra struttura sintattica e funzione comunicativa può essere favorita
anche da un altro termine martinetiano di grande successo, “espansione”, riferito a
tutto ciò che non è soggetto o verbo, che facilmente può essere inteso come qualcosa
di esornativo, un “arricchimento” dell’informazione, dicono alcuni manuali.
La frase minima è assunta dalla maggioranza delle grammatiche per la quarta
elementare e per la scuola media, con l’unica conseguenza di chiamare “espansioni”
i complementi, prima di passare all’analisi logica.
La novità più significativa, nelle grammatiche per i due gradi della scuola secondaria, è la comparsa di un approccio valenziale, o almeno di una concezione della
frase come sistema di dipendenze, che ho rilevato in un testo per il primo grado
“APPLICAZIONE”? LINGUISTICA TEORICA E GRAMMATICHE SCOLASTICHE
223
(M7)16 e in quattro per il secondo grado, di cui almeno due sono di ampia diffusione. Il termine “valenza” compare in S4 (131) e in S5 (147) che sono impostati
su questo approccio. Ma non è il termine che importa: M7, per la media, classifica
i complementi in “complementi del predicato, del nome, della frase”, e solo dopo
questa analisi formale giunge a una classificazione più tradizionale (si sa, gli editori
hanno paura delle novità).
Al livello del biennio, S2 presenta dapprima la «frase minima, o frase nucleare», che può essere a uno, due, tre argomenti (486-489), poi un’analisi in “gruppo
del soggetto” e “gruppo del predicato”; il tutto sfocia in una elencazione di almeno
45 complementi. S3 si limita a distinguere “espansioni del predicato” (e tra queste
espansioni “necessarie” e “facoltative”) ed “espansioni di elementi nominali” (429);
ma da questa premessa giunge poi all’analisi logica, trattata con sprazzi di buonsenso che altrove mancano, ma pur sempre vacua. Un’impostazione organicamente
valenziale compare in S4 e S5. A questo livello di scuola la necessità di analizzare la
frase come un sistema di dipendenze, con un centro e una periferia, si sta facendo
strada; a volte con compromessi più o meno abborracciati con la tradizione, a volte
con uno sforzo di innovazione più sostanziale.
6.3 Il soggetto
La definizione di soggetto è un luogo topico di verifica dei presupposti teorici di
una grammatica scolastica. Le grammatiche per la terza elementare17 che ho visto si
dividono equamente tra due approcci tradizionali, quello di origine logica (il soggetto è ciò di cui il predicato predica) e quello fondato sull’idea che il verbo indichi
azione (il soggetto compie l’azione). Due accolgono sincretisticamente le due posizioni: «Il soggetto è la persona, l’animale o la cosa di cui si parla. Il predicato spiega
che cosa si dice del soggetto, cioè che cosa fa o come è» (P3-4: 157).
Come ha spiegato Halliday (1985: 33), ciascuna delle due definizioni ha una sua
validità, ma esse definiscono concetti diversi, per cui non è corretto attribuirle a una
sola categoria “soggetto”. “Ciò di cui si parla” è il tema della frase nella sua funzione comunicativa ed è caratterizzato in genere dalla posizione iniziale, l’attore della
(eventuale) azione rappresentata dal verbo riguarda la frase come rappresentazione
di un processo; la coincidenza tra i due in una stessa espressione è frequente ma non
necessaria. Ma Halliday identifica anche una terza funzione, che definisce propriamente “soggetto”, una relazione puramente grammaticale che determina vari tratti
della frase, come l’accordo tra soggetto e verbo. È proprio questa relazione grammaticale che chiediamo agli studenti di identificare, ed è questa che viene taciuta dalle
definizioni scolastiche, protese alla ricerca di concetti più profondamente filosofici.
M4: 445 ha una scheda di “approfondimento” su verbo, valenza, argomenti, priva di conseguenze
sulla trattazione dell’analisi logica che segue. M6: 486 parla di frase minima a zero, uno, due tre argomenti; ma sviluppando l’analisi logica non vi fa più nessun riferimento.
17
Pare scontato che soggetto e predicato siano argomenti “di terza”, tanto è vero che la maggioranza delle grammatiche per la quarta che ho consultato introduce l’argomento con espressioni come
“Ricorda,”, “Sai già che...”, “Ripassiamo”.
16
224
ADRIANO COLOMBO
Solo due grammatiche per la scuola elementare citano l’accordo nella definizione di soggetto, ma si guardano dal farne un criterio di individuazione. Le grammatiche per la scuola media riprendono e variamente arricchiscono i due approcci citati
e il sincretismo; quattro nominano il legame di concordanza tra soggetto e verbo,
ma una sola come criterio di riconoscimento (M5: 83). In quelle per il biennio appare invece un mutamento sostanziale: tutte e cinque quelle esaminate danno rilievo
alla concordanza tra soggetto e verbo, e quattro la indicano più o meno esplicitamente come criterio di verifica. «In ogni caso il soggetto viene riconosciuto come
tale per le sue proprietà grammaticali, è infatti, solitamente, un’espressione nominale
che concorda [...] con il verbo» (S1: 292). O, ancora più chiaramente: «il soggetto
determina la morfologia della voce verbale [...] Per verificarlo, basta provare a sostituire un soggetto singolare con uno plurale ...» (S3: 439). È rarissimo leggere in una
grammatica scolastica la parola verificare, e forse qui si può scorgere il primo segno
di quella che potrebbe diventare una piccola rivoluzione.
7. Sintassi superiore: la coordinazione
Il capitolo della coordinazione è stato tradizionalmente alquanto trascurato dalle
grammatiche scolastiche (e non solo da quelle), nonostante si tratti probabilmente
del fenomeno sintattico più pervasivo in ogni varietà di lingua e di testi. Mi soffermerò su tre questioni che sono altrettanti punti deboli della tradizione: la preminenza della coordinazione tra frasi o tra sintagmi, la distinzione tra coordinazione e
subordinazione nel periodo, la lista delle congiunzioni coordinanti.
7.1 Coordinazione di che?
La grammatica tradizionale ha presentato la coordinazione nel capitolo sulla sintassi
del periodo, dunque come qualcosa che riguarda in primo luogo il rapporto tra frasi (o “proposizioni”) indipendenti; la coordinazione tra membri minori della frase
veniva ignorata o presentata con un rapido accenno marginale. Se ne può ricavare
l’impressione che la coordinazione tra frasi sia il caso più frequente, ma la realtà è
diversa. Esaminando centinaia di casi ho trovato che la coordinazione tra frasi era
intorno al 28% se il coordinatore era e, era poco meno della metà delle coordinazioni con ma, era meno del 6% nel caso di o (Colombo, 2012: 14-18).
Anche su questo punto la situazione è in movimento: su diciannove grammatiche che si prestano a questo scrutinio, solo sette prendono in considerazione esclusivamente la coordinazione tra frasi. Singolare il caso di una per il biennio: in un percorso tutto impostato sulla grammatica delle valenze, sono introdotti gli “argomenti
compositi” (S4: 203-213), che includono i predicativi, le polirematiche e altri casi,
ma non gli argomenti composti da sintagmi coordinati, mai nominati (salvo errore)
in tutto il volume.
Le altre grammatiche si preoccupano di segnalare, fin dalla prima definizione
delle congiunzioni coordinanti, che esse possono unire, oltre che frasi, “due parole”
o “elementi”; la imprecisione o vaghezza di queste espressioni nascono dal rifiuto
“APPLICAZIONE”? LINGUISTICA TEORICA E GRAMMATICHE SCOLASTICHE
225
di usare la nozione di sintagma. Significativo il caso di S3, 398¸ che si preoccupa di
elencare tutte le funzioni che possono essere unite nella coordinazione («due nomi
soggetto», «due nomi complemento oggetto», «due nomi complemento indiretto» e via dicendo, per una lista di otto item); tutto per non dire “due sintagmi”,
sebbene la nozione sia introdotta nel testo.
7.2 Coordinazione e subordinazione
La distinzione tra coordinazione e subordinazione di frasi è forse l’unica per la quale
si sia usato un criterio di verifica nella tradizione della sintassi. Un buon esempio
della concezione tradizionale è S4 (366): «La frase reggente è quella che anche da
sola ha un significato compiuto, mentre la dipendente da sola non sta in piedi».
Un tempo la definizione era accompagnata da una verifica, per esempio: «Se dico
“Luigi è partito e Fabrizio è rimasto” posso scindere quest’enunciato in due frasi,
ciascuna perfettamente autonoma, cioè, “Luigi è partito”, “Fabrizio è rimasto” [...]
l’enunciato “Non esco perché devo riposare” contiene solo una frase autonoma, Non
esco; la frase perché devo riposare non può stare sola in questa forma; diciamo che
“è subordinata” all’altra» (Corti et al., 1979: 521). Già all’epoca fu osservato da
alcuni alunni di scuola media che la verifica è fallace, in quanto la frase subordinata
viene isolata preceduta dalla sua congiunzione (perché devo riposare), mentre dalla
frase coordinata viene omessa la congiunzione che la precede; per fare un confronto
valido bisognerebbe mostrare che è autonoma la frase e Fabrizio è rimasto18. Anche
in anni recenti ho notizia che l’osservazione è ricomparsa, in classi in cui gli allievi sono
educati a ragionare criticamente sugli insegnamenti che ricevono.
Non so se sia effetto delle ripetute segnalazioni di questa fallacia se la verifica
citata si trova in poche delle grammatiche recenti esaminate: alle volte col comodo
espediente di applicarla a una frase dipendente al congiuntivo, che ovviamente non
può essere autonoma (P45-5: 130; M2: 430), alle volte con la semplice affermazione
apodittica «è una frase coordinata alla principale, ma [sic] ha senso compiuto anche
da sola» (applicata al frammento e ha ricevuto un bel premio (P45-4: 141). Da questo alla semplice tautologia il passo è breve: «Se per riprendere l’esempio precedente – Mangio troppo e ingrasso – voglio modificare il rapporto fra le due frasi, in modo
che una dipenda dall’altra, posso dire, Ingrasso perché mangio troppo. La congiunzione subordinante perché, prendendo il posto della e, rende dunque l’atto di mangiare
dipendente sintatticamente dal verbo ingrasso» (M1: 346). Reciprocamente, si ha
coordinazione se il rapporto è tra «due o più frasi singole, ma ognuna affiancata
all’altra senza alcun rapporto di dipendenza» (S4: 419).
Ben otto grammatiche tentano di spiegare coordinazione e subordinazione riferendosi a un non precisato concetto di “importanza”: sono coordinate «due frasi di
uguale importanza ma [sic] indipendenti fra loro» (P45-1: 120), «quando si usano
le congiunzioni subordinanti, si mettono in rapporto le frasi in modo che una sia
più importante dell’altra» (M3: 417). Se l’“importanza” è da intendere in senso
18
In questo passo ho ripreso quasi alla lettera Colombo (2012: 11).
226
ADRIANO COLOMBO
comunicativo, è sicuramente un criterio fallace; se in senso puramente sintattico, è
ancora una volta una tautologia. Sembrerebbe meno vago il criterio del “senso compiuto”, ma che cos’è un “senso compiuto”? In chiave sintattica, è evidente che tutte
le frasi che reggono una completiva non sono autonome, “Il presidente ha dichiarato...”, “Mi domando...”, sono frasi reggenti che senza la completiva non hanno autonomia; in chiave comunicativa, non è possibile prevedere su basi sintattiche dove
vada a collocarsi il focus di un’enunciazione. Merita di essere citata l’unica grammatica che mostra consapevolezza di questa fallacia: in una lista di caratteristiche della
frase principale inserisce «non sempre ha un significato autonomo, cioè un senso
compiuto da sola» (M7: 550).
Nell’insieme questo snodo centrale della sintassi appare nei testi scolastici fatto
di definizioni e spiegazioni fumose. Solo in tre manuali per il biennio trovo osservazioni che potrebbero costituire la base per un approccio meno confuso. Due danno
rilievo alla libertà di posizione che caratterizza quasi tutte le frasi subordinate, in
confronto al vincolo di successione lineare che vige spesso tra frasi coordinate (S3:
534; S4: 366); non indicano però questa caratteristica come un possibile criterio di
verifica. Il terzo punta su un carattere costitutivo delle frasi subordinate: esse «rappresentano la versione in forma di frase, con un proprio predicato, di un argomento
del verbo, dipendente dalle valenze del verbo, oppure di un complemento circostanziale» (S5: 511).
Lungo queste linee, credo, si potrebbe individuare un criterio di definizione di
coordinazione e subordinazione più rigoroso e verificabile, ma nell’insieme le grammatiche scolastiche sembrano ancora lontane dall’avvertirne anche solo l’esigenza.
7.3 Le congiunzioni coordinanti
Gli elenchi di congiunzioni coordinanti (o coordinative) e la loro classificazione
sono il punto in cui ho trovato la maggiore omogeneità tra le grammatiche scolastiche. Quelle per le elementari di solito trattano l’argomento in modo sbrigativo, fornendo elenchi indifferenziati, a volte senza distinguere tra coordinative e
subordinative; ma quando adottano una classificazione, è esattamente la stessa che
si ripete in tutte quelle per la media e per il biennio: la nota lista di congiunzioni
copulative, disgiuntive, avversative, conclusive, correlative. Queste classi semantiche
prive di distinzioni al loro interno potrebbero indurre a credere che invece abbia lo
stesso significato di ma, o infatti di cioè19, ma i punti che vorrei evidenziare sono altri:
le parole elencate sono tutte allo stesso titolo congiunzioni? Hanno tutte la funzione di
coordinare?
Primo punto. Le congiunzioni che possiamo considerare prototipi della categoria, e tra le coordinanti, che tra le subordinanti, si trovano sempre e solo in posizione
iniziale rispetto alla frase o al membro di frase che introducono: non si può spostare
e all’interno del sintagma o della frase che introduce, come si può fare ad esempio
19
Solo S3: 399-400 introduce alcune precisazioni semantiche.
“APPLICAZIONE”? LINGUISTICA TEORICA E GRAMMATICHE SCOLASTICHE
227
con inoltre. Questo vincolo è comune a tutte le subordinanti, ma tra le cosiddette
coordinanti è condiviso solo da e, o, ma, dai composti con e ed o, da né e sia; le altre
parole ed espressioni degli elenchi si possono trovare all’inizio, all’interno o alla fine
dell’elemento che si dice coordinino: si può dire “invece la cosa è così”, “la cosa invece è così”, “la cosa è invece così”, “la cosa è così, invece”; una tale libertà di posizione
è condivisa dagli avverbi, con vari gradi di flessibilità (Schwarze, 2009: 187-190).
Secondo punto. Solo e, o, ma, i composti con e ed o, né, sia si trovano sempre
tra elementi coordinati; le altre espressioni possono trovarsi all’interno di una frase
subordinata e rinviare alla reggente. Basta pensare a quante volte parole come tuttavia, perciò, infatti seguono un che relativo e rinviano dalla relativa alla sua reggente:
coordinano? Non mancano i casi in cui il rinvio va dalla reggente alla subordinata,
o dal predicato a un complemento di una stessa frase semplice (“nonostante questa
obiezione, resta tuttavia vero che...”).
Queste considerazioni, ed altre, mi hanno indotto da tempo a ritenere che nel
calderone delle coordinanti siano finite parole che non sono congiunzioni, ma avverbi anaforici che denomino “connettori testuali”; la distinzione è importante perché apre uno spiraglio sul fenomeno della coesione testuale in quanto distinto dalla
struttura sintattica (Halliday - Hasan, 1976). Non ripeterò qui l’argomentazione
che ho sviluppato altrove (Colombo, 2012); mi limito a ribadire che trovo incomprensibile che generazioni di autori di manuali ripetano la stessa litania senza essere
sfiorati da dubbi20, con questo invitando gli allievi a non dubitare e non riflettere.
Anche in questo caso la rigidità schematica delle grammatiche per la scuola di
base si attenua in alcune di quelle destinate al biennio. Ad esempio S4, che tratta le
parti del discorso in una sintetica appendice, alla lista delle avversative aggiunge che
«hanno anche valore di congiunzione testuale21, nel senso che mettono in contrapposizione blocchi di testo» (767). Dal canto loro gli autori di S3 si mostrano consapevoli della problematicità della classificazione che espongono quando adottano
espressioni sfumate come «Anche, pure, inoltre, altresì e neppure, neanche, nemmeno
sono tradizionalmente considerate congiunzioni copulative, positive o negative,
con una funzione aggiuntiva rispetto alla congiunzione e» (399); ma che cosa può
significare per il giovane destinatario leggere “sono tradizionalmente considerate”
invece che “sono”? Come può apprezzare la differenza, se non gli è fornito nessun
criterio di valutazione? Mi pare che siamo in presenza di un tipico caso di quella che
Lucia Lumbelli ha definito “aggiunta relativizzate”: «una specie di avvertimento
indiretto a non generalizzare troppo, avvertimento che convive però con la generalizzazione stessa... Una specie di doppio vincolo rivolto al lettore» (1989: 51).
Nella storia delle grammatiche scolastiche ci possono essere state eccezioni; la più notevole probabilmente è Ferrari - Zampese, 2000, che sollevava la questione, sebbene desse risposte diverse in luoghi
diversi (vedi Colombo, 2012: 57).
21
È l’etichetta adottata dal dizionario Sabatini-Coletti (DISC) per i connettori testuali.
20
228
ADRIANO COLOMBO
8. Per concludere
In sintesi, si può affermare che le grammatiche scolastiche sono oggi meno rigidamente normative che in passato, accolgono sparsamente alcuni concetti della linguistica teorica, ma sembrano nel complesso refrattarie ad accogliere la essenziale
lezione di metodo che dovrebbero ricavare da questa, l’idea che la riflessione sulla
lingua sia appunto riflessione, cioè ricerca, fondata su dati, condotta con procedure
esplicite e controllabili, verificabile e falsificabile nelle sue conclusioni.
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Appendice
Grammatiche scolastiche esaminate
Per la terza primaria:
P3-1
P3-2
P3-3
P3-4
Valdiserra, Io, tu e Pilù, 3 Letture, Linguaggi espressivi, Grammatica, Giunti
Scuola 2008
Aleotti - Castiglion, Re 33, 3 Il laboratorio linguistico, Il capitello 2006
Conti - Rubaudo, Olmo bla bla. Il libro di italiano, Il Capitello 2009
Ceccarelli - Vecci, In bocca al lupo. Il libro dei linguaggi 3, Raffaello 2008
Per la quarta e quinta primaria:
*P45-1 Puggioni - Branda - Binelli, Castelli in aria, 4^ e 5^ Riflessione linguistica,
Giunti del Borgo 2009
*P45-2 Valdiserra - Ventriglia, Gatto bianco gatto blu 4.5 Riflessione sulla lingua,
Giunti Scuola 2006
230
ADRIANO COLOMBO
P45-3 AA.VV., A mondo mio 4 e 5 Riflessione linguistica, Gruppo editoriale
Raffaello 2009
P45-4 Berti - Rubaudo, Farfalle bianche. Grammatica 4 5, Il Capitello 2008
P45-5 Chiara - Zanchi, Sempre meglio 4-5 Riflessione sulla lingua. De Agostini
2006
P45-6 Ceccarelli - Vecci, Acchiappanuvole. Il libro di grammatica 4 e 5. Raffaello
2010
P45-7 AA.VV., Isole di carta. 4. Riflessione linguistica. 5. Riflessione linguistica.
Ardea – Tredici editori 2008.
*P5-1 Fortunato, Dalla lingua alla grammatica 5, Minerva scuola 2009
Per la scuola secondaria di primo grado:
M1
*M2
*M3
*M4
*M5
*M6
M7
M8
Panebianco - Pisoni - Reggiani - Varani, Doppio slalom, Zanichelli 2004
Zordan, Datti una regola, versione compatta, Fabbri 2012
Musso, Parole che contano, A, Fonologia e morfologia, Lattes 2009
Palazzo - Arciello - Maiorano, Apritisesamo, A. Loescher 2009
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Asnaghi - Manzi, Grammatica con metodo. A Le regole, Cedam Scuola 2009
Mandelli - Rovida - Gaudenzio, Passaparole, A, Principato 2011
Rossi - Rossi, L’ora di italiano. Grammatica, Zanichelli 2013
Per il biennio della scuola secondaria di secondo grado:
*S1
*S2
*S3
S4
S5
Panebinco - Pisoni - Reggiani - Varani, Grammabilità. Grammatica, Zanichelli
2012
Sensini, La competenza linguistica, A. Mondadori Scuola 2012
Serianni - Della Valle - Patota - Schiannini, Lingua comune, B. Mondadori
2011
Sabatini - Camodeca - De Santis, Sistema e testo. Loescher 2011
Notarbartolo - Graffigna, Grammatica nuova. Bulgarini 2010
N.B. L’asterisco segnala che i testi, o testi con altro titdolo degli stessi autori, compaiono nelle liste dei sette più adottati nei due livelli della scuola secondaria nell’a.s.
2011-2012 (liste fornite da Bachis, 2013 in base alle informazioni di una casa editrice); per la scuola primaria l’asterisco contrassegna testi che sono o sono stati tra i
più adottati, in base a segnalazioni più informali di cui sono grato a Silvana Loiero,
dirigente scolastica.
PAOLO DELLA PUTTA1
“Hai visto a tuo amico?” L’effetto dell’input su due tratti
caratteristici dell’interlingua italiana degli ispanofoni
Research on Spanish-speaking learners of Italian (SLI) has demonstrated that SLI omit the
article before the possessive (art+poss), such as in *questa è mia casa and use the Prepositional
Accusative (PA) in SVO sentences, such as in *ho salutato a Marco. The learning path that
leads SLI to the acquisition of these two features is different: SLI have to learn to add
art+poss to their interlanguage and they have to unlearn to add PA, a property of their L1.
68 instructed SLI were divided in two groups. Group A read 5 text where the absence of PA
was enhanced, group B read the same texts where the enhanced feature was art+poss. The
participants underwent a three-timed temporized grammatical judgement task. The results
show that the effects of the textual input enhancement are different for PA and art+poss,
thus suggesting that features to be unlearned require stronger pedagogical interventions.
1. Introduzione
In questo contributo presentiamo i risultati di uno studio di glottodidattica sperimentale (Nuzzo - Rastelli, 2011) condotto con apprendenti ispanofoni di italiano
L2.
Abbiamo testato gli effetti di un trattamento di Focus on Form proattivo, poco
intrusivo e integrato (Spada - Lightbown, 2008; Loewen, 2011) come il Textual
Input Enhancement (TIE, Wong, 2005) su due caratteristiche tipiche dell’interlingua italiana degli ispanofoni: l’uso dell’accusativo preposizionale (AP) in frasi con
struttura SVO e l’omissione dell’articolo pre-aggettivo possessivo (ART) nel sintagma nominale a struttura canonica articolo + possessivo + nome.
68 studenti universitari ispanofoni sono stati divisi in due gruppi (A e B) a cui
sono stati fatti leggere cinque testi identici nei quali la tecnica del TIE è stata applicata o sull’AP (gr. A) o sull’ART (gr. B). Gli informanti sono stati sottoposti a
tre momenti di testing (prima del trattamento, a una settimana e a due mesi dalla
sua fine) in cui, oltre a misurare l’accuratezza dei giudizi di grammaticalità di frasi
stimolo, sono stati misurati i tempi di reazione.
Il contributo è organizzato come segue: nella seconda sezione verranno presentate le caratteristiche di AP e ART nell’italiano degli ispanofoni, nella terza sezione
il transfer di AP e ART verrà motivato in base ad approcci sia generativi sia inputbased all’acquisizione delle lingue seconde e nella quarta sezione verrà descritto il
1
Università di Modena e Reggio Emilia.
232
PAOLO DELLA PUTTA
design sperimentale dello studio. I risultati e la loro discussione saranno presentati
nella quinta parte del lavoro.
2. L’italiano degli ispanofoni
L’attenzione data all’italiano parlato dagli ispanofoni trova fondamento nell’alto
grado di somiglianza strutturale fra italiano e spagnolo. Le prospettive di analisi
degli studi dedicati al contatto di queste due lingue spaziano dalla sociolinguistica (Vietti, 2005; Calvi et al., 2010) alla linguistica acquisizionale (Schmid, 1994;
Bailini, 2011), dalla linguistica contrastiva (Carrera Diáz, 2007) alla glottodidattica
(De Benedetti, 2006; Zurlo, 2009; Della Putta, 2011).
C’è consenso nel definire gli ispanofoni «facilitati dalla vicinanza strutturale» (Vietti, 2005: 106) della loro lingua madre all’italiano: le interlingue di questi
apprendenti mostrano, sin dai primi rilievi, caratteristiche delle varietà intermedie
e avanzante, “scavalcando” così le varietà iniziali basiche e post-basiche (Schmid,
1994: 80; Vietti, 2005: 106 e, per un approfondimento, 99-110). Lo studio di
Schmid depone a favore dell’ipotesi del continuum di ristrutturazione (Corder,
1984) secondo la quale «alcuni sottosistemi della L2 vengono costruiti a partire dal
modello della L1 con alcuni opportuni aggiustamenti» (Chini, 2005: 58). Secondo
Schmid (1994: 253), infatti,
l’avvicinamento alla L2 prosegue mediante la sostituzione di ipotesi fallaci con ipotesi più confacenti ai dati provenienti dall’input; [...] questo processo di sostituzione
provoca l’abbandono di un’ipotesi di congruenza a favore della strategia della differenza.
Venendo ai tratti linguistici considerati nel nostro studio2, è noto che gli ispanofoni
usano l’AP in frasi SVO (1, 2) e che omettono l’articolo davanti all’aggettivo possessivo nel sintagma nominale (3, 4).
(1) Hanno ferito a mio marito (Vietti, 2005: 119)
(2) Conosceva a uno (Schmid, 1994: 208)
(3) Perché dovevano studiare miei figli (Vietti, 2005: 115)
(4) Venivano a prendere sue cose (Schmid, 1994: 187)
2.1 L’accusativo preposizionale
L’AP è una manifestazione del più generale fenomeno della marcatura differenziale
dell’oggetto che consiste nel marcare «una relazione non ovvia dal punto di vista
pragmatico e semantico» (Iemmolo, 2009) dell’oggetto diretto (OD) all’interno
dell’enunciato. L’AP si istanzia, grazie alla presenza della preposizione ‘a’ pre-OD,
Rimandiamo, per motivi di spazio e salienza, alla letteratura citata sopra per un’esaustiva descrizione
dell’italiano degli ispanofoni e delle sue ragioni.
2
L’EFFETTO DELL’INPUT SU DUE TRATTI CARATTERISTICI
233
in due contesti: nelle frasi a ordine canonico SVO (5) e nelle frasi a ordine non canonico in cui l’OD viene dislocato alla periferia della frase (6):
(5) Sp: volverè a ver a Mario (Carrera Diáz, 1997: 209)
(6) It: a me non mi convince questo (Iemmolo, 2010: 253)
Nelle frasi a ordine marcato l’AP segnala lo spostamento di OD, per motivi di salienza informativa, in una posizione sintattica non prototipica, mentre nei contesti
SVO esso precede gli OD che non possiedono le caratteristiche semantiche tipiche
di questo costituente, generalmente meno animate e meno specifiche di quelle del
soggetto (Leonetti, 2004; Iemmolo, 2010). In quest’ultimo caso vengono marcati
gli OD con alto grado di animatezza e definitezza ovvero, prototipicamente, referenti umani altamente specificati.
L’AP è obbligatorio, in spagnolo, in entrambi i contesti3 (Leonetti, 2008); in
italiano standard – il modello linguistico a cui si fa riferimento in un corso di lingua
straniera – e nelle sue varietà settentrionali – varietà a cui sono stati esposti i partecipanti a questo studio – l’AP è assente in frasi a struttura SVO4 (Lorenzetti, 2002;
Iemmolo, 2010), mentre è presente sui pronomi di prima e seconda persona nelle
frasi con ordine marcato (Berretta, 2002).
Per gli scopi di questo lavoro, ci focalizzeremo solo sulla presenza di AP in frasi
SVO.
2.2 L’articolo pre-possessivo
La categoria della definitezza viene marcata, sia in italiano sia in spagnolo, sul sistema dell’articolo. Come sottolineato da Schmid (1994: 181 e segg.), il sistema
dell’articolo nelle due lingue presenta sia fenomeni di alta corrispondenza sia di relativa differenza: a un’alta congruenza formale degli articoli singolari si oppongono
le forme del plurale, caratterizzate – in italiano – da una maggiore allomorfia e da
una minore trasparenza e coerenza interna.
In italiano l’articolo è obbligatorio anche davanti agli aggettivi possessivi mentre
in spagnolo, in questo contesto, esso non è necessario:
(7) It: la mia macchina è rossa
(8) Sp: mi coche es rojo
Il comportamento dell’aggettivo possessivo italiano in questo ambito è da ascriversi
all’assunzione di un valore qualificativo, a differenza di quanto accade in spagnolo
in cui esso assume anche valenze specificative. In quest’ultimo caso gli aggettivi possessivi, come altri specificatori, non devono essere preceduti dall’articolo (Andorno,
Vi sono anche, in spagnolo, casi in cui l’AP presenta diversi livelli di opzionalità che sono, però, più
rari e non pertinenti al nostro disegno sperimentale (cfr. Guijarro-Fuentes, 2011).
4
Ricordiamo che nelle varietà regionali del centro-sud Italia è comune la presenza dell’AP anche in
frasi a struttura SVO (cfr. Lorenzetti, 2002: 86).
3
234
PAOLO DELLA PUTTA
2003: 19). Nel caso dei nomi di parentela singolari e non modificati, però, l’aggettivo possessivo italiano si comporta come uno specificatore non richiedendo, quindi,
l’antecedenza di un articolo:
(9) Mia madre abita a Roma
Questa eccezione è dovuta alla peculiarità della classe dei nomi di parentela, intermedia tra nomi propri e nomi comuni. Quando il nome di parentela è al singolare
ed è preceduto dal possessivo c’è un’oscillazione verso il nome proprio (‘mia madre’
= ‘Rossella’), data la piena determinazione e la piena e univoca relazione di parentela
fra il possessore e il posseduto; in questo caso, come accade con i nomi propri di
persona, in italiano standard non è necessario l’uso dell’articolo (Penello, 2002)5.
3. Percorsi acquisizionali
Come è noto, il sistema dell’articolo italiano è generalmente complesso da acquisire: sono frequentemente attestate omissioni, semplificazioni del paradigma o sovraestensioni delle forme più salienti e frequenti (Chini - Ferraris, 2003: 54-57). Per il
pubblico ispanofono le cose sono un po’ diverse. Schmid (1994: 182) testimonia
infatti che «anche nell’acquisizione del microsistema dell’articolo questi ultimi [gli
ispanofoni, nda] sono decisamente avvantaggiati dall’evidente similarità strutturale
tra L1 e L2». La tendenza a elidere l’articolo in posizione pre-possessiva, benché comune a questi apprendenti, sembra essere sin da subito accompagnata a fenomeni di
ipergeneralizzazione del modello italiano: è stata infatti notata la presenza dell’articolo pre-possessivo davanti a nomi di parentela o in altri contesti non richiesti
né dalla L1 né dalla L2 (Schmid, 1994: 186-187). Numerosi studi condotti con
apprendenti ispanofoni guidati, nonostante classifichino l’omissione di ART come
“errore comune” di questi discenti, lo riportano come tipico degli stadi di competenza iniziali e testimoniano come, ai livelli di competenza intermedi, esso tenda a
scomparire (De Benedetti, 2006; Zurlo, 2009; Ferrario, 2013).
L’AP è, invece, un tratto molto difficile da “eliminare” dalle interlingue degli
ispanofoni. In tutti gli studi sin qui pubblicati, infatti, esso è riportato come errore
altamente fossilizzabile e presente anche dopo anni di istruzione o di esposizione
all’input (cfr. la letteratura riportata sopra).
L’AP sembra essere, quindi, un errore molto più facilmente fossilizzabile rispetto ad ART che, invece, è soggetto a percorsi di correzione autonomamente tendenti
al modello della L2.
Nel caso dei nomi di parentela al plurale né la determinazione né l’univocità di relazione sono pienamente soddisfatte ed è quindi necessario l’articolo pre-possessivo.
5
L’EFFETTO DELL’INPUT SU DUE TRATTI CARATTERISTICI
235
3.1 Apprendimento e disapprendimento
I diversi esiti acquisizionali di AP e ART sono da ascriversi, secondo noi, alla necessità di compiere due operazioni mentali distinte per venire a capo di questi errori.
Già Schmid (1994: 209) scrisse, sull’AP: «nell’acquisizione dell’italiano un
ispanofono dovrebbe imporre una restrizione di una regola della sua L1, se ammettiamo che la sintassi dell’interlingua parta fondamentalmente da ipotesi di congruenza».
Seguendo la traccia interpretativa proposta da Schmid cercheremo, qui, di motivare i diversi esiti acquisizionali di AP e ART.
La Full Transfer Hypothesis (FTH, Schwartz - Sprouse, 1996) postula che, in apprendenti adulti, il percorso acquisizionale di una L2 inizia dalla configurazione dei
parametri propria della L1, lo stato iniziale da cui l’acquisizione origina. I parametri
si manifestano, secondo il quadro formale minimalista, nel lessico funzionale di una
lingua, ovvero in determinanti, classificatori, morfemi grammaticali ecc., dunque
in classi di parole chiuse portatrici di valori esclusivamente grammaticali, di norma
poco salienti e difficilmente distinguibili nella catena fonica (Ellis, 2006). La variazione interlinguistica di queste classi di parole è il manifestarsi della variazione dei
valori dei parametri ( Judy, 2011).
Secondo la FTH, i valori iniziali dei parametri sono quelli della L1 che devono
essere rifissati (resetted) seguendo il modello della L2 sulla base dell’analisi dell’input accessibile all’apprendente. L’esposizione allo stimolo linguistico fornisce al
discente due tipi di prove, una positiva e una negativa indiretta. La prova positiva porta ai sensi dell’apprendente un esempio concreto e processabile di ciò che è
corretto in L2, ovvero mostra ciò che può essere detto tramite la presenza fisica di
un elemento nell’input. La prova negativa indiretta, invece, spinge l’apprendente a
inferire dall’assenza di un elemento nell’input che una data proprietà o regola grammaticale è inesistente o errata in quella lingua (Carrol, 2001: 18-21; Gass - Mackey,
2002). Una prova positiva è uno stimolo più forte e affidabile di una prova negativa
indiretta: un elemento fisicamente presente nell’input ha un “corpo”, dunque possiede un certo livello di salienza fonica e una certa rilevanza comunicativa e risulta,
quindi, più facilmente notabile e processabile di un elemento completamente assente. Il quadro si fa ancora più complesso quando, per evitare il transfer di una proprietà di L1, l’apprendente può avvalersi solo della prova negativa indiretta fornita dalla
L2. In questo caso, infatti, i discenti dovranno notare l’assenza in L2 di un elemento presente nella loro L1 che viene costantemente trasferito nelle loro interlingue.
Disapprendere (unlearn) una regola della propria L1 basandosi esclusivamente su
una prova negativa indiretta è un compito arduo, di cui spesso gli apprendenti non
vengono a capo nemmeno dopo lunghi periodi di esposizione all’input (Lefebvre et
al., 2006; Bowles - Montrul, 2008; Judy, 2011).
È argomento di discussione fra i ricercatori se, nel caso del disapprendimento,
sia necessario un intervento esterno che fornisca una prova negativa diretta – come
una correzione dell’insegnante – che aiuti gli studenti a notare l’agrammaticalità in
L2 di alcune scelte fatte sulla base del modello di L1 o se, invece, la sola esposizione
236
PAOLO DELLA PUTTA
all’input possa, con il tempo, essere sufficiente a resettare anche questi parametri
(White, 1991; Yin - Kaiser, 2011).
Vi è invece sostanziale consenso sul fatto che i contesti in cui una prova negativa
diretta può essere necessaria sono quelli in cui la relazione fra i valori dei parametri
della L1 e della L2 in un determinato contesto linguistico è asimmetrica, ovvero
quando a un numero X di valori di un parametro in L1 corrisponde un numero inferiore (X-1) di valori dello stesso parametro in L2. La relazione contraria (L1 = X;
L2 = X + 1) sembra invece non richiedere alcuna evidenza negativa per far sì che i
parametri della L1 vengano rifissati, con il tempo, conformemente a quelli della L2.
Questo tipo di relazione, chiamata Subset-Superset Relationship (SSR) (Conradie,
2010; Judy, 2011), si manifesta concretamente per AP e ART in questo modo:
ART: L1 subset – L2 superset
ART in spagnolo è, come abbiamo visto (cfr. § 2), sempre negativo, mentre in italiano può essere sia negativo sia positivo:
(10) It:
(11) Sp:
a) Questa è la mia casa [+ ART]
b) Questa è mia madre [- ART]
a) Esta es mi casa [- ART]
b) Esta es mi madre [- ART]
In questo caso gli apprendenti ispanofoni dovranno imparare ad aggiungere un valore al loro setting iniziale e avranno, dall’input, un’evidenza positiva di questo, ovvero potranno notare la presenza dell’articolo in posizione pre-possessiva.
AP: L1 superset – L2 subset
In contesto SVO, AP in Spagnolo può avere valore sia positivo sia negativo, mentre
in Italiano standard è sempre negativo:
(12) It:
(13) Sp:
a) Aspetto Marco [-AP]
b) Aspetto l’autobus [-AP]
a) Espero a Marc [+AP]
b) Espero el bus [-AP]
Gli apprendenti ispanofoni, facendo in questo contesto pieno riferimento alla loro
L1 (cfr. § 2), assumono che entrambe le configurazioni del parametro AP possono
essere applicate all’italiano e dovranno quindi disapprendere a istanziare il valore
[+AP].
La sola esposizione all’input non è sufficiente a scartare l’ipotesi [+AP]; in questo caso, infatti:
– l’input italiano fornisce solamente una prova negativa indiretta che la presenza
del valore [+AP] in contesto SVO è errata;
L’EFFETTO DELL’INPUT SU DUE TRATTI CARATTERISTICI
237
– l’assenza della “a” pre-oggetto è la realizzazione di uno dei due valori di questo
parametro in spagnolo e questo può far inferire che al valore [-AP] italiano possa
corrispondere anche il valore [+AP];
– l’italiano fornisce una certa quantità di “falsi positivi”, ovvero di indizi nell’input che possono far erroneamente deporre per la coesistenza di entrambi i valori
di AP in contesto SVO: la presenza, anche in italiano, di [+AP] in frasi scisse
(cfr. § 2); la presenza di costruzioni molto frequenti e dal valore semantico tendenzialmente congruente come, per esempio, “chiamare qualcuno” e “telefonare
a qualcuno”, la cui diversa struttura argomentale è di difficile identificazione da
parte degli apprendenti.
In questo studio ci proponiamo di verificare se:
1. i dati elicitati dal nostro campione di studenti ispanofoni di italiano L2 confermano quanto emerso dai precedenti studi, ovvero che AP è un errore più difficilmente riconoscibile e correggibile rispetto ad ART;
2. il TIE, ovvero l’innalzamento percettivo dell’evidenza positiva fornita dall’input (cfr. § 4), influisce allo stesso modo sull’apprendimento di AP e di ART o se,
invece, gli effetti sono diversi;
3. nel caso in cui gli effetti ottenuti siano diversi, è confermata l’ipotesi secondo la
quale AP (il tratto in relazione L1 superset-L2 subset) benefici meno di un miglioramento percettivo dell’input rispetto ad ART. Si conferma quindi l’ipotesi
che per aiutare gli ispanofoni a non applicare AP all’italiano è necessaria una
prova negativa diretta, ovvero una correzione?
4. L’esperimento
4.1 Gli informanti
68 studenti ispanofoni (età media 21,4) iscritti a corsi di lingua italiana presso centri
linguistici universitari sono stati reclutati per partecipare allo studio. I criteri secondo cui sono stati scelti sono:
– esclusione del bilinguismo (per es. spagnolo/catalano);
– nessuna istruzione formale in italiano prima di arrivare in Italia;
– periodo di studio formale della lingua italiana all’inizio della sperimentazione di
circa due mesi;
– i mesi di istruzione formale a inizio sperimentazione dovevano essere stati fatti
con lo stesso insegnante (partecipante alla sperimentazione) e all’interno della
stessa classe;
– gli studenti sono residenti nel nord Italia e, dunque, non esposti a varietà diatopiche di italiano in cui l’AP si può trovare anche in contesti SVO.
Gli informanti sono stati divisi arbitrariamente in 2 gruppi, A (n = 35) e B (n = 33).
I fini della ricerca non sono stati loro rivelati.
238
PAOLO DELLA PUTTA
4.2 Gli insegnanti coinvolti e i corsi
Al progetto di ricerca hanno partecipato 5 insegnanti (di cui uno è il ricercatore)
che sono stati informati delle finalità e della metodologia di ricerca del progetto.
All’inizio dei corsi di lingua, dunque circa 2 mesi prima dell’inizio della sperimentazione, i materiali didattici utilizzati sono stati adeguatamente modificati affinché
nessuna spiegazione metalinguistica dell’articolo italiano vi comparisse. Con gli insegnanti è stato inoltre concordato che per l’intera durata del corso il sistema dell’articolo e l’AP non sarebbero stati trattati, né a livello di presentazione/esercitazione
della regola, né tramite correzioni orali e/o scritte delle produzioni degli studenti.
I corsi, della durata media di 55 ore distribuite in un lasso di tempo variabile fra i 3
e i 4 mesi, prevedevano un programma di natura nozional-funzionale che trattasse
strutture, lessico e funzioni comunicative tipicamente presentate ed esercitate con
studenti principianti.
4.3 I materiali
Sono stati somministrati 5 testi di difficoltà adeguata per questo tipo di studenti
con relative attività (domande a scelta multipla o a risposta libera) volte a testarne la
comprensione. I testi, di lunghezza media di 427 parole, sono stati letti individualmente in classe dagli studenti, che hanno poi risposto alle domande di comprensione. L’insegnante ha corretto le risposte in plenum. Il trattamento è durato circa
100 minuti distribuiti in 5 lezioni, per un lasso di tempo variabile dai 10 giorni alle
2 settimane.
Le strutture grammaticali presenti nei testi sono state adeguatamente bilanciate
in base al programma affrontato dalle classi: nessun elemento grammaticale sconosciuto agli apprendenti era presente.
I testi sono stati manipolati con la tecnica del TIE, il cui scopo è indirizzare l’attenzione dei discenti su quelle forme linguistiche che, per scarsa salienza percettiva
o comunicativa o per motivi di interferenza fra L1 e L2, si dimostrano particolarmente ardue da acquisire. È, quindi, una scelta didattica poco intrusiva di esclusiva
focalizzazione attentiva (Wong, 2005; Winke, 2013). L’Ipotesi del noticing sostiene
infatti che riuscire a portare all’attenzione selettiva la presenza di una forma nell’input è la prima necessaria operazione cognitiva verso l’acquisizione di quel tratto
(Schmidt, 2001).
Nei testi il TIE è stato applicato in questi modi6:
Il gruppo A ha letto i testi con TIE su AP, il gruppo B quelli con TIE su ART. I testi
presentati sono uguali, l’unica variazione è il fenomeno su cui è stato applicato il
6
Nei materiali originali la freccia e l’articolo sono di colore rosso.
L’EFFETTO DELL’INPUT SU DUE TRATTI CARATTERISTICI
239
TIE. Globalmente sono state fatte 56 evidenziazioni, per una media di 10 TIE per
testo.
Nei testi non sono stati presentati casi di frasi scisse con AP né di nomi di parentela che avrebbero richiesto un possessivo non preceduto dall’articolo7.
4.4 Procedure ed elicitazione dei dati
Gli informanti sono stati sottoposti a 3 momenti di testing, uno pre-trattamento e
2 post-, a una settimana e a 2 mesi dalla sua fine.
I test si sono svolti come segue. I singoli soggetti sono stati fatti sedere davanti
allo schermo di un computer su cui apparivano in sequenza 60 frasi italiane. Le frasi
permanevano sullo schermo per 6 secondi, intervallate da una pausa di 2 secondi.
Ogni 10 frasi l’informante aveva a disposizione una pausa più lunga che poteva essere interrotta a piacimento schiacciando un pulsante della tastiera. Ai soggetti è stato
chiesto di dare un giudizio di grammaticalità sulle frasi schiacciando due pulsanti
(Vero/Falso) di adeguata grandezza aggiunti come periferica al computer. Il programma DMDX ( Jiang, 2012) ha registrato sia i giudizi di grammaticalità (GG),
sia il tempo impiegato (reaction times, RT) per darli. Gli item sperimentali sono 20
frasi suddivise come riportato nella tab. 1.
Tabella 1 - Item sperimentali
La creazione degli item sperimentali è stata la seguente. Per AP sono stati scelti 5
verbi preventivamente esercitati e presentati in classe il cui significato è, comunque,
molto trasparente in spagnolo. Gli item sono stati costruiti attorno a questi verbi
proponendo, nei 3 momenti di testing, variazioni non sostanziali nel significato e
nella forma della frase per evitare la memorizzazione.
Per ART sono stati scelti nomi appartenenti alle prime 2 classi di flessione dei
sostantivi, altamente trasparenti in spagnolo e conosciuti dagli studenti. A questi
nomi sono stati accompagnati 5 aggettivi, anch’essi appartenenti alle prime 2 classi,
molto frequenti e noti agli studenti.
Gli item proposti non presentano difficoltà semantiche o morfosintattiche particolari per gli informanti e sono di lunghezza molto simile. I restanti 40 distratto-
È stato molto sorprendente rilevare come, durante la somministrazione dei testi, nessuno studente
abbia chiesto spiegazioni agli insegnanti sulle ragioni delle manipolazioni. Non abbiamo, in questa
sede, abbastanza spazio per cercare di motivare questa totale assenza di reazione durante il trattamento
che è rimasto, dunque, totalmente implicito.
7
240
PAOLO DELLA PUTTA
ri non hanno mai presentato agli informanti frasi scisse con AP o frasi contenenti
nomi di parentela preceduti dall’articolo senza il possessivo8.
5. Analisi dei dati
Per analizzare i GG è stato seguito il protocollo usato in Gutiérrez (2013): a ogni risposta corretta è stato assegnato un punto, alle risposte scorrette 0 punti. L’intervallo
del punteggio varia da 0 a 5 per ogni gruppo di item sperimentali (cfr. § 4.5). I RT
sono espressi in millisecondi (ms), come di norma avviene con questo tipo di tecnica sperimentale ( Jiang, 2012).
Analizziamo ora i dati richiamando, di volta in volta, le domande di ricerca enucleate in § 3.1.
5.1 Accuratezza su AP e ART
Esistono variazioni significative nell’accuratezza dei GG dati dagli informanti nel
test ‒ dunque nella condizione a trattamento zero ‒ rispetto ad AP e ART? I risultati
sono riportati in graf. 1:
Grafico 1 - GG di AP e ART
Un test ANOVA indica che le differenze riscontrate fra le 2 variabili sono significative: F (1,66) = 8.468, p = .004. Il dato conferma quanto detto in 3.1: AP è un errore
di più complesso riconoscimento e percezione che ART.
5.2 Effetti del TIE
Una tecnica di TIE, ovvero di solo innalzamento percettivo dell’evidenza fornita
dall’input, giova allo stesso modo all’apprendimento di AP e di ART o, invece, gli
esiti sono diversi?
5.2.1 Parametro AP
Per AP, A è il gruppo sperimentale.
Per motivi di spazio non è possibile elencare qui gli item linguistici usati nei test. Chi fosse interessato
può contattare l’autore per averli.
8
L’EFFETTO DELL’INPUT SU DUE TRATTI CARATTERISTICI
241
5.2.1.1. Giudizi AP+
Nel graf. 2 sono riportate le statistiche descrittive.
Grafico 2 - Accuratezza GG AP+
I risultati di un test ANOVA dimostrano che l’accuratezza più alta di A ha significatività statistica solo nel post-test (F (1,66) = 7.01, p = .010) e nel post-test differito
(F = 6.78, p = .011).
Grafico 3 - Variazione di GG nel tempo
Eseguiamo ora un’ANOVA a misure ripetute in cui la variabile entro i soggetti è il
tempo e la variabile fra i soggetti è l’appartenenza ad A o a B. La variabile tempo non
è controllabile dallo sperimentatore: i soggetti possono aver variato i loro GG (o i
loro RT) solo grazie all’effetto dell’esposizione all’input nei 2 mesi intercorsi fra il
post-test e il post-test differito. È importante discriminare in quali casi la variazione
dei risultati è dovuta solo al tempo, solo all’appartenenza al gruppo o all’interazione
242
PAOLO DELLA PUTTA
di questi due fattori, ovvero quando è possibile asserire che gli effetti del TIE, nel far
variare i GG, sono costanti nel tempo o quando l’oscillazione dei RT è imputabile
congiuntamente agli effetti del trattamento e al tempo trascorso fra i diversi momenti di testing.
Per AP+ né l’interazione tempo/gruppo né il tempo hanno un effetto significativo, mentre l’appartenenza al gruppo è la variabile responsabile dei risultati (F =
10.22, p = .002).
Come si evince dal graf. 3, la variazione più significativa è avvenuta nel post test,
dove A è nettamente migliorato nei GG. Nel post-test differito l’accuratezza di A si
abbassa, indicando che non vi è interazione fra il tempo e il gruppo: è quindi probabile che gli effetti del TIE per questo parametro siano transitori e non abbastanza
forti da durare nel tempo.
5.2.1.2 Tempi di reazione AP+
Nel graf. 4 sono riportate le statistiche descrittive.
Grafico 4 - RT AP+
I RT di A si alzano nel post-test e si abbassano nel post-test differito, mentre quelli
di B rimangono tendenzialmente costanti.
La variazione fra gruppi dei RT è significativa nel post-test (F = 17.4, p = .000)
e nel post-test differito (F = 8.46, p = .005), entrambi momenti in cui A ha aumentato i RT. La differenza non è significativa nel test. Un’ANOVA a misure ripetute
(graf. 5) rivela che l’interazione tempo/gruppo ha un effetto significativo sulla variazione dei RT (F = 17.62, p = .000).
L’EFFETTO DELL’INPUT SU DUE TRATTI CARATTERISTICI
243
Grafico 5 - Variazione dei RT nel tempo
Un post-hoc test (correzione di Bonferroni) mostra che l’unica oscillazione significativa (p = .033) fra i RT avviene fra il test e il post-test. L’interazione gruppo/
tempo è infatti molto evidente per A fra i primi due momenti di testing per poi
riabbassarsi. Un’analisi della correlazione di Perason fra i RT e i GG di A nel posttest indica una debole correlazione (r = .091): possiamo cautamente ipotizzare che
l’innalzamento dei RT sia in relazione all’aumento dell’accuratezza, ovvero che il
trattamento abbia portato gli studenti a riflettere maggiormente su quale risposta
dare. Possiamo interpretare questi dati come indicativi del fatto che gli informanti
di A, dopo la fase di “picco” di RT dovuta, probabilmente, alle sollecitazione di
TIE, si riassestino nel post-test differito su RT più normali, probabilmente anche in
relazione all’abbassarsi dell’accuratezza (cfr. § 5.2.1.1).
5.2.1.3 Giudizi APNel graf. 6 sono riportate le statistiche descrittive.
Grafico 6 - GG AP-
244
PAOLO DELLA PUTTA
Il miglioramento dei GG di AP- è molto debole per A; nel post-test differito B è
migliorato rispetto ad A nell’accuratezza. Come si evince dai risultati dell’ANOVA,
nessuna differenza fra i risultati dei gruppi ha significatività statistica (p sempre >
.050).
Grafico 7 - Variazione di GG nel tempo
Un’ANOVA a misure ripetute mostra che la variazione dei risultati è dovuta solo
alla variabile tempo (F = 5.148, p = .007). Come si evince dal graf. 7, l’unico
cambiamento importante avviene in B fra il post-test e il post-test differito. Per APil trattamento non ha sortito alcun effetto sui GG.
5.2.1.4 Tempi di reazione APNel graf. 8 sono riportate le statistiche descrittive.
Grafico 8 - RT AP-
L’EFFETTO DELL’INPUT SU DUE TRATTI CARATTERISTICI
245
Grafico 9 - Variazione di RT nel tempo
I RT di A aumentano nel post-test ma nel post-test differito osserviamo un andamento opposto in cui sono i RT di B ad aumentare.
L’ANOVA rivela che l’unica differenza al limite della significatività è quella del
post-test (F = 3.23, p = .064).
L’ANOVA a misure ripetute mostra che la variazione dei risultati è dovuta
all’interazione tempo/gruppo (F = 4.89, p = .009). Come emerge dal graf. 9, l’oscillazione dei RT è estremamente discontinua e varia molto sia in relazione ai 2 gruppi
sia al momento in cui è stata testata.
Per AP- né la variazione dei GG né l’oscillazione dei RT hanno significatività
statistica e non è possibile riscontrare correlazioni significative fra queste 2 variabili.
Il TIE non ha avuto alcun effetto su questo parametro.
5.2.2 Parametro ART
Per ART, B è il gruppo sperimentale.
5.2.2.1 Giudizi ART+
Nel graf. 10 sono riportate le statistiche descrittive.
246
PAOLO DELLA PUTTA
Grafico 10 - GG ART+
I GG dei due gruppi hanno una variazione minima e mai statisticamente significativa (p sempre > .050).
L’ANOVA a misure ripetute indica che per ART+ l’unico fattore ad avere contribuito alla variazione dei GG è il tempo (F = 15.56, p = .000). Come emerge dal
graf. 11, la variazione dei 2 gruppi è pressoché identica nel tempo:
Grafico 11 - Variazione di GG nel tempo
Il TIE non ha aiutato B ad avere GG migliori di A. Per questo parametro possiamo
affermare che l’esposizione all’input, indipendentemente dalla sua manipolazione,
ha sortito effetti simili, sia come andamento nel tempo sia come intensità dei risultati.
5.2.2.2 Tempi di reazione ART+
Nel graf. 12 sono riportate le statistiche descrittive.
L’EFFETTO DELL’INPUT SU DUE TRATTI CARATTERISTICI
247
Grafico 12 - RT ART+
I RT di B variano significativamente nel post-test (F = 6.19, p = .015) e rimangono
significativamente più alti nel post-test differito (F = 4.29, p = .043) per quanto,
qui, la differenza fra i 2 gruppi si assottigli.
L’ANOVA a misure ripetute indica (graf. 13) sia un effetto significativo dell’interazione tempo/gruppo (F = 8.37, p = .000) sia del solo tempo (F = 6.48, p =
.002), con size effects maggiori di tempo/gruppo (eta quadrato = .113) rispetto al
solo tempo (eta quadrato = .090).
Grafico 13 - Variazione dei RT nel tempo
Come emerge dal grafico, per A i RT sono diminuiti linearmente nel tempo, mentre
per B si registra un picco nel post-test che poi si riabbassa nel post-test differito, similmente a quanto visto per AP+ (cfr. § 5.2.1.2). Come per AP+, anche per ART+
esiste una correlazione diretta fra il miglioramento dei GG e il picco dei RT nel
post-test (r = .160). A differenza di quanto accaduto in AP+, però, osserviamo che
il gruppo A è migliorato nei GG ma non ha aumentato i RT. Il TIE ha dunque influ-
248
PAOLO DELLA PUTTA
ito sui RT di B, spingendo questo gruppo a ragionare maggiormente sulle risposte
ma non ha aiutato a migliorare l’accuratezza rispetto ad A.
5.2.2.3 Giudizi ARTNel graf. 14 sono riportate le statistiche descrittive.
Grafico 14 - GG ART-
Le variazioni dei GG sono minime e non statisticamente significative fra i gruppi
(p sempre > .050).
L’ANOVA a misure ripetute (graf. 15) indica come unico effetto significativo
quello del tempo (F = 11.01, p = .000).
Grafico 15 - Variazione dei GG nel tempo
Il miglioramento di entrambi i gruppi è distribuito parallelamente nel tempo.
Anche per questo parametro l’esposizione all’input, indipendentemente dalla sua
manipolazione, è stata la causa dei miglioramenti dei GG.
L’EFFETTO DELL’INPUT SU DUE TRATTI CARATTERISTICI
249
5.2.2.4 Tempi di reazione ARTNel graf. 16 sono riportate le statistiche descrittive.
Grafico 16 - RT ART-
Grafico 17 - Variazione dei RT nel tempo
I RT di B si alzano nel post-test, l’unico momento in cui le differenze registrate fra A
e B hanno significatività statistica (F = 8.88, p = .004). L’ANOVA a misure ripetute
(graf. 17) indica un forte effetto del tempo (F = 10.4, p = .000) e un effetto discreto
dell’interazione tempo/gruppo (F = 3.68, p = .028).
Anche in questo caso i RT di A variano con costanza nel tempo mentre per B
l’oscillazione è forte nel post-test e tende a normalizzarsi in seguito. I GG e i RT di
B nel post-test sono significativamente correlati (p = .159). Anche per ART- il TIE
ha influito solo sui RT di B ma non ha contribuito a far migliorare i suoi GG.
250
PAOLO DELLA PUTTA
6. Conclusioni
Il TIE ha avuto effetti positivi, per quanto probabilmente non duraturi nel tempo,
soltanto su AP+: il trattamento ha aiutato gli apprendenti a giudicare come grammaticali questo tipo di frasi, della cui esistenza hanno avuto una prova positiva resa
più saliente dal trattamento. Ciò non ha però aiutato gli informanti a giudicare come
agrammaticali le frasi AP- di cui hanno avuto solo una prova negativa indiretta.
Come accaduto nello studio di Trahey - White (1993), nell’interlingua dei nostri informanti coesistono due regole alternative riguardo AP. Rendere più saliente
l’evidenza positiva di ciò che è grammaticale in L2 non basta a imparare a restringere
le proprietà di un parametro di L1 che sono più ampie rispetto al suo corrispettivo
in L2 (cfr. Gabriele, 2009 per un’ampia discussione).
Gli effetti del TIE su ART sono stati molto deboli: l’esposizione all’input si è
dimostrata una condizione sufficiente per un’evoluzione positiva di questo parametro. Sia il gruppo sperimentale sia il gruppo di controllo hanno avuto infatti percorsi
molto simili, a dimostrazione di come gli studenti ispanofoni di italiano possano
imparare autonomamente ad aggiungere l’articolo in posizione pre-possessiva.
Il TIE ha causato negli apprendenti (con la sola esclusione di AP-) un aumento
dei RT che è indice di un maggiore carico cognitivo necessario per portare a termine una determinata operazione ( Jiang, 2012: 2-3). Siamo in questo caso inclini
a interpretare l’aumento dei RT come indice di un maggior noticing di una regola
evidenziata nell’input: i “picchi” di aumento dei RT, correlati con il miglioramento
dei GG, indicano probabilmente che una regola è in via di interiorizzazione (Nuzzo
- Rastelli, 2011: 94) o che, quanto meno, l’averla resa più evidente ha iniziato un
percorso di riorganizzazione interna dell’interlingua, spingendo gli apprendenti a
“esitare” maggiormente nel dare le risposte.
A risposta alla terza domanda di ricerca (cfr. § 3.1), osserviamo che il TIE ha
sortito effetti diversi in relazione alla natura del fenomeno linguistico su cui è stato
applicato, effetti che si sono rivelati comunque molto deboli, ma per motivi opposti.
Per AP riteniamo necessario un intervento che fornisca una prova negativa diretta,
dunque un intervento correttivo mirato; per ART riteniamo invece che la sola esposizione all’input in contesto di immersione guidata possa essere sufficiente.
In conclusione, auspichiamo che questo studio possa incentivare la ricerca empirica sugli effetti che le tecniche di Focus on Form hanno su strutture linguistiche
distinte: in questo modo potremo sapere perché e come alcuni interventi didattici
possono essere maggiormente efficaci rispetto ad altri, aiutando di molto la pratica
didattica degli insegnanti.
Ringraziamenti
Ringrazio Gabriele Pallotti per il costante e proficuo confronto durante l’ideazione
e la realizzazione di questa ricerca. Ringrazio Cecilia Andorno per i commenti a una
prima versione di questo lavoro. Errori e imprecisioni sono di mia sola responsabilità.
L’EFFETTO DELL’INPUT SU DUE TRATTI CARATTERISTICI
251
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CHIARA ROMAGNOLI1
L’apprendimento dei classificatori in cinese L2
Chinese classifiers often prove to be challenging for learners whose mother tongue does not
exhibit such a lexical class, as it is the case of Italian learners of Chinese. Although research
results on classifiers have increased and improved over the last decades, these lexical items
are often poorly described in Chinese L2 handbooks, with scarce attention given to the internal variety and the practice methods. The present investigation is aimed at describing the
acquisition of nominal classifiers by Italian elementary learners and wants to verify whether
the difficulties are mainly semantic or syntactic. To this end, two different tests have been
administered in order to individuate the critical items, analyse the results and draw a few
preliminary conclusions.
(...) Gli animali si dividono in (a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c)
ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f ) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in
questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati
con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il
vaso, (n) che da lontano sembrano mosche.
J.L. Borges, Altre inquisizioni
1. Introduzione
I criteri alla base delle distinzioni operate dai classificatori cinesi, come le bizzarre
suddivisioni dell’enciclopedia immaginata dallo scrittore argentino, destano nello
studioso e nell’apprendente un grande stupore e un certo disorientamento. Proprio
il grado di arbitrarietà (o di motivazione fortemente opacizzata dallo sviluppo storico della lingua) alla base di queste distinzioni, l’assenza di una classe lessicale simile
nella L1 nonché la notevole eterogeneità nella frequenza e modo d’uso da parte degli stessi parlanti nativi hanno condizionato negativamente tanto l’elaborazione di
una proposta didattica efficace quanto il raggiungimento di una padronanza d’uso,
da parte degli apprendenti di cinese L2, paragonabile ad altre classi del lessico. Con
questo lavoro, mi propongo di illustrare le criticità nell’apprendimento dei classificatori da parte di studenti italofoni di livello elementare, collegandole al materiale
didattico impiegato e alle descrizioni proposte. Prima di fornire dati e risultati, mi
soffermerò sulla definizione e le caratteristiche dei classificatori, sui principali studi
svolti per osservarne l’acquisizione e sulla trattazione di questa classe del lessico nei
materiali didattici.
1
Università degli Studi Roma Tre.
256
CHIARA ROMAGNOLI
1.1 I classificatori: definizioni e caratteristiche
Presenti in molte lingue asiatiche in diverso numero e tipologia, i classificatori sono
stati definiti come «morphemes that classify and quantify nouns according to semantic criteria» (Senft, 2000: 21). Questa formulazione si collega a una prima e
utile distinzione da tracciare nella disamina di queste unità del lessico, quella tra
classificatori e quantificatori: mentre i primi selezionano una caratteristica permanente, i secondi operano una classificazione temporanea, aggiungendo al nome modificato informazione non implicita2.
I quantificatori sono presenti in molte lingue del mondo; ciò che caratterizza più
specificamente numerose lingue asiatiche, compreso il cinese, è l’uso dei classificatori, selezionati in base a caratteristiche semantiche del nome che accompagnano. La
presenza di queste unità del lessico varia rispetto al numero, al grado di obbligatorietà e all’ordine sintattico. Quest’ultimo presenta generalmente due varianti: Num
+ CL + N e N + Num + CL3.
1.2 I classificatori in cinese
Il sistema dei classificatori, in cinese liàngcí 量词 (lett. ‘parole che misurano’), si è
costituito gradualmente, con una gamma molto ridotta di unità lessicali nelle epoche di cui sono pervenute testimonianze scritte (dinastia Shang, 1324-1066 a.C., e
Zhou, 1066-221 a.C.) fino a un progressivo aumento a partire dal III secolo d.C.
Inizialmente utilizzati in funzione nominale, i classificatori, qualora presenti, seguivano l’ordine N + Num + CL4. Il mutamento in Num + CL + N riflette la generale
tendenza in base alla quale l’elemento modificato viene preceduto dal modificatore
(Norman, 1988). In cinese moderno, quella dei classificatori è una classe piuttosto
ricca e articolata sulla quale esistono diverse ipotesi di quantificazione e suddivisioni: da repertori minimi di alta frequenza composti da circa venti elementi (Erbaugh,
1986) a opere lessicografiche che includono circa duecento unità (Huang, 1997;
Jiao, 2001), fino ad arrivare ai 902 classificatori inclusi nello Hanyu liangci cidian5.
La discrepanza numerica dipende dalle divergenze esistenti sulla nozione stessa di
classificatore e riflette la problematicità nella trattazione di un fenomeno i cui contorni, soggetti a diverse variabili, non sono ancora stati univocamente tracciati. La
letteratura sull’argomento pullula infatti di classificazioni, che non costituiscono il
Come ricorda Zhang (2007), la terminologia impiegata per riferirsi alle due tipologie non è uniforme, soprattutto per ciò che riguarda i quantifiers, denominati anche measure word, mensural classifiers,
massifiers e mass classifiers.
3
Le abbreviazioni che userò in questo lavoro sono le seguenti: N = nome, V = verbo, CL = classificatore, MW = measure word, Dim = dimostrativo, Pr = pronome, Agg = aggettivo.
4
La ricerca sui classificatori e la definizione della relativa classe lessicale sono apparsi in Cina in tempi
relativamente recenti. Per una panoramica storica sugli studi e le relative oscillazioni terminologiche si
vedano He (2008) e Meng (2011).
5
Citato in Zhang (2007). Il dizionario più autorevole del cinese moderno, Xiandai hanyu cidian (5a
edizione), ne include 502.
2
257
L’APPRENDIMENTO DEI CLASSIFICATORI IN CINESE L2
tema di questo studio ma alle quali farò sinteticamente riferimento nell’illustrazione delle principali tipologie.
In primo luogo, i classificatori cinesi si dividono in due grandi sottoinsiemi: i
classificatori nominali e i classificatori verbali6. I primi costituiscono una classe articolata in diverse tipologie e includono i classificatori presi in esame in questo studio.
I classificatori verbali, che quantificano l’azione espressa dal verbo, comprendono
un numero di unità lessicali molto ridotto rispetto ai classificatori nominali e presentano un diverso ordine sintattico, come mostrato schematicamente di seguito.
Tabella 1 - I classificatori cinesi
Tabella 2 - Il sintagma con il classificatore nominale
I classificatori nominali vengono impiegati nella quantificazione dopo i numerali,
nelle espressioni deittiche dopo i dimostrativi, nelle espressioni anaforiche e dopo
alcuni pronomi, come chiarito dall’esempio (1) e riassunto nella tab. 2.
(1) 这
quella
那
quella
间
CL
张
CL
屋子
stanza
是
essere
有
两
esserci due
我的。
mia
张
CL
书桌,
scrivania
A questi due insiemi alcuni studiosi aggiungono quello dei classificatori composti, come 人次 (‘presenza’, composto da N + CL), inseriti all’interno dei classificatori nominali da Liu et al. (2001) che
seguo in questa illustrazione. Per una panoramica sulle classificazioni proposte si veda He (2008). Per
una trattazione dei classificatori verbali si veda Paris (2013).
6
258
CHIARA ROMAGNOLI
‘In questa stanza ci sono due scrivanie, quella è la mia’7
Nell’esempio fornito, zhāng 张 è un classificatore impiegato con nomi che denotano referenti con superficie piatta, mentre jiān 间 è impiegato con nomi indicanti
ambienti abitativi. Queste due unità rappresentano un gruppo cospicuo di classificatori selezionati in base alla forma, alle dimensioni o alla funzione del referente
espresso dal nome con cui si combinano. I classificatori di questo tipo sono anche
denominati specific (o special) classifiers, per distinguerli dal general classifier, gè 个,
compatibile con molti nomi e spesso utilizzato in sostituzione degli altri8.
Sulla funzione stessa dei classificatori specifici, e sul tipo di informazione espressa, si sono interrogati diversi studiosi, alcuni dei quali hanno evidenziato come il
ruolo di queste unità del lessico sia di qualificare piuttosto che quantificare, mettendone in luce la capacità di disambiguare i vari significati nel caso di parole polisemiche. Si consideri per esempio il nome kè 课, che può indicare tanto ‘lezione’ quanto
‘corso di lezioni’ e i diversi classificatori associati. Come si può notare nei sintagmi
seguenti, il ruolo del classificatore non si riduce alla quantificazione ma introduce
una differenziazione semantica.
(2) 一
Uno
(3) 一
Uno
堂
CL
门
CL
课
lezione/corso
课
lezione/corso
Una lezione
Un corso
2. L’apprendimento e l’acquisizione dei classificatori cinesi
Parte della ricerca finora svolta sui classificatori è incentrata sull’acquisizione di
questa classe lessicale da parte di bambini nativi. Pur esulando dallo scopo di queste
pagine la discussione dei risultati raggiunti in questo campo, non sarà forse inutile
riprendere i principali punti condivisi, formulati da Liang (2008: 311) come segue:
a) L1 children have a solid knowledge of the basic syntactic structure of classifiers
at a very early age; b) their acquisition of classifier vocabulary is very much delayed
compared to noun acquisition; c) although the findings of the order of Chinese
classifier acquisition are different, it is very common for children to over-generalize
the general classifier gè 個 as a ‘syntactic place-holder’ (cf. Fang, 1985; Hu, 1993a);
d) they are very conservative in using classifiers.
In particolare, un aspetto sul quale esiste una certa difformità di risultati è l’ordine
acquisizionale dei classificatori relativi alla forma dei referenti (mono-, bi- o tridimensionali), tema che ha impegnato diverse ricerche (Erbaugh, 1984; 1986; Fang,
La fonte di tutti gli esempi è Zhang (2007), da cui ho tratto diversi spunti per la descrizione dei
classificatori.
8
Sulla funzione di 个 come classificatore “di default” si vedano Loke (1994) e Myers (2000); sulla
varietà d’uso del classificatore generico nei diversi dialetti cinesi si veda Wang (2008).
7
L’APPRENDIMENTO DEI CLASSIFICATORI IN CINESE L2
259
1985; Loke - Harrison, 1986; Hu, 1993 a; 1993b). Un altro risultato condiviso è
che l’acquisizione dei classificatori specifici avviene prima di quella delle measure
words (Ying et al., 1983; Szeto, 1998; Tse et al., 2007).
Rispetto a questo filone di studi, meno ricco appare il panorama di quelli condotti sull’acquisizione da parte di apprendenti di cinese L2. Polio (1994) ha raccolto e analizzato le produzioni di un campione di apprendenti di diverse L1 (inglese
e giapponese) e ha notato pochi casi di omissione del classificatore, la tendenza a
estendere l’uso del classificatore gè 个 e il frequente uso inappropriato dei classificatori specifici. Chen (1996) si è interrogato sull’efficacia del feedback correttivo
nell’acquisizione dei classificatori confermandone il ruolo positivo. Hansen - Chen
(2001) hanno esaminato le sequenze acquisizionali della sintassi e della semantica
dei classificatori tracciando un percorso lineare dall’omissione all’uso del classificatore. Liang (2008; 2009) ha ripreso il tema degli shape classifiers e ha condotto uno
studio longitudinale con un campione di apprendenti di diverse L1 (inglese e coreano) sull’acquisizione dei classificatori relativi a una, due e tre dimensioni: i suoi
dati mostrano come i classificatori relativi a entità bidimensionali vengano appresi
più facilmente, la presenza di classificatori nella L1 faciliti solo nella fase iniziale
l’apprendimento di queste unità in cinese e come un certo grado di regressione sia
comune ai due gruppi di apprendenti presi in esame. Tra gli ultimi studi, citiamo
quello di Zhang - Lu (2013) che hanno esaminato la variabilità nell’acquisizione
dei classificatori, sia rispetto a uno stesso apprendente che in relazione a un gruppo.
Luzi - Romagnoli (2013) hanno indagato l’efficacia dei due diversi approcci denominati Focus on Form e Focus on Forms nella didattica dei classificatori. Di diverso
stampo le ricerche condotte sulla didattica dei classificatori da parte di He (2008)
e Meng (2011), che si concentrano specificamente sull’analisi degli errori in questo
ambito del lessico.
3. Didattica dei classificatori e manualistica
Sebbene si tratti di una classe lessicale piuttosto articolata, e certamente problematica per apprendenti le cui L1 non prevedono l’utilizzo sistematico di tali unità
lessicali, la ricerca sulla didattica dei classificatori non appare sufficientemente sviluppata. In uno dei suoi numerosi lavori sull’argomento, He Jie documenta questa
carenza verificando l’inserimento dei classificatori all’interno dei sillabi e dei materiali didattici, a proposito dei quali scrive che di venti manuali, nove non prevedono la conoscenza dei classificatori, né includono esercizi specifici, undici invece
li illustrano, ma in modo incompleto (He, 2008). He Jie sottolinea il contributo
semantico apportato dal classificatore al nome con cui si combina e suggerisce di
enfatizzare questo aspetto nella didattica, il valore descrittivo, piuttosto che la funzione di quantificazione.
Il modo generalmente impiegato per presentare i classificatori nei materiali didattici prevede una lista di alcune tra le più comuni combinazioni tra classificatori
e nomi e una breve illustrazione delle caratteristiche sintattiche e semantiche. La
260
CHIARA ROMAGNOLI
trattazione esplicita è prevista solo nella fase iniziale dello studio della lingua, con
poco spazio dedicato alle differenze semantiche all’interno delle diverse unità e senza riprese o approfondimenti particolari (Dai, 1999)9. Questa pratica è stata oggetto di critica anche nei più recenti studi, uno dei quali lamenta che «this approach
falls short of presenting learners with the complex nature of the classifier system»
(Zhang - Lu, 2013: 48).
3.1 La manualistica per apprendenti italofoni
Non molto diverso appare il quadro della manualistica in italiano, di cui ho preso in
esame tre volumi adottati nei corsi universitari di diversi atenei italiani: Buongiorno
Cina! Corso comunicativo di lingua cinese, vol. I/1 (Li, 2008), Il cinese per gli italiani,
Corso base (Masini et al., 2010) e Dialogare in cinese 1 (Abbiati - Zhang, 2010).
In primo luogo, osservando la progressione dei contenuti, notiamo che (Li, 2008)
introduce i classificatori gradualmente presentando il primo classificatore, wèi 位,
alla sesta lezione, incentrata sulla funzione comunicativa della presentazione. L’uso
illustrato è solo con l’aggettivo dimostrativo, senza menzionare l’espressione della
quantificazione, pur avendo introdotto i numeri, da uno a cento, nella lezione precedente. Alla settima lezione troviamo ancora un altro elemento, definito classificatore (yìdiǎnr 一点儿, ‘un po’) e all’ottava lezione, che ha il titolo di xué liàngcí
学量词 (‘studiare i classificatori’) queste parole fanno il loro ingresso ufficiale, accompagnate da una breve spiegazione nelle note grammaticali, con cinque diversi
classificatori presentati nella tavola delle parole nuove e due in quella delle parole
supplementari. In Li (2008) l’introduzione dei nuovi classificatori non è sempre
accompagnata da una riflessione o da un’esplicitazione delle varie caratteristiche e
differenze, per esempio tra classificatori nominali e verbali, tra classificatori, nomi
e unità di misura. Meno graduale appare la trattazione in Masini et al. (2010), che
introduce questa classe alla undicesima lezione con dieci esemplari, sei nelle parole
nuove e quattro in quelle supplementari10. La spiegazione appare più articolata, con
una breve ma utile menzione all’italiano, e il numero complessivo dei classificatori
presentati nel volume è più alto. Ma il punto di forza è, a mio avviso, la sistematicità
con la quale questa classe viene introdotta, fino all’ultima lezione del volume, e lo
spazio dedicato all’esercitazione, sebbene sempre dello stesso tipo. Infine, il volume
di Abbiati - Zhang (2010) introduce e spiega i classificatori già alla terza lezione, in
cui troviamo gè 个 e wèi 位, impiegati prima dei nomi indicanti persona. In questo
lavoro, caratterizzato da un approccio comunicativo, non viene trascurata l’esplicitazione delle proprietà dei classificatori nominali e verbali e della differenza tra
nomi indicanti contenitori e classificatori specifici. Tuttavia, poco spazio è dedicato
al consolidamento di questa classe lessicale, come confermato dalla presenza di un
solo esercizio specificamente incentrato sui classificatori.
Per alcune interessanti considerazioni su prototipicità e selezione dei classificatori nel materiale didattico si veda Shao (2011).
10
Si tratta dei classificatori impiegati nel test di questa ricerca, sui quali mi soffermerò nella sezione
dedicata ai dati.
9
L’APPRENDIMENTO DEI CLASSIFICATORI IN CINESE L2
261
Come notiamo dalla tabella in appendice, i manuali adottano diverse strategie
nella presentazione e selezione dei classificatori, anche in rapporto ad altre classi
del lessico. In nessun caso tuttavia i nomi inclusi nel lessico delle lezioni sono accompagnati dall’indicazione sistematica del classificatore e poco spazio, con qualche eccezione, è lasciato alla verifica dell’apprendimento di questa forma. Se appare
motivata l’introduzione graduale, quasi immediata e comunque subito successiva
alla presentazione dei numeri, sembrerebbe altrettanto ragionevole soffermarsi sulle
differenze (tra quantificatore e classificatore, tra classificatore specifico e generico)
all’interno di questa classe così articolata e verificarne la comprensione attraverso
relativi esercizi.
4. Lo studio
Il presente lavoro intende indagare quali sono le principali difficoltà incontrate da
studenti universitari italiani nell’apprendimento dei classificatori in un contesto di
studio formale del cinese. In particolare, le domande di ricerca cui ci si propone di
rispondere sono le seguenti:
1. Nell’apprendimento dei classificatori, è più problematico l’ordine delle parole o
la combinazione CL + N? E cioè, il livello sintattico o quello semantico?
2. Quali sono i classificatori che gli apprendenti evitano o usano in modo errato?
3. Si osserva la tendenza, comune nei parlanti nativi, a generalizzare l’uso del classificatore gè 个?
Sulla base degli studi già condotti, ipotizzo difficoltà maggiori per quanto riguarda
l’aspetto semantico rispetto a quello sintattico, criticità nell’uso di classificatori riferiti a entità astratte e un uso consistente di gè 个. Tra i risultati attesi prevedo inoltre
un alto numero di errori nella selezione dei classificatori che hanno anche classe
nominale e che sono stati presentati prima come nomi (jiā 家); un basso numero di
errori con i classificatori associabili alle forme concrete degli oggetti (běn 本, zhāng
张, zhī 枝, hé 盒); difficoltà d’uso dei classificatori quasi sinonimi (come gè 个e
wèi 位, entrambi utilizzanti prima di nomi indicanti persone ma il secondo con la
sfumatura di rispetto e cortesia).
4.1 Il campione e il contesto di apprendimento
Il campione si compone di un gruppo di 40 apprendenti, la maggior parte dei quali
di 19 anni. Molti (36 su 40) provengono da licei (soprattutto linguistico ma anche
scientifico e, in misura minore, classico). La maggior parte degli apprendenti è di
sesso femminile (34 su 40). Il gruppo, che frequenta il corso di primo anno di lingua
cinese nell’ambito del corso di laurea in Lingue e mediazione linguistico-culturale
presso l’Università di Roma Tre, ha partecipato al test (cfr. § 4.2.) senza preavviso,
dopo 10 settimane di lezioni corrispondenti a circa 15 ore di lezione con il docente
italiano e 45 con il madrelingua.
262
CHIARA ROMAGNOLI
In base ai risultati emersi da una precedente ricerca (Luzi - Romagnoli, 2013),
che aveva messo in luce come nella didattica dei classificatori giovasse l’esplicitazione delle caratteristiche e delle regolarità da parte del docente rispetto a un tipo
di didattica più induttiva e improntata sull’immersione nei dati, durante le lezioni
precedenti il test ho illustrato le principali caratteristiche sintattiche e semantiche
e ho seguito il manuale adottato, ossia Masini et al. (2010), per quanto riguarda la
selezione dei classificatori da proporre agli studenti.
4.2 Il test
Nello studio dei classificatori l’apprendente italofono non deve solo padroneggiare un sintagma nominale la cui struttura sintattica è assente nella propria L1, ma
operare una scelta sulla base di criteri semantici che è intuitiva solo per il parlante
nativo. Per questo motivo, ho diviso il test in due parti: la prima prevede il riordino
delle parole e comprende 9 frasi. Questa parte è volta a verificare eventuali criticità
a livello sintattico. La seconda parte del test invece prevede la combinazione di nove
classificatori studiati, ma non indicati nel test, a 18 figure: alcune di queste corrispondono a nomi precedentemente associati ai classificatori (come zhī 枝+ bǐ 笔‘penna’, běn 本+ shū 书- ‘libro’), altre invece (circa la metà) sono figure associabili
per analogia a classificatori già introdotti ma di cui non si prevede la conoscenza del
nome associabile. Per esempio esempio, a lezione era stato presentato il classificatore
zhī 枝 per oggetti lunghi, rigidi e cilindrici, come penne e matite: in questo caso,
oltre a proporre la figura di alcune penne, è stata fornita l’immagine di due frecce
ipotizzando che per queste si potesse per analogia associare lo stesso classificatore
usato per le penne.
I classificatori inclusi nel test sono di diverso tipo: quelli individuali che si associano al nome per particolari caratteristiche semantiche collegate alla forma,
come běn 本, zhāng 张, zhī 枝 e hé 盒; i classificatori generali gè 个 e zhǒng 种; il
classificatore jiàn 件, impiegato con nomi di diverso ambito semantico; jiā 家, che
quantifica nomi riferiti ad attività commerciali e wèi位 che, come gè 个, può essere
utilizzato davanti a nomi indicanti persona, ma conferisce una sfumatura di rispetto.
4.3 Analisi dei risultati: la prima parte del test
Come evidenziato dalla verifica dei dati (graf. 1), le risposte sono abbastanza uniformi ma, contrariamente alle aspettative, il primo esercizio è risultato leggermente più
problematico del secondo (in tutti i grafici il colore verde indica le risposte corrette,
il rosso quelle scorrette).
L’APPRENDIMENTO DEI CLASSIFICATORI IN CINESE L2
263
Grafico 1 - Risposte corrette nella prima parte del test (62%)
Grafico 2 - Risposte corrette nella seconda parte del test (71%)
Nella valutazione dei risultati della prima parte del test non ho preso in considerazione l’aspetto grafico, ho cioè considerato corrette sia le risposte date in caratteri,
sia quelle fornite in trascrizione, anche nei casi di trascrizione errata.
Grafico 3 - Tipologia delle frasi scorrette nella prima parte del test
264
CHIARA ROMAGNOLI
Se osserviamo il graf. 3, notiamo che non è l’ordine del sintagma contenente il classificatore l’unico o il principale problema: questo è infatti scorretto solo nel 4%
dei casi, una percentuale inferiore a quella corrispondente ai casi in cui è scorretto
l’ordine (e corretto il classificatore), corrispondente al 9%, e inferiore anche al 16%,
corrispondente ai casi in cui risultano scorretti sia l’ordine del classificatore sia quello degli altri costituenti.
Grafico 4 - Illustrazione delle risposte divise per frasi (asse delle ascisse)
Procedendo nell’analisi qualitativa, come è intuibile dalle colonne del graf. 4, alcune
frasi (2, 5, 7) sono state riordinate quasi sempre correttamente, e si trattava di frasi in
cui il sintagma contenente il classificatore non includeva altri modificatori nominali
oltre al Num/Dim e al CL. Anche la prima e la quarta frase includevano una sequenza piuttosto semplice e sono state svolte senza particolari problemi. Meno corretto è stato il riordino delle frasi 8 e 9: nella 8 la sequenza prevedeva Dim + CL +
N, ma nella frase era presente anche un avverbio di grado da anteporre al verbo e in
molti (8) hanno sbagliato non solo la sequenza del sintagma nominale ma anche la
posizione dell’avverbio. Lo stesso numero di persone non ha svolto l’esercizio, forse
perché non aveva abbastanza familiarità con il classificatore presente. La frase 9 è risultata leggermente più problematica: in questo caso la sequenza con il classificatore
era più complessa perché composta da Pr + Num + CL + N (我的两个老师 ‘I miei
due insegnanti’). Tuttavia, non è questo il punto maggiormente critico, quanto piuttosto l’ordine generale della frase con due avverbi: uno di negazione e l’altro di scope.
Se passiamo a esaminare le frasi che sono state più frequentemente mal riordinate, la 3 e la 6 (5 studenti su 40 hanno svolto correttamente la 3 e 7 studenti la 6), si
conferma il dato già osservato per cui la sequenza con il classificatore non costituisce
l’unico o il principale problema. Iniziamo dalla frase n.6:
265
L’APPRENDIMENTO DEI CLASSIFICATORI IN CINESE L2
今天 下午
我
想
去
那
家
oggi
pomeriggio io
volere andare quella CL
‘Oggi pomeriggio vorrei andare in quella libreria’
书店
libreria
In questo caso, di 33 persone, 6 non l’hanno svolta, nessuno ha sbagliato solo la sequenza con il classificatore mentre in 14 hanno sbagliato l’ordine dei costituenti ma
non del sintagma contenente il numerale e in 13 hanno sbagliato entrambi (ordine
e sequenza CL + N). Una criticità diffusa è senz’altro motivabile dall’uso del verbo
ausiliare xiǎng 想 (‘desiderare’, ‘pensare’), ancora poco familiare agli studenti. Infine,
la frase in cui sono stati commessi più frequentemente errori è la seguente:
那
枝
好
笔
Quella CL buona penna
‘Quella bella penna non è la mia’
不
non
是
essere
我的
mia
Questo risultato era prevedibile in quanto non si era posta attenzione, nella presentazione in classe, sull’inserimento del modificatore aggettivale nel sintagma
nominale con il classificatore e pertanto in molti l’hanno sbagliato, invertendo la
posizione Agg + CL al posto di CL + Agg o inserendo quel modificatore nominale
in altre posizioni. Erano peraltro presenti due modificatori: uno numerale e l’altro
possessivo e questo non ha certo aiutato a individuare il giusto ordine. Questo risultato suggerisce che, poiché non è intuibile l’ordine di più modificatori nominali,
occorre un’esplicitazione mirata. Rispetto alla prima domanda di ricerca relativa al
confronto tra livello sintattico e semantico, i risultati emersi e l’analisi qualitativa
non consentono pertanto di attribuire maggiore difficoltà d’apprendimento all’uno
o all’altro aspetto.
4.4 Analisi dei risultati: la seconda parte del test
Rispetto alla seconda parte del test, i risultati ottenuti hanno parzialmente confutato le ipotesi menzionate in 4.
Grafico 5 - Risposte scorrette, corrette e mancanti (in bianco)
266
CHIARA ROMAGNOLI
Grafico 6 - Risposte divise per selezione del classificatore
In primo luogo, e contrariamente a quanto atteso, il classificatore jiā家, che in funzione nominale ha il significato di ‘casa’, ‘famiglia’ è sempre stato correttamente associato alle immagini raffiguranti attività commerciali come ristoranti. Tuttavia, è
stato usato anche, e in modo scorretto, nel caso dell’immagine 13 raffigurante una
stanza: in questo caso, data la prossimità semantica di ‘casa-stanza’ è stato utilizzato
in più della metà dei casi (21) il classificatore jiā 家 al posto di gè 个. Rispetto alla
seconda domanda di ricerca, possiamo affermare che i classificatori oggetto dei test
non presentano le stesse criticità e alcuni sono stati usati più frequentemente e in
modo più corretto di altri.
Dei classificatori relativi alla forma concreta dei referenti, il test ne include tre:
běn 本 (oggetti rilegati), zhāng 张 (oggetti piatti) e zhī 枝 (oggetti oblunghi e rigidi). È inoltre presente hé 盒, per oggetti a forma di scatola o che possono essere
contenuti in una scatola. Come si può osservare dal grafico 6, il secondo classificatore, běn 本, ha registrato un basso numero di errori e omissioni, in alcuni casi
è stato sostituito dal classificatore generico usato per il plurale indefinito (xiē 些),
uso comunque non errato. Meno frequente è stato l’inserimento di zhī 枝, che poco
meno di trenta persone hanno usato correttamente e che è stato talvolta (4 nel primo caso e 8 nel secondo) sostituito dal nome con cui si combina spesso bǐ 笔 (‘penna’). Non particolarmente positivi neanche i risultati con zhāng 张, selezionato da
circa 25 persone sia per la prima immagine sia per la seconda. Piuttosto significative
appaiono le combinazioni con hé 盒, che alla prima occorrenza è stato indicato da
poco più di 20 persone, alla seconda da poco meno di trenta. Nella prima figura
da associare a questo classificatore era riportata la foto di una scatola di fiammiferi,
nella seconda invece una scatola di cioccolatini. Mentre per la seconda immagine è
risultata saliente la forma della scatola, del contenitore, nel primo caso 9 studenti
hanno selezionato il classificatore zhī 枝, dimostrando di dare priorità al contenu-
L’APPRENDIMENTO DEI CLASSIFICATORI IN CINESE L2
267
to rispetto al contenitore e di ‘estendere’ l’uso del classificatore per penne e simili
ai fiammiferi (per il quale si usa un altro classificatore)11. Questo risultato porta a
concludere che quando si introducono unità come hé 盒, occorre distinguerle dalle
altre ed è forse preferibile affrontarle in un momento separato. Questo classificatore
si avvicina infatti a una measure word perché, oltre a precedere nomi di oggetti a forma di scatola, indica anche ciò che può essere contenuto in una scatola e, in questa
fase dell’apprendimento, può creare confusione il rapporto contenitore-contenuto:
quale dei due occorre considerare nella scelta del classificatore? Inoltre, in due casi,
alle immagini 8 e 17 raffiguranti rispettivamente un pacco regalo e un pacco postale, hé 盒 è stato usato al posto di jiàn 件 (18 su 40 per la figura 8 e 29 per la figura
17) con un’analogia, prevedibile ma fuorviante, tra scatola e pacco. Questo dato
suggerisce che è preferibile evitare di presentare simultaneamente i due classificatori.
I classificatori selezionati più raramente sono stati jiàn 件e zhǒng 种. Questo
risultato è parzialmente evidente dalla colonna del grafico relativa a zhǒng 种perché
nel caso della figura n. 7 ho considerato corretto sia l’impiego di gè 个 (10 casi)
che di xiē 些 (5), mentre il classificatore zhǒng 种 è stato usato solo 7 volte. L’altra
figura rappresentava dei dorsi di libri in diverse lingue, ma è stato utilizzato quasi
solo il classificatore specifico per oggetti rilegati (33 casi) e in minima parte xiē 些
(4): ho ritenuto pertanto corretta la risposta e inadeguata la scelta dell’immagine,
evidentemente non abbastanza evocativa per richiamare l’uso di zhǒng 种. Rispetto
a jiàn 件, come accennato, i risultati negativi e il bassissimo uso derivano dalla sostituzione con hé 盒: la prossimità semantica tra il classificatore usato per la parola ‘regalo’ e quello usato per i nomi di oggetti a forma di scatola (come un pacco regalo)
ha creato confusione e suggerisce di evitare l’introduzione ravvicinata di entrambi.
Rispetto alla familiarità degli apprendenti con i nomi relativi alle immagini fornite,
la correlazione non è stata sempre confermata. Nel caso di běn 本, jiā 家, zhī 枝 e
hé 盒 le combinazioni sono state corrette sia con nomi conosciuti sia con parole
nuove, meno buoni i risultati con zhāng 张, gè 个 e wèi 位, negativi con jiàn 件, sia
nel caso di nomi già introdotti che non. Rispetto all’uso di zhǒng 种, quasi sempre
sostituito, non è risultata rilevante nell’analisi l’immagine proposta.
Correlando i risultati della prima parte del test alla seconda, ho verificato se alcuni dei classificatori in esame fossero risultati più critici di altri in entrambi i test
proposti. Tuttavia, le frasi più frequentemente mal riordinate (3-6-9-8, in ordine
decrescente di errori) presentano solo in un caso uno dei classificatori “critici”: si
tratta della frase 8 con jiàn 件. Le altre contengono gè 个, zhī 枝 e jiā 家, di cui gli
ultimi due sono in particolare inclusi nelle frasi 3 e 6, nelle quali si è verificato il
maggior numero di errori.
La risposta alla terza domanda di ricerca rappresenta forse il risultato più inatteso: pochi apprendenti hanno esteso l’uso del classificatore generale a referenti di
nomi che reggono classificatori specifici. Questo è avvenuto soprattutto nel caso 7,
in cui l’immagine raffigura diversi tipi di acconciature e al posto del classificatore
zhǒng 种, che significa ‘tipo’, in molti (10 su 40) hanno scelto gè 个. Meno nume11
Altri apprendenti (3) hanno invece selezionato il classificatore per oggetti con superficie piatta.
268
CHIARA ROMAGNOLI
rosi gli altri casi di impiego di gè 个, sostituito ai classificatori specifici relativi alla
forma: 6 in tutto al posto del classificatore zhāng 张 e solo due al posto di zhī 枝.
Questo dato, che si discosta da quelli di molti degli studi sull’apprendimento dei
classificatori citati in § 2, può essere spiegato con il livello degli apprendenti e la
qualità dell’input, poco vicino alla lingua autentica e ancora insufficiente per consentire generalizzazioni sulla frequenza dei classificatori e la possibilità di sostituire
gè 个 a molti altri.
Infine, riguardo al caso dei classificatori gè 个 e wèi 位, entrambi usati per nomi
indicanti persona ma con diversa connotazione, si è verificato un uso abbastanza
diffuso del primo. Le due figure alle quali occorreva associare wèi 位rappresentavano rispettivamente lo scienziato Einstein e un professore. Nel primo caso 18 partecipanti hanno usato wèi 位 e 15 gè 个, nel secondo 19 su 40 hanno inserito wèi 位
e in 12 hanno usato gè 个. Questi risultati suggeriscono che è preferibile evitare di
presentare nella stessa unità didattica i due classificatori appena illustrati.
5. Conclusioni
Considerato l’articolato panorama delle ricerche sui classificatori e i risultati emersi
dal test utilizzato in questo studio, appare opportuno riflettere sul ruolo di queste
unità lessicali nell’apprendimento e nella didattica del lessico del cinese moderno.
Se da un lato, infatti, l’utilizzo scorretto e l’omissione dei classificatori non comportano ostacoli rilevanti per la comunicazione, l’alta frequenza d’uso conferma tuttavia il ruolo di questa classe del lessico nell’apprendimento del cinese L2. Alla luce
di queste considerazioni, appare pertanto indicato dare spazio, nella didattica dei
classificatori, all’esplicitazione delle diverse caratteristiche semantiche e sintattiche,
alcune delle quali illustrate in questo lavoro. In particolare, sembra ragionevole introdurre sistematicamente i classificatori collegandoli ad altre classi del lessico (numerali e nomi), osservare lo sviluppo del lessico dei classificatori negli apprendenti
e verificare se l’andamento, nelle abilità ricettive e produttive, è adeguato al livello
linguistico raggiunto, per colmare eventuali gap e superare possibili criticità.
Ringraziamenti
Desidero ringraziare Tiziano Zuliani per il costante e generoso aiuto.
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L’APPRENDIMENTO DEI CLASSIFICATORI IN CINESE L2
271
Appendice 1
I classificatori nella manualistica per apprendenti italofoni
(Considerate le diverse caratteristiche e l’oggetto di questo studio, ho escluso dalla
tabella e dal computo le unità di misura, moneta e tempo presenti nei manuali, sebbene etichettate come ‘classificatori’).
PATRIZIA GIULIANO1
L’organizzazione del quadro spaziale in testi prodotti
da adolescenti “svantaggiati”: carenze espressive e
didattica del testo
This study aims at identifying the linguistic and communicative abilities of culturally deprived adolescents with respect to the organization of spatial reference in oral descriptive
and narrative texts. The subjects come from one of the most problematic areas of Naples.
Their oral productions are compared to those of two control groups: a group of adolescents
“privileged” in their cultural and social background, and a group of adults with a university
education.
The tasks proposed are the following:
1. to describe a picture portraying the foreshortening of a town, through which we elicited
spatial static descriptions;
2. to narrate a short picture story, in which the protagonist is involved in spatial dynamic
actions.
Both tasks were performed in a context of non shared knowledge with respect to the interlocutor. The study shows that the texts of the deprived adolescent group present some conceptual and discourse deficiencies. The adult control group and its comparison with the two
groups of adolescents let us point out, in didactic terms, which areas are still problematic for
both deprived and privileged young speakers with respect to the textual tasks in question.
1. Introduzione
Lo studio si propone di analizzare l’abilità linguistico-comunicativa di soggetti
socio-culturalmente svantaggiati in relazione ad alcuni aspetti della concettualizzazione statica e dinamica dello spazio. L’interesse per il dominio dello spazio in
relazione a informatori svantaggiati rappresenta un campo di ricerca nuovo, dal momento che l’attenzione per tali soggetti si è tradizionalmente incentrata sull’abilità
narrativa (cfr. Bernstein, 1961; 1971; Giuliano, 2004; 2014a; 2014b; Labov, 1979;
Martinot, 2013).
Gli informatori provengono da uno dei quartieri più problematici della città di
Napoli, i Quartieri Spagnoli. Le produzioni orali di tali informatori sono state confrontate con quelle di due gruppi di controllo: un gruppo di adolescenti “privilegiati”, per provenienza sociale e culturale, e un gruppo di adulti di istruzione elevata.
Il confronto tra gli adolescenti svantaggiati e quelli privilegiati ha permesso di individuare alcune défaillance linguistico-comunicative dei primi rispetto ai secondi;
1
Università degli Studi di Napoli Federico II.
274
PATRIZIA GIULIANO
il confronto dei tre gruppi (adolescenti e adulti) ha fornito invece informazioni su
quanto resta da apprendere all’adolescente in termini di concettualizzazione spaziale. Da entrambi i confronti emergono implicazioni interessanti per la didattica
dei testi (narrativo-)descrittivi e per il ri-orientamento cognitivo del soggetto con
disagio culturale.
2. Quadro teorico
I nostri informatori hanno eseguito delle attività discorsive (cfr. § 4) i cui requisiti
corrispondono a quelli di un compito verbale complesso, ovvero di un compito che
Klein - von Stutterheim (1989; 1991) definiscono come organizzato intorno a una
Quaestio, una domanda specifica alla quale il testo risponde. Tale domanda può essere esplicitamente fornita dall’interlocutore o anche corrispondere a una domanda
inconscia e interna al parlante che produce il testo: in quest’ultimo caso la Quaestio
è implicitamente organizzata in base al modo personale in cui un locutore organizza
la propria esperienza del reale. La Quaestio appropriata per una descrizione spaziale
statica è, per esempio, Che cosa c’è nell’intervallo spaziale X?; essa è dunque definita
da un intervallo spaziale, mentre l’entità da localizzare è scelta tra tutte le entità che
si situano in un certo intervallo; la Quaestio consona per una narrazione illustrata
sarà invece Che cosa accade nelle vignetta successiva? Le risposte alla Quaestio formano la trama del testo e specificano le informazioni in fuoco, selezionate tra le diverse
alternative possibili sollevate dal sintagma interrogativo della Quaestio; al contrario,
le informazioni che sono già date dalla Quaestio del testo specificano le informazioni in topic. Gli enunciati che non rispondono alla Quaestio ma che forniscono
commenti supplementari danno luogo al piano di sfondo.
Il modello discorsivo della Quaestio è un approccio di tipo concettuale e testuale
che si ispira al modello della produzione linguistica proposto da Levelt (1989). Le
restrizioni imposte dalla Quaestio in relazione a un certo tipo di testo agiscono al
livello delle rappresentazioni concettuali che precedono la formulazione e dunque
la produzione linguistica. Tali rappresentazioni concettuali corrispondono alle rappresentazioni globali delle situazioni che l’individuo sperimenta nel corso della sua
vita e che poi conserva nella memoria delle esperienze.
3. Gli obiettivi dell’analisi
Gli obiettivi dell’analisi sono strettamente connessi ai tipi di compiti proposti, che
consistono in una descrizione spaziale statica e una breve storia con supporto iconico (cfr. § 4). In relazione alla descrizione spaziale statica, ci proponiamo di valutare:
1. la presenza di ancoraggi di tipo globale, ovvero l’abilità di introdurre entità localizzandole in relazione alle varie sezioni del disegno, come nell’esempio (1) (gli
esempi proposti in ciò che segue sono stati ricavati dai nostri dati);
(1) al centro dell’immagine c’è una piazza # a sinistra una fila di palazzi.
L’ORGANIZZAZIONE DEL QUADRO SPAZIALE
275
2. l’uso della prospettiva, come nell’esempio (2), dove le entità sono raffigurate in
modo prospettico.
(2) a sinistra c’è una serie di palazzi che si snodano verso il fondo dell’immagine # in
primo piano c’è una strada # in secondo piano si vede un’altra fila di palazzi.
La presenza di questi due fenomeni è stata considerata come espressione di un’abilità descrittiva matura, poiché per il loro tramite il parlante inquadra la descrizione
che sta fornendo e tenta di tenere sotto controllo le ambiguità, a volte inevitabili per
la natura complessa del compito proposto.
Per la narrazione con supporto iconico, abbiamo deciso di valutare:
1. l’introduzione completa o incompleta del setting (o cornice) ovvero il riferimento alle entità ‘prato’ (campo, erba ecc.) e ‘recinto’ (staccato, barriera ecc.), in relazione alle quali si svolgono le azioni dinamiche del cavallo di ‘saltare’ e ‘cadere’,
come nell’esempio (3);
(3) c’è un cavallo in un prato con un recinto
2. l’eventuale omissione della cornice;
3. l’introduzione referenziale inappropriata di prato e/o recinto, introdotte come
entità già note precedute da determinanti definiti;
4. l’introduzione tardiva – oltre che inappropriata – delle entità prato e/o recinto;
5. il rapporto percentuale tra l’introduzione dell’ambientazione generale (prato)
e l’entità ‘recinto’: essendo infatti quest’ultima cruciale alla dinamica spaziale
della storia, si può fare l’ipotesi che essa sia menzionata più di frequente dell’ambientazione generale, che è relativamente meno essenziale e dunque l’unica, teoricamente, a poter essere omessa;
6. il tipo di entità, spaziale o animata, che viene introdotta come focus principale,
come esemplificato in (4).
(4) C’è un recinto con un cavallo vs c’è un cavallo in un recinto
Il punto 6 fornisce informazioni sul tipo di “prospettiva” assunta dal parlante, ovvero una prospettiva più o meno centrata sullo spazio.
4. Gli informatori e i compiti
Gli adolescenti intervistati hanno tra i 12 e i 14 anni e sono tutti alunni di terza media. Le variabili “ambiente svantaggiato e problematico” vs “ambiente privilegiato”
sono state investigate per il tramite di un test socio-biografico fornito agli informatori sotto forma di una conversazione libera circa i loro interessi, le loro amicizie, le
loro famiglie e altri argomenti.
276
PATRIZIA GIULIANO
Gli adolescenti svantaggiati lo sono ai livelli linguistico, culturale e spesso anche economico, poiché vivono in uno dei quartieri più problematici di Napoli, i
Quartieri Spagnoli, in cui il tasso di delinquenza è fortemente associato al livello
culturale molto basso e alle condizioni in genere indigenti di molte delle famiglie
che lo popolano. Da un punto di vista culturale e linguistico, i genitori del gruppo
sfavorito hanno frequentato la scuola per non più di otto anni (scuola elementare
e media) o anche solo per cinque anni, e non hanno una buona padronanza dell’italiano standard, che alternano al dialetto napoletano; tali genitori non avevano
l’abitudine di leggere storie ai figli quando erano piccoli, né commentano con loro
emissioni televisive; gli intervistati stessi non leggono libri (a casa hanno solo i libri scolastici) e fanno raramente i compiti. Nell’insieme i soggetti svantaggiati non
ricevono alcuno stimolo culturale e linguistico dalle proprie famiglie e passano la
gran parte del tempo per strada, dinanzi alla televisione, per guardare programmi
senza veri contenuti, o anche giocando con videogame; solo pochi tra loro, infine,
normalmente i maschi, praticano uno sport (il calcio).
I soggetti privilegiati vivono in una delle zone più ricche della città di Napoli
(Quartiere Chiaia); praticano attività culturali e sportive di vario genere (musica,
danza ecc.) e, sebbene non passino sempre molto tempo con i genitori, dalle loro
risposte emerge la tendenza di questi ultimi a creare stimoli culturali di vario genere
nei figli.
Gli adulti, o gruppo di controllo, hanno per lo più tra i 22 e i 28 anni e sono tutti
laureati.
Sono stati intervistati 20 soggetti per ciascuno dei tre gruppi. Ai soggetti sfavoriti è stato chiesto se desiderassero esprimersi in dialetto napoletano o in italiano ma
hanno sempre optato per l’italiano.
I compiti proposti sono i seguenti:
1. descrizione di un’immagine già usata in alcuni altri studi (cfr., per esempio,
Carroll et al., 2000; Hendriks et al., 2004; Giuliano - Di Maio, 2007), in cui è
rappresentato lo scorcio di una città svizzera in stile début siècle, e attraverso il cui
impiego si è mirato a elicitare una descrizione spaziale statica2;
2. narrazione di una breve storia con supporto iconico, The Horse Story, anche
questa già usata in altri studi (cfr. Hendriks, 1993), in cui i protagonisti sono
coinvolti in azioni spazialmente dinamiche (un cavallo rinchiuso in un recinto,
nel tentativo di saltare al di là dello steccato, cade e si rompe una zampa).
Entrambi i compiti sono stati eseguiti in un contesto di non condivisione di conoscenze rispetto al proprio interlocutore, poiché l’intervistato ha dovuto descrivere o
narrare quanto osservava senza che l’ascoltatore condividesse con lui la visione dei
supporti, che del resto lo stesso ascoltatore non aveva mai visto. Nel caso inoltre della descrizione, l’interlocutore doveva tentare di disegnare l’immagine in questione
sulla base delle indicazioni fornite dall’informatore.
L’immagine è tratta dalla serie Hier fällt ein Haus, dort steht ein Kran..., oder die Veränderung der
Stadt di Jörg Müller, Verlag Sauerländer.
2
L’ORGANIZZAZIONE DEL QUADRO SPAZIALE
277
5. Risultati per la descrizione spaziale statica
Il graf. 1 fornisce informazioni circa la percentuale di parlanti che ricorrono al quadro globale e all’ancoraggio prospettico (ovvero tridimensionale):
Grafico 1 - Quadro Globale e Prospettiva
È evidente che, per gli adulti, il ricorso al quadro globale come punto di ancoraggio è
essenziale (85% dei parlanti), così come sembra esserlo il ricorso alla prospettiva (55%).
Quanto agli adolescenti svantaggiati, gli ancoraggi globale e prospettico sono decisamente carenti. Più rilevante è invece il ricorso a entrambi da parte dei ragazzi non svantaggiati, per quanto esso non raggiunga le percentuali riscontrate presso gli adulti.
Le cifre non evidenziano però alcuni altri fenomeni che possono apparire nei dati,
e cioè l’elencazione di entità come modalità descrittiva priva di qualsiasi punto di ancoraggio, frequente soprattutto nelle descrizioni degli adolescenti svantaggiati: si veda
l’esempio (5).
(5) *SBJ: allora una piazza con degli alberi # una statua # un tabaccaio # le panchine con
la gente sopra ## le macchine ##
*INV: sii preciso mi raccomando
*SBJ: dei palazzi # <le strade> ## qui il toblerone <che cos’è?> ## le strade le ho dette
# le strade # con le macchine # la bicicletta # il signore che legge il giornale ## e c’è la
gente che si fa compagnia in mezzo al parco ## il cielo # tanti palazzi ## sta una specie
di pullman antico ## la gente che aspetta il pullman e basta
In (5), nonostante la domanda-stimolo posta dall’intervistatore (sii preciso mi raccomando), l’adolescente continua il suo elenco disordinato di entità, impedendo all’ascoltatore di situarle in un qualche punto specifico dell’immagine.
I soggetti svantaggiati possono anche ricorrere ai deittici, mostrando, in tal modo,
una maggiore perdita di controllo sul compito assegnato (descrivere a un ascoltatore
che non vede l’immagine). Riportiamo un esempio in (6).
278
PATRIZIA GIULIANO
(6) Disegna un # Toblerone [= intende un edificio con l’insegna Toblerone] # a
sinistra ## c’ha tre finestre # tre finestre qui e altre sei qua
Infine, alcuni svantaggiati tentano di introdurre concetti tridimensionali ma in
modo fallimentare poiché sembrano non disporre delle espressioni giuste, come accade in (7) e in (8).
(7) Poi in alto [=in fondo/in secondo piano] al centro stanno dei ragazzi che giocano a pallone e in basso [= in primo piano] sta una donna sulla bicicletta
(8) Poi ci sono molte signore con le biciclette... più giù [= primo piano]... poi a sinistra però più sopra [= in secondo piano]... c’è una fioraia
Le descrizioni del gruppo non svantaggiato sono più vicine alle descrizioni adulte,
per quanto non del tutto prive di ambiguità – come mostra l’esempio (9) – date le
difficoltà che il compito da noi proposto implica, ovvero organizzare in maniera
logico-concettuale una massa di informazioni spaziali che di per sé non ha alcuna
struttura intrinseca (cfr., per contrasto, l’ordine cronologico nei testi di tipo narrativo).
(9) A sinistra c’è un palazzo diciamo dove sopra c’è scritto Toblerone ## poi al centro della figura ci sta un tabaccaio con dei bambini alla sinistra che giocano ## di
fronte al tabaccaio c’è un signore anziano e poi ci sono vari alberi diciamo sparsi
nella piazzetta [mai introdotta] ##
6. Risultati per la descrizione spaziale dinamica
I risultati illustrati nel graf. 2 mostrano le percentuali di espressione del setting completo (prato e recinto) o incompleto (o prato o recinto), delle introduzioni tardive di prato e/o recinto e delle eventuali omissioni totali del setting nell’ambito del
compito di narrazione di The Horse Story.
Grafico 2 - Setting completo o incompleto, introduzione tardiva e omissione
L’ORGANIZZAZIONE DEL QUADRO SPAZIALE
279
Il grafico rivela che gli adulti enunciano più setting completi senza mai omettere la
cornice. Tra i gruppi di adolescenti, quelli svantaggiati sono i più lontani dai pattern
adulti, poiché possono omettere il setting ed enunciano una più alta percentuale di
setting incompleti.
In (10) l’omissione del setting si cumula all’impiego del deittico qua:
(10) Nella prima vignetta fa vedere il cavallo che corre ## poi # qua # sta pensando
di saltare ## qua prova a saltare e poi cade ## poi questa mucca lo aiuta
Il ricorso al deittico è evidentemente espressione di una défaillance comunicativa
poiché l’uso di tali elementi è teoricamente inibito dalla situazione di non condivisione di conoscenze tra chi narra e chi ascolta.
Per ciò che concerne le introduzioni tardive delle entità prato e recinto, non
sembrano essere esclusive del gruppo svantaggiato, sebbene presso quest’ultimo siano più frequenti che negli altri due gruppi. A tal proposito, si guardino gli esempi
(11) e (12) tratti rispettivamente dalle produzioni del gruppo svantaggiato e del
gruppo non svantaggiato.
(11) Allora aspe’ [=aspetta] questo cavallo sta scappando diciamo? No sta camminando # poi vede quest’altro animale e se ne vuole scappare dal recinto
(12) Ci sta un cavallo che corre # e nella seconda vignette ci stanno un uccello e un
toro # <non_lo_so_ cos’_è> # il cavallo corre perché vuole saltare la staccionata
Il graf. 3 illustra le introduzioni referenziali appropriate o inappropriate delle entità
prato e recinto, ovvero l’impiego di determinanti indefiniti vs definiti per introdurre entità sconosciute all’ascoltatore.
Grafico 3 - Introduzioni appropriate e inappropriate
La situazione è in parte simile a quella del grafico precedente, ovvero delle tendenze
per il gruppo di adolescenti svantaggiati più distanti dal gruppo adulto, a causa della
percentuale più elevata di introduzioni inappropriate delle entità prato e recinto.
280
PATRIZIA GIULIANO
Riportiamo in (13) un esempio di introduzione appropriata dal gruppo non svantaggiato e in (14) uno di introduzione inappropriata dal gruppo svantaggiato.
(13) Un cavallo sta correndo in un prato # trova un recinto
(14) Sta un cavallo che vuole entrare in quell’altro recinto [mai introdotto]
Il graf. 4 illustra il rapporto tra i termini relativi all’ambientazione generica (prato
e suoi semi-equivalenti) e i termini concernenti l’entità recinto (e i suoi sinonimi).
Grafico 4 - Ambientazione generale (prato) vs recinto
Si osservano tendenze simili per tutti e tre i gruppi: l’entità recinto è cioè percepita
da tutte e tre le categorie di informatori come più essenziale ai fini della dinamica
dei fatti da narrare, il che è in linea con l’ipotesi proposta in § 3.
Proponiamo un ultimo grafico (graf. 5) per illustrare il tipo di prospettiva selezionata dai narratori dei tre gruppi al fine di introdurre l’entità animata cavallo e
l’entità spaziale recinto.
Grafico 5 - Entità spaziale come focus vs entità animata come focus
Il graf. 5 mostra una netta tendenza, da parte di tutti e tre i gruppi di informatori,
a preferire la focalizzazione dell’entità animata cavallo all’entità spaziale recinto;
presso gli svantaggiati, tuttavia, questa tendenza è quasi assoluta e può forse essere interpretata come un’attenzione più carente per il dominio spaziale. La scelta
L’ORGANIZZAZIONE DEL QUADRO SPAZIALE
281
dell’entità animata come focus principale è, più in generale, legata alle caratteristiche del compito proposto, che, pur presentando un supporto figurativo, è primariamente concettualizzato come una narrazione in cui dei protagonisti animati partecipano a degli eventi.
7. Riflessioni conclusive sui risultati
Lo studio ha permesso di definire la distanza concettuale e linguistico-espressiva
in ambito spaziale di un gruppo di adolescenti “svantaggiati” rispetto a un gruppo
“privilegiato”, identificando alcune aree cruciali per una possibile didattica di recupero di tale distanza. Tale didattica va intesa, rispetto ai risultati individuati, come
didattica di recupero della grammatica testuale, poiché è in seno all’ambito del testo
che emergono le défaillance dei soggetti svantaggiati, sia per il tipo di informazioni
selezionato sia per il modo in cui tali informazioni vengono concatenate nell’ambito della strutturazione del testo.
Rispetto a tale strutturazione, per la descrizione spaziale statica, abbiamo indagato l’eventuale ricorso da parte degli informatori al quadro di ancoraggio globale,
rappresentato dalla divisione in sezioni dell’immagine stessa (a destra, a sinistra, al
centro ecc.), nonché il possibile impiego del quadro prospettico (ovvero tridimensionale: sullo sfondo, in primo piano ecc.), in quanto espressioni di una descrizione cognitivamente matura, come del resto è confermato dai dati dei nostri parlanti
adulti. Ora, i risultati ottenuti per i due gruppi di adolescenti evidenziano carenze
per il gruppo svantaggiato e una maggiore vicinanza al modello adulto per quelli
non svantaggiati: se è vero perciò che i primi devono recuperare svariate défaillance,
è altrettanto vero che i secondi, per quanto vicini al pattern adulto, non dominano
ancora appieno le strategie che il compito in questione richiede.
Per la storia illustrata The Horse Story, abbiamo focalizzato l’attenzione su alcuni
aspetti del setting (quadro completo, quadro incompleto, introduzione tardiva, omissione), sulla maniera più o meno appropriata di introdurre le entità che fungono da
setting (prato e recinto, e loro semi-equivalenti), sul rapporto tra l’introduzione/omissione di prato rispetto a recinto (e loro sinonimi) e sull’eventuale introduzione focale
dell’entità spaziale (prato/recinto) rispetto all’entità animata (cavallo). I risultati rispetto ai quattro domini appena citati evidenziano talora differenze, talora similitudini tra i
tre gruppi. Nella fattispecie, il ricorso al quadro completo sembra essere una prerogativa
del parlante adulto, e non a caso i due gruppi di adolescenti vi ricorrono in maniera
meno frequente; laddove, tuttavia, i non svantaggiati mostrano una chiara tendenza
verso il modello adulto, gli svantaggiati appaiono ancora lontani da quest’ultimo: il
fenomeno in questione è dunque sensibile sia al parametro età che alla stimolazione
linguistico-culturale. Quanto alle introduzioni referenziali appropriate, inappropriate
o tardive, la differenza tra i gruppi è data dalle introduzioni inappropriate, poiché esse si
aggirano intorno al 38% per gli svantaggiati ma scendono al 25% per i non svantaggiati
e al 9% presso gli adulti: una volta ancora, dunque, età e povertà di stimoli linguistici e
culturali sembrano spiegare la diversità di risultati osservata. Per ciò che concerne l’in-
282
PATRIZIA GIULIANO
troduzione/omissione di prato rispetto a recinto, i due gruppi di adolescenti mostrano
una tendenza a favore di una maggiore frequenza di espressione dell’entità recinto, il
che si spiega per la necessità narrativa di introdurre l’elemento che provoca la caduta
del cavallo; gli adulti, invece, ricorrendo più di frequente all’introduzione di un setting
completo, mostrano un maggiore equilibrio nell’espressione dell’una e dell’altra entità:
il fenomeno in questione sembra insomma essere sensibile al solo parametro dell’età.
Insensibile a qualsiasi parametro si rivela invece l’introduzione focale dell’entità animata cavallo rispetto all’eventuale introduzione pure focale delle entità spaziali prato/
recinto: in tal caso, le caratteristiche dello stimolo proposto, ovvero la sua struttura narrativa, fanno sì che il parlante, indipendentemente dall’età e dalla stimolazione linguistico-culturale, ponga l’entità animata in primo piano.
Nel complesso, le carenze dei testi prodotti dagli adolescenti svantaggiati evidenziano una fragilità nell’organizzazione globale del testo, che talvolta risulta ambiguo
all’interlocutore che non condivida la visione dei supporti descritti e/o narrati. Nella
visione della teoria della Quaestio, si può affermare che gli svantaggiati non selezionano le informazioni più appropriate perché fungano da punti di ancoraggio in topic (le
sezioni dell’immagine), nell’ambito della descrizione statica, ma anche che omettono
informazioni di background cruciali (omissione del setting), nell’ambito della narrazione illustrata; in quest’ultima, inoltre, possono topicalizzare informazioni che sono
del tutto ignote all’interlocutore (così il recinto). Nell’insieme, dunque, le descrizioni/
narrazioni dei soggetti svantaggiati mostrano una meno attenta considerazione delle
aspettative del proprio ascoltatore. Questa considerazione più scarsa trova riscontro
soprattutto nelle descrizioni statiche, ovvero in un tipo di compito in cui l’intervistato
ha dovuto da sé decidere il cosa dire e il come dirlo via via che costruiva la struttura
referenziale del testo; laddove, invece, il supporto proposto (così The Horse Story) presentava una qualche struttura implicita, i soggetti svantaggiati hanno prodotto testi che,
almeno per alcuni versi, sono più vicini a quelli del gruppo privilegiato e degli adulti.
I risultati appena descritti sembrano porsi in linea con la debolezza testuale che
diversi studi hanno evidenziato, per soggetti linguisticamente e culturalmente svantaggiati, in relazione a testi di natura narrativa (cfr. Giuliano, 2004; 2014a; 2014b;
Martinot, 2013). Giuliano (2004), in particolare, mostra che le défaillance narrative
investono svariati tipi di narrazione: biografica, fittizia con supporto illustrata, fittizia
con supporto video ecc.; l’autrice (cfr. Giuliano, 2014b) suggerisce anche che
Les difficultés des narrateurs marginalisés semblent notamment se situer dans la
dimension extra-narrative bien encore que dans celle intra-narrative, ou bien dans
le conteste pragmatique d’énonciation du texte, dans l’incapacité de prendre en considération certaines attentes de l’interlocuteur dans une situation expérimentale telle
que celle en objet, où il n’y a pas de connaissances partagées. C’est en premier lieu
dans cette dimension que le sujet défavorisé manifeste les défaillances majeures... En
adoptant la vision fonctionnelle et textuelle de Givón (1995), ce type de problèmes
reposerait, à notre avis, dans ce que l’auteur appelle le «modèle de la situation discursive courante» (model of the current speech-situation). Si nous acceptons l’idée
que la représentation mentale d’un texte possède une structure séquentielle et hiérarchique où la cohérence est assurée par la connectivité entre les nœuds formant une
L’ORGANIZZAZIONE DEL QUADRO SPAZIALE
283
telle structure... alors la bonne compréhension d’un texte de la part de l’interlocuteur
est, comme Givón (1995) le suggère, un synonime d’une représentation mentale bien
structurée (ibid., 346 et ss.). En l’espèce, plus un nœud est connecté à d’autres nœuds,
plus il est accessible au niveau mental, ce qui, en termes de texte externe se traduit en
relations isomorphiques à caractère anaphorique et cataphorique.
Ora, appoggiando la visione di Givón, non si vuole affermare che i soggetti svantaggiati non abbiano necessariamente certe rappresentazioni cognitive quanto piuttosto
che esse non trovano una realizzazione esplicita o a ogni modo ben strutturata, malgrado la presenza di un interlocutore reale che non condivide visivamente ciò che il parlante descrive o narra. La gestione dei testi da parte dei soggetti svantaggiati presenta, di
conseguenza, una maggiore immaturità sia a livello globale (cfr. l’assenza di quadro globale e prospettiva tridimensionale e i quadri spaziali incompleti), che a livello locale (cfr.
le introduzioni inappropriate con i determinanti definiti), e in virtù di tale immaturità i
loro testi, descrittivi o narrativi che siano, si avvicinano a quelli prodotti da soggetti non
sfavoriti più piccoli di età (cfr. Hendriks et al., 2004). Tuttavia, i problemi rilevati nella
correlazione tra coerenza globale e coerenza locale, nei soggetti svantaggiati, non sono
per forza da riportare a fatti di immaturità cognitiva quanto piuttosto a un allenamento
carente dei meccanismi che presiedono alla creazione testuale e all’interazione, poiché
è in virtù di un interlocutore che si focalizzano o topicalizzano delle informazioni e si
adottano strategie testuali globali di vario tipo. L’ambiente familiare in cui lo svantaggiato vive è poco incline alla correzione e alla pratica di certi tipi di testo, e spesso del
linguaggio in generale, e la scuola, dal suo canto, senza il supporto della famiglia, può
riequilibrare questo allenamento carente solo in parte.
L’impiego, nel presente studio, di un gruppo di controllo di tipo adulto e il suo
confronto coi due gruppi di adolescenti permette, da un punto di vista didattico, di individuare le aree verso cui la testualità tende a evolvere permettendo di definire meglio
ciò che l’adolescente, svantaggiato e non, percepisce come ostico in termini spaziali e,
più in generale, testuali.
Simboli e abbreviazioni nelle trascrizioni
#
##
< >[/]
< > [//]
<_ABC_>
[=] o [ ]
*SBJ
pausa breve
pausa lunga
ripetizione
auto-riformulazione
commenti extra-discorsivi del parlante
racchiudono i commenti dell’analista
intervistato
284
PATRIZIA GIULIANO
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Martinot C. (2013), L’acquisition de la causalité est-elle comparable chez tous les enfants?, in Travaux de Linguistique 66: 15-52.
SATOMI KAWAGUCHI1
Il contributo didattico delle tecnologie digitali
all’acquisizione delle lingue straniere
This paper aims to show the theory-practice-evaluation links in the use of digital technologies in L2 learning. Three digital L2 learning activities utilized in intermediate Japanese
L2 class (n = 25) at the University of Western Sydney, Australia, are explained from a second language acquisition perspective. These involve social networking systems, e-tandem
learning using chat, and e-movie production. Pedagogical objectives are aligned with these
digital activities. I will then present different kinds of evaluation of these activities, i.e., i)
from a linguistic environment viewpoint based on Interactionist Approach and ii) from a
language development standpoint based on Processability Theory. Students chat transcripts
from e-tandem learning were utilized to analyse linguistic environment and language development. The analysis indicated that digital capabilities can be used to enhance interaction
and negotiation of meaning, both crucial for language development. Most students showed
morphological and syntactic development between the first chat session and the third, indicating that language learning happens beyond the classroom thanks to digital technologies.
These justify monitoring of digital pedagogical activities to ensure that they align with objectives promoting overall linguistic development, and that linguistic development itself is
evaluated, e.g. through a reliable developmental measure such as PT.
1. Introduzione e quadro teorico
Lo sviluppo di tecnologie digitali e mobili ha aperto una nuova era nell’acquisizione
e nella didattica delle lingue straniere, in cui gli insegnanti hanno la possibilità di
progettare attività didattiche utilizzando risorse impensabili anche solo un decennio fa. Le nuove tecnologie della comunicazione come le chat e Skype permettono
agli apprendenti di interagire direttamente con parlanti nativi in tempo reale, con
costi minimi e indipendentemente dalla distanza fisica. L’apprendimento cooperativo travalica così gli schemi tipici della didattica in classe: grazie ai social network,
per esempio, gli apprendenti possono pubblicare i loro commenti o partecipare a
quiz e sondaggi creati da altri studenti. Le attività digitali, quel che più conta, garantiscono interazione, produzione e feedback in tempo reale.
Le tecnologie digitali sono diventate una componente necessaria dell’apprendimento di L2 sia in classe sia al di fuori di essa. In Australia le tecnologie digitali didattiche (social network, chat, blog, bacheche interattive) sono state massicciamente
introdotte nella didattica delle lingue nell’ambito di ampi progetti federali volti a
University of Western Sydney, School of Humanities &Communication Arts, MARCS Institute. La
traduzione in italiano è stata curata da Jacopo Saturno.
1
286
SATOMI KAWAGUCHI
sviluppare le infrastrutture digitali nelle scuole (DEEWR, 2013). Il rischio, tuttavia, è che la scelta delle attività da proporre sia determinata non tanto dagli obiettivi
didattici, quanto piuttosto dalla novità e dalla disponibilità degli strumenti tecnologici.
È necessario inoltre usare cautela nel proporre alla classe attività basate su internet, in quanto diversi studi affermano che gli studenti spesso si sentono disorientati
in mezzo alla massa di informazioni a cui sono esposti, fino a non riuscire a raggiungere gli obiettivi dell’attività nonostante il lungo tempo che vi viene dedicato. Per
esempio, Miyamoto (2001) riferisce che molti dei suoi studenti si sono “smarriti”
su internet durante la lettura di un breve articolo che stampato sarebbero stati in
grado di leggere in 30 minuti. Diventa dunque essenziale, come mostrerò più avanti,
che gli insegnanti di L2 che propongono attività digitali tengano conto dei risultati
della ricerca linguistica e delle sue indicazioni pedagogiche, in modo da sfruttare al
meglio questi nuovi strumenti.
La ricerca sull’acquisizione di L2 offre indicazioni pratiche per la didattica e
l’apprendimento di L2 che possono rivelarsi utili per un utilizzo efficace delle tecnologie digitali. In primo luogo, riguardo all’ambiente linguistico, il ruolo di input
e output è stato chiarito nel corso degli ultimi decenni (es. Krashen, 1985; Swain,
1993). Più recentemente, ricercatori interessati alla relazione tra input e interazione
(es. Long, 1996; Gass - Mackey, 2007) si sono impegnati a dimostrare che l’acquisizione è facilitata da modifiche interazionali, negoziazione del significato, Focus on
Form (Long - Robinson, 1998) e feedback correttivo calibrato sul livello di competenza dell’apprendente (Di Biase, 2008). Quest’ultimo in particolare è costituito da
istruzioni mirate a correggere la forma di espressioni agrammaticali scritte o orali
prodotte dall’apprendente: l’ipotesi del noticing di Schmidt - Frota (1986) afferma
proprio che l’apprendimento ha luogo nel momento in cui l’apprendente nota la
distanza tra ciò che vuole dire e ciò che è in grado dire nella sua interlingua.
La funzione cruciale di strumenti quali Skype, le chat e i social network diventa
allora quella di moltiplicare le opportunità di interagire con interlocutori nativi e
altri apprendenti, aumentando così l’esposizione all’input e le opportunità di produzione, interazione, negoziazione del significato, feedback e noticing dentro e fuori
la classe.
Lo sviluppo dell’interlingua degli apprendenti è un altro elemento essenziale da
prendere in considerazione. Diversi studi concludono che i gruppi che hanno usato
le tecnologie digitali collettivamente definite CALL (Computer Assisted Language
Learning) hanno riportato risultati migliori dei gruppi che non le avevano utilizzate
(es. Jafarian et al., 2012; Payne - Whitney, 2002). Tuttavia, molti di questi studi
prendono in considerazione il punteggio medio dell’intero gruppo di apprendenti, trascurando i risultati individuali. L’analisi della variazione individuale è invece
particolarmente importante nel contesto delle tecnologie digitali, in quanto è l’apprendente stesso a decidere con che intensità praticare le attività digitali. In effetti,
Kawaguchi - Di Biase (2009) hanno osservato che la diversità lessicale nelle chat
variava enormemente tra 5 apprendenti: la differenza in termini sia di tipi sia di
IL CONTRIBUTO DIDATTICO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI
287
occorrenze prodotte raggiungeva addirittura un rapporto di 1:5. Perciò, monitorare il progresso dell’apprendente nelle attività digitali è essenziale per verificarne
l’efficacia.
Il presente lavoro esamina il contributo delle attività di apprendimento cooperativo allo sviluppo dell’interlingua usando i criteri della Teoria della Processabilità
(Pienemann, 1998; Pienemann et al., 2005; Kawaguchi, 2005), ed è guidato dalle
seguenti domande di ricerca:
1. Che tipo di ambiente linguistico offrono le attività di apprendimento cooperativo on line agli apprendenti di giapponese L2? Più specificamente, ci sono esempi
di negoziazione del significato durante le sessioni di chat con parlanti nativi di
giapponese?
2. È possibile ricavare una misura dei progressi dell’apprendente nella morfosintassi partendo dai dati delle attività digitali on line?
Il capitolo è organizzato come segue: il § 2 descrive le tre attività digitali proposte
nel mio corso di giapponese L2, spiegando come sfruttarle a fini didattici (Levy Stockwell, 2006); il § 3 descrive brevemente un metodo per valutare le attività digitali in L2 proposto da Miyamoto (2001). Nel § 4, i dati delle chat verranno analizzati per valutare dal punto di vista dell’interazione (Long 1996) l’ambiente linguistico
creato dalle attività digitali. Nel § 5 verranno misurati i progressi degli apprendenti
usando gli strumenti della Teoria della Processabilità, e nel § 6 saranno presentate
le conclusioni.
2. Attività digitali nella didattica del giapponese L2
2.1 I social network nella classe di L2
Sin dalla loro comparsa, i social network quali Facebook, MySpace e BEBO attirano milioni di utenti, che integrano questi siti nella loro vita quotidiana (Boyd
- Ellison, 2007). In particolare, «Australia is the social networking capital of the
world» (Telegraph.co.uk. 3 Mar 2010): 9,9 su 22 milioni di abitanti (di tutte le
età) usano questi siti, e l’87% dei giovani tra i 18 e 25 anni ne usa almeno uno con
frequenza maggiore dei loro coetanei di altri Paesi altamente tecnologizzati quali gli
Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Giappone2. Anche se alcuni esperti di sociologia
culturale (es. Young, 2009) affermano che i social network hanno un grande potenziale educativo, a causa della loro breve storia3 ci sono ancora pochi studi sull’utilità
di questi strumenti per l’apprendimento delle lingue.
Nel mio corso di giapponese L2 viene usato il social network BEBO4, il quale è
in grado di gestire testi in questa lingua senza difficoltà di codifica. Inoltre, BEBO
Nielsen Media Research (2009).
La storia dei social network comincia nel 1997, ma la maggior parte venne lanciata solo dopo il 2003
(Boyd - Ellison, 2007).
4
Il social network BEBO, www.bebo.com, è stato lanciato nel 2005 (Boyd - Ellison, 2007).
2
3
288
SATOMI KAWAGUCHI
ha un approccio amichevole ed è didatticamente più sicuro di altri social network
più noti. L’utente può caricare video, audio, immagini e testo: grazie a questa varietà di funzioni non è difficile proporre attività didattiche in L2 salvaguardando
gli apprendenti da pubblicità indesiderata e aggressiva. La tab. 1 riassume le attività
che possono essere svolte con BEBO e le diverse competenze linguistiche su cui è
possibile intervenire.
Tabella 1 - Attività su BEBO
Il lavoro su BEBO viene assegnato come compito a casa per rafforzare specifici punti affrontati durante le lezioni in classe. La tab. 2 mostra alcuni esempi di obiettivi di
apprendimento con le attività corrispondenti.
Tabella 2 - Attività on line su BEBO e obiettivi di apprendimento corrispondenti (esempio)
Così per esempio nella quarta settimana di corso la lezione verte su “parlare di sé,
della famiglia e degli amici” e si concentra sulla flessione aggettivale. Per compito
all’apprendente è richiesto di caricare su BEBO il proprio profilo personale (descrizione di sé, animali di casa, famiglia e amici) usando vari aggettivi e forme connettive e di cortesia.
L’uso di social network nella didattica e nell’apprendimento di L2 offre numerosi
vantaggi e ha certamente un grande potenziale. In primo luogo aumenta la motivazione degli apprendenti proponendo uno strumento più vicino al loro stile di vita e
indipendente dall’ora e dal luogo di fruizione. In secondo luogo offre l’opportunità
di svolgere un lavoro autonomo ma guidato. Terzo, incrementa l’esposizione all’in-
IL CONTRIBUTO DIDATTICO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI
289
put (lettura e ascolto) e le opportunità di produzione orale e scritta al di fuori della
tipica interazione in classe. Inoltre promuove la collaborazione tra studenti fornendo un contesto reale (sondaggi, profili personali) e attiva le loro capacità creative,
artistiche e di innovazione.
2.2 Apprendimento in tandem mediante chat
Il secondo strumento utilizzato nel corso di giapponese L2 a livello intermedio è
l’apprendimento in tandem attraverso la chat. Nell’apprendimento in tandem, oggetto di crescente attenzione da parte della ricerca (Lewis et al., 2011), un gruppo
di studenti interagisce con degli interlocutori nativi della lingua bersaglio, i quali a
loro volta sono apprendenti della lingua prima dell’altro gruppo: entrambi i gruppi quindi a turno imparano dall’altro gruppo una L2 e insegnano la loro L1 (vedi
Lewis - Walker, 2003). Le sessioni di chat trattate in questo studio hanno coinvolto
gli studenti del mio corso di giapponese intermedio all’università di Western Sydney
in Australia e una classe di inglese L2 presso la Kanda University of International
Study in Giappone.
Lungo un arco di 2 mesi, gli studenti hanno preso parte a 3 sessioni di un’ora
ciascuna in cui si scrivevano in entrambe le lingue (30 minuti in inglese e altrettanti
in giapponese). Ciascuno studente esercitava due ruoli: quello dell’apprendente per
una parte della sessione e quello del tutor per l’altra. Al fine di orientare e rendere
più efficace l’apprendimento autonomo, agli studenti veniva assegnato un tema per
ogni sessione. Il senso di questa limitazione è che il lavoro sulla chat offre l’opportunità di superare il livello corrente della propria competenza nella L2; senza un
tema specifico di cui discutere, però, gli apprendenti potrebbero lasciarsi trasportare
dalla conversazione in modo disordinato oppure non sapere più di che cosa parlare.
Questi gli argomenti assegnati, di difficoltà e complessità crescenti: presentazioni,
la vita universitaria, questioni culturali. Al termine delle sessioni 2 e 3 agli studenti
è stato anche chiesto di scaricare la loro conversazione e di inviare per e-mail al loro
compagno suggerimenti e correzioni informali.
È interessante che Payne - Whitney (2002) indichino alcuni vantaggi che nell’acquisizione di L2 la comunicazione via chat avrebbe rispetto all’interazione di persona. Secondo gli autori, la chat riduce il carico cognitivo imposto all’apprendente
grazie (a) alla velocità più ridotta dello scambio di informazioni (tra 2 e 3 parole
al secondo nel parlato normale, ma tra 3 e 4 secondi per ogni parola di contenuto
nello scritto); (b) la disponibilità costante dei messaggi precedenti (contesto). Dato
il minore impegno cognitivo richiesto dalla chat, l’apprendente riesce a dedicare
maggiore attenzione al lessico e alla grammatica della L2 pur gestendo con l’interlocutore un’interazione reale. Ciò è particolarmente utile per gli studenti più timidi
e/o linguisticamente meno preparati che nel contesto della classe potrebbero non
essere in grado di sostenere il ritmo di una conversazione orale nella L2.
Gli studi sull’apprendimento in tandem on line mostrano che gli apprendenti
hanno numerose possibilità di negoziazione del significato all’insorgere di problemi
di comunicazione (Iwasaki - Oliver, 2003; Bower - Kawaguchi, 2011). Inoltre, que-
290
SATOMI KAWAGUCHI
sti studi mostrano che l’uso delle chat porta a livelli di negoziazione del significato
paragonabili a quelli della comunicazione di persona (Tudini, 2003). Addirittura, la
chat può risultare più efficace nell’attirare l’attenzione degli apprendenti su aspetti
difficoltosi della L2 (Lai - Zhao, 2006).
2.3 Realizzazione di filmati
Questa attività ha l’obiettivo di creare un breve filmato mediante (a) lo studio di un
aspetto della cultura giapponese; (b) l’elaborazione di un tema o una situazione; (c)
la scrittura di una breve sceneggiatura in giapponese; (d) diverse sessioni di prove
collettive; (e) la realizzazione finale di un filmato di 10-15 minuti. I filmati sono
realizzati in gruppi di 6 studenti in maniera autonoma. Per esempio, un gruppo ha
scelto come tema un serio problema sociale del Giappone, il bullismo, producendo
un video basato su un’accurata indagine della cultura studentesca nelle scuole secondarie giapponesi. In un altro lavoro, dal titolo Cooking challenge, due squadre si
sfidano in una competizione culinaria (3): ciascun gruppo mostra come preparare
piatti tipici giapponesi (in questo caso tempura e zuppa di spaghetti di riso), poi i
giudici assaggiano e commentano i piatti in competizione, e infine viene annunciato
il vincitore. In questo video tutti gli studenti hanno interpretato due ruoli.
I vantaggi di incorporare attività pratiche nel contesto della didattica di L2 sono
ampiamente riconosciuti (Stoller, 2006). In primo luogo, ci si aspetta che questo
tipo di attività promuova le capacità degli studenti di lavorare come un gruppo autonomo, oltre a incrementare la loro motivazione. In secondo luogo migliora l’autostima e la rappresentazione di sé, e grazie al forte coinvolgimento che sviluppa
stimola anche l’interesse per la lingua e la cultura giapponesi. Soprattutto, però, gli
studenti sono indotti a perfezionare e incrementare le loro abilità linguistiche, acquisendo nel contempo anche nuove competenze.
Inoltre, lo stesso lavoro richiesto da questo compito discretamente complesso
porta all’apprendimento di nuovi contenuti e allo sviluppo di abilità di pensiero critico e risoluzione di problemi. Agli studenti infatti è richiesto di progettare il video,
esercitarsi per migliorare la recitazione, provare ripetutamente le scene più difficili,
fino a raggiungere il risultato finale. Una caratteristica di questo tipo di didattica è il
passaggio della direzione del lavoro dal docente agli studenti, a cui viene affidato il
controllo sul loro apprendimento mediante la scelta dei loro obiettivi, degli aspetti
da enfatizzare, della progettazione e così via. Come risultato tale stile didattico «has
the potential to narrow the gap between traditional classrooms and more learnerand learning-oriented settings» (Stoller, 2006: 33).
Questo tipo di attività digitale è concepita come sostegno all’apprendimento a
lungo termine. Tre grandi fattori infatti incidono sulla capacità degli apprendenti
di imparare e ricordare nuovi elementi della L2: (a) il grado di “necessità”; (b) il
grado di “ricerca”; (c) il grado di “valutazione” (Laufer - Hulstijn, 2001). Gli elementi imparati recentemente verranno ricordati con maggiore facilità se durante
l’acquisizione i tre fattori sono stati intensamente attivati, come appunto accade
nella realizzazione di un video.
IL CONTRIBUTO DIDATTICO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI
291
3. Metodi di valutazione delle attività digitali nella classe di L2
In che modo è possibile valutare l’efficacia globale delle attività digitali in un corso di lingua straniera? Miyamoto (2001) suggerisce che dovrebbero essere presi in
considerazione da un lato criteri linguistici quali l’ambiente interazionale e lo sviluppo dell’interlingua, e dall’altro la motivazione e la soddisfazione dello studente.
Quest’ultimo aspetto è particolarmente delicato in quanto la disponibilità a partecipare alle attività digitali diventa un fattore essenziale nel determinare l’efficacia di
questi strumenti didattici, specie quando proposti come integrazione alla didattica
in classe.
In linea con questa opinione, nella scelta delle attività da proporre ai miei studenti prendo sempre in considerazione sia gli aspetti linguistici sia le opinioni degli
studenti, anche se di queste non si tratterà in questo capitolo (cfr. però Kawaguchi
- Di Biase, 2009).
Per valutare l’ambiente interazionale, sono state utilizzate le trascrizioni delle
chat per verificare la presenza di negoziazione del significato e feedback correttivo, su cui si basa l’ipotesi dell’interazione (Long, 1996; Gass - Mackey, 2007). Gli
stessi dati sono anche stati usati per misurare l’aspetto linguistico principale, cioè
lo sviluppo della grammatica dell’interlingua. Lo sviluppo della competenza morfosintattica dell’apprendente è stato misurato analizzando la produzione linguistica dell’apprendente secondo i criteri della Teoria della Processabilità (Pienemann,
1998; Pienemann et al., 2005).
4. Valutazione dell’ambiente linguistico: negoziazione del significato
e feedback correttivo
Questo paragrafo esamina l’ambiente interazionale dell’apprendimento in e-tandem, concentrandosi sulle sole sessioni di giapponese L2 (per un’analisi completa del feedback correttivo nelle sessioni sia di giapponese L2 sia di inglese L2, cfr.
Bower - Kawaguchi, 2011). Dei 25 studenti che hanno preso parte alle chat, ho
scelto gli 11 apprendenti di giapponese che hanno lavorato con lo stesso partner
in tutte e 3 le sessioni, così da presentare dati omogenei. Infatti, se uno studente
cambiava partner da una sessione all’altra, inevitabilmente una parte del tempo era
dedicata alle presentazioni invece che all’argomento di conversazione assegnato, e
ciò potrebbe incidere sulla coerenza dell’analisi.
Come si manifesta la negoziazione nelle sessioni di chat in giapponese L2? In
primo luogo le trascrizioni sono state analizzate per verificare se si danno casi di
feedback correttivo (FC) e negoziazione del significato. Per la categorizzazione del
feedback correttivo si segue Long (1996). Il FC esplicito è costituito da chiare indicazioni che la produzione dell’apprendente è scorretta; il FC implicito si divide tra
recast e negoziazione del significato. Il primo è una riformulazione in forma corretta
della produzione scorretta dell’apprendente; si ha invece negoziazione del significato in seguito a richieste di chiarimenti, ripetizione e conferme in presenza di un
292
SATOMI KAWAGUCHI
problema di comunicazione. La tabella in Appendice riassume la categorizzazione
del FC e offre esempi tratti dalla sessione di chat in tandem.
Tornando all’analisi, 33 trascrizioni di chat in totale (11 studenti di giapponese L2 per 3 sessioni) sono analizzate in termini di negoziazione del significato e
feedback correttivo. I turni dedicati alla negoziazione tipicamente hanno la seguente struttura: a) espressione problematica di uno dei partecipanti, b) segnalazione di
una difficoltà di comprensione da parte dell’interlocutore, c) riformulazione dell’espressione problematica da parte del primo partecipante, d) risposta dell’interlocutore.
Gli studenti hanno prodotto in totale 1613 turni, di cui si è trovato che il 20%
viene usato per la negoziazione del significato: 54 turni (il 3,3%) per la negoziazione di errori e 269 turni (il 16,6%) per la negoziazione di problemi di comunicazione
di altro tipo, come mostrato nella tab. 3.
I dati mostrano che la maggior parte della negoziazione che ha luogo nell’interazione in e-tandem non ha per oggetto gli errori dell’apprendente. Tale risultato è
in accordo con altri studi sulla comunicazione scritta mediata dal computer, i quali
affermano che la negoziazione di significati lessicali (livello semantico) è molto più
comune della negoziazione di elementi grammaticali (es. Pellettieri, 2000).
Guardiamo per prima cosa alla negoziazione degli errori. Come reagiscono gli apprendenti alle correzioni degli interlocutori nativi? La tab. 3 mostra un totale di
16 turni, un numero ridotto se si considera che sono distribuiti su 33 trascrizioni;
d’altra parte, nella maggior parte dei casi (81,3%) la negoziazione può dirsi efficace
in quanto gli apprendenti alternativamente modificano il loro enunciato o si autocorreggono (cfr. tab. 4). In altri casi gli apprendenti hanno semplicemente preso
atto della correzione, per esempio ringraziando l’interlocutore. Possiamo quindi
osservare che il FC, per quanto poco frequente nella chat, normalmente porta gli
apprendenti a intervenire sui loro errori.
Tabella 3 - Dati complessivi per 11 apprendenti di giapponese L2, 3 sessioni chat in e-tandem
Tabella 4 - Risposta degli apprendenti al feedback sugli errori
* Nelle sessioni di giapponese ci sono due casi in cui gli apprendenti hanno risposto al feedback sia
modificando il proprio output sia prendendo atto della correzione.
IL CONTRIBUTO DIDATTICO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI
293
Nelle trascrizioni si ritrovano anche 269 turni che comprendono negoziazione
del significato non legata a errori; di questi, 59 possono essere classificati come mostrato nella tab. 5.
Tabella 5 - Risultati della negoziazione del significato non legata a errori
Gli esempi (1-2) rappresentano rispettivamente un caso di successo e di insuccesso
della negoziazione. In (1), l’interlocutore giapponese al termine dello scambio capisce che cosa l’apprendente intende comunicare, cioè l’ora che a suo parere è in quel
momento in Giappone. In (2), al contrario, l’apprendente pone una domanda su un
festival chiamato waraji matsuri, ma la comunicazione procede senza che il dubbio
sia stato chiarito.
(1) NNS
NS
NNS
NNS
NS
(2) NS
NNS
NS
NS
NNS
830でしょう?
‘alle 8:30 va bene?’
8:30はにほんじかん?
‘le 8:30 ora locale del Giappone?’
日本時間
‘ora locale del Giappone’
そう
‘sì’
ok ありがと
‘ok grazie’
けんか祭りとか,わらじ祭りとかですね。
‘ci sono le feste kenka e le feste waraji’
わらじ祭りって何ですか?
‘cosa sono le feste waraji?’
わらじって知ってますか?
‘conosci le feste waraji?’
わらじは”草鞋”ですね。くさを作った靴ですね。
‘waraji si scrive草鞋, giusto? Sono quelle scarpe fatte di erba’
でも、わらじ祭りはなかなか分かりません。
‘ma non capisco cosa sono le feste waraji’
La tab. 5 riassume i risultati della negoziazione del significato non causata da errori
in base all’efficacia dell’intervento. I turni iniziati dagli apprendenti sono 38, cioè
quasi il doppio di quelli iniziati dagli interlocutori giapponesi (21). Ciò dimostra
che gli apprendenti erano coinvolti nella chat e cercavano attivamente di risolvere
294
SATOMI KAWAGUCHI
eventuali problemi di comunicazione. La negoziazione del significato ha normalmente un ampio margine di successo indipendentemente dal fatto che sia iniziata
dall’apprendente o dall’interlocutore giapponese (89,5% e 95,2% rispettivamente).
Secondo White (1987) è proprio l’input “incomprensibile” a stimolare l’apprendente a progredire oltre lo stadio corrente di competenza nella L2, in quanto tale
input offre l’opportunità di notare il distacco tra l’interlingua e la lingua bersaglio.
Il lavoro in e-tandem fornisce allora un contesto linguistico ideale per verificare
questa proposta.
5. Sviluppo morfologico e sintattico
È possibile ricavare un’indicazione del progresso linguistico dell’apprendente analizzando le trascrizioni delle sessioni in e-tandem? La competenza morfosintattica
degli stessi 11 soggetti considerati precedentemente è stata analizzata nei termini
degli stadi di acquisizione del giapponese L2 definiti per questa lingua dalla Teoria
della Processabilità (Pienemann, 1998; Kawaguchi, 2010). Dal momento che le tre
sessioni di chat sono state condotte nel breve arco di 2 mesi, verranno prese in esame
solo le sessioni 1 e 3. Nelle tabelle lo stadio 1 non è rappresentato in quanto tutti i
partecipanti sono studenti di livello intermedio che hanno ormai superato questa
fase.
5.1 Morfologia
Secondo la Teoria della Processabilità (TP) la morfologia della L2 si sviluppa mano a
mano che l’apprendente acquisisce le seguenti procedure (nell’ordine indicato):
– stadio 1: accesso lessicale (forma invariabile delle parole);
– stadio 2: procedura categoriale (richiesta dalla flessione verbale del giapponese);
– stadio 3: procedura sintagmatica (le combinazioni di verbi del giapponese sono acquisite a questo stadio);
– stadio 4: procedura frasale (richiesta dalle marche di caso in frasi con ordine dei costituenti non canonico).
La tab. 6 presenta un’analisi distribuzionale della morfologia dell’interlingua per come è
possibile osservarla al momento della sessione 1 (inizio dell’esperimento) e della sessione 3 (2 mesi dopo). Nella TP, una struttura morfologica si considera acquisita quando
l’apprendente mostra di saperla padroneggiare in diversi contesti lessicali e formali. Per
esempio, lo studente Leo5 nella sessione 3 ha scritto sia omoimasu (penso-forma di cortesia), ‘penso’, sia omotte iru (pensare-asp), ‘sto pensando’, dimostrando così di sapere applicare allo stesso lessema diverse strutture grammaticali. Nella stessa sessione ritroviamo
anche un’altra costruzione V-te V, wakatte iru (capire-asp, ‘capisco’), la quale dimostra che
Leo è in grado di padroneggiare la stessa struttura grammaticale con lessemi diversi (varia-
5
Tutti i nomi degli studenti sono di fantasia.
IL CONTRIBUTO DIDATTICO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI
295
zione lessicale): si può concludere dunque che al momento della sessione 3 la costruzione
V-te V sia stata acquisita.
Nella tabella gli stadi raggiunti dagli apprendenti sono indicati in grigio; la linea spezzata indica l’evolversi dell’acquisizione. Al momento della sessione 1, tutti gli studenti
erano in grado di produrre strutture morfologiche appartenenti al secondo stadio: solo
due studenti, Anne e Chris, si trovavano già allo stadio della procedura frasale, al quale
appartiene la costruzione V-te V. Al momento della sessione 3, dopo 2 mesi, si osserva un
evidente sviluppo morfologico: 2 studenti, Jeremy e Leo, passano dallo stadio 2 allo stadio
3 e uno studente, Daniel, avanza dallo stadio 2 allo stadio 4. Sfortunatamente, 6 studenti
rimangono fermi allo stadio 2 senza mostrare segni di sviluppo morfologico.
Tabella 6 - Sviluppo morfologico
a. Sessione 1 (inizio dell’esperimento)
b. Sessione 3 (due mesi dopo)
296
SATOMI KAWAGUCHI
Il numero precedente la sbarra rappresenta le occorrenze corrette di una data struttura morfologica, mentre il numero alla sua destra (preceduto da “-”) rappresenta
gli esiti agrammaticali.
5.2 Sintassi
Nella fase conclusiva dello studio la maggior parte degli studenti mostra notevoli
progressi nella sintassi. Da cosa traiamo questa conclusione? Secondo la TP, i primi
elementi a essere acquisiti sono parole isolate ed espressioni formulaiche che non
richiedono capacità di elaborazione specifiche per la L2. Nel secondo stadio, la
struttura della frase è acquisita con l’ordine canonico dei costituenti proprio delle
frasi non marcate in ciascuna L2. Per il giapponese, l’ordine canonico è {(Soggetto)(Oggetto)} Verbo, in cui un soggetto con caratteristiche di agente assume le marche
–ga (nominativo) oppure –wa (topic), almeno una delle quali deve essere presente;
l’oggetto con caratteristiche di paziente è marcato da –o (accusativo). A questo stadio, l’apprendente non è in grado di distinguere tra soggetto e topic (cfr. Pienemann
et al., 2005).
Al terzo stadio, l’apprendente impara a produrre topic o sintagmi XP che precedono una frase con ordine canonico: ciò permette di identificare il soggetto grammaticale indipendentemente dalla sua posizione nella frase. Il quarto stadio, infine,
è caratterizzato da costruzioni con allineamento marcato, che in giapponese includono topicalizzazione dell’oggetto, scrambling, passivi, benefattivi e causativi (cfr.
Kawaguchi, 2010). L’apprendente è ora in grado di associare ruoli tematici come
agente e paziente alle funzioni grammaticali appropriate, quali soggetto e oggetto,
anche in posizione non canonica.
La tab. 7 mostra gli stadi sintattici degli 11 studenti al momento della sessione 1
(inizio dell’esperimento) e 3 (due mesi dopo). All’inizio, 4 studenti si trovavano allo
stadio 2, 5 allo stadio 3 e i rimanenti 2 allo stadio 4. Giunti alla terza sessione, 3 dei
4 studenti che 2 mesi prima si trovavano al livello 2 erano passati al livello 3, e uno al
livello 4. Inoltre uno studente era avanzato dal livello 3 al livello 4. Infine 4 studenti
erano rimasti al livello 3. I rimanenti 2 si trovavano già al livello 4, il più alto per
quanto riguarda il giapponese L2: entrambi però hanno usato le strutture tipiche di
questo stadio con frequenza maggiore nel corso dell’ultima sessione. Riepilogando,
alla fine dell’esperimento nessuno studente era rimasto allo stadio 2, 7 si trovavano
allo stadio 3 e 4 allo stadio 4.
IL CONTRIBUTO DIDATTICO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI
297
Tabella 7 - Sviluppo sintattico
a. Sessione 1 (inizio dell’esperimento)
b. Sessione 3 (due mesi dopo)
Anche se non si può attribuire tutto il merito di questo avanzamento alle attività
digitali, le capacità linguistiche degli studenti misurate secondo i criteri della TP
sono migliorate in modo significativo dopo l’introduzione di queste tecnologie. A
conferma di ciò, uno studio precedente (Kawaguchi, 2010) mostrava come nessuno
studente di giapponese L2 all’università UWS riuscisse a raggiungere il livello più
alto di sviluppo morfosintattico prima del quinto semestre: dopo l’introduzione
delle attività digitali, molti lo hanno raggiunto alla fine del terzo semestre di studi.
298
SATOMI KAWAGUCHI
6. Conclusioni
Gli studenti di L2 in tutto il mondo si possono ormai considerare appartenenti alla
“generazione digitale”: per questo è importante sviluppare ambienti di apprendimento efficaci incorporando strumenti che tengano conto al tempo stesso di risultati acquisizionali largamente accettati e delle metodologie didattiche più recenti. In
questo capitolo ho presentato le attività didattiche digitali che uso nel mio corso di
giapponese L2 di livello intermedio, illustrandole in parallelo alle teorie acquisizionali correnti. Inoltre ho proposto una valutazione di queste attività da due diverse
prospettive, cioè da un lato l’ambiente linguistico, e dall’altro lo sviluppo della competenza grammaticale.
Lo studio è stato guidato da due domande di ricerca. Con la prima ci si chiedeva se durante le sessioni di chat si potessero osservare dei casi di negoziazione del
significato: l’analisi dell’interazione tra gli apprendenti e i loro interlocutori nativi
mostra che in effetti vi è stato dedicato circa il 20% dei turni totali. Questo dato
si discosta notevolmente dai valori riportati da altri studi sull’apprendimento in
e-tandem: Tudini (2003) per esempio osserva la presenza di negoziazione tra apprendenti di italiano L2 e interlocutori nativi solo nel 9% dei turni. Nello studio
in questione, tuttavia, «Students were simply asked to chat with NSs with a view
to evaluating the live chat as a possible teaching and learning tool» (p. 148). Nel
presente lavoro, invece, agli studenti era richiesto di conversare su dei temi specifici
e di pensare alle domande che avrebbero voluto porre durante la sessione di chat:
la notevole differenza nei risultati mette in evidenza che la natura del compito da
svolgere può avere effetti significativi sulla presenza di negoziazione.
La seconda domanda di ricerca mirava a valutare se i dati ricavabili dalle attività digitali possano fornire una misura dello sviluppo dell’interlingua. La maggior
parte degli studenti ha fatto progressi lungo gli stadi di sviluppo individuati dalla
TP nel campo sia della morfologia sia della sintassi; alcuni studenti hanno anche
acquisito strutture di livello più alto che non erano state trattate in classe, come le
costruzioni passive. Ciò non era mai accaduto nei miei corsi di giapponese L2 prima dell’introduzione di attività digitali che rendessero possibile interagire con degli
interlocutori nativi.
L’analisi svolta mostra che gli strumenti digitali hanno un grande potenziale per
favorire l’acquisizione di una L2, a condizione che le attività proposte siano allineate agli obiettivi di apprendimento e al naturale sviluppo dell’interlingua. In altre parole, di pari passo con la crescente importanza delle tecnologie digitali, è necessario
che gli insegnanti di L2 sviluppino ambienti di apprendimento efficaci, proponendo percorsi didattici centrati sugli studenti e di tipo collaborativo sia dentro sia la
classe sia al di fuori. L’apprendimento mediato dai nuovi strumenti digitali richiede
anche un controllo più stretto ed efficace dei progressi dell’apprendente mediante
l’uso di indicatori affidabili, quali gli stadi incrementali della TP, per assicurarsi che
il lavoro svolto porti effettivamente all’apprendimento.
IL CONTRIBUTO DIDATTICO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI
299
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IL CONTRIBUTO DIDATTICO DELLE TECNOLOGIE DIGITALI
Appendice
Tipi di feedback correttivo (FC) e esempi di trascrizione.
301
Indice Autori
Daniele Artoni
[email protected]
Satomi Kawaguchi
[email protected]
Caterina Donati
[email protected]
Marco Magnani
[email protected]
Chiara Branchini
[email protected]
Elisa Pellegrino
[email protected]
Irene Caloi
[email protected]
Anna De Meo
[email protected]
Adriano Colombo
[email protected]
Valeria Caruso
[email protected]
Paolo Della Putta
[email protected]
Margherita Pivi
[email protected]
Michela Franceschini
[email protected]
Giorgia Del Puppo
[email protected]
Francesca Volpato
[email protected]
Rebekah Rast
[email protected]
Paolo Frugarello
[email protected]
Stefano Rastelli
[email protected]
Francesca Meneghello
[email protected]
Arianna Zuanazzi
[email protected]
Carlo Semenza
[email protected]
Anna Cardinaletti
[email protected]
Patrizia Giuliano
[email protected]
Giorgio Graffi
[email protected]
Chiara Romagnoli
[email protected]
Jacopo Saturno
[email protected]
Jacopo Torregrossa
[email protected]
collana studi AItLA
La collana “studi AItLA” accorpa le precedenti due collane dell’Associazione, quella
degli «Atti» del convegno annuale e gli «Strumenti per la ricerca». La nuova collana, costituita da volumi collettivi e monografie dedicate a temi e problemi della
linguistica applicata, è stata avviata con il passaggio dalla pubblicazione cartacea
presso l’editore Guerra di Perugia a quella elettronica sul sito dell’Associazione con
l’impaginazione curata da Officinaventuno di Milano. La collana “studi AItLA” è
ad accesso libero per tutti gli interessati.
Volumi pubblicati
1. Varietà dei contesti di apprendimento linguistico, a cura di Anna De Meo, Mari
D’Agostino, Gabriele Iannaccaro, Lorenzo Spreafico, AItLA, Milano, 2014.
L’elenco dei volumi finora pubblicati indica la continuità storica delle attività editoriali dell’AItLA.
Collana degli “Atti”
Atti del 2° Congresso Internazionale di Studi dell’Associazione Italiana di Linguistica
Applicata (AItLA) a cura di Camilla Bettoni, Antonio Zampolli, Daniela Zorzi.
Guerra Edizioni, Perugia, 2001.
Atti del 3° Congresso Internazionale di Studi dell’Associazione Italiana di Linguistica
Applicata (AItLA) a cura di Giuliano Bernini, Giacomo Ferrari, Maria Pavesi.
Guerra Edizioni, Perugia, 2004.
Atti del 4° Congresso Internazionale di Studi dell’Associazione Italiana di Linguistica
Applicata (AItLA) a cura di Giorgio Banti, Antonietta Marra, Edoardo Vineis.
Guerra Edizioni, Perugia, 2005.
Atti del 5° Congresso Internazionale di Studi dell’Associazione Italiana di Linguistica
Applicata (AItLA), “Problemi e fenomeni di mediazione linguistica e culturale” a cura
di Emanuele Banfi, Laura Gavioli, Cristina Guardiano, Massimo Vedovelli. Guerra
Edizioni, Perugia, 2006.
Atti del 6° Congresso Internazionale di Studi dell’Associazione Italiana di Linguistica
Applicata (AItLA), “Imparare una lingua: recenti sviluppi teorici e proposte applicative” a cura di Marina Chini, Paola Desideri, Maria Elena Favilla, Gabriele Pallotti.
Guerra Edizioni, Perugia, 2007.
Atti del 7° Congresso Internazionale di Studi dell’Associazione Italiana di Linguistica
Applicata (AItLA), “Aspetti linguistici della comunicazione pubblica e istituzionale”
a cura di Cristina Bosisio, Bona Cambiaghi, M. Emanuela Piemontesa, Francesca
Santulli. Guerra Edizioni, Perugia, 2008.
Atti dell’8° Congresso Internazionale di Studi dell’Associazione Italiana di Linguistica
Applicata (AItLA), “Lingua, cultura e cittadinanza in contesti migratori. Europa e
area mediterranea” a cura di Gaetano Berruto, Joseph Brincat, Sandro Caruana,
Cecilia Andorno. Guerra Edizioni, Perugia, 2009.
Atti del 9° Congresso Internazionale di Studi dell’Associazione Italiana di Linguistica
Applicata (AItLA), “Oralità e scrittura” a cura di Carlo Consani, Cristiano Furiassi,
Francesca Guazzelli, Carmela Perta. Guerra Edizioni, Perugia, 2009.
Atti del 10° Congresso Internazionale di Studi dell’Associazione Italiana di Linguistica
Applicata (AItLA), “Lingue e culture in contatto. In memoria di Roberto Gusmani”
a cura di Raffaella Bombi, Mari D’Agostino, Silvia Dal Negro, Rita Franceschini.
Guerra Edizioni, Perugia, 2011.
Atti dell’11° Congresso Internazionale di Studi dell’Associazione Italiana di
Linguistica Applicata (AItLA), “Competenze e formazione linguistiche. In memoria
di Monica Berretta” a cura di Giuliano Bernini, Cristina Lavinio, Ada Valentini,
Miriam Voghera. Guerra Edizioni, Perugia, 2012.
Atti del 12° Congresso Internazionale di Studi dell’Associazione Italiana di Linguistica
Applicata (AItLA) a cura di Cristina Bosisio, Stefania Cavagnoli. Guerra Edizioni,
Perugia, 2013.
Collana degli “Strumenti per la ricerca”
1. Imparare a fare cose con le parole. Richieste, proteste, scuse in italiano lingua seconda
di Elena Nuzzo. Perugia, Guerra Edizioni, 2007.
2. Più lingue, più identità. Code Switching e costruzione identitaria in famiglie di emigrati italiani di Sergio Pasquandrea. Perugia, Guerra Edizioni, 2008.
3. Corpora di Italiano L2: tecnologie, metodi, spunti teorici, a cura di Cecilia Andorno
e Stefano Rastelli. Perugia, Guerra Edizioni, 2009.
4. La mediazione linguistico-culturale: una prospettiva interazionista a cura di Laura
Gavioli. Perugia, Guerra Edizioni, 2009.
5. “Game [not] over” di Ivan Lombardi. Perugia, Guerra Edizioni, 2013.
6. Nuove prospettive sulla produzione artistica in LIS di Ambra Zaghetto. Perugia,
Guerra Edizioni, 2013.
finito di stampare
nel mese di febbraio 2015
presso la Litografia Solari
Peschiera Borromeo (MI)