Associazione Italiana di Psicologia
XII CONVEGNO NAZIONALE
SEZIONE DI PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO
SINTESI DEI CONTRIBUTI
Padova, 20-22 settembre 2008
1
INDICE
LEZIONI MAGISTRALI
Marco Battaglia
“Rischi per psicopatologia lungo i processi di adattamento: natura ed ambiente in corso di sviluppo rivisitati” …………..
pag.
4
V. W. Berninger
“fMRI studies of Idea Generation, Handwriting, Spelling, Sequential Finger Movements, and Working Memory in Good
and Poor Child Writers: Implications for Teaching Transcription and Composition” .............................................................
pag.
5
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
6
7
12
18
24
30
37
43
50
57
62
SIMPOSI
Simposio 1 - Ultime frontiere del precision teaching: disturbi dell'apprendimento, sindrome di down, sport, scuola …......
Simposio 2 - Le “nuove” determinanti del parenting: caratteristiche dei genitori, del bambino, della relazione ………….
Simposio 3 - Lo sviluppo pragmatico ………………………………………………………………………………..............
Simposio 4 - Giovani e nuove tecnologie: leggere, apprendere, comunicare e divertirsi nel web …………………….........
Simposio 5 - Competenze linguistiche e modalità interattive: bambini con profili tipici, atipici e a rischio a confronto ......
Simposio 6 - Condotte aggressive in rapporto a fattori di contesto: nuove prospettive di ricerca …...……………………..
Simposio 7 - La relazione insegnante-allievo: metodi e strumenti per la valutazione e la formazione ....…………………..
Simposio 8 - Promuovere l’apprendimento. Aspetti cognitivi e motivazionali……………………………………………….
Simposio 9 - Competenza sociale in età prescolare ...……………………………………………………………………….
Simposio 10 - Costruzione di conoscenza in ambienti on line e virtuali………………………………………………………
Simposio 11 - Io e tu: alcune incursioni nell’indagine delle relazioni tra l’individuo ed i suoi coetanei dalla fanciullezza
all’adolescenza ..……………………………………………………………………………………………………………….
Simposio 12 - Sviluppo del lessico tra fonologia e semantica ...……………………………………………………………....
Simposio 13 - Il ruolo dell’informazione cinetica nell’organizzazione percettiva ...………………………………………….
Simposio 14 - Dal segno al significato: componenti cognitive, sociali e culturali della rappresentazione pittorica infantile..
Simposio 15 - Il rischio esternalizzato e internalizzato in adolescenza ..……………………………………………………..
Simposio 16 - Agire in adolescenza: tra comportamenti a rischio e disadattamento psicologico ...………………………….
Simposio 17 - Caratteristiche evolutive dei disturbi dello spettro autistico: intersoggettività e cognizione sociale ...……….
Simposio 18 - Le relazioni tra pari dall’infanzia all’adolescenza: fattori adattivi e maladattivi ..…………………………...
Simposio 19 - Lo sviluppo delle competenze di scrittura: indicazioni di intervento per la scuola primaria e secondaria ..…
Simposio 20 - Competenza emotiva tra sviluppo affettivo, cognitivo e sociale ...……………………………………………..
Simposio 21 - Comprensione del linguaggio e funzioni cognitive ...…………………………………………………………..
pag. 69
pag. 76
pag. 82
pag. 87
pag. 92
pag. 98
pag. 104
pag. 110
pag. 117
pag. 122
pag. 132
SESSIONI TEMATICHE
Sessione tematica 1 - Adolescenti, relazioni e qualità della vita …………………………………………………………….
Sessione tematica 2 - Relazioni tra coetanei ………………………………………………………………………………...
Sessione tematica 3 - Apprendimento in situazioni di difficoltà ……………………………………………………………..
Sessione tematica 4 - Teoria della mente, comprensione delle emozioni e autismo …………………………………………
Sessione tematica 5 - Linguaggio e comunicazione ………………………………………………………………………….
Sessione tematica 6 - Formazione dell’identitá …………………………………………………………………………...…
Sessione tematica 7 - Sviluppo socioemotivo ……………………………………………………………………………...…
Sessione tematica 8 - Memoria, funzioni esecutive e ragionamento …………………………………………………………
Sessione tematica 9 - Apprendimento nel contesto scolastico ……………………………………………………………….
Sessione tematica 10 - Costruzione del mondo sociale: credenze, rappresentazioni, atteggiamenti …………………………
Sessione tematica 11 - Comprensione del testo e narrazione …………………………………………………………………
Sessione tematica 12 - Parenting e relazioni familiari ………………………………………………………………………..
Sessione tematica 13 - Lo sviluppo delle competenze precoci ……………………………………………………………..…
Sessione tematica 14 - Processi decisionali in adolescenza …………………………………………………………………..
pag. 137
pag. 138
pag. 146
pag. 154
pag. 160
pag. 169
pag. 180
pag. 188
pag. 201
pag. 212
pag. 224
pag. 233
pag. 243
pag. 255
pag. 266
Ringraziamenti
pag. 274
2
Lezioni magistrali
3
RISCHI PER PSICOPATOLOGIA
LUNGO I PROCESSI DI ADATTAMENTO:
NATURA ED AMBIENTE IN CORSO DI SVILUPPO RIVISITATI
MARCO BATTAGLIA
Università Vita-Salute San Raffaele Milano
Questa presentazione ha il fine di illustrare alcune acquisizioni che si ritengono particolarmente promettenti in ambito di
Behaviour Genetics applicata alla psicopatologia dello sviluppo. Nelle sue fasi iniziali la disciplina ha avuto come principale
obiettivo la costituzione di un apparato di modellistica sufficientemente robusta e falsificabile, finalizzata alla misurazione
del contributo fornito da elementi genetici ed ambientali nel modellare le differenze tra individui. Tra i principali elementi di
progresso vi è stata la presa di coscienza che molti comportamenti di rilievo psicopatologico fossero influenzati da fattori
genetici e che il contributo di tali fattori potesse cambiare nel corso dello sviluppo, verosimilmente in risposta a pressioni
ambientali. Tra i principali elementi di fraintendimento vi è stata una sistematica svalutazione dell’importanza dell’ambiente
condiviso (sovente assimilato al solo ambiente intrafamiliare) nell’influenzare rischi e protezione lungo gli itinerari di
sviluppo.
In tempi più recenti la disciplina ha potuto colmare alcune lacune ed emendare alcune fallacie, in parte grazie a progressi
della genetica molecolare e della modellistica biometrica, ed in parte grazie ad una vigorosa e vitale discussione critica ed
euristica su questi temi.
In particolare tre temi : a) Interazione gene-ambiente; b) ruolo dell’ambiente condiviso ; c) utilizzo di fenotipi intermedi,
appaiono di importanza in tal senso. Cercherò di illustrare come il concetto di interazione gene-ambiente, ancorché
intuitivamente assai allettante e plausibile secondo un’ottica di senso comune, nasconda alcune difficoltà tecniche, che ne
rendono l’identificazione sperimentale complessa e a volte fallace. Nel discutere il ruolo dell’ambiente condiviso cercherò di
illustrare come (e quanto) possa influenzare le variabili psicopatologiche in corso di sviluppo, e le differenze computazionali
e di potere statistico che si verificano quando lo si tratti come variabile latente nell’ambito di approcci basati su equazioni
strutturali, o come variabile specificata ed identificata sia nell’ambito di approcci basati su equazioni strutturali come in
approcci di genetica molecolare. Infine, cercherò di descrivere come l’utilizzo di fenotipi intermedi possa aiutare a rendere
conto di elementi di continuità eterotipica nel corso della vita, arricchendo l’armamentario diagnostico descrittivo, e
favorendo un ponte con gli approcci delle neuroscienze.
4
FMRI STUDIES OF IDEA GENERATION, HANDWRITING,
SPELLING, SEQUENTIAL FINGER MOVEMENTS, AND
WORKING MEMORY IN GOOD AND POORCHILD WRITERS:
IMPLICATIONS FOR TEACHING TRANSCRIPTION AND
COMPOSITION
VIRGINIA W. BERNINGER
University of Washington, Seattle
Typically developing good and poor writers (in transcription—handwriting and spelling—and composition) at the end of
fifth grade (age 10) generated ideas, wrote novel or familiar letters, spelled words, and performed successive and nonsuccessive finger movements while their brains were scanned. Typically developing writers and students with writing
disability who had completed grades 4, 5, or 6 (age 9 to 12) performed an n-back nonverbal working memory task while their
brains were scanned. The good writers differed significantly from the poor writers during idea generation in brain regions
associated with working memory, language, and transcription skills. The good writers activated more regions than did the
poor writers while writing novel and familiar letters, but familiar letters activated fewer brain regions than novel letters. The
good writers differed significantly from poor writers while spelling in primary motor and somatosensory regions as well as
regions associated with language and executive function. Consistent with the view that writing is language by hand, on the
contrast between successive versus non-successive finger movement, good writers, activated many brain regions associated
with cognition and language, but children with writing disability did not. Good writers and children with writing disability
differed significantly in brain regions associated with working memory and executive function. Implications of these
findings for the results of instructional studies to improve writing of poor writers in this age range will be discussed
5
Simposi
6
Simposio 1
ULTIME FRONTIERE DEL PRECISION TEACHING: DISTURBI
DELL'APPRENDIMENTO, SINDROME DI DOWN, SPORT E SCUOLA
Proponente: SILVIA PERINI
Università di Parma
[email protected]
Discussant: ROSALBA LARCAN
Università degli Studi di Messina
[email protected]
7
Presentazione
Il simposio ha l’obbiettivo di presentare riscontri sperimentali sull’efficacia di procedure educative, quali direct instruction e
precision teaching, che mirano al raggiungimento di apprendimenti e comportamenti fluenti, nella riabilitazione cognitiva e
motoria di bambini con disabilità o difficoltà di apprendimento. in particolare si intende parlare di efficacia delle procedure
mostrando la riduzione dei tempi impiegati nella fase di istruzione ed un livello adeguato di ritenzione ed utilizzo degli
apprendimenti. la struttura del simposio è articolata in modo da offrire una panoramica sufficientemente descrittiva delle
potenzialità applicative, sia a livello di contenuti che di difficoltà cognitive, di una didattica basata sulla fluenza. si intende
presentare: uno studio che coinvolge tre bambini con sindrome di down che hanno sviluppato competenza fonologica e
abilità pre accademiche utilizzando il precision teaching, di seguito una ricerca che coinvolge 4 bambini con diagnosi di
disgrafia ,per concludere questa prima fase con una sperimentazione che ha interessato 63 bambini di seconda elementare
impegnati ad apprendere con queste tecnologie abilità matematiche. l'ultimo intervento propone invece uno studio
esplorativo condotto su un gruppo di soggetti (sia adulti che bambini) per verificare, rispetto ad un’abilità sportiva, il ruolo
della frequenza iniziale di un comportamento nel mantenimento della performance per intervalli di tempo superiori.
…UN QUADERNO DI ASTE: INNOVAZIONE E TRADIZIONE NELL’INSEGNAMENTO DEL CORSIVO A 4
SOGGETTI CON DIAGNOSI DI DISGRAFIA
Francesca Cavallini (1), Fabiola Casarini (1), Sara Andolfi (2)
(1) Università degli Studi di Parma, Facoltà di Psicologia
(2) Centro di apprendimento Tice
[email protected]
Introduzione
La scrittura a mano è una complessa attività costituita dalla “miscela” di competenze cognitive, cinestetiche e percettivomotorie (Bonny, 1992; Reisman, 1993) che, a sua volta, favorisce la svolgimento di compiti in molti domini accademici
differenti. Diversi studi (Phelps, Stempel & Speck, 1985; Tseng & Hsueh, 1997; Scardmalia et al., 1982) sottolineano come i
bambini disgrafici, o che comunque padroneggino con difficoltà gli aspetti meccanici della scrittura, esibiscano analoghe
difficoltà nei processi di ordine superiore necessari per comporre temi, rispondere in maniera esauriente a domande scritte o
prendere appunti nel corso delle lezioni. Se le risorse attentive e cognitive sono concentrate sulla formazione delle lettere e
sulla loro sequenza, non possono essere dedicate alla pianificazione del pensiero e alla generazione di testi (Binder,
Haughton e Van Eyk,1990; Cavallini, 2006). L’attenzione dell’insegnante è ora concentrata sull’insegnamento di una
scrittura funzionale, cioè leggibile e veloce allo stesso tempo, piuttosto che su pratiche ripetitive finalizzate
all’apprendimento di una grafia esteticamente “bella”. In quest’ottica una delle ragioni a giustificazione delle scarse risorse
educative disponibili per l’insegnamento della scrittura è da ricercare nello spostamento dell’attenzione dalla scrittura intesa
come prodotto, alla scrittura intesa come processo; il focus dell’attenzione è passato infatti dall’aspetto puramente meccanico
della produzione di segni grafici, al processo cognitivo implicato nella pianificazione, generazione e revisione di testi. Anche
nel panorama scientifico italiano si assiste ad una progressiva diminuzione di ricerche ed interventi mirati all’insegnamento
meccanico della scrittura a mano (Fratelli,1995). L’intervento ha coinvolto quattro bambini con un’età media di 8 anni e 6
mesi con diagnosi di disgrafia, è stato pianificato e condotto secondo un disegno sperimentale a soggetto singolo per ognuno
dei soggetti coinvolti, altre valutazioni hanno invece riguardato i soggetti come gruppo.I test criteriali effettuati tramite le
prove CBM (Deno, ‘85) hanno evidenziato una calligrafia in corsivo quasi illeggibile. L’intervento ha avuto una durata di 6
mesi, con una frequenza di due/tre volte alla settimana. Le sessioni si sono svolte al centro d’ apprendimento Tice, i dati sono
stati registrati sulla Standard Celeration Chart (SCC). L’innovazione principale legata alla prassi operativa, della
metodologia precision teaching consiste nell’introduzione del timer, uno strumento che l’operatore imposta, prima dell’inizio
della sessione, con la durata prevista per l’esercizio. Prima di attivare il conto alla rovescia, l’operatore si assicura che il
soggetto sia pronto ad emettere il comportamento (ad esempio: penna impugnata correttamente e appoggiata sul foglio nel
punto di inizio), dopo il suggerimento verbale (pronto, attenti, via!) il discente inizia ad emettere l’operante, in questo istante
viene attivato il cronometro. Al termine della sessione, in corrispondenza del suono del timer, il soggetto è istruito a
interrompere il comportamento, a questo punto vengono contate e registrate il numero di risposte corrette (vengono
considerate corrette le lettere leggibili, scritte entro i margini che rispettino la spaziatura) e scorrette prodotte dal discente.
Rispetto ad ogni task, (ad esempio la scrittura della lettera a) l’operatore fa svolgere, nella stessa giornata, 3 sessioni da 15
secondi e registra sulla standard celeration chart il punteggio più alto ottenuto (cioè il ponteggio in cui il soggetto ha
raggiunto la frequenza più alta di risposte corrette indipendentemente dagli errori), una volta raggiunto l’obbiettivo di fluenza
(il soggetto deve raggiungere l’obiettivo di fluenza per due volte consecutive) in sessioni brevi si inizia la costruzione della
durata dell’attenzione prolungando la durata dell’esercizio fino ad arrivare a un minuto di sessione secondo questa sequenza
(15”, 30”,1’). I soggetti della sperimentazioni sono stati valutati con diversi parametri (frequenza di caratteri O di parole
ortograficamente corrette, prodotte in modo scritto in un minuto di tempo) a seconda del livello iniziale di padronanza del
compito (soggetti con bassa frequenza di scrittura dei singoli caratteri, meno di 50 caratteri al minuto, venivano valutati per
numero di caratteri, soggetti ad alta frequenza di scrittura dei singoli caratteri per numero di parole); . Presentiamo di seguito
8
alcuni dei risultati che evidenziano come in tempi molto brevi (da 10 a 40 minuti) di tempo di lavoro totale si raggiungano
performance che si avvicinano alla media di soggetti competenti nella scrittura. I risultati presentati sono stati analizzati
graficamente e mediante il test c, ed evidenziano trend molto significativi sia nell’aumento della frequenza che nella
diminuzione degli errori. Soggetto 1 in 10 minuti (suddivisi in sessioni da 15”) passa da una frequenza di scrittura da 4 a 14
parole al minuto. Il soggetto due passa da 48 a 72 caratteri al minuto in 20 minuti (suddivisi in sessioni da 15”), il soggetto 3
da 51 a 125 caratteri al minuto in 40 minuti di lavoro, soggetto 4 da 3 a 15 parole al minuto in 35 minuti di lavoro. Le prove
di ritenzione, effettuate 3 mesi dopo il termine dell’intervento, evidenziano un mantenimento dei risultati acquisiti.
Considerazioni conclusive riguardano invece il ruolo dello sviluppo della fluenza nella scrittura di singoli caratteri in
rapporto alla qualità del processo di scrittura intesa sia come accuratezza del tratto grafico sia come produzione scritta
espressiva (numero di idee espresse nel testo e correttezza grammaticale)
DOWN SYNDROME AND FLUENCY SYNDROME: ABILITÀ DI BASE DELLA LETTURA CON IL
PRECISION TEACHING
Federica Berardo (1), Francesca Cavallini (2), Sara Andolfi (2)
(1)Centro di apprendimento Tice
(2) Università degli Studi di Parma, Facoltà di Psicologia
[email protected]
Nei soggetti con Sindrome di Down (SD), l'apprendimento della complessa abilità di lettura sembra risentire sia del ritardo
nello sviluppo cognitivo, che dell'ancora più accentuato ritardo nello sviluppo linguistico. Il profilo cognitivo degli individui
con SD appare caratterizzato dalla compromissione delle aree del linguaggio e della memoria a breve termine e di lavoro,
aree queste che sono messe in relazione con le abilità di lettura nei soggetti a sviluppo tipico (Ellis e Large, 1988; Gathercole
e Baddeley, 1993). In particolare, sono stati svolti numerosi studi centrati sul ruolo che la competenza fonologia (la capacità
di percepire e discriminare gli indici acustici che segnalano le differenze tra un fonema e l’altro) svolge nell’acquisizione e
nello sviluppo della lettura (Byrne, 1993; Dodd e al., 1994; Cupples e Iacono, 2000, 2002; Kay-Raining Bird e al. 2000;
Laws e Gunn, 2002).
Il seguente studio è volto a testare l’efficacia della metodologia Precision Teaching attraverso uno studio pilota che
coinvolge tre bambini con Sindrome di Down di età compresa tra 6 e 7 anni. Tutti i soggetti hanno dimostrato difficoltà nello
svolgimento di abilità di competenza fonologica e di compiti di lettura. L’intervento è stato pianificato e condotto secondo un
disegno sperimentale a soggetto singolo per ognuno dei bambini coinvolti. Sono state effettuate prove criteriali utilizzando
alcuni compiti tratti dal PRCR-2 (Cornoldi e al., 1992) ed, in particolare, le prove di segmentazione sillabica (identificazione
della prima e dell’ultima sillaba e di segmentazione sillabica), di segmentazione fonemica (identificazione del primo e
dell’ultimo fonema e di segmentazione fonetica), e di fusione (di sillabe e di fonemi). È stata inoltre valutata l’abilità di
naming (lettura rapida) di lettere. Dalle prove effettuate sono emerse carenze, da parte di ciascun soggetto, in tutte le aree
indagate poiché le performance si sono attestate sotto la soglia minima (dibels). riportiamo i valori iniziali delle varie prove:
per la segmentazione sillabica: soggetto 1: 2 segmentazioni corrette al minuto, soggetto 2: 5 segmentazioni corrette al
minuto, soggetto 3: tre segmentazioni corrette al minuto; per la segmentazione fonetica: soggetto 1 e 3: 0 segmentazioni
fonetiche corrette al minuto, soggetto 2: 6 segmentazione fonetiche corrette al minuto; fusione sillabica e fonetica: soggetto
1: 8 fusioni corrette, soggetto 2: 10 fusioni corrette, soggetto 3: 3 fusioni corrette. nella fase iniziale i soggetti 1 e 3 non
discriminavano le lettere quindi non è stata valutata la frequenza di naming di lettere, il soggetto 2 aveva una frequenza di 12
lettere al minuto con 15 errori.
L’intervento, svolto all’interno del Centro d’apprendimento Tice, ha avuto una durata di sei mesi con una frequenza di circa
due/tre volte a settimana. Come strumento di monitoraggio del processo d’apprendimento è stata utilizzata la Standard
Celeration Chart (Lindsley, 1972), un grafico semi-logaritmico sul quale vanno riportate le risposte comportamentali
corrette, quelle scorrette e la durata della sessione di apprendimento che può arrivare, al massimo, ad un minuto.
Lo scopo iniziale per ciascun soggetto, in relazione ad ogni compito di competenza fonologica e di naming di lettere, è stata
l’acquisizione di un buon livello di accuratezza (almeno 18 risposte esatte su 20 sessioni, per due volte consecutive). Si è
passati immediatamente dopo alla costruzione degli obiettivi di fluenza calcolati in base alla media delle frequenze di
risposta emesse da 6 adulti competenti. Tali obiettivi sono: identificazione della prima e dell’ultima sillaba (25-35
sillabe/min), segmentazione sillabica (40-60 sillabe/min), identificazione del primo e dell’ultimo fonema (25-35
fonemi/min), segmentazione fonetica (40-60 fonemi/min), naming di lettere (120-150 lettere/min).
La task analysis, utilizzata per la costruzione del curriculum, prevede che il training per ciascun soggetto inizi con i compiti
di competenza sillabica per poi passare, una volta raggiunti gli obiettivi di fluenza, ai compiti di competenza fonetica e di
naming di lettere. Questo perché sembra che la più generale capacità di competenza fonologica si articoli, nel corso dello
sviluppo, attraverso tre livelli: livello della parola (capacità di suddividere le frasi in parole), livello della sillaba (capacità di
suddividere le parole in sillabe), livello del fonema (capacità di identificare ogni singola lettera che compone la parola). Per
ogni compito proposto sono state svolte, nella stessa giornata, 3 sessioni da 15 secondi e registrato sulla Standard Celeration
Chart il punteggio più alto ottenuto. Al termine del periodo di training sono state riproposte le prove presentate nella fase di
pre-test. Ciò è stato fatto anche dopo tre settimane la fine del trattamento per poter valutare un possibile effetto di ritenzione
9
cioè di relazione tra frequenze comportamentali separate da un arco di tempo durante il quale il soggetto non ha avuto la
possibilità di emettere lo specifico comportamento (Binder, 1996). Di seguito vengono riportati i risultati che evidenziano
come le performance medie dei soggetti nella fase di post test si collochino nel range di fluenza stabilito: identificazione
della prima e dell’ultima sillaba (24 sillabe/min), segmentazione sillabica (43 sillabe/min), identificazione del primo e
dell’ultimo fonema (24 fonemi/min), segmentazione fonetica (45 fonemi/min), naming di lettere (100 lettere/min). I dati
mostrano che i soggetti, in quasi tutti i compiti hanno raggiunto l’obiettivo minimo di fluenza mantenendo, inoltre, un buon
livello di ritenzione (valutato e confermato sia dall’analisi grafica, effettuata mediante standard celeration chart che da quella
statistica effettuata mediante il test c nella versione proposta da caracciolo).
MATEMATICA FLUENTE: SPERIMENTAZIONE DEL PRECISION TEACHING SUL GRUPPO CLASSE
GIORGIA CONCARI, PETRA COLOMBO, CHIARA BERNARDI
Università degli Studi di Parma, Facoltà di Psicologia, Borgo Carissimi 10, Parma.
[email protected]
La conquista della conoscenza numerica costituisce senza dubbio uno dei processi più affascinanti e complessi dello sviluppo
infantile. Capire come si evolvano le abilità di conteggio è, da sempre, oggetto di interesse della psicologia anche se in
letteratura esistono pochi dati riguardo tale processo. Le ricerche elaborate in ambito cognitivista mettono in luce alcuni
aspetti fondamentali tra cui la gradualità e la sequenzialità delle competenze (per cui un bambino apprende prima i tool skill
per poi passare all’apprendimento di abilità più complesse) e l’importanza dell’automatismo nelle conoscenze acquisite
(McCloskey, Caramazza e Basili, 1985; Siegler, Mitchell, 1982; Ashcraft; 1982). Considerando le abilità di calcolo come
risultato di un processo di apprendimento e di acquisizione di competenze dipendenti dalla pratica, le ricerche condotte in
ambito comportamentista evidenziano gli stessi indicatori di mastery. I teorici del Precision Teaching si sono occupati di
valutare gli effetti della fluenza nelle operazioni matematiche di base in soggetti con ritardo in rapporto all’acquisizione di
compiti più complessi e problemi (DuVall, McLaughlin e Sederstrom, 2003; Chiesa e Robertson, 2000; Linsdey, 1990;
Mortenson, 2001). I dati in letteratura confermano miglioramenti altamente significativi nelle performance dei soggetti
rispetto a:
- riconoscimento di numeri
- lettura di numeri
- scrittura di numeri
- velocità di risoluzione di addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni.
I dati dimostrano inoltre che i soggetti che raggiungono fluenza nei tool skill della matematica (ad esempio riconoscimento
di numeri) svolgono in modo più accurato e veloce compiti più complessi (ad esempio addizioni semplici).
Il lavoro che esponiamo vuole essere un’esemplificazione dell’efficacia del metodo precision teaching nell’apprendimento
delle abilità di calcolo sul gruppo classe. in particolare, vista la scarsa diffusione delle tecnologie educative sul territorio
italiano e la predominanza di studi a soggetto singolo (cavallini, 2006; fontanesi, cavallini e perini 2007; cavallini, berardo e
perini 2008), la ricerca si propone di mettere in evidenzia le potenzialità ed i risultati dell'applicazione di tali metodologie in
classe. inoltre le scarse sperimentazioni su gruppi effettuate negli usa (johnson, 1992) riguardano classi con una media di
bambini nettamente inferiore rispetto alle classi italiane, nello studio verranno quindi presentate osservazioni e dati relativi
all'applicazione del precision teaching su gruppi numerosi di bambini.
soggetti: 63 alunni frequentanti la classe 2° elementare della scuola “paolo racagni” di parma
disegno sperimentale: il disegno della ricerca è un quasi esperimento 3 x 2, in cui la prima variabile a tre livelli, è una
variabile between rappresentata dal diverso tipo di training somministrato ai gruppi, mentre la seconda variabile è within ed
indica i due momenti della ricerca, la valutazione pre e post training.
Materiale: per i curricula di matematica abbiamo utilizzato il programma “Practicing Basic Skill in Math” (Beck, Conrad e
Anderson; 2007). Tale programma è strutturato secondo un principio di Task Analysis e prevede compiti di complessità
crescente che vanno da denominazione di numeri a moltiplicazioni complesse. Nel nostro caso abbiamo utilizzato le schede
operative relative alle addizioni senza riporto, che rappresenta una tool skill per le operazioni più complesse. Ogni scheda
contiene 60 operazioni. Il Gruppo 1 (n=23) è stato sottoposto al training di Precision Teaching associato ad un programma di
token economy che, come è noto consiste in un sistema di contrattazione delle contingenze di rinforzo ( le cui regole
prevedevano il rinforzo dell’insieme dei comportamenti quali: “sto seduto durante la lezione di matematica”; aspetto il
segnale prima di iniziare il compito; alzo la biro dal foglio al suono del cronometro..). Il Gruppo 2 (n=20) è stato sottoposto
al solo training di matematica con metodologia Precision Teaching. Il Gruppo 3 (n=20) ha seguito lezioni di didattica
tradizionale, senza training aggiuntivi.
Il Gruppo 2 (Precision Teaching) ottiene i risultati più significativi passando da 13,26 addizioni al minuto nella fase di pretest a 42,31 in quella di post-test. Anche le prestazioni dei soggetti appartenenti al Gruppo 1 (Precision Teaching + Token
Economy) migliorano in modo significativo passando da un totale 11,82 addizioni al minuto nella prova di pre-test a 35,47
nel post-test. il gruppo di controllo evidenzia anch’esso un miglioramento nell’esecuzione del task, anche se il trend appare
meno evidente rispetto a quello manifestato dai gruppi sperimentali. tali osservazioni vengono confermate dall’analisi
statistica dei dati effettuata mediante analisi multivariata della varianza (manova).
10
IL RUOLO DELLA FLUENZA NELLE ABILITÀ SPORTIVE: UN'ANALISI ESPLORATIVA
ROBERTO CATTIVELLI (1), FRANCESCA CAVALLINI (2), FABIOLA CASARINI (2)
(1) Centro di apprendimento Tice
(2) Università degli Studi di Parma, Facoltà di Psicologia.
[email protected]
Nelle discipline sportive o più in generale nelle attività prevalentemente motorie da sempre la vera padronanza coincide non
soltanto con un’ esecuzione accurata ma anche veloce, naturale, non esitante, in una parola, fluente. Una valutazione basata
su percentuale di risposte corrette + frequenza delle risposte si rileva particolarmente utile in ambito accademico (Kuhn e
Stahl, 2003) superarando il concetto della semplice accuratezza e proponendo un indice di valutazione del comportamento
che integri la correttezza delle risposte con la frequenza delle stesse, al contempo più funzionale, utile e spesso più predittivo
(Binder 2001). Capire se e in che modo una valutazione basata sulla fluenza sia in qualche modo utile anche nel contesto
motorio così come lo è per quello accademico, diventa così un tassello importante per raggiungere una migliore
comprensione degli effetti di didattiche basate sulla fluenza nel contesto motorio ed iniziare a programmare, anche nei
contesti sportivi, l'utilizzo di tecnologie didattiche efficaci come il precision teaching. obiettivo della ricerca è mostrare
l'importanza della frequenza iniziale di un comportamento motorio e metterlo in relazione alla durata dell'intervallo di lavoro.
questa serie di considerazioni che legano la frequenza iniziale di un comportamento alla durata dell'intervallo di lavoro e alla
resistenza alla distrazione sono state svolte esclusivamente in ambito accademico. infatti la capacità di mantenere per periodi
di tempo maggiori una data frequenza di un particolare comportamento correla solitamente con la frequenza iniziale (binder
1982, 1984; binder et al., 1990). lo studio ha preso in esame un campione composto da 26 soggetti (il campione è stato scelto
sulla base della frequenza iniziale di palleggio dalle frequenze molto basse dei bambini a livelli di fluenza dei soggetti adulti
): 18 bambini di età media di 9 anni e 8 giovani adulti (età media 19) prendendo in esame diversi compiti (task): il palleggio
con la mano dominante e con quella controdominante, il palleggio cambiando mano ogni volta, sempre in modo statico, lo
slalom con cambio mano ad ogni passaggio di direzione, ed il palleggio cieco (senza guardare la palla prestando invece
attenzione a specifici stimoli visivi). si è appurato che i soggetti fossero in grado di eseguire i singoli task motori con il 100%
di accuratezza, poi si è chiesto loro di eseguirli “alla massima velocità” misurando il n° di palleggi per ciascuna unità di
tempo (5”, 10” e 60”) ed eventuali errori commessi. i risultati sottolineano notevoli discrepanze fra le frequenze dei vari
soggetti, mettendo in evidenza le differenze che resterebbero invece celate da una valutazione tradizionale, appiattite dal
“100% percentage correct” che contraddistingue la performance di tutto il campione. la fluenza può quindi essere un prezioso
parametro di valutazione anche in ambito motorio/sportivo, e non solo limitatamente al contesto accademico come già
ampiamente noto. Inoltre, come effetto della fluency ci si attendeva che i soggetti fluenti mostrassero un minore riduzione
della performance negli intervalli di maggior durata come avviene per le abilità cognitive (Binder, 1993). Analizzando
solamente le frequenze i risultati paiono contraddire tale ipotesi, mostrando una notevole diminuzione della prestazioni
proprio da parte dei soggetti con frequenze più alte con l’ aumentare della durata del compito. Tuttavia osservando anche l’
accuratezza si assiste al fenomeno inverso, i soggetti “fluenti” pur rallentando sensibilmente, si mantengono accurati mentre i
soggetti non fluenti, caratterizzati da frequenze più basse negli intervalli più brevi, pur rallentando in misura minore, iniziano
a commettere errori. Soggetti accurati e non accurati non sono direttamente confrontabili, appare comunque evidente dall’
aumento degli errori dei soggetti l’ effetto della fluenza concettualmente attribuibile sia all’ endurance (performance
protratta) che alla stability (resistenza alla distrazione e quindi mantenimento dell’ accuratezza). La riduzione della
prestazione è invece da attribuire a variabili non ancora sufficientemente indagate e non ben identificate, come ad esempio lo
sforzo muscolare o la stanchezza fisica, che influiscono in modo determinante, sebbene non ancora ben chiaro, impedendo ai
soggetti caratterizzati da una buona fluenza nei compiti in esame di mantenere il medesimo livello di performance qualora
questa venga protratta. L’ adozione di un costrutto quale la fluenza può senz’ altro offrire notevoli vantaggi anche in ambito
motorio / sportivo rappresentando al tempo stesso un sistema di valutazione ben più informativo rispetto alla mera
accuratezza e promuovendo alcuni effetti quali l’ endurance e la stability, mentre ricerche successive potranno cercare di
individuare le basi per interventi basati sul precision teaching (con la fluency come indice di padronanza) applicabili al
contesto motorio sia sportivo che nelle disabilità o nel recupero.
11
Simposio 2
LE “NUOVE” DETERMINANTI DEL PARENTING: CARATTERISTICHE DEI
GENITORI, DEL BAMBINO, DELLA RELAZIONE
Proponenti: ALESSANDRA SIMONELLI, SABRINA BONICHINI
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
[email protected]
[email protected]
Discussant: MANUELA LAVELLI
Università di Verona
[email protected]
12
Presentazione
Lo studio del parenting, ossia dello stile con cui gli adulti si occupano del bambino e costruiscono la relazione primaria con
lui, ha subito una importante sistematizzazione con il contributo di Belsky (1984) che ha identificato una serie di fattori la cui
influenza reciproca sembra determinare la strutturazione delle interazioni precoci tra il bambino e le figure di riferimento,
influenzando, a breve e a lungo termine, alcuni aspetti dello sviluppo. Tali fattori sono: le caratteristiche individuali
dell’adulto (la storia di vita, la personalità), le caratteristiche del contesto (la qualità della relazione di coppia, il sostegno
sociale), le caratteristiche del bambino (il temperamento, la salute fisica). A partire dal modello, negli ultimi venti anni
numerose ricerche hanno verificato il ruolo di singoli o molteplici determinanti, riscontrando effettive influenze di ognuno o
della loro combinazione sulla qualità delle interazioni e delle relazioni precoci adulto-bambino e sullo sviluppo del piccolo
(cfr. Carli, 1999). L’ampia letteratura sul tema sembra presentare due limiti principali: (a) la maggioranza delle ricerche si è
focalizzata sullo studio di un numero esiguo di fattori entro disegni di ricerca trasversali o anche longitudinali, ma su un arco
ridotto di tempo; (b) tali studi fanno riferimento prevalentemente a popolazioni non cliniche o a gruppi a rischio psicosociale che non comprendono le “nuove” popolazioni di genitori e bambini negli attuali contesti di vita. In questa direzione,
il simposio propone alcune ricerche sulle determinanti del parenting che si sono prefisse di superare i limiti delineati:
identificando un numero elevato di fattori di indagine, entro modelli di ricerca longitudinali con intervalli di tempo ampi e
applicati a popolazioni di bambini “speciali” come piccoli nati prematuri, affetti da patologie psichiche come l’autismo o la
sindrome di Down, da patologie fisiche a rischio di vita, o appartenenti a culture che si differenziano nelle modalità di
accudimento.
LE DETERMINANTI DEL PARENTING DALLA GRAVIDANZA ALL’ETÀ PRESCOLARE DEI FIGLI.
STUDIO LONGITUDINALE SULLA POPOLAZIONE NON CLINICA
ALESSANDRA SIMONELLI (1), MARA BIGHIN (1), ERIKA PETECH (1), FRANCESCA DE PALO (2)
(1) Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione. Università di Padova.
(2) Dipartimento di Psicologia. Università di Milano-Bicocca.
[email protected]
Introduzione
Le capacità dell’adulto di prendersi cura e di costruire l’interazione precoce con il bambino rappresentano un ambito molto
studiato dal momento che le caratteristiche di tale incontro sembrano strutturare le basi dello sviluppo delle competenze
affettivo-relazionali del piccolo, influenzandone l’adattamento. Tale aspetto sembra favorito (a) dalla qualità delle esperienze
interattive e intersoggettive precoci degli adulti, (b) dalla natura della relazione della coppia coniugale nella sua
trasformazione in coppia co-genitoriale, dopo la nascita del figlio, (c) dalle caratteristiche del bambino e (d) dai modelli
interattivi che la triade madre-padre-bambino costruisce nello sviluppo del sistema familiare (Fivaz-Depaursinge, CorbozWarnery, 2000). Secondo la prospettiva dei sistemi dinamici non lineari, ognuno di questi fattori sembra avere una influenza
sugli altri ed esserne a sua volta influenzato in un processo di retroazione (cfr. Sander, 2007) che rende ragione delle
traiettorie evolutive della famiglia come insieme e di ognuno dei suoi membri. In continuità con tali assunti il lavoro si è
proposto di indagare: (a) il ruolo di fattori individuali dei genitori (lo stile di attaccamento) e del bambino (il temperamento)
nell’influenzare la qualità delle interazioni triadiche familiari dalla gravidanza al 4° anno del bambino; (b) l’andamento della
qualità delle interazioni familiari triadiche dalla gravidanza al 4° anno del bambino e l’esistenza di eventuali traiettorie
evolutive delle dimensioni interattive che le definiscono; (c) il ruolo di fattori contestuali, come la percezione che i partner
hanno della qualità della relazione di coppia, sulle interazioni familiari; (d) le eventuali associazioni e influenze reciproche
tra gli aspetti considerati.
Metodo
Alla ricerca hanno partecipato 100 famiglie reclutate presso i corsi di psicoprofilassi al parto. Ognuna è stata sottoposta in
gravidanza, al 4°, 9°, 18° e 48° mese del bambino a: (a) Adult Attachment Interview (George, Kaplan, Main, 1985) per la
valutazione dell’attaccamento dell’adulto; (b) Lausanne Triadic Play (LTP; Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 2000) per
l’osservazione delle interazioni triadiche familiari; (c) Dyadic Adjustement Scale (Spanier, 1976) che valuta la percezione
dell’adulto della qualità della relazione di coppia; (c) Questionario sul coinvolgimento paterno (Frascarolo, 2004) che valuta
il grado in cui il padre si percepisce coinvolto nella cura del figlio e la medesima percezione della madre; (d) Infant Behavior
Questionnaire (Garnstein, Rothbart, 2003) per la valutazione del temperamento del bambino.
Risultati
L’Analisi della Varianza applicata ai dati ha evidenziato: (a) un decremento della qualità della relazione di coppia percepita
da entrambi i partner nel periodo considerato; (b) un incremento della qualità dell’interazione triadica familiare, soprattutto
relativamente alle dimensioni dell’interazione che comprendono le capacità e i processi evolutivi del bambino
(coinvolgimento del bambino nella relazione, processi di regolazione). In altre parole, sembra che le competenze familiari
“migliorino” nel tempo, inversamente alla soddisfazione rispetto alla coppia. Non emergono significative associazioni tra la
13
qualità dell’interazione triadica, il genere e il temperamento del bambino. Sono in corso le elaborazioni dei dati relativi
all’attaccamento genitoriale e agli effetti reciproci delle dimensioni considerate.
DISPONIBILITÀ EMOTIVA DIADICA IN COPPIE GENITORE-BAMBINO CON SINDROME DI DOWN E CON
DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO
SIMONA DE FALCO, PAOLA VENUTI, GIANLUCA ESPOSITO, PATRIZIA VILLOTTI, ARIANNA BENTENUTO
Dipartimento di Scienze della Cognizione e della Formazione, Università di Trento
[email protected]
Introduzione
All’interno della relazione genitore-bambino, la disponibilità emotiva reciproca rappresenta un aspetto centrale per un sano
sviluppo e adattamento socioemozionale e può essere definita come un costrutto relazionale che si riferisce alla qualità degli
scambi emozionali tra i genitori ed il loro figli (Biringen, Easterbrooks, 2005). In particolare essa si focalizza sia sulla
accessibilità che sulla capacità di leggere e rispondere appropriatamente ai segnali comunicativi. La disponibilità emotiva
genitoriale è da considerarsi ancor più rilevante per lo sviluppo dei bambini con bisogni speciali (Venuti, de Falco, Giusti,
Bornstein, 2008). Scopo di questo lavoro di ricerca è valutare la disponibilità emotiva di coppie genitore bambino con
sindrome di Down e con disturbo dello spettro autistico.
Metodo
Il campione include 50 diadi genitore-bambino composte da bambini di età compresa tra i 2 e i 6 anni con diagnosi di
sindrome di Down (n = 22) o di disturbo dello spettro autistico (n = 14) in interazione con la madre e, in alcuni casi, anche
con il padre. La disponibilità emotiva è stata valutata applicando la terza edizione delle Emotional Availability Scales (EAS;
Biringen, Robinson, Emde, 1998) a videoregistrazioni di sessioni semistrutturate di gioco genitore-bambino della durata di
10 minuti avvenute in ambito familiare. L’EAS è uno strumento osservativo che valuta le interazioni tra un caregiver ed un
bambino attraverso sei scale di punteggio, quattro delle quali si riferiscono alla disponibilità del caregiver verso il bambino
(sensitivity, structuring, nonintrusiveness, nonhostility) e due alla disponibilità del bambino verso il caregiver
(responsiveness, involving). La codifica è stata effettuata da due osservatori appositamente formati e l’accordo, verificato sul
25% del campione attraverso l’intraclass correlation cohefficient, varia tra .88 e .97.
Risultati
In generale, le diadi analizzate si assestano su livelli adeguati di disponibilità emotiva per quanto riguarda le scale genitoriali
e su livelli medio-bassi per quanto riguarda le scale del bambino. Nel sottogruppo di bambini con sindrome di Down tutte le
scale hanno mostrato un elevata correlazione interna. Nel sottogruppo di bambini con disturbo dello spettro autistico le scale
relative al bambino e quelle relative al genitore sono risultate debolmente associate. Non sono emerse differenze tra i due
sottogruppi patologici riguardo il punteggio medio alle scale genitoriali mentre, come atteso, i bambini con disturbo dello
spettro autistico hanno ottenuto in media punteggi significativamente più bassi di quelli con sindrome di Down. Non sono
emerse differenze significative tra diadi madre-bambino e padre-bambino. Inoltre l’analisi delle correlazioni ha messo in luce
la stabilità della disponibilità emotiva dei bambini con i due genitori e l’associazione tra i livelli di disponibilità emotiva
delle coppie di genitori. I risultati ottenuti vanno in direzione dell’applicabilità delle EAS per la valutazione della qualità
affettiva diadica in coppie caregiver-bambino con bisogni speciali.
STABILITÀ E CAMBIAMENTO DELL’INPUT LINGUISTICO MATERNO RIVOLTO A BAMBINI NATI
PREMATURI NEI PRIMI DUE ANNI DI VITA
NICOLETTA SALERNI, CHIARA SUTTORA
Dipartimento di Psicologia. Università di Milano-Bicocca.
[email protected]
Introduzione
Tra i numerosi contributi allo studio del ruolo ricoperto dal CDS (Child Directed Speech) nel processo di sviluppo del
linguaggio, notevole importanza rivestono quelle indagini che si sono occupate di descrivere i cambiamenti dell’input in
funzione dello sviluppo dei bambini, e di analizzare la stabilità nel tempo delle differenze individuali che lo
contraddistinguono (Pan, Imbens-Bailey, Winner & Snow, 1996).
Diversi studi condotti con bambini con sviluppo tipico testimoniano come alcune misure di complessità lessicale e, nel
contempo, gli aspetti più prettamente quantitativi dell’input linguistico materno tendano ad aumentare con la crescita dei
bambini, modificandosi in funzione del livello di sviluppo comunicativo e cognitivo da essi raggiunto (Bornstein et al.,
1992).
14
Per quanto concerne lo studio del CDS nelle popolazioni a rischio di sviluppo, ed in particolare nei bambini nati prematuri,
l’analisi della letteratura evidenzia una marcata carenza di indagini in tale ambito specifico (Salerni, Suttora & D’Odorico,
2007). Tale dato risulta piuttosto contraddittorio se si considera l’evidente mole di studi relativi ad altri aspetti che
caratterizzano l’interazione madre-bambino prematuro e il ruolo che tali fattori sembrano ricoprire nello sviluppo cognitivo,
linguistico e sociale.
Il presente lavoro si propone quindi di analizzare, in un ottica longitudinale, alcune caratteristiche del linguaggio materno
rivolto ad un gruppo di bambini prematuri, ponendosi inoltre l’obiettivo di verificare l’eventuale stabilità nel tempo delle
differenze individuali legate agli aspetti più strettamente strutturali dell’input materno.
Metodo
Hanno partecipato allo studio 16 bambini nati prematuri (9 maschi e 7 femmine), con le rispettive madri, selezionati in base
ad un’età gestazionale inferiore a 32 settimane (età gestazionale media: 30 settimane; range: 26-32) e ad un peso alla nascita
minore di 2000 grammi (peso medio: 1340 grammi; range: 740-1850).
Ogni diade madre-bambino ha partecipato a quattro sedute di osservazione in corrispondenza dei 6, 12, 18 e 24 mesi di età
corretta del bambino. Durante le sessioni osservative madre e bambino sono stati lasciati liberi di giocare con una serie di
oggetti proposti dallo sperimentatore per un periodo di tempo variabile tra i 10 e i 20 minuti, in funzione dell’età del
bambino. Tutti gli enunciati materni sono stati integralmente trascritti in formato CHAT e analizzati utilizzando i programmi
FREQ, MLU e VOCD del software CLAN, al fine di ottenere le seguenti misure: a) lunghezza media dell’enunciato (MLU)
come indice della complessità sintattica; b) indice d (calcolato con il programma vocd) come misura della
varietà/complessità lessicale; c) numero di enunciati verbali al minuto come indice della produttività verbale. Lo sviluppo
comunicativo-linguistico dei bambini è stato valutato attraverso l’analisi delle produzioni spontanee esibite in corrispondenza
di tutte le sedute, mentre il loro livello di sviluppo cognitivo e motorio è stato esaminato tramite la somministrazione delle
scale Bayley in corrispondenza dei 6, 12 e 24 mesi di età corretta.
Risultati
Una prima serie di analisi è stata condotta con l’obiettivo di descrivere gli eventuali cambiamenti nell’input linguistico
materno in funzione dell’età dei bambini, sia in termini di complessità sintattica che di varietà lessicale e di produttività.
Relativamente al primo fattore, è stato riscontrato un aumento significativo tra le due rilevazioni effettuate nel primo anno di
vita e quelle successive, mentre la varietà lessicale mostra un incremento tra i 6 e i 18 mesi di età, rimanendo mediamente
invariata nelle ultime due osservazioni. Riguardo alla produttività verbale, i dati raccolti testimoniano un incremento
significativo solamente nel passaggio dalla metà del primo anno di vita all’inizio del secondo.
I risultati delle analisi correlazionali hanno permesso inoltre di evidenziare, nell’intero periodo esaminato, la presenza di una
sostanziale stabilità delle differenze individuali relative a tutti gli indici linguistici materni considerati.
Tuttavia, controllando i possibili effetti dovuti al grado di prematurità (EG) e allo sviluppo motorio (punteggi Bayley) dei
bambini è stato evidenziato che, nel passaggio tra i 12 e i 18 mesi, sia le misure individuali materne di complessità lessicale
che quelle di produttività verbale non risultano più stabili.
Sembra quindi che, durante questa fase evolutiva, il livello di sviluppo motorio e di maturazione raggiunto dai bambini
contribuisca a modificare lo stile comunicativo materno più di altri fattori, quali le competenze comunicativo-linguistiche dei
bambini stessi che non risultano, infatti, influenzare la stabilità temporale degli indici linguistici materni presi in esame.
ANALISI DEGLI EFFETTI DEL PARENTING SUL COMPORTAMENTO ADATTIVO DI BAMBINI AFFETTI
DA LEUCEMIA A UN ANNO DALL’INIZIO DELLE TERAPIE
Marta Tremolada (1), Sabrina Bonichini (1), Marta Pillon (2), Modesto Carli (2), Giovanna Axia
(1) Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
(2) Clinica Oncoematologica Pediatrica, Dipartimento di Pediatria, Università di Padova
[email protected]
Introduzione
Il compito principale di parenting è quello di fornire le cure sia di tipo pratico che ti tipo emotivo in modo che il bambino
possa progredire nel suo sviluppo psico-socio-emotivo (Ainsworth, 1969) sia all’interno che al di fuori dell’ambito familiare
(Cowan et al., 1997). Le responsabilità e le sfide già numerose coinvolte nella cura di un bambino vengono poi amplificate in
un contesto di malattia. Le attività di parenting svolte dai genitori verso il bambino malato di leucemia durante la sua prima
ospedalizzazione hanno un ruolo centrale nell’aiutarlo ad adattarsi al nuovo contesto. I genitori si trovano a dover far fronte a
diversi stress come il comunicare al bambino la sua malattia, controllare le proprie reazioni emotive riguardo alla malattia del
bambino e alla sua sopravvivenza, fornire l’assistenza anche ai fratelli a casa, portare avanti gli obblighi familiari durante la
malattia (Enskar et al., 1997a). Specialmente per le madri, le attività del prendersi cura del bambino malato coinvolgono una
serie di compiti tecnici e lavoro di tipo emotivo nella loro funzione di “portatori” di informazioni e di aiuto alla cooperazione
ai trattamenti (Young et al., 2002), in particolar modo durante le procedure dolorose (Manne et al., 1993). Un primo obiettivo
dello studio è quello di capire le attività di parenting del genitore dalle sue dirette parole, tramite interviste in profondità.
15
Poche sono inoltre le informazioni in letteratura su quali fattori legati al parenting del genitore siano eventualmente
responsabili del comportamento di coping e adattivo a breve e a lungo termine del bambino, fino a un anno dopo la diagnosi.
Il secondo obiettivo di tale studio è, quindi, quello di valutare un modello empirico su come i processi familiari influenzino
lo sviluppo adattivo del bambino malato.
Metodo
Il lavoro di raccolta dati di tipo longitudinale ha previsto l’assessment dei giovani pazienti e delle loro famiglie in diversi
momenti lungo i due anni di terapia presso la Clinica di Oncoematologia Pediatrica (Università di Padova). In particolare, in
tale studio si sono valutati in due time-points: 118 nella seconda settimana dopo la comunicazione della diagnosi (T1) e 78 di
questi dopo 1 anno (T2). Questi 78 pazienti seguiti longitudinalmente hanno un’età media di 5.55 anni con una DS di 3.61.
L’ampia variabilità dell’età è dovuta a motivazioni epidemiologiche della leucemie. Infatti, tali patologie si concentrano
prevalentemente in tali fasce di età: in età infantile (0-3 anni), in età pre-scolare (3-6 anni) e, in misura minore, anche in età
pre-adolescenziale e adolescenziale. In questo studio è stato utilizzato un grande numero di strumenti per la valutazione dei
genitori e dei bambini, adottando un approccio multi-metodo. Interviste in profondità (EFI-C, Axia & Weisner, 2003;
Tremolada et al., 2005) sono state svolte al momento iniziale T1 e i test psicologici delle Scale Vineland (VABS, Sparrow et
al., 1984; ediz. italiana 2003) per il bambino sotto forma di interviste al genitore sono stati somministrati al T2.
Risultati
La dimensione del Parenting estrapolata dalle interviste EFI-C si dimostra affidabile e attendibile, racchiudendo 9 items con
un alpha globale di .81. Gli items specifici sono i seguenti: attività di creazione di collegamenti per il bambino col suo
mondo di casa; uso di strategie per aiutare il bambino durante qualsiasi tipo di intervento medico; importanza attribuita dal
genitore alla vicinanza esclusiva col bambino o livello fiducia negli altri parenti; importanza attribuita dal genitore alla fase
di addormentamento e alla loro vicinanza nel sonno; livello di empatia tra genitore e figlio; livello di percezione del genitore
della sua efficacia nel tranquillizzare il figlio e provvedere ai suoi bisogni; prevenzione e risoluzione del pianto/disperazione;
modalità di consolazione (prossimale o distale) del genitore nei momenti di bisogno del figlio; percezione delle difficoltà di
cura del bambino dovute alla limitazione del particolare luogo.
Per rispondere al secondo obiettivo, il modello empirico tesato (R2 = 0.40; p = 0.0001) mostra come predittore del
comportamento adattivo del bambino a un anno, valutate con le Scale Vineland, il suo coping iniziale alla diagnosi ( = 0.69)
mediato dal fattore parenting ( = -0.11). L’effetto mediazione è stato misurato tramite il Sobel test che risulta significativo
(Z = 4.17; p = 0.00003).
Conclusioni
Possiamo apprezzare tali risultati perchè ci danno informazioni per creare un programma di intervento specifico per aiutare i
bambini maggiormente a rischio di deficit di sviluppo alla diagnosi e i loro genitori. Possiamo pensare a due programmi
paralleli: uno per aumentare e diversificare le strategie di coping del bambino alla diagnosi, soprattutto per l’età scolare, e
l’altro per incrementare le strategie di parenting del genitore, soprattutto per i genitori di bambini in età pre-scolare.
ATTIVITÀ DI PARENTING CON BAMBINI DAI 3 AI 5 ANNI NEI DUE PRINCIPALI GRUPPI ETNICI
ALTOATESINI
Livia Taverna (1), Sabrina Bonichini (2), Giovanna Axia
(1) Libera Università di Bolzano, Facoltà di Scienze della Formazione
(2) Università degli Studi di Padova, Facoltà di Psicologia, Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della
Socializzazione
[email protected]
Introduzione
Compito fondamentale dei genitori è quello di allevare i propri figli preparandoli a vivere nella società di cui faranno parte
(Bornstein, 1988), insegnando loro a rispondere in modo adeguato alle aspettative che la comunità di appartenenza manifesta
nei confronti di un individuo a diverse età. La letteratura mostra come esistano delle differenze nel tipo di competenze che gli
adulti di diverse culture richiedono ai loro figli di sviluppare, rispetto all’età in cui ci si attende che tali abilità si manifestino,
e infine rispetto agli standard di performance che si chiede ai bambini di raggiungere (Hess, Kashiwagi, Azuma, Price &
Dickson, 1980). I percorsi evolutivi che ciascuna cultura predispone per i propri figli costituiscono un progetto di sviluppo
che i genitori perseguono giorno dopo giorno attraverso un insieme organizzato di azioni, dotate di senso che veicolano al
bambino valori, aspettative e significati culturalmente orientati (Super & Harkness, 1999).
Obiettivi/ipotesi: Obiettivo di questa ricerca è quello di indagare le routine e le pratiche di allevamento adottate entro le
comunità culturali italiana e tedesca che vivono in Alto Adige. Le ipotesi che hanno guidato il nostro studio sono: a) che le
famiglie di etnia italiana e tedesca presentino delle differenze nelle routine quotidiane e nelle attività genitoriali che
presiedono al loro svolgimento che richiamano priorità evolutive differenti; b) che alle diverse pratiche adottate da ciascuna
comunità culturale corrispondano livelli di sviluppo dei comportamenti adattivi dei rispettivi bambini differenti.
16
Metodo
Utilizzando l’intervista ecoculturale (EFI; Weisner, 1997) è stato chiesto a 34 madri di etnia italiana e 43 di etnia tedesca,
con bambini in età compresa tra i 3 ed i 5 anni, di raccontare come si svolge la loro vita quotidiana, quali azioni scandiscono
la loro giornata tipo. Le interviste in profondità sono state trascritte verbatim e valutate da due giudici indipendenti lungo 5
dimensioni (Coesione Familiare, Padre, Supporto, Cena in Famiglia e Bambino e Scuola). Il valore attribuito agli item che
componevano ciascuna dimensione variava da 0 a 8.
Allo scopo di rilevare il livello di sviluppo dei comportamenti adattivi dei bambini italiani e tedeschi è stata effettuata
un’intervista semistrutturata, composta da 540 item suddivisi in quattro dimensioni (Comunicazione, Abilità Quotidiane,
Socializzazione e Abilità Motorie) utilizzando le Vineland Adaptive Behavior Scales (Balboni & Pedrabissi, 2003).
Risultati
Dai risultati delle interviste ecoculturali in profondità (EFI) emerge che l’ecologia e l’organizzazione familiare delle mamme
di etnia italiana e tedesca si differenziano in modo significativo unicamente per le attività che concernono il bambino nella
vita a casa e a scuola (t(75) =-6.887; p .0001, 2p=.39). I bambini del gruppo linguistico tedesco vengono raccontati dalle loro
mamme come protagonisti autonomi di attività quali prepararsi e vestirsi da soli alla mattina prima di andare all’asilo,
giocare senza interrompere gli adulti, apprestarsi ad andare a letto ed addormentarsi senza la presenza del genitore. A scuola,
invece, i bambini del gruppo linguistico tedesco vengono maggiormente coinvolti nella preparazione del pranzo, si servono
da soli mettendo il cibo nel piatto, e decidono in autonomia a quali attività formative prendere parte tra un ventaglio di
laboratori attivi. La cultura, nelle interviste alle mamme, acquista una consistenza immediata, fenomenologica, legata
all’esperienza di tutti i giorni. Dalle narrazioni delle routine quotidiane emerge che i due gruppi linguistici conviventi si
distinguono nelle modalità con cui vengono realizzate le attività di tutti i giorni perché rispondono ad idee e a progetti di
sviluppo diversificati. Infine i punteggi della dimensione Bambino e Scuola risultano infine fortemente correlati con i domini
delle VABS Abilità quotidiane (r=.52; p .0001) e Socializzazione (r=.47; p .0001). Le differenze emerse sia per quanto
attiene alle narrazioni materne, sia rispetto alle rilevazioni conseguite tramite le Vineland suggeriscono che: a) la cultura
influenza lo sviluppo del bambino secondo traiettorie che rispecchiano le priorità e gli obiettivi evolutivi fissati entro ciascun
gruppo etnico, anche in situazioni di convivenza tra più gruppi culturali; b) l’autonomia, intesa come capacità del bambino di
saper assolvere senza il sostegno dell’adulto alcuni compiti che garantiscono autosufficienza personale e sociale, sembra
essere considerato un obiettivo di sviluppo prioritario più per la cultura tedesca che per quella italiana, elemento quest’ultimo
che avvicina il gruppo etnico tedesco altoatesino alle culture individualiste di tipo nordico; c) i diversi livelli di sviluppo
delle abilità dei due gruppi di bambini non sono conseguite attraverso attività quotidiane diversificate confinate
esclusivamente alla dimensione domestica, ma tali differenze nello svolgimento della vita ordinaria informano anche una
realtà più allargata che transita attraverso la formazione, e più precisamente nella vita scolastica. I modelli culturali di
riferimento per il gruppo linguistico italiano e per quello tedesco sono operativi ed in grado di influenzare la vita dei
bambini, in tenera età, sia in una dimensione micro (familiare), sia in una macro (scolastica/sociale).
17
Simposio 3
LO SVILUPPO PRAGMATICO
Proponente: MARIA SILVIA BARBIERI
Dipartimento di Psicologia, Università di Trieste
e-mail:
[email protected]
Discussant: MARINELLA PARISI
Dipartimento di Psicologia, Università di Cagliari
[email protected]
18
Presentazione
Il simposio tratta diversi aspetti dello sviluppo pragmatico e include cinque contributi che toccano temi diversi che vanno
dalla comunicazione prelinguistica e dalla prima comparsa del lessico mentale fino allo studio di modi particolari d’uso della
comunicazione referenziale e ad alcuni aspetti dello sviluppo della modalità. I contributi vengono presentati seguendo la
sequenza evolutiva, dalla comunicazione preverbale, fino agli usi più sofisticati del linguaggio per farsi capire da alcuni, ma
non da altri, o per esprimere il proprio grado di confidenza in ciò che si afferma.
Nel dettaglio, i primi due contributi studiano l’uso dell’indicazione dichiarativa. Il primo (Perucchini, Aureli, Palazzo e
Nicolo’) ne esamina l’emergere fra 9 e 18 mesi, il secondo (Fadda, Parisi) ne esamina l’uso in bambini gemelli e singoli nati
per comprendere come i contesti dello sviluppo ne modulino il divenire. Il terzo contributo (Longobardi, Renna) studia l’uso
del lessico mentale in coppie di madri e bambini di 20 mesi e le loro variazioni in funzione delle caratteristiche del
linguaggio materno e dello sviluppo linguistico del bambino.
Un quarto contributo (Di Sano, De Iuliis) studia lo sviluppo di aspetti sofisticati nell’uso della comunicazione referenziale,
quando si vuole essere compresi dal proprio interlocutore, ma non da altri astanti.
L’ultimo contributo (Barbieri, Filippini) studia lo sviluppo della modalità epistemica, quella con cui si esprime il proprio
grado di confidenza in ciò che si afferma, prendendo in esame bambini con sviluppo tipico e DSL descrivendo i diversi
mezzi linguistici usati per esprimere tale modalità e fornendo alcuni elementi per il confronto fra le due popolazioni.
Nel suo insieme, il simposio presenta una panoramica della ricerca attualmente in corso in Italia su diversi aspetti dello
sviluppo pragmatico e i paradigmi di ricerca che li caratterizzano.
LO SVILUPPO DEL GESTO DI INDICARE E LA SUA ASSOCIAZIONE CON LO SGUARDO DIRETTO
ALL’ALTRO DA 9 A 18 MESI DI VITA
PAOLA PERUCCHINI (1), TIZIANA AURELI (2), ANNALISA PALAZZO (2), ROBERTA NICOLO’ (2)
(1) Università di Roma Tre
(2) Università di Chieti-Pescara
[email protected]
Introduzione
Il gesto di indicare costituisce una pietra miliare dello sviluppo comunicativo prelinguistico. In particolare, esso segnala
l’emergere della comunicazione intenzionale. Due questioni sono importanti al riguardo. La prima è relativa alla natura
comunicativa del gesto. Werner e Kaplan (1963) distinguono l’indicare per sé dall’indicare comunicativo, prendendo come
criterio di distinzione l’associazione del gesto con lo sguardo diretto all’altro In letteratura, i pochi studi condotti con disegno
trasversale evidenziano che l’indicare per sé compare prima dell’indicare per l’altro (Camaioni, Volterra, Bates, 1986) e che
l’associazione con lo sguardo cambia con l’età, precisamente che il comportamento di guardare l’altro dopo la produzione
del gesto preceda il comportamento di guardarlo prima (Franco e Butterworth, 1996). La seconda questione riguarda il tipo
di intenzione comunicativa veicolata dal gesto. Gli studi infatti concordano nell’assegnare al gesto sia una funzione
richiestiva, per chiedere all’altro di fare/dare qualcosa, sia una funzione dichiarativa,
affinché l’altro presti
attenzione/interesse su qualcosa (Camaioni, 1993; Campioni, Perucchini, Bellagamba & Colonnesi, 2004).Quale sia la loro
emergenza nel corso dell’ontogenesi è questione ancora controversa, se l’una preceda oppure segua o sia contemporanea
all’altra.
Il presente studio indaga entrambe le questioni. Allo scopo, amplia i risultati di uno studio precedente (AIP, 2007)
sull’evoluzione del gesto di indicare da 9 a 15 sotto un duplice aspetto: (1) estende l’analisi della produzione del gesto di
indicare nel contesto richiestivo e dichiarativo, fino all’età 18 mesi, comparandola con quella di gesti associati quali
l’estensione dell’indice e la prensione a vuoto e (2) esamina l’associazione tra ciascun gesto e lo sguardo all’altro in
entrambi i contesti in questo arco di età.
Metodo
Sono stati osservati in laboratorio da 9 ai 18 mesi 18 bambini una volta al mese, sottoposti a una prova di produzione
dell’indicare in contesto sia richiestivo che dichiarativo (Camaioni et al., 2004). Il set utilizzato per elicitare il
comportamento infantile comprende due stimoli per ciascuna delle due condizioni, presentate in modo randomizzato, con tre
ripetizioni per ogni stimolo. Tutte le sessioni sono state videoregistrate con l’utilizzo di due telecamere, una puntata sulla
situazione di svolgimento della prova e l’altra sul bambino.
Sono stati codificati i gesti di estensione dell’indice, indicare e prensione; è stata inoltre codificata l’associazione temporale
di ciascun gesto con lo sguardo, distinguendo la produzione dello sguardo “prima” “durante” e “dopo” il gesto.
Le misure utilizzate per l’analisi consistono nelle frequenze dei comportamenti osservati. Le analisi sono state effettuate
tramite MANOVA a misure ripetute e gli eventuali effetti interazione sono stati esaminati tramite t-test a campioni appaiati.
Risultati
Dalle analisi preliminari condotte su 10 bambini a 9, 12, 15 e 18 mesi di età risulta che:
19
1) l’indicare continua ad aumentare in modo significativo da 15 a 18 mesi sia nel contesto richiestivo che dichiarativo;
l’estensione dell’indice e la prensione a vuoto diminuiscono o restano stabili; in particolare a 18 mesi l’indicare prevale sugli
altri due tipi di gesti sia nel contesto dichiarativo, come già si verificava a 15 mesi, che nel contesto richiestivo, dove
dominava la pensione a vuoto.
2) Tra 9 e 15 mesi in entrambi i contesti, l’indicare senza sguardo all’adulto è maggiore dell’indicare con lo sguardo; a 18
mesi l’andamento si inverte in modo significativo.
3) Fino a 15 mesi, a ciascuna età non vi è differenza nella stessa frequenza di sguardi prima, durante o dopo che
accompagnano l’indicare, sia nel contesto richiestivo che dichiarativo; a 18 mesi nel contesto dichiarativo, lo sguardo prima
dell’indicare è significativamente più frequente dello sguardo durante e dopo il gesto, mentre nel contesto richiestivo non vi
sono differenze tra i tre momenti di associazione dello sguardo.
Conclusioni
Tali risultati confermano l’andamento crescente dell’indicare da 9 a 18 mesi; in particolare l’età di 18 mesi segna la
prevalenza significativa dell’indicare rispetto agli altri gesti sia nel contesto dichiarativo che richiestivo. A questa età
aumenta significativamente anche l’uso dello sguardo in associazione al gesto di indicare. Infine, lo sguardo prima del gesto
è utilizzato in modo significativamente più frequente dello sguardo dopo o durante soltanto nel contesto dichiarativo.
L’insieme di tali risultati viene interpretato alla luce della progressiva capacità del bambino di comunicare in modo
intenzionale e convenzionale sia in contesto richiestivo che dichiarativo.
CARATTERISTICHE DELLA COMUNICAZIONE PREVERBALE NEI GEMELLI: UNO STUDIO SULLA
PRODUZIONE DEL GESTO DI INDICAZIONE CON FUNZIONE DICHIARATIVA.
ROBERTA FADDA, MARINELLA PARISI
Dipartimento di Psicologia, Università di Cagliari
[email protected]
Introduzione
Lo sviluppo delle abilità sociali-che si manifestano nella prima infanzia tramite comportamenti comunicativi di natura non
verbale, quali i gesti di indicazione con funzione dichiarativa-sembra associarsi a fattori di natura ambientale, costituiti dalle
opportunità di interazione che un bambino ha con un adulto o con altri bambini all’intero o all’esterno della famiglia (Lewis
et al., 1996; Jenkins e Astington, 1996; Perner et al., 1994; Peterson, 2000). Lo studio di queste abilità può risultare
particolarmente interessante nei gemelli, che costituiscono un caso particolare in natura in cui due individui condividono la
quasi totalità delle esperienze e delle interazioni sociali. La “twin situation”, ampiamente studiata in relazione allo sviluppo
linguistico (Savic, 1980; Benelli e Carelli, 1986), sembrerebbe produrre un ritardo nelle abilità dei gemelli, soprattutto
quando essi interagiscono tra loro. Per quanto riguarda la competenza comunicativa preverbale, gli effetti della twin situation
sono, allo stato attuale, piuttosto inesplorati. E’ possibile che la condizione di gemellarità costituisca un fattore limitante,
data la difficoltà dei gemelli a percepirsi come singole individualità e la tendenza a considerarsi come un’unità indivisibile,
già ad un livello di sviluppo comunicativo molto precoce. Partendo da tali considerazioni, il presente lavoro si propone di
indagare: 1) se i gemelli, rispetto ai singoli nati, presentano un ritardo nella comunicazione preverbale rivolta, sia al
coetaneo (che, nel caso dei gemelli, è costituito dal co-gemello), sia all’adulto 2) qualora si rilevasse un ritardo in una o in
entrambe le condizioni interattive, si intende esaminare se tale ritardo sia ascrivibile ad ambedue i gemelli o se, invece,
esiste una asimmetria tra i due membri della coppia, similmente a quanto già riscontrato sul piano delle abilità linguistiche
(Fadda e Parisi, 2005).
Metodo
Partecipanti: 24 gemelli (8 M; 16 F; range età= 16-21 mesi; età media=19 mesi; ds=1,76) e 24 nati singoli (7M; 15F; range
età= 16-23 mesi; età media=19 mesi; ds=2,43).
Materiale e Procedura: i bambini sono stati osservati in due contesti interattivi distinti – uno con un coetaneo, l’altro con un
adulto- impiegando una procedura atta ad elicitare la produzione dell’indicazione con funzione dichiarativa
(Perucchini,1997). In entrambe le condizioni interattive, veniva introdotto un oggetto interessante (un palloncino ad elio,
munito di un sonaglio) in posizione distale. Lo schema di codifica utilizzato ha consentito di categorizzare i gesti
dell’indicazione come comunicativi (funzione dichiarativa) e non comunicativi (indicazione per sé).
Risultati
I risultati hanno indicato un ritardo della produzione dei gesti dichiarativi dei gemelli rispetto ai nati singoli nell’interazione
tra pari (gemelli=68%; nati singoli=100%; chi quadrato=15; df=1; p=0.0001) e nell’interazione con l’adulto (gemelli=82%;
nati singoli=95%; chi quadrato=3.102; gdl=1; p=0.039). I gemelli producono inoltre un numero maggiore di indicazioni per
sé quando interagiscono con il co-gemello (gemelli=32%; nati singoli=0%; chi quadrato=15; df=1; p=0.0001) rispetto a
quando interagiscono con l’adulto (gemelli=18%; nati singoli=5%; chi quadrato=3.102; gdl=1; p=0.039). La peculiare
condizione di gemellarità sembra, pertanto, rendere i gemelli più “egocentrici” nell’interazione tra loro, già a livello di
comunicazione preverbale. Non si può, tuttavia, escludere che l’indicazione “per sé” eserciti, all’interno del flusso
comunicativo, una funzione pragmatica, come, ad esempio, quella di sottolineare ulteriormente l’interesse per un oggetto per
20
il quale, in precedenza , tramite la indicazione dichiarativa, è stata già rilevata una attenzione congiunta. Indagando
l’andamento del ritardo tra i due gemelli all’interno di ciascuna coppia, è stata riscontrata un’asimmetria sia nell’interazione
col coetaneo (71% gemelli più abili; 44% gemelli meno abili)- che non risulta tuttavia statisticamente significativa (chi
quadrato= 1,36; gdl=1; p=0.24)- sia nell’interazione con l’adulto, nella quale il gemello più competente produce l’86% di
gesti dichiarativi, rispetto al 67% prodotto dal gemello meno abile (chi quadrato=3.4; gdl=1; p=0.06). Tale asimmetria
potrebbe spiegare il ridursi del ritardo dei gemelli quando interagiscono con un adulto: il gemello più competente,
utilizzando un numero elevato di gesti con funzione dichiarativa, riuscirebbe a supplire alle carenze del co-gemello, rendendo
la coppia una unità comunicativa efficace, nonostante le difficoltà a carico di uno dei due. Tali risultati suggeriscono la
necessità di ulteriori ricerche, che esplorino le possibili origini di tale asimmetria. Un ruolo importante potrebbe essere
giocato dall’input materno che, date le difficoltà delle madri di gestire la comunicazione contemporaneamente con i due
gemelli, potrebbe differire per i due bambini.
LESSICO PSICOLOGICO NELL’INTERAZIONE MADRE-BAMBINO A 20 MESI DI ETA’
EMIDDIA LONGOBARDI, MARIALUISA RENNA
Dip. Psicologia Dinamica e Clinica, Università Sapienza di Roma
[email protected]
Introduzione
Nell’ambito degli studi sull’input è stato evidenziato come il lessico psicologico materno influenzi lo sviluppo della teoria
della mente e vari in base alle caratteristiche del bambino (ad es. genere, livello di sviluppo) (Lecce e Pagnin 2007). Infatti,
le madri tendono ad utilizzare maggiormente i termini emotivi rivolgendosi alle bambine (Fivush 1989) e nel caso di bambini
con ritardo mentale i termini cognitivi sono meno frequenti (Longobardi e Valenti 2006).
Il presente studio si propone di esaminare i riferimenti a stati interni da parte delle madri nell’interazione con il bambino a 20
mesi di età. Inoltre, il lessico psicologico viene esaminato in relazione alle abilità linguistiche dei bambini e in particolare in
funzione dell’ampiezza del vocabolario.
Metodo
Partecipanti
Hanno partecipato alla ricerca 15 coppie madre-bambino all’età di 20 mesi e appartenenti a un livello socio-culturale
omogeneo (medio-alto). I bambini, di madre lingua italiana, sono bilanciati in base al genere (7 bambini e 8 bambine) e
ordine di nascita (8 primogeniti, 7 secondogeniti).
Materiali e Procedura
Per ciascuna diade madre-bambino è stata effettuata un’osservazione videoregistrata (durata 20 min.) in ambiente familiare e
in un contesto di gioco.
Misure
Per ciascuna madre sono stati selezionati 200 enunciati prodotti consecutivamente nel corso dell’interazione con il bambino.
Il lessico psicologico è stato analizzato in base ai seguenti stati interni: Fisiologici, Percettivi, Emotivi (Positivi e Negativi),
Volitivi, Cognitivi, di Giudizio Morale (Camaioni e Longobardi 1997, Baumgartner, Devescovi, D’Amico 2000, Longobardi
e Valenti 2006). Per ciascuna categoria è stato considerato sia il livello di varietà lessicale (Tipi) che di frequenza d’uso
(Frequenze). Riguardo all’attribuzione degli stati interni utilizzati dalle madri sono stati codificati i seguenti riferimenti: “alla
Madre”, “al Bambino”, “a Madre/Bambino” quando la madre attribuisce lo stato interno ad entrambi e “ad Altro” quando la
madre attribuisce lo stato interno a un’altra persona o ad oggetti animati.
Relativamente ai bambini sono state applicate le medesime categorie utilizzate per le madri escludendo i riferimenti ai
giudizi morali. L’attribuzione degli stati interni invece, è stata suddivisa in riferimento “a Sé” e “ad Altro” (persona, animale
o oggetto animato). Inoltre è stato rilevato se la referenza fosse attribuita ad entità “presenti” o “assenti” e in situazione di
“realtà” o “finzione”.
Sul 35% del materiale analizzato è stato calcolato un accordo tra due giudici indipendenti pari a k .85.
Le analisi dei dati sono state condotte sia prendendo in considerazione l’intero gruppo dei partecipanti sia due sotto-gruppi
individuati in base alla produzione linguistica dei bambini. Più specificamente i due sotto-gruppi di bambini sono stati
classificati in termini di varietà lessicale e cioè, ‘alta’ e ‘bassa’. Il gruppo che presenta una varietà lessicale alta è formato da
7 bambini (range di parole prodotte: 109-273; M=167.9; ds=57.2); il gruppo con una varietà lessicale bassa è costituito da 8
bambini (range di parole prodotte: 28-91; M=52.1; ds=29.3).
Risultati
Considerando il gruppo complessivamente, il lessico psicologico rappresenta mediamente il 7% della produzione linguistica
materna. Relativamente alle singole categorie di stati interni, le madri utilizzano più frequentemente termini Percettivi (44%)
e attribuiscono le referenze maggiormente al bambino (63%). Nei bambini, il Lessico Psicologico costituisce in media il 4%
della produzione verbale. In questo caso prevale l’utilizzo dei termini Fisiologici (54%) e le attribuzioni vengono riferite
maggiormente “a Sé” (55%), a “entità presenti” (87%) e in una situazione di “finzione” (58%). L’analisi della relazione tra le
21
misure ha evidenziato una correlazione positiva tra la produzione linguistica materna e il lessico psicologico dei bambini
(rho= .52; p= .05).
Analizzando i due sotto-gruppi individuati in base al livello linguistico dei bambini, sebbene non siano emerse differenze
statisticamente significative, si nota che le madri del gruppo con una variabilità lessicale alta presentano un repertorio (Tipi)
più ampio di riferimenti a stati interni (M=22.4) rispetto all’altro gruppo (M=18.2). Al contrario, le madri del gruppo
caratterizzato da una bassa varietà lessicale utilizzano una maggiore quantità (Frequenze) di lessico psicologico (M=40.2)
rispetto all’altro gruppo (M= 37.9).
I bambini invece, sembrano differenziarsi maggiormente. Infatti il gruppo con una più ampia varietà lessicale mostra una
maggiore produzione di lessico psicologico (Tipi: Z=-2.821 p=.005; Frequenze: Z=-2.551 p=.01) rispetto al gruppo con
minore varietà lessicale. Inoltre i bambini del gruppo che presenta una maggiore variabilità lessicale utilizzano più
frequentemente termini Emotivi rispetto a quelli dell’altro gruppo (Tipi: Z=-1.989 p=.05; Frequenze: Z=-1.985 p=.05).
Riguardo alle attribuzioni, nel gruppo con variabilità lessicale alta prevalgono le referenze “ad Altro” (Z=-2.593; p=.01),
mentre i bambini del gruppo con varietà lessicale bassa riferiscono più spesso “a Sé” gli stati interni (Z=-1.812; p=.07).
LO SVILUPPO DELLA CAPACITÀ DI NASCONDIMENTO NEL RIFERIMENTO: UNA RICERCA CON
BAMBINI DI ETÀ SCOLARE
SERGIO DI SANO, DIANA DE IULIIS
Dipartimento di Scienze Biomediche, Università G. d’Annunzio di Chieti
[email protected]
Introduzione
Quando si comunica non ci si adatta solo al destinatario ma anche ad altre persone presenti che partecipano o non
partecipano alla conversazione. Questo processo viene chiamato: definizione dell’uditorio (Clark, 1996). Quando pianificano
un enunciato i parlanti possono assumere atteggiamenti diversi nei confronti degli astanti, ad esempio di indifferenza o
nascondimento. Clark e Schaefer (1987), in una ricerca svolta con studenti universitari, hanno evidenziato l’impiego di
chiavi segrete e di strategie collaborative per celare informazioni a un astante in un compito di comunicazione referenziale
che prevedeva l’interazione libera tra i partecipanti
Il presente studio riprende il paradigma di Clark e Schaefer (1987) adattandolo a bambini di età scolare per studiare
l’andamento evolutivo di questa competenza.
Metodo
Hanno preso parte alla ricerca 48 triadi di bambini, 24 per il gruppo sperimentale (condizione nascondimento) e 24 per il
gruppo di controllo (condizione indifferenza), 8 per ciascun gruppo di età (prima, terza e quinta elementare).
Nell’ambito della triade, un bambino svolgeva il ruolo di direttore e doveva descrivere una serie di foto secondo l’ordine
dato dalla posizione della foto nell’album. Un altro bambino svolgeva il ruolo di identificatore e aveva davanti le stesse foto
che doveva mettere nello stesso ordine come le aveva il direttore. Un terzo bambino svolgeva il ruolo di astante e doveva
svolgere lo stesso compito dell’identificatore, mentre però il direttore e l’identificatore potevano parlare liberamente tra loro,
l’astante doveva rimanere in silenzio. Venivano poi date istruzioni diverse a seconda della condizione
(nascondimento/indifferenza), rispetto all’atteggiamento che i due partecipanti dovevano avere nei confronti dell’astante. Il
compito coinvolgeva sei sessioni, per ciascuna sessione l’album conteneva le stesse foto ma in ordine diverso.
Risultati
Sono state svolte sia analisi quantitative che qualitative. Quanto al primo aspetto è stato conteggiato il numero di figure
posizionate correttamente, il numero dei turni e delle parole, il tempo impiegato e le previsioni effettuate dai partecipanti
circa l’esito di ciascuna prova. E’ stata effettuata un’analisi della varianza 2 (condizione: nascondimento/indifferenza) x 3
(classe) x 2 (sessione: prima/sesta) x 2 (ruolo di chi posiziona le figure: identificatore/astante) su ciascuna delle variabile
dipendenti prese in esame. I risultati, per quanto riguarda il numero di figure posizionate correttamente, hanno evidenziato
una prestazione più bassa nella condizione nascondimento rispetto a quella indifferenza; tale divario risulta maggiore per
l’astante rispetto all’identificatore e per i bambini di prima rispetto a quelli di terza e quinta. Infine, per entrambe le
condizioni si evidenzia un aumento della prestazione nel corso delle sessioni.
Le analisi qualitative hanno coinvolto la natura del contributo fornito dal direttore e dall’identificatore alla costruzione del
riferimento nel corso del dialogo. In particolare, per ogni turno (definito come alternanza linguistica tra i partecipanti), è stata
conteggiata la presenza di una ripetizione (a livello di sintagma) e/o di un rimodellamento (a livello di enunciato). Per
“rimodellamento” si intende una rielaborazione di quanto detto in un enunciato precedente che può essere di tre tipi:
espansione (aggiunta di informazioni), riparazione (modifica di informazioni), sostituzione (nuove informazioni al posto
delle precedenti). Inoltre, sono stati distinti gli auto-rimodellamenti (rielaborazione di informazioni presentate nello stesso
turno) e gli etero-rimodellamenti (rielaborazione di informazioni presentate in uno dei due turni precedenti). Le analisi,
ancora in corso, sono volte a indagare se i bambini privilegiano gli etero-rimodellamenti rispetto agli auto-rimodellamenti
nella condizione nascondimento, come sembrano fare gli adulti (Mason, 2004).
22
L'ESPRESSIONE DELLA MODALITA’ EPISTEMICA IN BAMBINI CON SVILUPPO TIPICO E CON
DISTURBO SPECIFICO DI LINGUAGGIO
MARIA SILVIA BARBIERI, MARIANNA FILIPPINI
Dipartimento di Psicologia, Università di Trieste
[email protected]
La nozione di modalità si riferisce all’atteggiamento del parlante nei riguardi del contenuto di una proposizione (Merzagora,
1995). Le modalità più studiate da linguisti e psicologi sono la modalità deontica, relativa al dovere e quella epistemica,
relativa al sapere e al credere. Con l’uso della modalità epistemica il parlante esprime il proprio livello di confidenza in ciò
che si afferma nella proposizione che viene qualificato come certo o incerto a diversi livelli.
Nella lingua italiana, le modalità deontica ed epistemica possono venire comunicate attraverso le stesse espressioni,
tipicamente, i verbi modali “dovere” e “potere”, ma la lingua mette a disposizione anche altre forme, sia lessicali come nomi
(ad es. “possibilità”), aggettivi o avverbi, sia grammaticali, come tempi e modi verbali (es “Sarà come dici tu…”).
Mentre disponiamo di molti studi (cfr. Papafragou, 1998 ) relativi ai verbi modali, minore attenzione è stata dedicata all’uso
di espressioni modali diverse dai verbi. Una tale ricerca invece contribuirebbe a conoscere le forme dell’espressione
spontanea della modalità. Ci si può infatti aspettare che i bambini in età prescolare e all’inizio dell’età scolare preferiscano
esprimere la modalità epistemica con forme alternative ai verbi modali in quanto essi tendono ad evitare l’uso di forme
polisemiche come sono, appunto, i verbi “dovere” e “potere”. Questa spiegazione di carattere pragmatico, insieme ad altre di
carattere socio-cognitivo come la maggiore rilevanza della regolazione dell’azione nella vita dei bambini rispetto alla
valutazione delle proprie e altrui rappresentazioni, rende conto della precoce comparsa del sistema modale deontico rispetto a
quello epistemico e del significato esclusivamente deontico inizialmente attribuito ai verbi modali.
Questo lavoro descrive le forme dell’espressione della modalità epistemica nel corso dello sviluppo e presenta i risultati di
due ricerche condotte su soggetti con sviluppo tipico e DSL esaminati allo scopo di comprendere quali aspetti del linguaggio
modale vengano maggiormente compromessi dal disturbo. Nei soggetti DSL risulta spesso molto colpita l‘area morfosintattica che si manifesta con particolari difficoltà nell’uso dei verbi. Ci si potrebbe pertanto aspettare che tali bambini
facciano maggiormente ricorso all’uso di espressioni alternative; tuttavia, prime ricerche relative alla lingua inglese (Leonard
et al., 2003) sembrano indicare che i verbi modali, forse perché più ricchi di significato, sono meno colpiti degli ausiliari in
generale. Dati di questi tipo sono del tutto assenti per quanto concerne la lingua italiana.
Metodo
Il metodo è quello della produzione elicitata. Il compito richiedeva di identificare un oggetto (fiore, annaffiatoio, cono gelato,
anello) sulla base di una serie di cinque immagini, la prima delle quali sfuocata al punto da rendere irriconoscibile l'oggetto,
e poi progressivamente più nitida fino alla totale riconoscibilità. I soggetti dovevano tentare un'identificazione ad ogni figura
ed eventualmente spiegarne le basi.
Nella popolazione con sviluppo tipico sono stati presi in esame 8 gruppi di età di 25 soggetti ciascuno; quattro gruppi di età
dai 3 ai 6 anni e altri quattro rispettivamente di 8, 10, 12, 14 anni e adulti. Per quanto riguarda i soggetti DSL, sono stati
esaminati 45 bambini, 9 femmine e 36 maschi, suddivisi in 4 gruppi con età media rispettivamente di 5;3 (12 bambini), 6;3
(13 bambini), 7;8 (12 bambini), 9;8 (8 bambini).
Il materiale registrato e trascritto è stato codificato in base ad sistema (Barbieri, Bascelli, De Castro, 2001; 2002) che
definisce lo stato epistemico espresso (certezza o incertezza) in base alle categorie grammaticali (verbi mentali, avverbi,
aggettivi, nomi, verbi modali, tempi e modi verbali, interiezioni) e alle forme lessicali usate (e.g. “Forse è un fiore”,
espressione di incertezza espressa dall’avverbio “forse”)
Risultati
Per i soggetti con sviluppo tipico, i risultati indicano che con l'età aumenta il numero di espressioni prodotte e cambiano le
categorie grammaticali usate. I verbi mentali sono la categoria grammaticale usata più di frequente a tutte le età per
esprimere l’incertezza, e quella più precocemente disponibile, insieme agli avverbi. Queste due categorie grammaticali
compaiono già dai 4 anni e si esprimono con il verbo “sembrare” e con l’avverbio “forse”. Per quanto riguarda i verbi
modali, sono usati a 8 anni solo da metà dei soggetti; è solo a 10 anni che circa tre quarti dei soggetti usa l’espressione
“potrebbe essere” per esprimere l’incertezza. L’uso di modi e tempi verbali, come il condizionale e il congiuntivo, appare
intorno ai 10/12 anni, mentre a 3/4 anni, si poteva riscontrare, per lo stesso scopo, un certo uso del futuro indicativo.
I dati di questi soggetti sono stati utilizzati come dati normativi rispetto ai quali comparare le prestazioni dei bambini DSL.
In questi bambini osserviamo le medesime strategie linguistiche dei bambini con sviluppo tipico, anche se con cospicuo
ritardo soprattutto per quanto concerne l’uso di verbi mentali ed avverbi. In questi soggetti è cospicuo anche l’uso di
interiezioni e della forma interrogativa.
23
Simposio 4
GIOVANI E NUOVE TECNOLOGIE: LEGGERE, APPRENDERE,
COMUNICARE E DIVERTIRSI NEL WEB
Proponente: LUCIA MASON
Università di Padova
[email protected]
Discussant: FELICE CARUGATI
Università di Bologna
[email protected]
24
Presentazione
Come le indagini Istat documentano, adolescenti e giovani usano sempre più frequentemente il Web: nel 2006, il 68.6% della
popolazione tra i 18-19 anni dichiarava di servirsene quotidianamente. Ciò sta comportando profondi cambiamenti nei vari
ambiti della loro esperienza, sia percettivo-cognitiva che emotivo-sociale, ponendo nuove questioni all’interesse degli
studiosi di psicologia dello sviluppo e dell’educazione. Questo Simposio è finalizzato ad esaminare, da prospettive teoriche e
metodologiche diverse, l’interazione tra giovani e nuove tecnologie, in particolare l’utilizzo del Web come spazio-tempo
virtuale che può soddisfare molteplici esigenze, dall’acquisire sapere disciplinare all’esprimere sentimenti e opinioni, dal
comunicare informazioni al divertirsi. Gli studi empirici che vengono discussi coinvolgono adolescenti di scuola secondaria
di 2° grado e studenti universitari. Nello specifico, il primo contributo esamina l’uso del computer sia come mezzo di studio
che di svago in relazione ad alcune caratteristiche individuali, ad esempio la percezione di sé e le credenze sulle proprie
capacità e popolarità. Il secondo contributo riguarda la distribuzione dell’attenzione visiva, che emerge dall’analisi dei
movimenti oculari durante la lettura di siti web, in relazione al tipo di pagina e alle differenze individuali. Il terzo contributo
si occupa di processi comunicativi e metacognitivi nell’uso di strumenti multimediali, focalizzandosi sia sulla fruizione che
la creazione di blog, che variano per struttura e contenuto. Infine, il quarto contributo, che si serve del pensiero ad alta voce,
riguarda la produzione spontanea di riflessioni epistemiche sull’autorevolezza delle fonti, nonché la veridicità delle
informazioni nel Web. Le tematiche e le metodologie portate alla discussione in questo Simposio offrono un quadro
aggiornato di aspetti e problemi della ricerca più attuale sulle interazioni dei giovani con il nuovo e complesso universo
virtuale.
IL TEMPO VIRTUALE NELLO SVILUPPO DEGLI ADOLESCENTI: OPPORTUNITA’ O RIFUGIO?
EMANUELA RABAGLIETTI, MARIA FERNANDA VACIRCA
Università di Torino
[email protected]
Introduzione
Gli adolescenti ed i giovani trascorrono sempre più tempo esplorando lo spazio virtuale offerto dalle nuove tecnologie
(Griffiths & Hunt, 2004), soprattutto il computer, utilizzato per studio (ricerche in Internet, preparazione di relazioni per la
scuola, ecc.) o per svago (videogiochi online e non, chat, messenger, ecc.). L’indagine delle relazioni tra l’esplorazione di
tale spazio virtuale e lo sviluppo rappresenta una delle aree emergenti e parzialmente inesplorate della psicologia. Gli studi
attuali oscillano tra due versanti opposti: il ricorso allo spazio virtuale come opportunità di sviluppo oppure come rifugio o
fuga dalle difficoltà dell’affrontare l’adolescenza nella società contemporanea (Colwell & Payne, 2003; Vybíral, Šmahel, &
Divínová, 2005). Tali studi hanno anche evidenziato differenze di genere sia nella prevalenza del fenomeno, sia nei processi
che conducono a un maggiore coinvolgimento: i maschi sembrano più implicati delle femmine; un maggiore coinvolgimento
sembra legato alle relazioni con i coetanei tra i maschi e a una scarsa stima di sé tra le femmine (Colwell, Grady, & Rhaiti,
2004).
Nella nostra nazione gli studi su questi temi sono ancora scarsi.
Riteniamo che per una maggiore comprensione del fenomeno, l’esplorazione dello spazio virtuale vada collocato nel contesto
più ampio della percezione che gli adolescenti hanno di sé, dell’esperienza scolastica, delle credenze sulle proprie capacità di
affrontare con successo alcuni compiti di sviluppo (come il contesto scolastico e relazionale) e della popolarità di cui essi
godono presso i coetanei all’interno del loro spazio reale di sviluppo.
Il presente studio si propone di: 1) descrivere il tempo giornaliero dedicato all’uso del computer per studio e per svago,
considerando anche il cambiamento nel tempo, le relazioni tra questi due comportamenti e le differenze di genere, fascia
d’età e tipo di scuola secondaria; 2) indagare nei due generi le relazioni fra tempo dedicato all’uso del computer per studio e
per svago e: a) senso di alienazione e percezione positiva di sé; b) soddisfazione per l’esperienza scolastica e autoefficacia
scolastica; c) autoefficacia sociale e regolatoria; d) popolarità nel contesto scolastico, nei termini di numero di nomine
ricevute dai compagni di classe o di scuola.
Metodo
Hanno partecipato allo studio 189 adolescenti (106 ragazze, 56%; 83 ragazzi, 44%), di età compresa tra 14 e 20 anni (M
16.2, SD 1.4), frequentanti diversi tipi di scuola secondaria nel Nord-Ovest di Italia (141 studenti di Liceo 75%; 48 studenti
di Istituti tecnici e professionali 25%).
A questi studenti è stato somministrato un questionario anonimo (contenente sia le domande per indagare l’uso del computer,
sia alcune scale tratte da Bonino, Cattelino, & Ciairano, 2007 e Caprara, 2001). Gli adolescenti hanno anche compilato una
versione di nomina dei pari (Ennett & Bauman, 1994) per valutare la popolarità.
La rilevazione dei dati è avvenuta ad inizio e fine dell’anno scolastico.
Risultati
- Più del 50% di adolescenti usa regolarmente il computer sia per studio che per svago: il 30% circa lo usa 1 ora al giorno, il
15% 2-3 ore ed il restante 5% più di 3 ore;
25
- il tempo dedicato al computer non cambia tra le due rilevazioni;
- c’è una forte correlazione tra i due comportamenti (r= .60);
- in entrambi i casi, i ragazzi lo usano più delle ragazze;
- gli studenti di Istituti tecnici e professionali lo usano per svago più dei liceali;
- non si riscontrano differenze di età.
Per le relazioni tra uso del computer, percezione di sé, esperienza scolastica, credenze sulle proprie capacità e popolarità
(analizzate attraverso una serie di regressioni gerarchiche, controllando per il comportamento a T1) emerge un quadro
abbastanza differenziato tra ragazze e ragazzi:
- tra le ragazze un maggiore ricorso al computer per studio si accompagna a insoddisfazione scolastica ( = -.19, R2= .04)
mentre non sono state riscontrate relazioni con l’uso per svago;
- tra i ragazzi un maggiore ricorso al computer per studio si accompagna ad una minore popolarità ( = -.26, R2= .06) mentre
un maggiore uso del computer per svago si accompagna ad una percezione poco positiva di se stessi ( = -.28, R2= .08).
Discussione
Pur consapevoli del bisogno di ulteriori approfondimenti, ci sembra di poter concludere che l’uso del computer assuma
attualmente maggiore rilevanza per i ragazzi rispetto alle ragazze e che esso rappresenti un rifugio più che un’opportunità di
sviluppo: i maschi che lo usano di più sembrano anche meno apprezzati sia da se stessi che dai coetanei.
Ci sembra plausibile inoltre interpretare la relazione con l’insoddisfazione scolastica delle ragazze alla luce di quanto già
evidenziato da Larson (2000) a proposito delle difficoltà delle richieste scolastiche a promuovere un’elevata motivazione
intrinseca tra i propri studenti.
LEGGERE PAGINE WEB PER APPROFONDIRE UN ARGOMENTO: UNO STUDIO DELL’ATTENZIONE
VISIVA ATTRAVERSO I MOVIMENTI OCULARI
NICOLA ARIASI, LUCIA MASON
Università di Padova
[email protected]
Introduzione
Internet è uno strumento sempre più usato, anche per lo svolgimento di compiti scolastici. Quando navigano nella Rete allo
scopo di approfondire un argomento, gli studenti non devono solo saper accedere a informazioni pertinenti (Brand-Gruwel,
Wopereis, & Vermetten, 2005; Lazonder & Rouet, 2008), ma anche valutare la credibilità delle fonti e la veridicità delle
informazioni (Bråten & Strømso, 2006; Mason & Boldrin, 2008). Distribuiscono uguale attenzione alle varie parti di una
pagina Web o si soffermano maggiormente su alcune? L’allocazione della loro attenzione sugli “oggetti” varia in base
all’autorevolezza della pagina? Appare rilevante e utile esaminare come gli studenti visionino i siti Web, avvalendosi di
metodi di indagine “on-line” e misure oggettive dell’attenzione. Nel nostro studio è stata introdotta la tecnica dei movimenti
oculari per indagare l’attenzione visiva allocata dagli studenti all’interno delle pagine, anche al fine di trarre inferenze sui
processi cognitivi di elaborazione delle informazioni. Come evidenziato (Rayner, 1998), gli orientamenti attentivi e le
saccadi sono necessariamente associati, e tale legame sembra ancora più stretto in compiti in cui è richiesta un’elaborazione
complessa delle informazioni.
Lo studio ha avuto due obiettivi: 1) esaminare come gli studenti leggano pagine Web in relazione al tipo di fonte; 2)
esaminare il rapporto fra il comportamento di visione e alcune loro caratteristiche, quali le credenze epistemiche (Stahl &
Bromme, 2007), l’expertise, l’abilità di ragionamento argomentativo (Neuman, 2003) e il need for cognition (Cacioppo &
Petty, 1982). Le ipotesi formulate sono state le seguenti: 1) il comportamento di visione degli studenti all’interno di ciascuna
pagina web non è omogeneo: tipi diversi di informazione riceveranno quantità di attenzione differenti; 2) lo stesso
comportamento fra le pagine web è disomogeneo: informazioni e argomentazioni uguali riceveranno quantità di attenzione
diverse a seconda della pagina; 3) caratteristiche individuali diverse porteranno gli studenti ad allocare quantità di attenzione
differenti sulle informazioni e argomentazioni delle pagine.
Metodo
Sono stati coinvolti 37 studenti universitari: 20 di Biologia e 17 di Psicologia (età media = 22.6), che hanno letto 4 “stimoli
web” composti da 5 tipi di informazione diversi (intestazione, due testi, due figure) e 2 tipi di argomentazione (a sostegno e
contraria) sul “dogma centrale della biologia”. I siti si collocavano lungo un “continuum epistemico” dal più al meno
autorevole: istituzionale, enciclopedico, divulgativo e alternativo. Il comportamento di visione è stato monitorato attraverso
un eye-tracker. Inoltre, sono stati utilizzati il CAEB per rilevare le credenze epistemiche; la Prova di Ragionamento
Argomentativo per misurare la capacità di individuare argomentazioni fallaci; la Need for Cognition Scale per misurare la
tendenza a impegnarsi in compiti cognitivamente complessi.
Risultati
Le ANOVA a misure ripetute sulle variabili tipo di informazione e tipo di pagina web hanno evidenziato:
26
- differenze nell’attenzione allocata sulle diverse informazioni all’interno delle pagina istituzionale, F(2.58, 93.19) =5.26, p <
.01, 2 = .12, divulgativa, F(1.68, 60.56)=13.05, p< .001, 2 = .26, ed enciclopedica, F(1.88, 65.60) = 6.65, p< .01, 2 = .15.
In queste pagine, tipi diversi di informazione hanno ricevuto quantità diverse di attenzione;
- differenze nell’attenzione riservata a informazioni e argomentazioni uguali a seconda della pagina web in cui erano
presentate. L’argomentazione a sostegno ha ricevuto un numero di fissazioni maggiore nel sito istituzionale F(3,10)=2.75, p<
.05, 2 = .07, mentre quella contraria è stata fissata più volte nella pagina alternativa F(3,10)=2.65, p = .05, 2 = .07.
Si può sostenere che il tipo di fonte influenza l’attenzione riservata alle informazioni presenti al suo interno. Le ANOVA
sulle variabili caratteristiche individuali hanno rivelato che:
- gli studenti con credenze epistemiche meno evolute allocavano più attenzione sul testo a sostegno del dogma nel sito
istituzionale, F(1, 35)=13.351, p = .001, 2 = .27;
- un’expertise più bassa (studenti di Psicologia) portava a concentrarsi di più sull’argomentazione a sostegno nell’intera
presentazione, F(1,35)=7.013, p< .05, 2 = .16;
- un’abilità di ragionamento argomentativo più elevata faceva sì che l’argomentazione a sostegno ricevesse grande attenzione
anche nella pagina alternativa, F(1,35)=5.485, p< .05, 2 = .13;
- gli studenti con un need for cognition più basso fissavano più a lungo il testo a sostegno nell’intera presentazione, F(1, 35)=
4.761, p< .05, 2 = .12.
Conclusioni
Questo studio getta luce sulla distribuzione dell’attenzione durante la lettura di informazioni on-line, in rapporto al tipo di
pagina e alle differenze individuali, mostrando come i movimenti oculari possano essere altamente informativi su processi
cognitivi indagati dalla psicologia dell’educazione.
LAVORARE CON I BLOG: TRA (META)COGNIZIONE E COMUNICAZIONE
BARBARA COLOMBO, ALESSANDRO ANTONIETTI, ROBERTA SALA
Università Cattolica di Milano
[email protected]
Introduzione
L’impiego di strumenti multimediali in ambito educativo ha come risultato anche quello di stimolare processi cognitivi più
adeguati (Kramarski & Zeichner, 2001). E’ stato anche messo in evidenza che il processo di apprendimento è facilitato
quando il testo è formulato in maniera narrativa (Mayer et al., 2004). La narrazione, unita a modalità cooperative di
comunicazione a distanza, può essere considerata come una forma di “cognizione distribuita” in cui la conoscenza è situata
in contesti conversazionali (Henning, 2003). Tali contesti, inoltre, facilitano la creazione di stabili comunità virtuali (Garza,
2002).
I blog paiono essere situazioni ecologiche in cui tutte le condizioni sopra elencate sono spontaneamente presenti. Solitamente
un blog, organizzato in modalità narrativa, combina parole e immagini e include collegamenti ipertestuali. Un blog è legato
alla percezione di padronanza del mezzo, mentre il mezzo in sé viene vissuto come tramite per definire la propria identità e
socializzare con i pari (Schmitt, Dayanim, & Shoshana, 2008). In aggiunta, Ellison e Wu (2008) hanno messo in evidenza
come scrivere in un blog posso portare gli studenti a diversificare i punti di vista e possa aumentare la motivazione e la
competenza metacognitiva.
Scopo
Il presente lavoro si propone di presentare 2 studi volti ad indagare le relazioni esistenti tra blog e processi comunicativi e
metacognitivi. Tale relazione è analizzata ponendo i giovani nel ruolo di fruitori di blog nello Studio 1 e considerandoli nel
ruolo di creatori di blog nello Studio 2.
Metodo
Lo Studio 1 considera il ruolo dell’organizzazione dei blog nella promozione di un diverso stile comunicativo e riflessivo
negli studenti universitari. Sono stati creati 4 blog: 2 di tipo informativo (uno legato al mondo universitario e uno alla vita
quotidiana extrauniversitaria) e 2 di tipo narrativo (mondo universitario vs vita quotidiana). Sono poi stati analizzati i
commenti lasciati dai lettori iscritti ai blog in base agli indicatori del sé (coping, sociali, riflessivi).
Lo Studio 2 è finalizzato ad analizzare il ruolo delle differenze individuali e della consapevolezza di tali differenze nella
costruzione e gestione di un blog. Sono stati analizzati 50 blog costruiti da giovani, bilanciati all’interno di 4 categorie di
contenuti. I blog e la loro struttura sono stati analizzati rispetto a: uso delle immagini, rapporto testo/immagine, numero e
contenuto dei post, emozioni veicolate dai post, indicatori del sé. E’ stato chiesto ai proprietari dei blog analizzati di
compilare un questionario sullo stile di pensiero (SOLAT: Torrance et al., 1988) e di rispondere ad alcune domande circa la
loro consapevolezza metacognitiva.
Risultati
27
Studio 1: L’analisi dei commenti ha messo in evidenza come il 60% fosse di tipo narrativo, a prescindere dalla tipologia di
post a cui tali commenti rispondevano. L’uso degli indicatori del sé è risultato sempre più frequente nei testi di tipo narrativo
(frequenza indicatori del sé riflessivo: M=69.5 per i testi narrativi, M=25.5 per testi informativi; coping: M=65.5 vs.
M=45.0). Una differenza significativa è emersa nell’uso degli indicatori del sé sociale, più utilizzati nei testi informativi
(t=4.16, p<.05). Nel complesso emerge una coerenza nelle strategie comunicative dei visitatori dei blog.
Studio 2: I giovani paiono essere in grado di differenziare la struttura del blog a seconda dei contenuti. Tra le differenze più
rilevanti (oltre a quelle prevedibili nei contenuti dei post e nelle emozioni veicolate), si segnalano quelle emerse nell’uso
delle immagini decorative (F(4, 42) = 3.00, p<.05) e nel rispetto del principio di continguità spaziale (F(4, 42) = 3.00, p <
.05). Gli indicatori di coping sono stati registrati con maggior frequenza nel blog personali e in quelli dedicati ad argomenti
specifici (F(4, 42) = 25.65, p < .001), gli indicatori di sé riflessivo e sociale nei blog personali e di commento (F(4, 42) =
7.30, p < .001). Dal confronto tra le categorie di blog e le risposte alle domande metacognitive è emersa una coerenza tra il
contenuto del blog e gli obiettivi comunicativi ( ² (4, N = 46) = 15.99, p < .005). Non è stato possibile individuare alcuna
differenza nell’uso dei blog tra bloggers con diverso stile cognitivo.
Conclusioni
I dati raccolti hanno messo in evidenza come l’uso dei blog possa promuovere strategie di pensiero di tipo narrativo,
consapevolezza metacognitiva e un atteggiamento strategico e comunicativo coerente rispetto al contenuto del blog. È però
emerso come le persone, per quanto in grado di differenziare le strategie, non ne abbiano piena coscienza. Un uso dei blog
più consapevole potrà rivelarsi utile in abito formativo, risultando una motivante “palestra” per spingere i giovani utilizzare
in modo pertinente le proprie risorse.
NAVIGARE NEL WEB PER CERCARE INFORMAZIONI SU UNA QUESTIONE CONTROVERSA.
GLI STUDENTI SONO ATTIVI EPISTEMICAMENTE?
ANGELA BOLDRIN, LUCIA MASON
Università di Padova
[email protected]
Introduzione
La ricerca di conoscenze tramite Internet è una pratica molto utilizzata dagli studenti. Mediante un semplice click, hanno
accesso a moltissimi documenti che, tuttavia, spesso non sono in grado di selezionare, valutare e gestire in modo efficace
(Fidel et al., 1999; Schacter, Chung, & Dorr, 1998; Wallace et al., 2000). La nozione di “nuova alfabetizzazione” (Leu, 2002)
fa riferimento alla necessità di includere le information skills che chi naviga nella Rete deve possedere per costruire
conoscenza attraverso la nuova tecnologia dell’apprendimento. I pochi studi condotti (Brem, et al., 2001; Clark & Slotta,
2000; Mason & Boldrin, 2008) hanno evidenziato che quando esplicitamente sollecitati a farlo, studenti di vario livello
scolare non sapevano giudicare la credibilità delle fonti e la veridicità dei contenuti. L’abilità di selezionare, valutare e
interpretare le informazioni a cui si accede nel Web è influenzata dalla credenze, più o meno ingenue, sulla conoscenza e il
conoscere (Hofer & Pintrich, 1997, 2002). Considerata la natura particolare del compito richiesto a chi usa Internet per
saperne di più su un argomento, è rilevante, da un lato, situare e indagare la riflessione epistemica come dimensione
particolare della metacognizione (Kuhn, 2000; Hofer, 2004) e, dall’altro, considerare il pensiero epistemico “in azione”,
ossia quando vengono spontaneamente prodotte riflessioni sulla conoscenza in un contesto di apprendimento sempre più
diffuso.
Il nostro studio ha avuto lo scopo di indagare: 1) se studenti di scuola secondaria di 2° grado esprimessero spontaneamente
riflessioni epistemiche durante la ricerca di materiale informativo nel Web; 2) se fossero individuabili pattern di riflessone
epistemica spontanea; 3) se differenze individuali in termini di preconoscenze, abilità di ragionamento argomentativo e need
for cognition fossero associate a riflessioni epistemiche più evolute, nonché a un miglior apprendimento concettuale. Si era
ipotizzato che gli studenti avrebbero verbalizzato riflessioni epistemiche, anche se a livelli diversi di complessità e che
fossero individuabili dei pattern di pensiero epistemico in azione. Ci si attendeva inoltre che maggiore conoscenza, abilità di
ragionamento argomentativo e tendenza a coinvolgersi in compiti cognitivi complessi avrebbero facilitato l’attivazione
epistemica, così come l’apprendimento dal Web.
Metodo
Allo studio, parte di un più ampia ricerca, hanno partecipato 64 studenti di 4^ e 5^ classe di scuola secondaria di 2° grado
(F=33, M=31). Inizialmente sono stati rilevati: a) le preconoscenze; b) l’abilità di ragionamento argomentativo e il c) Need
for Cognition (Cacioppo & Petty, 1982). Sono state controllate anche l’esperienza nella ricerca on-line e la memoria verbale
e visuospaziale. In seguito, agli studenti è stato chiesto di svolgere una ricerca di informazioni in Internet sulla questione
“L’uso del telefono mobile provoca danni alla salute?”, e sono stati invitatati a pensare ad alta voce durante la ricerca. Al
termine, è stata presentata una prova di apprendimento, valutata in base al numero e correttezza delle informazioni. La
codifica dei protocolli del pensiero ad alta voce è avvenuta a tre livelli: 1. individuazione delle unità di testo in cui erano
espresse riflessioni epistemiche secondo le dimensioni individuate in letteratura (Hofer, 2000); 2. individuazione della
28
particolare categoria di risposta in ciascuna dimensione; 3. individuazione del livello di sviluppo di ogni riflessione
epistemica.
Risultati
La maggior parte degli studenti (82.8%) esprimeva spontaneamente riflessioni epistemiche di diverso livello di complessità,
in particolare più sulla fonte che sulla giustificazione, Z (test di Wilcoxon) =4.21, p<.001, semplicità, Z=4.21, p<.001, e
stabilità della conoscenza, Z=5.87, p<.001. Da un’analisi dei cluster con metodo di Ward sono emersi due pattern di
riflessioni sulla conoscenza: il primo cluster (41.5%) era caratterizzato dalla valutazione della credibilità delle fonti e delle
evidenze a supporto delle informazioni; il secondo cluster (58.5%) solo da riflessioni sulle fonti. Un test di Mann-Whitney ha
evidenziato che i pattern differivano per la dimensione relativa alla giustificazione della conoscenza, Z=- 6.96, p<.001.
Inoltre, è risultato che più gli studenti avevano conoscenze iniziali, più erano attivi epistemicamente (r=.33, p<.05). Infine,
l’apprendimento di nuove conoscenze era significativamente influenzato dall’abilità di ragionamento informale, F(1,
48)=6.46, p<.05, 2 =.12. Gli studenti più abili a individuare fallacie argomentative, apprendevano di più e meglio sulla
questione controversa.
Conclusioni
Di fronte all'uso di Internet come mezzo di apprendimento ad età sempre più giovani, diviene importante comprendere come
gli studenti valutano e gestiscono le informazioni, al fine di aiutarli a sviluppare abilità di metacognizione epistemica
raffinate ed essere consumatori informati di conoscenze.
29
Simposio 5
COMPETENZE LINGUISTICHE E MODALITÀ INTERATTIVE: BAMBINI
CON PROFILI TIPICI, ATIPICI E A RISCHIO A CONFRONTO
Proponenti: ALESSANDRA SANSAVINI (1), MARIA CRISTINA CASELLI (2)
(1) Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna.
(2) Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, CNR – Roma
[email protected]
Discussant: MARIA LUISA GENTA
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
[email protected]
30
Presentazione
Per comprendere i processi coinvolti nell’acquisizione e nell’uso di abilità comunicative e linguistiche è estremamente utile
confrontare diverse popolazioni di bambini, con sviluppo tipico e con profili cognitivi e/o linguistici atipici o a rischio. E’
inoltre importante esaminare specifiche competenze e le loro relazioni, in più momenti evolutivi, tenendo conto della
continua interazione tra maturazione neurobiologica e stimolazioni ambientali (Karmiloff-Smith, 2007). Questo simposio si
propone quindi di presentare alcune ricerche che hanno indagato diversi aspetti, individuali e interattivi, dello sviluppo
linguistico nell’infanzia e in età prescolare, con rigorosi criteri metodologici. A tal fine gruppi di bambini con
disturbi/difficoltà di linguaggio, determinati da sindromi genetiche (sindrome di Down –SD), disturbi evolutivi specifici
(ritardo/disturbo specifico del linguaggio – R/DSL) e condizioni neonatali di rischio (nascita pretermine – NP) sono stati
messi a confronto con bambini con sviluppo tipico (ST).
In particolare, tre ricerche hanno esaminato specifiche competenze linguistiche e le loro relazioni in bambini con sviluppo
atipico (lessico e morfosintassi in bambini con SD; lessico e semantica in bambini con DSL) e a rischio (lessico, grammatica
e consapevolezza fonologica in bambini con NP), individuando alcune peculiari difficoltà/disturbi, ma al tempo stesso
relazioni tra le competenze. Altre due ricerche hanno invece analizzato le strategie comunicative tra madre e bambino con
sviluppo atipico (bambini con SD e bambini con R/DSL), evidenziando differenze nelle modalità comunicative rispetto alle
coppie madre-bambino con ST, ma al tempo stesso una reciproca influenza tra enunciati materni e responsività infantile in
tutti i gruppi.
LESSICO E MORFOSINTASSI NELLA PRODUZIONE SPONTANEA DI BAMBINI CON SINDROME DI DOWN
LAURA ZAMPINI, LAURA D’ODORICO
Dipartimento di Psicologia, Università di Milano-Bicocca
[email protected]
Introduzione.
Un importante dibattito nello studio dello sviluppo linguistico è quello relativo alla possibilità di considerare lessico e
morfosintassi come due distinti e separati domini (Ullman, Corkin, Coppola, Hickok, Growdon, Koroshetz e Pinker, 1997),
oppure come parti interdipendenti di un unico sistema (Bates e Goodman, 1999).
I dati relativi allo sviluppo del linguaggio nei bambini con sindrome di Down [SD] sono stati frequentemente utilizzati a
sostegno dell’ipotesi dell’esistenza di due distinti meccanismi, dato il riscontro, in questa popolazione, di una maggiore
compromissione a livello morfosintattico, rispetto ad abilità lessicali relativamente preservate (Fowler, 1990).
Tuttavia, in uno studio su bambini SD di lingua italiana, Vicari, Caselli e Tonucci (2000) rilevano come, nonostante lo
svantaggio nell’area morfosintattica, l’ampiezza lessicale dei bambini, valutata indirettamente tramite il questionario Il Primo
Vocabolario del Bambino (Caselli e Casadio, 1995) risulti significativamente correlata sia con la complessità sintattica
rilevata tramite il PVB, sia con i dati relativi alla produzione e comprensione morfosintattica in test strutturati.
Lo scopo del presente studio è quello di indagare le differenze esistenti a livello dello sviluppo morfosintattico fra bambini
SD e bambini con sviluppo tipico [ST] (comparabili sia sulla base delle abilità lessicali, sia dell’età di sviluppo) attraverso
l’analisi delle produzioni spontanee, in modo da poter prendere in considerazione anche l’utilizzo delle forme di transizione
che mediano il passaggio dalla produzione di parole in contesto isolato alla produzione di strutture sintattiche.
Metodologia.
Hanno preso parte al presente studio 26 bambini: 13 SD e 13 ST. L’età cronologica media dei SD è pari a 54 mesi (range
40;13–64;17), mentre la loro età di sviluppo media, valutata tramite la Scala di Sviluppo Psicomotorio Brunet–Lézine
(1975), è di 31 mesi (range 24;09–37;00). L’ampiezza del vocabolario è stata, invece, valutata attraverso la somministrazione
ai genitori del questionario PVB; il numero medio di parole prodotte dai bambini SD è pari a 448 (range 380–502).
I bambini ST, inseriti nel gruppo di controllo, sono stati selezionati sulla base dell’età cronologica, corrispondente all’età di
sviluppo media dei SD (M = 30; range 29;27–31;08), e sulla base dell’ampiezza del vocabolario, equivalente a quella
dell’altro gruppo (M = 448; range 379–515).
La produzione comunicativa spontanea di ciascun bambino è stata rilevata tramite l’effettuazione di una seduta
videoregistrata di gioco semi-strutturato in interazione con un genitore.
Tutti gli enunciati prodotti sono stati successivamente trascritti utilizzando il sistema CHILDES (MacWhinney, 1985) e
classificati sulla base di uno schema di codifica gerarchico, le cui principali categorie sono: enunciati Preverbali,
Monorematici, Monorematici con Funtore (ad esempio, articolo+nome, oppure congiunzione+verbo), Forme di Transizione e
Produzioni Sintattiche, suddivise al loro interno in Combinazioni di Parole (due o più parole semanticamente associate e
prodotte in stretta successione temporale), Frasi Semplici (enunciati contenenti un verbo e completi dal punto di vista
morfologico) e Frasi Complesse (proposizioni comprendenti più di un verbo).
Risultati.
Dalle analisi parziali dei dati, per quanto riguarda lo sviluppo lessicale, emerge come non vi siano differenze significative fra
i due gruppi a livello del numero medio di parole diverse prodotte (Type); risulta essere, invece, significativamente maggiore
31
nei ST la frequenza (Token) con cui tali parole vengono utilizzate nel corso della seduta. Anche la composizione del
vocabolario presenta delle differenze significative fra i gruppi, con una maggiore percentuale di parole riferite a routine e
nomi di persone nel lessico dei SD ed una proporzione più elevata di funtori ed avverbi nel vocabolario dei ST.
Per quanto riguarda il livello di complessità morfosintattica, emerge come non vi siano differenze significative né nel
numero totale di enunciati prodotti, né nella frequenza di produzione dei Monorematici, delle Forme di Transizione e delle
Combinazioni di Parole. Risulta essere, invece, significativamente più elevata nei ST la produzione di Monorematici con
Funtore e la frequenza di produzione di Frasi Semplici e di Frasi Complesse (queste ultime quasi del tutto assenti nel gruppo
SD).
Nonostante le differenze riscontrate a livello delle Produzioni Sintattiche, è comunque possibile rilevare come, per entrambi i
gruppi, vi sia una correlazione positiva significativa fra il numero dei Type prodotti nel corso della seduta e la frequenza di
Produzioni Sintattiche.
Dalla considerazione complessiva dei risultati è possibile confermare come esista una difficoltà specifica a livello
morfosintattico da parte dei SD, influenzata in modo particolare dalla scarsa produzione di funtori, ma, nonostante questo, lo
sviluppo lessicale e sintattico risultano essere correlati anche all’interno di questa popolazione.
LO SVILUPPO SEMANTICO IN BAMBINI PRESCOLARI CON DISTURBO SPECIFICO DEL LINGUAGGIO
GIOVANNI MASCIARELLI (1), MARGHERITA ORSOLINI (2), RACHELE FANARI (3), ANGELA SANTESE (2),
CARMEN BELACCHI (4)
(1) C.R.C. Centro Ricerca e Cura della Balbuzie e dei Disturbi del linguaggio e della Voce, Roma
(2) Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione, Università di Roma “ La Sapienza”
(3) Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Cagliari
(4) Istituto di Psicologia “L.Meschieri”, Università di Urbino “Carlo Bo”
[email protected]
Introduzione
I cambiamenti nella composizione del lessico durante lo sviluppo sono diventati gli indicatori principali della strutturazione e
dell’ampliamento delle rappresentazioni semantiche dei bambini. Gli studi di Gathercole e coll. hanno mostrato che una
limitata capacità nella memoria a breve termine fonologica determina una difficoltà nell’apprendimento di parole nuove
(Gathercole et al. 1992; Bishop, 1997) ed è noto il ruolo dei fattori individuali e relazionali possono influire negativamente
sullo sviluppo del lessico (Golinkoff et al.; 1994; Girolametto et al., 1996). Inoltre, diverse ricerche hanno indagato lo
sviluppo semantico nei bambini in età prescolare e scolare considerando i cambiamenti che i bambini mostrano,
nell’organizzazione nel sistema semantico (Blewit et al, 1991; Lucariello et al., 1992; Hashimoto et al., 2007). Si aggiungono
poi gli studi che hanno indagato la capacità dei bambini nell’esplicitare le relazioni semantiche tra i concetti e le parole
(Belacchi et al. 2007).
Gli studi sui bambini con disturbi del linguaggio aggiungono interessanti osservazioni sullo sviluppo semantico e sul suo
rapporto con l’ampliarsi del lessico. Alcuni studi hanno messo in rilievo il fatto che basse rappresentazioni semantiche
possono determinare un basso livello di sviluppo lessicale e difficoltà nel recupero lessicale (McGregor et al.2002;
Brackenbury et al. 2005; Capone et al., 2005).
Il nostro lavoro si propone di indagare diverse componenti dello sviluppo semantico in bambini con disturbo specifico del
linguaggio. In particolare, abbiamo voluto indagare il tipo di relazioni tematiche/tassonomiche rappresentate e le operazioni
effettuate su queste rappresentazioni in relazione al profilo cognitivo-linguistico dei singoli soggetti.
Metodo
Partecipanti
Sette bambini di età compresa tra 4 ed 6 anni sono stati reclutati e valutati presso un centro di riabilitazione del linguaggio.
Quattro bambini presentavano un disturbo del linguaggio espressivo, gli altri tre un disturbo del linguaggio di tipo misto
(recettivo/espressivo).
Procedura
Tutti i bambini hanno effettuato una valutazione neuropsicologica. I bambini hanno, successivamente, completato la Batteria
per la valutazione delle abilità semantiche in bambini di età prescolare (Belacchi, Fanari, Masciarelli, Orsolini, Santese, in
preparazione) ed una prova di inferenze finalizzata ad osservare come i bambini inferiscono il significato di una nonparola a
partire da un contesto di drammatizzazione di brevi storie.
La batteria si compone di 4 prove: 1) Prova di Contestualizzazione: il bambino indica il contesto d’uso appropriato per 36
esseri animati/inanimati target; 2) Prova di Categorizzazione: il bambino individua all’interno di 4 figure, quella che non
c’entra con le altre. 3) Prova di Memoria di parole: il bambino apprende e recupera 36 coppie composte da una parola e da
un’immagine accoppiate in base ad un legame semantico, associativo o senza relazione. 4) Prova di Definizione: il bambino
definisce 4 nomi, 4 verbi e 4 aggettivi.
Risultati
32
Tutti i bambini con disturbo del linguaggio espressivo, ottengono un profilo di risultati con punteggi nella media per quanto
riguarda le prove di Contestualizzazione e Categorizzazione, fatto che testimonia la presenza di una rete concettuale
organizzata per quanto riguarda la dimensione categoriale e contestuale. Tuttavia, diversamente dai bambini con sviluppo
tipico (dati normativi della batteria di Belacchi, Fanari, Masciarelli, Orsolini, Santese, in preparazione) non si presentano gli
effetti facilitatori dei legami associativi e semantici nella prova di memoria di parole pur in presenza di un livello di sviluppo
adeguato della memoria a breve e lungo termine verbale.
Tutti i bambini con disturbo del linguaggio recettivo/espressivo ottengono punteggi nella media per quanto riguarda le prove
di Contestualizzazione e Categorizzazione anche in questo caso testimoniando la presenza di una rete organizzata per quanto
riguarda la dimensione categoriale e contestuale. Di nuovo, questi bambini non mostrano gli effetti facilitatori dei legami
associativi e semantici nella prova di memoria di parole. Inoltre, diversamente dai bambini con disturbo del linguaggio
espressivo si evidenziano notevoli difficoltà nella prova di inferenze semantiche. Discutiamo le caratteristiche comuni e le
differenze dei due gruppi di bambini in relazione al profilo cognitivo-linguistico e al profilo delle abilità semantiche.
LESSICO, GRAMMATICA E CONSAPEVOLEZZA FONOLOGICA IN BAMBINI NATI PRETERMINE
ANNALISA GUARINI (1), ALESSANDRA SANSAVINI (1), CRISTINA FABBRI (1), SILVIA SAVINI (1), ROSINA
ALESSANDRONI (2), GIACOMO FALDELLA(2), ANNETTE KARMILOFF-SMITH (3)
(1) Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Bologna
(2) Unità di Neonatologia, Università degli Studi di Bologna
(3) Developmental Neurocognition Lab, Birkbeck, University of London
[email protected]
Introduzione
In riferimento allo sviluppo del linguaggio orale alcuni studi condotti in ambito nazionale e internazionale hanno mostrato
che la nascita pretermine può costituire un fattore di rischio: i bambini pretermine presentano infatti alcune difficoltà nel
lessico e nella grammatica nei primi anni di vita, che aumentano nel caso di più elevata immaturità neonatale (Foster- Cohen
et al., 2007; Kern & Gayraud, 2007; Sansavini et al., 2006, 2007). Meno numerosi sono gli studi che hanno indagato in
questi bambini le competenze linguistiche prima dell’ingresso alla scuola primaria (Luoma et al., 1998) e scarse le indagini
sulle competenze di consapevolezza fonologica (Wolke & Meyer, 1999), importante anello di congiunzione con il linguaggio
scritto. Inoltre, raramente sono state indagate in questa popolazione le relazioni tra competenze linguistiche (Sansavini et al.,
2006) che possono contribuire a descriverne la traiettoria evolutiva e a comprendere i processi sottostanti alle difficoltà che
emergono durante lo sviluppo (Karmiloff-Smith, 2006).
Il nostro studio ha quindi l’obiettivo di indagare gli effetti della nascita pretermine su specifiche competenze linguistiche
(lessico, grammatica, consapevolezza fonologica) e sulle loro relazioni al termine dell’età prescolare, confrontandole con le
competenze di bambini nati a termine.
Metodo
Partecipanti. Cinquantanove nati pretermine italiani monolingui, senza danni neurologici e motori permanenti, di età
gestazionale 33 settimane (e.g. media= 29.8 settimane, DS= 2.2, range= 24-33; peso medio= 1139.4g, DS= 326.3, range=
600-1980) sono stati esaminati alla fine dell’ultimo anno della scuola dell’infanzia (età cronologica media= 73 mesi, DS=
3.4, range= 65-80) e sono stati confrontati con un gruppo di controllo di 24 bambini nati a termine italiani monolingui senza
complicazioni neonatali (età cronologica media= 72.5 mesi, DS = 3.5, range = 66-78)). Le analisi condotte hanno mostrato
una distribuzione simile delle variabili sociodemografiche (età, sesso, livello di istruzione materno e paterno) nei due gruppi.
Strumenti. Sono stati indagati la produzione lessicale (Test di Vocabolario Figurato, Brizzolara et al., in prep.), la
comprensione grammaticale (Test di Comprensione Grammaticale per Bambini, TCGB, Chilosi e Cipriani, 1995), la
consapevolezza fonologica (riconoscimento della sillaba iniziale e del fonema iniziale, rime, sintesi e segmentazione sillabica
e fonemica, fluenza sillabica e fonemica, Martini, Bello, Pecini, 2003), lo sviluppo cognitivo (K-BIT, Kaufman e Kaufman,
1990; versione italiana, Bonifacci, Santinelli, Contento, 2007).
Procedura. La somministrazione delle prove è stata videoregistrata.
Risultati
I nati pretermine compiono più errori nella produzione lessicale [t(81) = 4.86, p <.001] e nella comprensione grammaticale
[t(81) = 6.06, p <.001] e producono un numero minore di risposte corrette in alcune prove di consapevolezza fonologica
[riconoscimento della sillaba iniziale: t(81) = -2.82, p = .006; rime: t(81) = -3.08, p = .003; sintesi fonemica: t(81) = -2.05, p
= .048], mentre non mostrano differenze significative rispetto ai nati a termine nello sviluppo cognitivo generale. Nei nati
pretermine sono inoltre emerse relazioni significative tra lessico e grammatica, lessico e consapevolezza fonologica
(riconoscimento della sillaba e del fonema iniziale, rime, segmentazione fonemica), grammatica e consapevolezza fonologica
(riconoscimento della sillaba e del fonema iniziale, fusione e segmentazione fonemica, fluenza fonemica). Un numero
minore di relazioni è stato riscontrato nei nati a termine, con alcuni punteggi r simili ai nati pretermine, anche se non sempre
significativi a causa della diversa numerosità dei campioni. In particolare, sono emerse relazioni tra: lessico e grammatica,
33
lessico e consapevolezza fonologica (riconoscimento della sillaba iniziale, rime, fusione fonemica), grammatica e
consapevolezza fonologica (segmentazione fonemica).
I risultati ottenuti indicano che la nascita pretermine ha effetti su specifiche competenze del linguaggio orale, lessico,
grammatica e consapevolezza fonologica, fino al termine dell’età prescolare, mentre non sono emerse differenze significative
con i nati a termine nello sviluppo cognitivo globale. Inoltre le relazioni tra le competenze linguistiche indagate appaiono,
nei nati pretermine, più numerose e in parte specifiche rispetto a quelle presenti nei bambini nati a termine. L’insieme dei
risultati emersi permette di evidenziare come la traiettoria evolutiva dei nati pretermine sia diversa dallo svilupo tipico dei
nati a termine.
QUANDO LE PAROLE NON BASTANO: CONDIVISIONE DELL’ATTENZIONE E DELL’AZIONE
FRA MADRE E BAMBINO CON SINDROME DI DOWN
MARTINA RECCHIA (1) (2), MARIA CRISTINA CASELLI (1), JANA M. IVERSON (3), EMIDDIA LONGOBARDI (4)
(1) Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, CNR – Roma
(2) Dip. di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione, Università La Sapienza, Roma
(3) University of Pittsburg, Pittsburg
(4) Dip. di Psicologia Dinamica e Clinica, Università La Sapienza, Roma
[email protected]
Introduzione
Il profilo neuropsicologico dei bambini con sindrome di Down (SD) è caratterizzato da disomogeneità tra abilità cognitive e
linguistiche, queste ultime più povere di quanto atteso sulla base dell’età mentale (Vicari et al. 2004; Chapman, 1995). Molto
rilevanti sono i problemi di attenzione e di coordinamento visivo. In particolare i bambini con SD si mostrano meno attivi
con gli oggetti rispetto ai bambini con sviluppo tipico (ST) ed evidenziano difficoltà specifiche nel coordinare lo sguardo tra
l’oggetto e la persona (Krakow e Kopp, 1983). Tali difficoltà potrebbero interferire con il primo sviluppo linguistico
riducendo, per questi bambini, le occasioni di condivisione dell’attenzione con gli adulti e privandoli del legame referenziale
tra l’oggetto e l’etichetta verbale prodotta dall’adulto (Lagerstee et al. 2002). Il presente lavoro analizza le strategie di
controllo dell’azione e dell’attenzione utilizzate da madri di bambini con SD e l’efficacia delle diverse strategie e modalità
comunicative (vocali, miste, gestuali) nel dirigere il comportamento del bambino. I dati sono confrontati con quelli relativi a
coppie di madri e bambini con ST.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 10 coppie madre-bambino, 5 con bambini con SD (EC media= 47.6 mesi) e 5 con bambini con
ST di pari livello di sviluppo linguistico (PVB). Le coppie sono state videoregistrate in ambiente familiare.
Abbiamo preso in considerazione gli atti comunicativi materni prodotti con la funzione di controllare l’attenzione e/o
l’azione del bambino. La griglia di codifica utilizzata, prevede tre categorie relative al contenuto degli atti e tre relative alla
struttura. Relativamente al contenuto le categorie sono:
a) elicitazione dell’attenzione o dell’azione del bambino, qualora questi si trovi in una situazione di non interesse verso una
fonte di stimolo;
b) mantenimento del focus di attenzione o di azione;
c) cambio del focus di attenzione o di azione del bambino già interessato ad una fonte di stimolo.
Relativamente alla struttura gli atti comunicativi sono stati codificati come:
a) verbali;
b) non verbali (gesti e/o azioni);
c) misti.
Per quanto riguarda i bambini sono stati rilevati i comportamenti verbali e non verbali prodotti in risposta al comportamento
materno: enunciati verbali e gestuali, attenzione o azione verso un oggetto, alternanza dello sguardo tra la madre e l’oggetto.
Risultati
I risultati mostrano che a parità di frequenza di atti di controllo (madri di SD media = .40; madri di ST media = .35), in
entrambi i gruppi viene utilizzata maggiormente una strategia di controllo dell’azione. Tuttavia le madri dei bambini con SD
utilizzano questa modalità in proporzione significativamente maggiore rispetto alle madri di bambini con ST (madri di SD
media = .80; madri di ST media = .65). Non risultano significative le differenze nelle altre variabili considerate. Infatti per
quanto riguarda il contenuto degli atti comunicativi emerge, in entrambi i gruppi, una netta prevalenza del mantenimento del
focus già stabilito (madri di SD media = .80; madri di ST media = .74), rispetto all’elicitazione (madri di SD media = .10;
madri di ST media = .16), e al cambio (madri di SD media = .09; madri di ST media = .10). Per quanto riguarda la struttura
degli atti si osserva una distribuzione simile delle diverse categorie, nei due gruppi di madri: i più rappresentati sono gli atti
in cui all’enunciato verbale si accompagnano gesti e/o azioni (madri di SD media = .59; madri di ST media = .51), seguiti
dagli atti solo verbali (madri di SD media = .32; madri di ST media = .30); infine solo una piccola proporzione di atti di
controllo si realizza attraverso una modalità non verbale (madri di SD media = .04; madri di ST media = .07). Questo
34
risultato suggerisce che il supporto fornito dalla componente non verbale a quella verbale risulta particolarmente frequente
proprio negli enunciati direttivi, qualora si renda necessario fornire un elemento che possa favorire l’individuazione del
referente del messaggio prodotto. Questo può aiutare il bambino a comprendere la richiesta formulata dal genitore e quindi
ad eseguirla. Questa ipotesi sarà verificata analizzando l’efficacia della comunicazione materna attraverso le risposte verbali
e non verbali prodotte dal bambino. Sarà discusso il ruolo delle diverse strategie comunicative e delle diverse modalità
(verbali e non verbali) nel sostenere e promuovere l’attenzione e la comunicazione del bambino. I risultati, inoltre, possono
avere interessanti risvolti educativi e clinici, indirizzando: genitori, insegnanti e clinici nella pianificazione di interventi
educativi/terapeutici che tengano conto del ruolo dei gesti e di appropriate strategie interattive al fine di favorire lo sviluppo
del linguaggio e delle abilità comunicative nei bambini con SD.
LE RISPOSTE INFANTILI E LE RIPARAZIONI MATERNE DURANTE LA LETTURA CONGIUNTA CON
BAMBINI CON RITARDO/DISTURBO SPECIFICO DEL LINGUAGGIO
CHIARA BARACHETTI, MANUELA LAVELLI
Dipartimento di Psicologia e Antropologia Culturale, Università degli Studi di Verona
[email protected]
Introduzione
Numerosi studi indicano che le madri in interazione con bambini con ritardo o disturbo del linguaggio sostengono la maggior
parte del carico conversazionale, utilizzano più enunciati direttivi e rivolgono più domande chiuse, rispetto alle madri di
bambini con sviluppo linguistico tipico (Conti-Ramsden, 1990; Evans, Schmidt, 1991; Hammett, Van Kleeck, Huberty,
2003). La questione aperta relativa all’efficacia vs. inadeguatezza di questi comportamenti materni nel sostenere la
comunicazione del bambino necessita di estendere l’analisi all’influenza dei comportamenti infantili su quelli materni, come
indicato dall’approccio che sottolinea la reciprocità dell’influenza nell’interazione. In proposito, uno studio recente (Vander
Woude, Barton, 2003) suggerisce che le differenze riscontrate nell’input comunicativo delle madri dei bambini con
ritardo/disturbo del linguaggio potrebbero essere in parte ricondotte alla necessità di stimolare e correggere le risposte
infantili. In effetti, gli studi focalizzati sulla partecipazione alla conversazione di questi bambini indicano una minore
responsività rispetto ai coetanei con sviluppo linguistico tipico (Bishop, Chan, Adams, Hartley, Weir 2000; Hadly, Rice,
1991). Tuttavia, gli studi che adottano una prospettiva bidirezionale nell’indagare l’efficacia delle strategie conversazionali
materne con i bambini con ritardo o disturbo specifico del linguaggio sono ancora scarsi. Il presente lavoro approfondisce
l’analisi dell’influenza reciproca tra gli enunciati materni finalizzati a correggere le risposte dei bambini (riparazioni
correttive) con ritardo/disturbo specifico del linguaggio (R/DSL) e la responsività infantile durante l’attività di lettura
congiunta. Lo studio si propone i seguenti obiettivi: (1) Esaminare eventuali differenze significative nelle caratteristiche delle
risposte infantili e delle riparazioni materne tra le diadi con bambini con R/DSL vs. le diadi con bambini con sviluppo
linguistico tipico. (2) Esaminare l’efficacia delle riparazioni materne nel promuovere la partecipazione attiva e appropriata
dei bambini con R/DSL.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 30 bambini d’età prescolare e le loro madri: (a) 10 bambini con ritardo/disturbo specifico del
linguaggio di tipo espressivo (età media: 55ms; range: 42ms-64ms); (b) 10 bambini con sviluppo linguistico tipico appaiati ai
primi per età cronologica (età media: 52ms; range: 46ms-60ms, 1° gruppo di confronto); 10 bambini con sviluppo linguistico
tipico appaiati ai primi per LME in parole (età media: 34ms; range: 24ms-39ms ; 2° gruppo di confronto). Ogni diade madrebambino è stata videoregistrata durante 4 sessioni di lettura congiunta a casa, con libri di immagini (descrittivi e narrativi)
non familiari. Le conversazioni sono state trascritte secondo il sistema CHILDES (Mac Whinney, 1991). Nel flusso delle
conversazioni sono state quindi individuate le sequenze “domanda materna-risposta infantile-valutazione materna
(riparazione o validazione)-risposta infantile. Le risposte infantili sono state codificate secondo 4 categorie (assente,
inadeguata, minima, adeguata) sulla base dell’appropriatezza del contenuto e della produttività (cfr. Bishop et al., 2000); le
riparazioni materne sono state codificate come: diretta (contiene la risposta attesa) vs. indiretta, contingente vs. non
contingente, corregge struttura vs. contenuto (cfr. Vander Woude, Barton, 2001).
Risultati
In relazione al primo obiettivo, l’analisi della responsività infantile mostra che i bambini con R/DSL producono un numero
significativamente piú elevato di risposte inadeguate rispetto ai coetanei con sviluppo linguistico tipico (U = 20.5, p < .05). A
fronte di questo dato, emerge che le madri di questi bambini utilizzano significativamente piú riparazioni dirette e
contingenti rispetto alle madri dei bambini della stessa età con sviluppo linguistico tipico (U = 9.0, p < .05). Al contrario, le
strategie riparative delle madri dei bambini con R/DSL non differiscono significativamente da quelle delle madri dei bambini
appaiati per LMEp. Questi dati supportano l’ipotesi del feedback linguistico come determinante degli aggiustamenti
conversazionali materni (Cross, Nienhuys, Kirkman, 1985) e suggeriscono che i tipi di riparazione utilizzati dalle madri dei
bambini con R/DSL sono un probabile aggiustamento in relazione alle competenze comunicative e linguistiche infantili. In
relazione al secondo obiettivo, l’analisi delle contingenze interattive (GSEQ, Bakeman, Quera, 1996) tra le riparazioni
35
materne e le risposte infantili mostra che le riparazioni dirette sono le uniche seguite in modo significativo da risposte
appropriate da parte dei bambini con R/DSL.
Nell’insieme, questi risultati documentano che durante la lettura congiunta le madri dei bambini con R/DSL utilizzano
strategie di riparazione più supportive rispetto alle madri dei coetanei con sviluppo linguistico tipico, e che queste strategie
sono efficaci nel sollecitare la partecipazione attiva e appropriata dei bambini con R/DSL.
36
Simposio 6
CONDOTTE AGGRESSIVE IN RAPPORTO A FATTORI DI CONTESTO:
NUOVE PROSPETTIVE DI RICERCA
Proponenti: SIMONA C. S. CARAVITA (1), GIANLUCA GINI (2)
(1) C.R.I.d.e.e., Unità di Ricerca sulla Psicologia del Trauma- Dipartimento di Psicologia,
Università Cattolica del Sacro Cuore
[email protected]
(2) Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università degli Studi di Padova
[email protected]
Discussant: PAOLA DI BLASIO
C.R.I.d.e.e., Unità di Ricerca sulla Psicologia del Trauma- Dipartimento di Psicologia, Università
Cattolica del Sacro Cuore
[email protected]
37
Presentazione
L’approccio ecologico allo sviluppo sociale (p.e. Ladd, 2005) enfatizza l’importanza di analizzare l’interazione tra
caratteristiche individuali (p.e. intelligenza sociale, competenza emotiva) e fattori contestuali (p.e. status, norme di gruppo)
nella spiegazione di comportamenti e fenomeni aggressivi(p.e. bullismo), anche in rapporto ai possibili esiti evolutivi in
termini di adattamento psicosociale e di benessere/malessere. Questi temi costituiscono l’oggetto del presente simposio, che
raccoglie i contributi di studi condotti in diverse fasi dello sviluppo su forme e fenomeni differenti di aggressività in
relazione ai contesti ambientali e relazionali in cui si manifestano. Ulteriore punto di forza dei diversi contributi è l’uso di un
approccio multi-informant, che ha consentito di raccogliere informazioni tramite diverse fonti: l’autovalutazione, le nomine
dei pari e la valutazione degli adulti. Il lavoro di Camodeca, Coppola e De Sanctis analizza le relazioni tra popolarità,
competenza sociale e comprensione delle emozioni in bambini di età prescolare con problemi di condotta. Pozzoli e Gini
analizzano il ruolo dell’omofilia nell’influenzare il comportamento (aggressivo e di aiuto) in episodi di bullismo in bambini
di 10 anni e l’associazione tra tali comportamenti e l’accettazione da parte dei pari. Caravita e Miragoli indagano
longitudinalmente gli effetti della popolarità percepita, della preferenza sociale, dell’intelligenza sociale e del
machiavellismo sul comportamento aggressivo in studenti di due fasce di età (8-10 e 13-15 anni). Lo studio longitudinale di
Di Giunta, Castellani, Panerai e Pastorelli delinea le traiettorie di sviluppo dell’aggressione fisica in adolescenza, nelle
autovalutazioni e valutazioni delle madri, e le loro relazioni con l’adattamento psicosociale. Infine, Calussi, Nocentini e
Menesini analizzano la relazione tra bullismo agito e subito, sia nel contesto reale che virtuale, e malessere psicologico in un
campione di adolescenti.
CONDOTTE AGGRESSIVE E PROBLEMI CON I PARI IN ETÀ PRESCOLARE:
RELAZIONI CON STATUS SOCIOMETRICO, COMPETENZA SOCIALE E COMPRENSIONE EMOTIVA
MARINA CAMODECA, GABRIELLE COPPOLA, ALESSANDRA DE SANCTIS
Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, Dipartimento di Scienze Biomediche
[email protected]
Introduzione
Il presente lavoro ha l’obiettivo di investigare i problemi di condotta e le difficoltà relazionali con i pari in bambini di età
prescolare, in un contesto di gruppo. Ricerche che hanno esaminato bambini più grandi hanno mostrato che sia l’aggressività
che la mancanza di amici e la vittimizzazione sono spesso fattori determinanti per il rifiuto sociale da parte dei pari
(Goossens et al., 2006; Perry et al., 1988). Similmente, tali condizioni sono associate negativamente a vari indicatori di
competenza sociale, quali la capacità di iniziare un’interazione, l’aiuto e la condivisione, l’uso di regole costruttive e l’abilità
di suggerire un gioco nuovo (Malti, 2006). Sembra infine che i bambini con problemi relazionali presentino anche difficoltà
a comprendere e comunicare in modo adeguato le emozioni (Denham et al., 2003; Eisenberg & Fabes, 1998; Saarni et al.,
1998). Il presente lavoro si propone di esaminare la popolarità, la competenza sociale e la comprensione delle emozioni in
bambini con difficoltà relazionali e problemi di condotta, ipotizzando una relazione negativa con tali costrutti. Nonostante
vari studi abbiano ormai confermato la presenza di comportamenti aggressivi e di situazioni di vittimizzazione già in età
prescolare (Crick et al., 1997; Hay et al., 2004; Perren & Alsaker, 2006), molto è ancora da investigare in questo ambito e
per questa fascia di età. Le novità del presente lavoro sono nella molteplicità di informatori (insegnanti, pari, osservatori
esterni e bambini stessi) e di misure, che consentono di tracciare un quadro più completo delle relazioni tra pari in età
prescolare.
Metodo
Hanno partecipato allo studio 70 bambini (32 femmine) con età media di 54.87 mesi (DS = 1.45, range: 36-71), frequentanti
due scuole materne. Le condotte aggressive e i rapporti con i pari sono stati valutati mediante le due scale corrispondenti
dello Strengths and Difficulties Questionnaire (SDQ, Goodman, 1997; Marzocchi et al., 2002), compilato dalle insegnanti.
Tali scale si compongono di 5 item ciascuna e hanno una modalità di risposta a 3 punti (da 0 = non vero a 2 = assolutamente
vero). Sono state utilizzate le nomine dei pari (Bost et al., 1998; McCandless & Marshall, 1957) per la valutazione dello
status sociometrico. Data l’età dei bambini, sono state presentate loro delle fotografie dei compagni, chiedendo di fornire tre
nomine positive (scelte) e tre negative (rifiuti). Per la misura della competenza sociale sono stati utilizzati il California Child
Q-Set (Block & Block, 1969) e il Preschool Q-Set (Baumrind, 1968; Waters et al., 1985), che consentono, dopo un adeguato
periodo di osservazione nel gruppo classe, di assegnare ad ogni bambino un punteggio di competenza sociale. Tale punteggio
viene poi confrontato con quello del prototipo del bambino socialmente competente che emerge dalla valutazione di esperti
italiani in materia (Coppola et al., 2007). A un sotto-campione di 40 bambini è stata somministrata individualmente la Puppet
Interview (Denham, 1998) per valutare la comprensione delle emozioni fondamentali. Tale intervista include prove per la
comprensione espressiva e recettiva delle emozioni, e degli antecedenti situazionali, i cui punteggi sono stati sommati per
creare un unico punteggio di comprensione delle emozioni.
Risultati
38
Dalle analisi preliminari per valutare l’effetto del genere e dell’età, è emerso che le femmine sono più competenti
socialmente dei maschi e che i bambini più grandi ottengono più scelte positive rispetto ai più piccoli; i punteggi per la
comprensione delle emozioni sono più elevati per le femmine e per i bambini più grandi. Controllando opportunamente le
variabili di età e genere, emerge che sia le condotte aggressive che i rapporti problematici con i pari sono associati ad una
bassa popolarità e a un elevato rifiuto sociale (r compresa tra .25* e .46***), e sono correlati negativamente alla competenza
sociale (r compresa tra -.44*** e -.71***) e alla comprensione emotiva (r = -.45** per l’aggressività, e r = -.50** per le
difficoltà con i pari). I risultati del presente lavoro sembrano confermare l’ipotesi di un’associazione negativa tra problemi di
condotta e rapporti con i pari, da un lato, e status sociometrico, competenza sociale e comprensione emotiva, dall’altro, in
bambini di età prescolare in un contesto scolastico. Il loro contributo allo studio nell’ambito delle relazioni tra pari è
ulteriormente rafforzato dal fatto di essere stati ottenuti attraverso diversi informatori e numerose misure. Prospettive di
ricerca futura includono l’allargamento del campione e l’utilizzo di altre misure, come, per esempio, il temperamento,
valutato dai genitori. Considerando l’importanza della scuola dell’infanzia nella formazione e nello sviluppo dei bambini, i
risultati del presente lavoro assumono rilevanza anche ai fini di un intervento precoce sui comportamenti problematici.
BULLISMO E COMPORTAMENTO DI AIUTO NEL CONTESTO DI GRUPPO:
OMOFILIA E ACCETTAZIONE DA PARTE DEI PARI
TIZIANA POZZOLI, GIANLUCA GINI
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università degli Studi di Padova
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi anni, le ricerche sul fenomeno del bullismo hanno messo in evidenza l’importanza e la necessità di tenere in
considerazione i fattori contestuali e di gruppo che potrebbero essere associati ai diversi stili comportamentali (Dijkstra,
Lindenberg & Veenstra, 2007; Gini, 2006; Espelage, Holt & Henkel, 2003). In particolare, alcune variabili, come la tendenza
a conformarsi alle norme sostenute dal gruppo o l’omofilia, potrebbero contribuire ad incrementare o a ridurre la tendenza ad
essere attori di azioni aggressive. Partendo dall’approccio “Ruoli dei Partecipanti” allo studio del bullismo (Salmivalli,
Lagerspetz, Bjorkvist, Osterman e Kaukianen, 1996), questa ricerca si è posta due obiettivi principali. In primo luogo, si è
indagato il ruolo dell’omofilia comportamentale e del senso di appartenenza ad un determinato gruppo di amici
nell’influenzare i comportamenti individuali durante episodi di bullismo. In seconda istanza, abbiamo analizzato la relazione
esistente tra il comportamento individuale e l’accettazione da parte dei pari e il possibile effetto di moderazione su tale
relazione giocato dal grado di accettazione dei propri amici da parte del gruppo-classe.
Metodo
Hanno partecipato allo studio 118 bambini di quinta elementare (età media: 10 anni, 5 mesi). È stato adottato un approccio
multi – informants, prendendo in considerazione quattro comportamenti (bullo, vittima, difensore, esterno) valutati da tre
diverse fonti: un’autovalutazione da parte dei bambini, le nomine dei pari e l’etero-valutazione degli insegnanti. Tali
strumenti sono stati costruiti a partire dal Questionario Ruoli dei Partecipanti (Salmivalli et al., 1996; Menesini e Gini, 2000).
Inoltre, sono state raccolte le nomine di amicizia, chiedendo ai bambini di indicare i compagni o le compagne che reputavano
buoni amici. Attraverso tali nomine abbiamo calcolato un punteggio di “accettazione sociale” (numero di nomine ricevute
diviso per il numero di nominatori) (Shin, 2007; Laursen et al., 2007) e un punteggio di “consapevolezza del proprio network
di amici” (numero di nomine reciproche diviso per il numero totale di nomine fatte), che rispecchia il grado di coscienza di
ogni partecipante rispetto ai compagni che condividono con lui una relazione di amicizia.
Risultati
Le analisi preliminari correlazionali, condotte al fine di indagare l’accordo tra i diversi informatori nella valutazione dei
comportamenti, hanno messo in luce un maggior grado di accordo tra la valutazione degli insegnanti e le nomine dei pari
(r>.40), che è risultato non significativo solo per quanto concerne la scala riferita ai comportamenti da esterno.
Per quanto riguarda gli obiettivi specifici della nostra ricerca, i risultati hanno confermato una somiglianza comportamentale
tra l’individuo e i propri amici. Ad esempio, per quanto riguarda la scala di bullismo le correlazioni variano da r =.27 a r =
.33 a seconda della fonte di informazione considerata. Per quanto riguarda le altre scale, la relazione tra comportamento
individuale e del gruppo di amici non risulta sempre significativa. Infatti, la somiglianza riferita alla condizione di vittima
risulta significativa solo quando auto-valutata (r =.25), mentre per quanto riguarda i comportamenti di difesa e di
osservazione passiva, si riscontra una somiglianza comportamentale solo nel caso delle due etero – valutazioni (r > .41).
Come ipotizzato, la consapevolezza che i bambini hanno del proprio network di amici è risultata moderare l’associazione tra
comportamenti individuali e degli amici, ma solo per quanto riguarda la scala relativa al comportamento da difensore
valutato dagli insegnanti (R2= .449; F (3, 107)= 29.061, p < .001) e dai compagni (R2 = .349; F (3, 108)= 19.320, p < .001).
Per quanto riguarda il secondo obiettivo dello studio, l’accettazione da parte dei pari è risultata associata negativamente con
punteggi elevati nella scala di vittimizzazione (nomine: r = -.30; auto-valutazione: r = -. 28). Al contrario, l’associazione è
39
risultata positiva per quanto concerne la messa in atto di comportamenti di difesa della vittima (nomine: r = .33; insegnanti: r
= . 27). La relazione con l’accettazione da parte dei pari risulta meno chiara per i comportamenti da bullo e da esterno.
Infine, i risultati hanno messo in luce come il grado di accettazione dei propri amici moderi la relazione tra comportamento e
accettazione individuali, benché con pattern differenti a seconda del tipo di comportamento considerato.
Questo studio risponde ad alcune domande ancora aperte nella letteratura sul bullismo, soprattutto in riferimento
all’importante ruolo giocato dal gruppo dei pari e dal contesto e all’utilità legata all’utilizzo di più fonti di informazione per
indagare questo fenomeno. Inoltre, i risultati offrono nuovi spunti di discussione e di approfondimento per la ricerca futura.
DIMENSIONI DI STATUS NEL GRUPPO E FATTORI INDIVIDUALI COME PREDITTORI DI FORME
DIVERSE DI AGGRESSIVITÀ IN 2 GRUPPI DI ETÀ
SIMONA C. S. CARAVITA, SARAH MIRAGOLI
C.R.I.d.e.e., Unità di Ricerca sulla Psicologia del Trauma, Dipartimento di Psicologia Università Cattolica del Sacro Cuore
[email protected]
Introduzione
Dati di ricerca suggeriscono che esistono forme diverse di status sociale nel gruppo dei pari, la preferenza sociale (il livello
di accettazione nel gruppo) e la popolarità percepita (il livello di influenza e visibilità nel gruppo), associate distintamente e
in direzione opposta al comportamento aggressivo (p.e. Caravita et al., in press; LaFontana & Cillessen, 2002). Nello
specifico, livelli bassi di preferenza sociale e livelli elevati di popolarità percepita sono connessi al comportamento
aggressivo, aperto (fisico/verbale) e in particolare relazionale (indiretto/mirato a danneggiare le relazioni) (p.e. Vaillancourt
& Hymel, 2006). A tale riguardo è stato ipotizzato che soprattutto nell’adolescenza il comportamento aggressivo, in specie
relazionale, costituisca uno strumento utilizzato da ragazzi socialmente intelligenti e machiavellici al fine di conservare o
rafforzare il proprio status elevato come popolari nel gruppo dei pari (Garandeau & Cillessen, 2006). A indiretta conferma di
tale ipotesi sia la popolarità percepita (p.e. Rose et al., 2004), sia l’intelligenza sociale (p.e. Kaukianen et al., 1999), sia il
machiavellismo (p.e. Andreou, 2005) sono connessi positivamente con l’aggressività. Non sono ancora stati
approfonditamente investigati, tuttavia, i possibili effetti di interazione del livello di popolarità percepita con l’intelligenza
sociale e il machiavellismo nel predire l’aggressività aperta e quella relazionale, considerando fasce di età differenti. Lo
studio si propone di approfondire gli effetti diretti delle due dimensioni di status (popolarità percepita e preferenza sociale),
dell’intelligenza sociale e del machiavellismo sul comportamento aggressivo (aperto e relazionale), considerando 2 fasce di
età (media-fanciullezza e prima adolescenza). Si è altresì investigata l’ipotesi che l’intelligenza sociale e il machiavellismo
interagiscano con la popolarità percepita nel determinare il comportamento aggressivo, in particolare relazionale.
Metodo
I partecipanti allo studio, una ricerca correlazionale longitudinale (2 tempi distanziati di 3 mesi) parte di un progetto
longitudinale più ampio, erano 178 alunni di IV elementare (media-fanciullezza, range: 8-10 a.) e 253 studenti di III media
(prima adolescenza, range: 13-15 a.). Sono stati loro somministrati: 8 items a nomina dei pari per la rilevazione di forme
diverse di aggressività (aperta e relazionale), dei livelli di preferenza sociale e popolarità percepita; la versione adattata di un
questionario a nomina dei pari per la rilevazione dell’intelligenza sociale (10 items, alpha = .90 – Kaukiainen et al., 1999); il
questionario self-report Kiddie Mach (20 items, alpha = .53 - Gallo & Nigro, 1983; Nigro, 1988). Come prime analisi, dopo
avere standardizzato per classe i punteggi degli items a nomina dei pari, sono stati calcolati i punteggi di scala per
l’aggressività aperta (media di 2 items, alpha = .94), l’aggressività relazionale (media di 2 items, alpha = .84), il KiddieMach test, la scala di intelligenza sociale (media degli items), un indice combinato per la popolarità percepita e uno per la
preferenza sociale (si veda Cillessen & Mayeux, 2004). Sono state, quindi, realizzate 2 path analyses preliminari: la prima
per l’esame delle relazioni dirette tra sesso (per controllarne l’effetto), preferenza sociale, popolarità percepita,
machiavellismo, intelligenza sociale (Tempo1, predittori), aggressività aperta e aggressività relazionale (Tempo 2, criteri); la
seconda per testare gli effetti dei termini di interazione (moderazione) popolarità percepita X machiavellismo e popolarità
percepita X intelligenza sociale (Tempo 1, predittori) sulle 2 forme di aggressività (Tempo 2, criteri). Entrambe le path
analyses specificate includevano anche i paths di stabilità delle 2 forme di aggressività dal Tempo 1 al Tempo 2.
Risultati
Questi modelli hanno ottenuto un buon adattamento ai dati (mod. effetti diretti: 2 (2) = 7.36, p = .03; CFI = .99; SRMR =
.01; mod. effetti di moderazione: 2 (2) = 7.67, p = .02; CFI = .99; SRMR = .01). Analisi multigruppo hanno altresì
evidenziato che i modelli differivano significativamente nei 2 gruppi di età ( 2 (13) = 51.86 p < .001; 2 (16) = 50.73 p <
.001). Nel complesso sono emerse associazioni significative distinte - e differenziate nei 2 gruppi di età - delle 2 dimensioni
di status, dell’intelligenza sociale e del machiavellismo (Tempo 1) con le 2 forme di aggressività considerate (Tempo 2). Si
sono anche evidenziati effetti significativi di interazione tra la popolarità percepita e l’intelligenza sociale su entrambe le
forme di aggressività. Questi risultati confermano l’ipotesi che la preferenza sociale e la popolarità percepita siano
dimensioni distinte di status con effetti differenziati sui comportamenti aggressivi nelle diverse fasce di età. Il livello di status
nel gruppo è anche in grado di moderare le relazioni tra caratteristiche individuali e condotta aggressiva.
40
ESITI DELLE TRAIETTORIE DELL’AGGRESSIONE FISICA VALUTATA DAGLI ADOLESCENTI E DALLE
MADRI
LAURA DI GIUNTA (1), VALERIA CASTELLANI (1), LAURA PANERAI (1), CONCETTA PASTORELLI (2)
(1) Centro Interuniversitario per la Ricerca sulla Genesi e lo Sviluppo delle Motivazioni Prosociali ed Antisociali, Sapienza
Università di Roma
(2) Dipartimento di Psicologia, Sapienza Università di Roma
[email protected]
Introduzione
L’aggressione fisica è stata considerata la forma più seria tra le condotte aggressive (Loeber e Hay, 1997; Tremblay, 2000;
Dodge, Coie e Lynham, 2006). Diversi studi hanno identificato percorsi di sviluppo dell’aggressione fisica condivisi da
particolari gruppi di individui (Nagin e Tremblay, 1999; Schaeffer, Petras, Ialongo, Poduska, e Kellam, 2003; Shaw, Gilliom,
Ingoldsby, e Nagin, 2003). Comune ai vari studi è la presenza di piccoli gruppi di individui che manifestano stabilmente
un'elevata frequenza di comportamenti aggressivi dall'infanzia all'età adulta e che hanno una maggiore probabilità di
incorrere in esiti disadattivi (Loeber et al., 1998; Moffitt, 1993; Tremblay, 2000). In quasi tutti gli studi che hanno esaminato
le traiettorie di sviluppo dell’aggressione fisica, gli informatori privilegiati sono stati le insegnanti o le madri.
All’interno di una prospettiva multi-informatore, in questo studio intendiamo (1) individuare le traiettorie di sviluppo
dell’aggressione fisica dagli 11 ai 14 anni utilizzando diversi informatori, autovalutazione e valutazione delle madri; (2)
esaminare la distribuzione di ragazzi e ragazze all’interno di ciascuna traiettoria sulla base di ciascun informatore; (3)
esaminare l’accordo tra i risultati ottenuti da ciascun informatore; (4) esaminare la predittività delle traiettorie rispetto ad
indicatori di funzionamento relazionale ed individuale in termini di adattamento e disadattamento a breve (16-17 anni) e a
lungo termine (18-19 anni).
In accordo con precedenti studi che hanno utilizzato le valutazioni degli insegnanti e delle madri, (Nagin e Tremblay, 1999;
Schaeffer et al., 2003; Shaw et al., 2003), abbiamo ipotizzato di identificare non solo nel caso delle valutazioni delle madri
ma anche nel caso delle autovalutazioni quattro traiettorie: due traiettorie stabili caratterizzate rispettivamente da livelli di
aggressione fisica bassi e alti, due traiettorie decrescenti caratterizzate rispettivamente da livelli iniziali di aggressione fisica
medi e medio/bassi. Inoltre, ci aspettiamo una maggiore percentuale di maschi nella traiettoria degli alti/stabili (Dodge, Coie,
and Lynham, 2006).
Metodo
Partecipanti
Il campione è costituito da 439 ragazzi dagli 11 ai 14 anni (55% sono maschi). Solo per 294 di questi ragazzi le madri hanno
acconsentito a partecipare alla ricerca nel corso di 4 anni consecutivi. I soggetti appartengono a 4 coorti di un più ampio
progetto longitudinale iniziato a Genzano di Roma nel 1987, avente come primi obiettivi l’esame delle determinanti
personali e sociali dell’adattamento infantile e adolescenziale.
Strumenti
Aggressione fisica (Caprara e Pastorelli, 1993). (Autovalutazione, valutazione delle madri). Misura la tendenza a mettere in
atto comportamenti aggressivi di tipo fisico nei confronti di altre persone.
Violenza (Caprara, Mazzotti, e Prezza, 1990). (Autovalutazione). Misura la frequenza della messa in atto di gravi forme di
comportamenti antisociali quali: vandalismo o episodi di aggressione a danno di terze persone.
Comportamento delinquenziale (Youth Self Report, Achenbach, 1991). (Autovalutazione). E’ una scala che misura un ampio
spettro di comportamenti trasgressivi, quali rubare, mentire, distruggere le cose, fare uso di droghe o alcool.
Analisi
Per l’identificazione delle traiettorie di sviluppo dell’aggressione fisica e’ stata utilizzata la metodologia di Nagin (1999;
2005) ed il pacchetto “PROC TRAJ” del software SAS (Jones, Nagin e Roeder, 2001). La procedura “PROC TRAJ”
consente anche di ottenere il punteggio di probabilità che ciascun soggetto ha di appartenere alle diverse traiettorie
individuate nel modello (probabilità a posteriori; Nagin, 1999). Sono state testate tutte le soluzioni di modelli da 1 a più
gruppi e tutte le combinazioni possibili tra i diversi andamenti (costante, lineare, quadratico, cubico). Infine, per
l’identificazione dei modelli migliori e’ stato utilizzato il Bayesian Information Criterion (BIC; D’Unger, Land, McCall, and
Nagin, 1998; Nagin, 1999; 2005), un indice che consente di confrontare i diversi modelli testati (i modelli migliori sono
quelli con un BIC prossimo allo zero).
Risultati
In accordo con la letteratura, i risultati hanno confermato l’esistenza di quattro percorsi di sviluppo sulla base delle
autovalutazioni. Diversamente sono stati evidenziati tre percorsi di sviluppo sulla base delle valutazioni delle madri. In
particolare in entrambi gli informatori, la maggior parte degli adolescenti appartiene ad una traiettoria caratterizzata da
livelli medi di aggressione fisica che decresce nel corso del tempo, solo un piccolo gruppo di adolescenti (composto quasi
interamente da maschi) mantiene dei livelli elevati e stabili nel corso del tempo. Infine, è emerso che coloro i quali
41
appartengono alle traiettorie più problematiche, sulla base di entrambi gli informatori, sono a più alto rischio di incorrere in
atti delinquenziali e violenti durante l’adolescenza e l’età adulta.
BULLISMO E MALESSERE IN ADOLESCENZA: CONTESTI VIRTUALI E TRADIZIONALI
PAMELA CALUSSI (1), ANNALAURA NOCENTINI (2), ERSILIA MENESINI (1)
(1) Dipartimento di Psicologia –Università di Firenze
(2) Centro Interuniversitario per la ricerca sulla genesi e sullo sviluppo delle motivazioni prosociali e antisociali –
Università di Roma “La Sapienza”
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi anni i contesti elettronici e virtuali hanno assunto un’importanza crescente nella vita sociale dell’adolescente
(Williams e Guerra, 2007). Le nuove tecnologie comunicative, accanto ad aspetti positivi, possono presentare lati oscuri e
aspetti negativi, tra i quali il bullismo elettronico, che comprende minacce, insulti, diffamazione o diffusione di materiale
privato, fatti tramite sms o MMS, e-mail, chat o blog (Smith et al., 2007; Patchin e Hinduja, 2006). Queste nuove forme di
bullismo condividono con le forme tradizionali alcune caratteristiche, quali la persistenza nel tempo, l’intenzionalità e la
disparità di potere (Patchin et al., 2006). Presentano però anche alcune peculiarità tra cui: l’ampia diffusione nel villaggio
globale, una difficoltà di controllo dell’utenza potenziale, l’invisibilità degli attori e una difficoltà della vittima ad evitare gli
attacchi (Bartolo e Palermiti, 2007). Data la natura fortemente indiretta dei comportamenti nei contesti virtuali si rileva
inoltre una significativa presenza di questi fenomeni nelle ragazze rispetto ai maschi (Smith et al. 2007).
Studi sui profili sintomatologici del bullo e della vittima nel contesto virtuale sono in linea con quanto già trovato per i due
ruoli nel contesto tradizionale (Fekkes et al., 2006, Ybarra e Mitchell, 2004), sebbene possiamo chiederci se, data la natura
diversa del nuovo contesto e alcune delle sue caratteristiche specifiche, il bullismo elettronico non possa presentare effetti
amplificati e più dirompenti sul piano del benessere/ malessere della persona rispetto alle tipologie tipiche del contesto
“faccia a faccia”.
In Italia gli studi sul fenomeno del cyberbullying sono ancora ad uno stadio iniziale sebbene alcune prime ricerche di
carattere descrittivo abbiano evidenziato la presenza del fenomeno anche tra i nostri adolescenti (Bartolo e Palermiti, 2007;
Calussi e Menesini, 2008). Non sono comunque ancora state analizzate le possibili conseguenze che le prepotenze nei due
contesti possono avere sui livelli di malessere/benessere psicologico dei soggetti.
A partire da tali considerazioni, lo scopo del presente contributo è quello di analizzare il peso che il bullismo nei due contesti
- reale e virtuale - ha in relazione alla manifestazione di diversi sintomi di malessere psicologico.
Metodo
I partecipanti sono 235 femmine frequentanti la prima e la seconda classe di tre scuole superiori della Toscana (età media
15,12 anni, ds: 1,07).
Strumenti: Per il bullismo tradizionale sono state utilizzate due scale, una per il bullismo agito e una per il subito, composte
ognuna da 11 item (bullismo subito, =.60; bullismo agito: =.70) costruite a partire dal questionario di Olweus (1993); per
il bullismo elettronico sono state utilizzate due scale, una per il subito ( =.68) e una per l’agito ( =.67) composte entrambe
da 10 item, costruite a partire dal questionario di Smith e coll. (2006). Per ognuna delle 4 scale è stato costruito un punteggio
medio. Infine, per la valutazione dei sintomi di malessere, sono state utilizzate le scale Ansia e Depressione ( =.83), Disturbi
Psicosomatici ( =.64), Ritiro Sociale ( =.68), Comportamento delinquenziale ( =.65) e Comportamenti Aggressivi ( =.81)
dello YSR (Achenbach et al., 1991; Pastorelli et al. 2002).
Per l’analisi dei dati, sono state condotte cinque analisi di regressione lineare multipla gerarchica, distinte rispetto alle cinque
tipologie dei sintomi, in cui nel primo blocco venivano considerate le variabili di bullismo agito e subito del contesto
elettronico e nel secondo le variabili del contesto di interazione diretta.
Risultati
I risultati mostrano come per ognuno dei sintomi considerati i due contesti risultano apportare un contributo significativo,
con un peso generalmente maggiore del bullismo e della vittimizzazione tradizionale. Solo nel caso dei disturbi
psicosomatici e del comportamento aggressivo, il contesto virtuale spiega una quota di varianza maggiore rispetto a quella
spiegata dal contesto diretto, evidenziando come, accanto ad una matrice comune dei fenomeni nei due contesti, emerga
anche uno specificum delle esperienze virtuali. In particolare si sottolinea la natura impersonale dell’attacco e la conseguente
difficoltà di reazione della vittima che può generare maggiori sintomi e disturbi psicosomatici. D’altro lato, l’associazione
significativa tra bullismo elettronico agito e i disturbi del comportamento aggressivo, rende conto di un profilo delle cyberbulle caratterizzato da una preferenza verso le forme indirette e relazionali tipiche dei mezzi elettronici.
42
Simposio 7
LA RELAZIONE INSEGNANTE-ALLIEVO:
METODI E STRUMENTI PER LA VALUTAZIONE E LA FORMAZIONE
Proponente: CARMEN BELACCHI
Università di Urbino
[email protected]
Discussant: GIULIANA PINTO
Università di Firenze
[email protected]
43
Presentazione
L’importanza dell’interazione-relazione con alii significativi nello sviluppo psicologico è stata evidenziata a partire
dai contributi teorici di Vygotskij (sul versante socio-cognitivo) e di Bowlby (su quello psico-affettivo). Sempre più si
è affermata l’esigenza di considerare congiuntamente entrambi gli aspetti, come nel caso della relazione educativa nel
contesto scolastico, in cui i bambini effettuano le loro prime esperienze interattive con l’adulto non familiare. La
relazione costituisce un oggetto di indagine particolarmente complesso in quanto implica sia le dimensioni
intrapersonali degli individui coinvolti sia quelle interpersonali, specifico prodotto dell’incontro tra individualità
differenti. L’aumento della ricerche sulla relazione insegnanti-allievi ha messo in luce la necessità di approntare
idonei strumenti e metodi sia per rilevare-valutare la specificità di tale relazione, sia per sostenere e formare le
competenze relazionali dei soggetti coinvolti, specie degli insegnanti. Il simposio si propone come ricognizione dei
contributi più recenti in quest’ambito di ricerca, per un confronto e l’individuazione di futuri percorsi sia teorici che
applicativi.Due le tipologie dei contributi: tre riguardano strumenti per la rilevazione-valutazione della relazione
(Longobardi introduce alla tematica con una rassegna dell’esistente; Di Terlizzi et al. confrontano gli aspetti
mentalistici della relazione tra diverse figure di educatori e bambini con sviluppo tipico e atipico; Zamponi e
Belacchi esplorano la complementarietà tra l’intervista semistrutturata e la rappresentazione grafica della relazione in
bambini di scuola elementare); due contributi focalizzano interventi di formazione delle capacità relazionali degli
insegnanti (Albanese et al. indagano sulle componenti socio-affettive del benessere negli insegnanti, Farneti presenta
la metodica del clowning come strumento di formazione delle competenze ralazionali di insegnanti ed educatori).
VALUTARE LA RELAZIONE INSEGNANTE ALLIEVO. METODI E STRUMENTI PER LA RICERCA
CLAUDIO LONGOBARDI
Università di Torino
[email protected]
La relazione interpersonale insegnante-alunno è un argomento che, nonostante la molteplicità delle prospettive e degli aspetti
che la definiscono, (Brophy, Good, 1986; Zeichner, 1995) si è focalizzata principalmente sull'istruzione e, quindi, sul
messaggio educativo. Penalizzate risultano soprattutto le qualità sociali, emotive e dinamiche di tali interazioni. Impossibile
ignorare quanto emerge da un numero rilevante di ricerche, vale a dire l'alto grado di incidenza che le qualità relazionali tra
bambino e insegnante assumono in ambito scolastico (Birch, Ladd 1996; Pianta, 1992). Tali relazioni, infatti, influenzano la
capacità del bambino di instaurare rapporti soddisfacenti con i compagni di classe (Howes et al., 1994), orientano l'allievo al
successo o all'insuccesso scolastico, come è da più autori messo in luce (van Ijzendoorn, Sagi, Lambermon, 1992; Pianta et
al., 1995), e, infine, influiscono sull'adattamento del bambino sia in età prescolare che nei primi anni delle scuole elementari
(Lynch, Cicchetti, 1992).
E' indubbio il ruolo che l'insegnante riveste nei primi anni di scuola dei bambini: la relazione del bambino con il suo
insegnante non solo molto sostituisce quella genitoriale (Hamilton, Howes, 1992), ma favorisce il "primo" distacco del
bambino dalla famiglia e l'acquisizione di nuovi riferimenti e prospettive culturali (Quaglia, 2002). I sentimenti che i bambini
provano per la propria insegnante, il tempo che trascorrono insieme con lei e l'interesse per le attività scolastiche, sono tutti
elementi importanti per una comprensione e una valutazione del livello e del carattere della relazione (Toth, Cicchetti, 1996;
Wentzel, 1996).
Lo studio della relazione insegnante-allievo copre un'ampia fascia dei tratti della personalità: tale studio non si riduce, infatti,
soltanto all'esame dei comportamenti interattivi, ma si estende anche alle caratteristiche cognitive, affettive e motivazionali
dell'individuo (Hinde, 1987). Sviluppare, quindi, strumenti utili finalizzati alla valutazione della relazione insegnantebambino può costituire una efficace risorsa per una migliore comprensione delle difficoltà di apprendimento e di integrazione
del bambino nella realtà scolastica.
La valutazione su base empirica della relazione insegnante-allievo costituisce un campo di indagine relativamente recente. La
comprensione dei processi relazionali resta un obiettivo prioritario di un tale ambito di ricerca, in cui convergono e si
integrano i diversi ruoli e le molteplici funzioni svolte dagli insegnanti in classe. L'insegnante è docente, ma anche agente di
socializzazione, caregiver, mediatore con i compagni, ecc.
Il presente lavoro ha, pertanto, lo scopo di fornire una presentazione degli strumenti atti a valutare la relazione insegnanteallievo secondo due prospettive fondamentali: la prima è relativa alla visione interna (il punto di vista del bambino), la
seconda è relativa alla visione esterna (il punto di vista dell'insegnante) (Pianta, 2001). Non si trascurerà, infine, l’analisi dei
metodi osservativi.
Per gli strumenti di valutazione della relazione dal punto di vista dell’insegnante si ricorda Santiniello e Vieno (2003), i quali
hanno realizzato l’adattamento italiano della Teacher-Child Rating Scale di Hightower. Di Fraire, Longobardi e Sclavo
(2006) è l’adattamento dello Student-Teacher Relationship Scale ideato da Pianta. A Liverta Sempio e Marchetti (2005) si
deve l’adattamento del sistema di scoring della Teacher Relationship Interview sempre di Pianta.
Per la valutazione della relazione dal punto di vista del bambino, Bombi e Pinto (1998) hanno realizzato un nuovo sistema di
codifica basato sul disegno. Di grande interesse è anche L’Intervista sulla relazione del bambino con l’insegnante, (IRBI),
44
un’intervista semistrutturata ispirata alla Teacher Relationship Interview di Pianta e ideata da Liverta Sempio, Marchetti e
Lecciso (2005). Tra i questionari più accreditati vi è la Scala della Qualità relazionale, strumento ideato nel 1987 da
Wellborn e Connell che si propone di analizzare due aspetti della relazione: la qualità emotiva e la ricerca della vicinanza
psicologica. La Scala della Cura Percepita (Pianta, 1999) si riferisce all’interesse che il bambino degli ultimi anni della
scuola primaria e delle scuole medie inferiori attribuisce all’insegnante per la sua persona e il suo benessere. Il Questionario
sulle relazioni del bambino (QRB) è stato strutturato in seguito all’adattamento del Relationship Questionnaire di
Bartholomew e Horowitz, questionario autodescrittivo elaborato da Liverta Sempio, Marchetti e Castelli con lo scopo di
analizzare le caratteristiche dello stile di attaccamento di bambini e ragazzi (AA. VV., 2005).
Infine, per i metodi osservativi Cassibba e D’Odorico (2000), offrono la traduzione e l’adattamento dell’Attachment Q-Sort
di Waters, con riferimento ai metodi osservativi.
LE RAPPRESENTAZIONI MENTALI DELLA RELAZIONE BAMBINO-CAREGIVER PROFESSIONALE:
TRE FIGURE DI EDUCATORI A CONFRONTO
ELEONORA DI TERLIZZI (1)(2), FLAVIA LECCISO (2), SERENA PETROCCHI (2), BIANCA BERTETTI (3),
ANTONELLA MARCHETTI (2)
(1) Università degli Studi del Molise, Campobasso.
(2) Università Cattolica del Sacro Cuore, Unità di Ricerca sulla Teoria della Mente, Milano.
(3) CAF- Centro di Aiuto al Bambino Maltrattato e alla Famiglia in crisi, Milano.
[email protected]
Introduzione e obiettivi
Numerosi studiosi (Cassibba, 2003; Pianta, 1999; Van Ijzendoorn et al.,1992), stimolati dal tentativo di superare il concetto
di monotropia di Bowlby (1951), si sono occupati dell’importanza delle relazioni di attaccamento che il bambino instaura al
di fuori del contesto familiare. La possibilità di ampliare l’analisi della dimensione affettiva dalla relazione diadica madrebambino al più ampio contesto dei caregiver professionali risulta cruciale in situazioni sia tipiche sia di rischio evolutivo.
All’interno dell’approccio relazionale sulla teoria della mente, alcuni autori (Meins 2006; Sharp et al. 2006) si sono occupati
di analizzare il ruolo dell’adulto sia per lo sviluppo del legame affettivo sia per lo sviluppo delle competenze mentalistiche
infantili. Tali riflessioni sono state di recente trasposte al contesto della relazione bambino-caregiver professionale (Lecciso,
Petrocchi, 2008). La ricerca esplora le rappresentazioni mentali della relazioni con il bambino in tre figure professionali:
terapiste di bambini sordi, educatori di bambini maltrattati, insegnanti di bambini con sviluppo tipico, con l’obiettivo di
evidenziare analogie e specificità caratterizzanti le tre diadi e il ruolo della mentalizzazione all’interno delle
rappresentazioni.
Metodo
Hanno partecipato: 9 terapiste di bambini sordi; 12 educatori di bambini maltrattati; 16 insegnanti di bambini con sviluppo
tipico. I caregiver professionali di bambini (tra i 6 e i 12 anni) hanno un’età compresa tra i 23 anni e i 60 anni. Ai caregiver
professionali è stata somministrata la TRI –Teacher Relationship Interview(Pianta et al., 1999), un’intervista
semistrutturata sulla rappresentazione della relazione con uno specifico bambino. Nel sistema di scoring le rappresentazioni
mentali dei caregiver sono valutate in riferimento a 10 dimensioni: sensibilità alla disciplina, base sicura, assunzione della
prospettiva propria e altrui, neutralizzazione degli affetti negativi, percezione di efficacia e di inefficacia, rabbia/ostilità;
affetto positivo, coerenza globale dell’intervista. Le prime nove dimensioni sono valutate su una scala a 7 punti (1,2= livello
basso; 3,4,5= livello medio; 6,7= livello alto); l’ultima dimensione è codificata su una scala a 5 punti (1= assenza di
coerenza; 5= elevata coerenza).
Risultati
Dall’ANOVA e dai post-hoc di Newman Keuls emergono delle differenze tra i gruppi di caregiver professionali. Gli
educatori ottengono punteggi medi più elevati degli insegnanti, i quali ricevono punteggi medi maggiori rispetto ai terapisti,
nelle dimensioni sensibilità verso la disciplina (F(2 45)= 13.78, p< .001), base sicura (F(2 45)= 13.67, p< .001), efficacia (F(2 45)=
7.88, p< .001). Educatori e insegnanti ricevono punteggi medi simili tra loro e superiori rispetto ai terapisti dei bambini sordi
nelle dimensioni assunzione della prospettiva propria (F(2 45)= 23.44, p< .001) e altrui (F(2 45)= 24.53, p< .001). Gli educatori
ricevono punteggi medi maggiori nella scala di coerenza (F(2 45)= 8.38, p< .001) e punteggi minori nella dimensione
neutralizzazione (F(2 45)= 7.82, p< .001).
Per valutare il ruolo della mentalizzazione adulta rispetto alla qualità della relazione, una prima regressione lineare ha
considerato l’assunzione di prospettiva propria e i tre gruppi di caregiver professionali (codificati come due variabili dummy)
come variabili indipendenti e il punteggio di base sicura come variabile dipendente. Il modello risulta significativo (F(2 45)
=25.52, p=.001; R2corretto = .511): l’assunzione di prospettiva propria (t = 4.807, p = . 001, Beta =.521) e la figura
dell’educatore (t = 3.120, p = .003, Beta =.343) predicono il punteggio di base sicura.
45
Una seconda regressione lineare ha considerato l’assunzione di prospettiva altrui e i tre gruppi di caregiver professionali
come variabili indipendenti e il punteggio di base sicura come variabile dipendente. Il modello risulta significativo (F(2 25)
=29.99, p=.001; R2corretto = .552): l’assunzione di prospettiva altrui (t = 5.427, p = .001 Beta =.605) e la figura
dell’educatore (t = 2.221, p = .031, Beta =.247) predicono il punteggio di base sicura.
I risultati ottenuti evidenziano la specificità delle figure professionali in questione, i punti di forza e punti critici delle
relazioni tra adulto e bambino, a partire dai quali possono essere ipotizzati specifici percorsi di ordine preventivo. Inoltre i
risultati delle regressioni richiamano la letteratura (cfr Allen, Fonagy, 2006) che evidenzia il nesso tra ruolo mentalistico del
caregiver e sviluppo della relazione di attaccamento.
RAPPRESENTAZIONE VERBALE E NON VERBALE DELL’INTERAZIONE INSEGNANTE-ALLIEVI DI
SCUOLA ELEMENTARE: UN CONFRONTO PRELIMINARE TRA LA TECNICA DELL’INTERVISTA
SEMISTRUTTURATA E LA RAPPRESENTAZIONE GRAFICA
FRANCESCO ZAMPONI, CARMEN BELACCHI
Università di Urbino “Carlo Bo”
[email protected]
Introduzione e obiettivi
Una relazione costituisce l’internalizzazione dell’interazione con aliii significativi e in quanto tale non è direttamente
esperibile né osservabile. Pertanto si impone l’esigenza di individuare opportune tecniche e strumenti che ne consentano
l’esplorazione sia sul versante delle componenti individuali che di quelle interpersonali. Attualmente disponiamo di alcuni
metodi e strumenti, la cui validità interna è stata parzialmente confermata, ma di cui non sono ancora sufficientemente note
la validità concorrente e predittiva. Tra le tecniche non verbali sì è rivelata euristica l’analisi della rappresentazione grafica
della relazione attraverso la tecnica del disegno, applicata anche all’analisi della relazione con l’insegnante (Bombi e Pinto,
1993; Bombi e Scittarelli, 1998; Bombi e Pinto, 2000). Tra le tecniche verbali sono stati applicati dei modelli di intervista
semistrutturata (IRBI per gli allievi, TRI per gli insegnanti) ideati da Pianta e collaboratori (Pianta, 1999; Pianta et al., 1999)
e adattati per la popolazione italiana da Liverta Sempio, Marchetti e Lecciso (2002; 2003; 2005). Il presente contributo si
propone di approfondire la conoscenza di questi due tipi di strumenti con lo scopo di individuarne le specificità e/o le
eventuali corrispondenze.
Metodo
- I^ studio
119 allievi di scuola elementare e due rispettivi insegnanti per classe (insegnante A = prevalente, insegnante B = non
prevalente) hanno risposto ad interviste semistrutturate sulla loro relazione: il bambino ha effettuato due interviste per
ognumo degli insegnanti (IRBI) e ogni insegnante per ogni allievo (TRI). Le risposte sono state codificate in 17 dimensioni a
cui è staso applicato uno scoring da 0 a 2 (riferimento assente, indiretto, esplicito) per le prime 9 dimensioni e di 0-1
(presenza-assenza) per le altre.
- 2^ studio
A un sottocampione di allievi (N= 81) è stato chiesto anche di effettuare due disegni (se stesso con ognuno degli insegnanti).
Gli indici: Colore, Formato, Dettagli Corpo, Dettagli Volto, Dettagli Abbigliamento, Posizione Spaziale, Ambiente,
Accessori Ambiente, Somiglianza figure, Direzione figure, Differenza Altezza, Distanza prossemica, Scambio comunicativo,
Scambio comunicativo Verbale, sono stati codificati con una scala di tipo ordinale analoga a quello di Bombi e Pinto (1993).
Risultati
- 1^ studio
La correlazione tra i punteggi medi delle diverse dimensioni nelle interviste degli allievi sulla relazione con i due insegnanti
evidenzia alcune corrispondenze significative: Compliance Positiva (.417**), Compliance Negativa (.435**), Base Sicura
(.322**), Assunzione della Prospettiva Altrui (.661**), Tono Affettivo Positivo (.410**), Tono Affettivo Negativo (.317**),
Riferimento ad Attività Scolastiche (.585**), Riferimento ad un Compagno (.518**). Confrontando le interviste dei due
insegnanti circa lo stesso bambino si è trovata una quasi totale corrispondenza tra le dimensioni esplicitate. Tra quelle più
altamente correlate sottolineiamo il riferimento al Successo Scolastico sia negativo (.791**), che positivo (.533**), la Base
Sicura (.571**), il Rendimento scolastico (.494**), il Riferimento al Compagno (.482**) e l’Assunzione della Prospettiva
Propria (.478**). Per individuare l’eventuale corrispondenza tra le rappresentazioni della relazione che ogni bambino ha con
i due insegnanti si sono confrontate le correlazioni emerse dall’incrocio tra i dati dell’IRBI A e IRBI B rispettivamente con la
TRI A e TRI B. Sono emerse corrispondenze nelle dimensioni Compliance, Compliance Negativa, Base Sicura, Riferimento
ad attività scolastiche, Riferimento alla Vita familiare, Competenze scolastiche postive e negative.
- 2^ studio
Quasi tutti gli indici dei due disegni correlano significativamente tra loro. Tra quelli maggiormente corrispondenti si
segnalano: Altri Personaggi (.806**), Ambiente (.745**), Scambio Comunicativo Verbale (.711**), Dettagli Corpo
(.698**), Dettagli Volto (.612**); tra quelle meno correlate la Distanza Prossemica (.260**) e la Differenza in Altezza
46
(.220**). Dal confronto tra le espressioni verbali e grafiche dello stesso bambino per ciascun insegnante, l’unica
correlazione comune emersa è tra Base Sicura nell’intervista e Dettagli del Corpo nel disegno.
In sintesi, il nostro studio ha mostrato numerose e significative corrispondenze tra le rappresentazioni della relazione
(espresse sia verbalmente che graficamente) di ciascuno allievo con diversi insegnanti e tra quelle dei due insegnanti nei
confronti dello stesso allievo. Minori corrispondenze sono invece emerse nella reciprocità di tale rappresentazione. Ancora
più scarse le corrispondenze tra diverse modalità di espressione di una stessa relazione. In conclusione, le due tecniche, sia
nell’esplorazione delle componenti individuali che interpersonali della relazione insegnante-allievo, hanno evidenziato
migliori indici di coerenza interna (intramodale) rispetto a quelli di validità concorrente (intermodale). Ciò richiede, a nostro
avviso, approfondimenti sia di tipo metodologico che teorico.
PER UNA RELAZIONE EDUCATIVA POSITIVA: IL BENESSERE DEGLI INSEGNANTI
OTTAVIA ALBANESE, ROBERTA CORCELLA, CATERINA FIORILLI, PIERA GABOLA, FEDERICO ZORZI
Università degli Studi Milano Bicocca
[email protected]
Introduzione
La relazione educativa tra insegnante ed alunni ha ricevuto negli ultimi anni una notevole attenzione in cui l’adulto,
impegnato nel compito di cura degli alunni, ne favorisce la crescita non solo cognitiva ma anche affettiva (Pianta, 2001).
L’insegnante è chiamato a svolgere un ruolo sempre più complesso in cui accanto alle competenze didattiche sono associate
quelle socio-affettive (Albanese et al., 2007a). In questa direzione vanno molti studi che negli ultimi anni hanno posto
un’attenzione particolare alle condizioni di benessere degli insegnanti che giocano un ruolo così importante nella relazione
con gli alunni. L’esperienza soggettiva del benessere è letta attraverso due dimensioni: una cognitiva, l’altra affettiva. La
prima dimensione comporta l’autovalutazione delle propria soddisfazione, la seconda, riguarda la prevalenza delle esperienze
affettive positive su quelle negative (Albanese et al., 2007a; Diener, 2000; Drago, 2006; Hobfoll, 2001).
In quest’ottica il benessere è frutto del soddisfacimento di tre bisogni: sentirsi competenti e abili, sentirsi autonomi e padroni
delle proprie scelte, sentirsi parte di un gruppo e in relazione con altre persone (Ryan e Decy, 2000). Centrale è, quindi, la
qualità delle relazioni sociali dell’individuo nell’ambito della propria comunità (Larson, 1993; Keyes, 1998). L’accessibilità
alle risorse offerte dall’ambiente può aumentare il benessere: insegnanti che percepiscono un alto grado di supporto sociale
hanno migliore salute fisica e mentale (Burke, Greenglass e Schwarzer, 1996); inoltre, la percezione di autoefficacia e la
facilità di accesso alle risorse scolastiche diminuiscono il rischio di burnout (Betoret, 2006).
Obiettivo principale della ricerca è analizzare le competenze socio-affettive degli insegnanti nell’interazione con i
propri alunni durante eventi critici e la rete di sostegno sociale a cui gli stessi insegnanti possono attingere. Tali
dimensioni verranno messe in relazione con lo stato di benessere degli insegnanti.
Metodo
Partecipanti
82 insegnanti di scuola primaria e secondaria di età compresa tra 41 e 60 anni con una esperienza di insegnamento di
oltre 15 anni. La popolazione è prevalentemente femminile.
Strumenti e procedura
Per la rilevazione delle condizioni di rischio per il benessere degli insegnanti è stato impiegato il Maslach Burnout Inventory
– MBI (Maslach, 1981) nella versione italiana standardizzata di Sirigatti e Stefanile (1992); per la rilevazione della rete
sociale di sostegno e la competenza emotiva è stato utilizzato il Questionario sul Sostegno Sociale – QSS e Questionario
sulla Competenza Emotiva – QCE (Doudin et al., 2006) nella versione italiana tradotta da Albanese et al. (2007b).
Il MBI si compone di 22 items in 3 subscale: esaurimento emotivo (9 items); disaffezione al lavoro (5 items); soddisfazione
professionale (8 items). Le risposte sono date su una scala a 7 punti (da 0 a 6). Il QSS si compone di 27 situazioni
professionali che si differenziano per livello di complessità. Gli insegnanti specificano il tipo di sostegno ricevuto, o a cui
potrebbero rivolgersi, in ciascuna situazione proposta. Infine, il QCE si compone di 28 ipotetiche situazioni di interazione tra
insegnante ed alunno/a violento/a. L’insegnante deve indicare l’emozione che la situazione gli procura, quella che
manifesterebbe e quella che attribuisce all’alunno/a violento/a. Tutti i questionari sono stati somministrati collettivamente in
una situazione di formazione.
Risultati
Le analisi preliminari hanno messo in luce significative relazioni tra il livello di esaurimento emotivo e la rete di supporto
sociale dell’insegnante: ad un elevato esaurimento emotivo corrisponde una scarsa rete di sostegno e confronto a cui
attingere ( 2=23,80, df=2, p<.01).
La competenza emotiva, intesa come capacità di gestire le emozioni vissute vs. quelle manifestate risulta correlata
positivamente con l’esaurimento emotivo: ad esempio, l’elevato esaurimento emotivo è correlato ad elevati livelli di
emozioni negative vissute nel rapporto con gli alunni (per la collera r=0,305 e p<.05; per il disprezzo r=0,409 e p<.05; per il
disgusto r=0,435 e p<.05).
47
Per quanto riguarda le emozioni attribuite agli alunni violenti gli insegnanti assegnano emozioni diverse (senso di colpa vs.
collera) alle femmina rispetto ai maschi ( 2=44,36, df=2, p<.01). Dai risultati emerge che gli insegnanti che vivono
l’esperienza di insegnamento in una condizione di esaurimento emotivo sono anche più isolati nel sistema sociale scolastico.
Tale assenza di benessere soggettivo coinvolge anche la relazione educativa messa in pericolo dall’alta intensità di emozioni
negative vissute e dalla stereotipata attribuzione agli alunni del tipo di emozioni.
IL CLOWNING COME STRUMENTO DI FORMAZIONE E DI VALUTAZIONE DEGLI INSEGNANTI E DEGLI
EDUCATORI
ALESSANDRA FARNETI
Libera Università di Bolzano
alessandra.farneti@unibz-it
Introduzione
Il personaggio del clown viene solitamente associato a quella che si definisce clown-terapia o terapia del sorriso e poco o
nulla si sa delle sue applicazioni in ambito educativo (Farneti, 2004). Esistono, tuttavia, molte testimonianze che ne attestano
l’efficacia sulle situazioni conflittuali, laddove bisogna migliorare i rapporti affettivi, la comunicazione, le capacità
espressive delle emozioni e la creatività. Non si tratta di ricerche sperimentali ma di relazioni verbali, conservate solo come
documentazioni delle scuole. Il clown formatore fonda il suo lavoro su alcuni principi di quella che si potrebbe definire “la
filosofia del clown”: il pagliaccio è un emblema di povertà e di goffaggine, ma anche di innocenza e di autoironia, di abilità
mascherata e dissimulata. (Fellini, 1970; Galante Garrone, 1980; Fo, 1987, 1999). Il clown è un maestro auto-ironico in
senso socratico perché il suo “sapere di non sapere” gli si legge in faccia. Con la sua arte lancia un messaggio importante:
“non bisogna aver paura dei propri errori e delle proprie cadute, che si devono sfruttare per imparare a rialzarsi e a migliorare
le proprie prestazioni”
Ipotesi
I percorsi formativi nella scuola, basati su tecniche di clowning, prevedono una parte teorica in cui si spiegano agli
insegnanti i principi dell’arte del clown e una parte pratica in cui ci si cimenta, insieme a clown competenti, in esercizi fisici
che prevedono giochi di comunicazione e di espressione delle emozioni. L’intervento di uno psicologo accompagna l’intero
percorso. Si fa quindi l’ipotesi che il giocare liberamente insieme in una situazione controllata e contenuta, “svergognandosi”
di fronte agli altri, esibendo la “propria stupidità”, possa contribuire a migliorare le relazioni fra insegnanti e fra insegnanti e
bambini, offrendo la possibilità di fare emergere le difficoltà e le incompetenze relazionali, per poterle affrontare.
Metodologia e campione
La ricerca che viene presentata qui è solo una parte di un lavoro più ampio, ancora in corso, che si è svolto presso quattro
comuni della provincia di Bologna, su un campione di 80 soggetti. Si tratta di un primo tentativo di dare sistematicità ad un
tipo di ricerca che per ora è stata svolta unicamente in campo artistico. Manca, purtroppo un campione di controllo che
consenta, dopo un corso di formazione di diversa impostazione, di misurare con lo stesso strumento, le medesime capacità
rilevate con l’ACL. Questo è dovuto a difficoltà oggettive perché chi lavora nel settore della scuola sa che i corsi di
formazione sono proposti dai dirigenti scolastici e scelti dagli stessi insegnanti. Ne consegue che le ricerche sperimentali
nell’ambito della formazione hanno spesso lacune incolmabili dal punto di vista metodologico.
I dati si riferiscono ad un sottocampione di 20 soggetti, tutti di sesso femminile, di età compresa fra 23 e 44 anni (età media:
31 anni), insegnanti in ruolo in scuole dell’infanzia. Il corso di formazione ha previsto 2 ore di lezione frontale, 20 ore di
clowning e prestidigitazione, 4 ore con una psicologa. Ciascun gruppo era costituito da 7/10 operatrici dell'infanzia. La
peculiarità degli interventi è stata quella di lavorare sulla capacità di mettersi in gioco, collaborando in equipe. Sia i clown,
sia la psicologa, sia gli insegnanti hanno svolto relazioni personali sul corso.
Lo strumento di valutazione psicologica è l’ Adjective Check List (Gough, 1979), un test di auto-descrizione tramite
aggettivi, che consente di misurare i cambiamenti percepiti dal soggetto dopo il training formativo. Il test è composto di 37
scale.
Alcuni risultati
Data la mole di dati che si ottengono con il test ACL, è impossibile riportare qui tutte le scale. Se ne sono quindi scelte 4 fra
le 37 elaborate, in quanto si riferiscono a fattori importanti nella relazione fra insegnanti e fra insegnanti e bambini. Si tratta,
infatti delle scale che misurano la fiducia in se stessi (Scala n. 22, S-CFD), la capacità di comprendere gli altri (Scala n. 9,
INT), la capacità di prendersi cura (Scala n. 10 NUR) e la creatività (Scala n. 25 CPS).
Per confrontare i risultati della prima e della seconda prova è stato effettuato il test t. di Student per campioni dipendenti.
Medie
Scala INT.
I prova = 4.9; II prova = 6; t. di Stud. = - 2.065, p = 0.05
Scala NUR
48
I prova = 5.4; II prova = 7.3; t. di Stud. = - 2.59, p = 0.017.
Risultano, quindi, cambiamenti significativi nella scala INT e nella scala NUR, mentre non si trovano differenze significative
alle scale CDF e CPS.
Conclusioni
Questi primi risultati corroborano l’idea che il clowning sia uno strumento dalle forti potenzialità in ambito scolastico: i
soggetti, infatti, si percepiscono, al termine del training, come più capaci in ambito relazionale. Restano aperte numerose
domande sulle tante variabili che possono intervenire in un percorso di clowning (personalità del clown, durata del corso, tipi
di esercizi proposti ecc..) e sulle possibili misure di valutazione da adottare.
49
Simposio 8
PROMUOVERE L’APPRENDIMENTO.
ASPETTI COGNITIVI E MOTIVAZIONALI
Proponente: ANNA EMILIA BERTI
Università degli Studi di Padova
[email protected]
Discussant: CAMILLA GOBBO
Università degli Studi di Padova
[email protected]
50
Presentazione
Fornire strumenti conoscitivi e operativi per promuovere un’istruzione efficace è un obiettivo perseguito, con metodi e
focalizzazioni diverse, da vari settori della psicologia dello sviluppo e dell’educazione. Oltre alle difficoltà di apprendimento
presenti un numero limitato di discenti e che richiedono interventi individualizzati, esistono difficoltà più diffuse, dovute al
fatto che la scansione delle nozioni nei curricola scolastici non tiene conto delle relazioni di propedeuticità, della complessità
di nozioni apparentemente semplici (Ferrari e Chi 1998), e del fatto che gli allievi possiedono un bagaglio di concezioni o
“teorie ingenue” che spesso divergono con le nozioni scientifiche e ne possono ostacolare la comprensione e
l’apprendimento (Vosniadou 1991). Il cambiamento di queste concezioni spesso richiede un impegno che chiama in causa
fattori non solo cognitivi ma anche motivazionali (Dole & Sinatra, 1998; Gregoire, 2003).
Il presente simposio propone degli strumenti per migliorare l’apprendimento di varie nozioni o abilità in discenti di vari
livelli scolari. Ajello e Belardi indicano alcuni fattori che promuovono la riattivazione del processo di apprendimento in
adolescenti con una storia di insuccessi scolastici. Bigozzi ha costruito e verificato l’efficacia di un percorso per promuovere
la conoscenza di diversi tipi di testo in bambini di scuola materna. Dal Castello e Mason mostrano come un testo scientifico
che considera e confuta le più comuni concezioni errate abbia maggiore efficacia su bambini di 5° elementare di un testo che
si limita a esporre le nozioni corrette. Perucchini e Ronchi mettono in evidenza i diversi effetti di un percorso didattico
espositivo e di uno costruttivo nell’appredimento di nozioni astronomiche in seconda elementare. Toneatti e Berti
propongono un curricolo di biologia per la seconda elementare, volto a porre le basi perché i bambini possano comprendere
in III la teoria darwiniana dell’evoluzione.
RIPRENDERE AD IMPARARE
ANNA MARIA AJELLO, CRISTINA BELARDI
Università di Roma 1, Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione
[email protected]
Introduzione
Lo studio delle ragioni degli insuccessi scolastici ha di recente mette a fuoco il legame fra le caratteristiche del contesto
scolastico (Lee & Burkam 2003), della cultura circostante e quelle dei soggetti con prestazioni scolastiche insufficienti sia in
Italia (Bratti Checchi Filippin, 2007) che all’estero (Marks 2007, Janosz, Archambault, Morizot, Pagani, 2008).
La specificità di questa relazione risulta più complessa da analizzare perchè mancano misure specifiche individuali raccolte
con tale obbiettivo. Dal punto di vista psicologico si è parlato di “danno di motivazione” (Ajello, 2000) per far riferimento
alle caratteristiche di giovani che hanno perso la voglia di imparare come effetto di interventi scolastici fallimentari,
orientando così l’attenzione sul processo di scolarizzazione e non solo, come di frequente, sulle caratteristiche del singolo
che ne sconta l’insuccesso.
Rimettere in moto il processo di apprendimento con recupero del danno è stato l’obbiettivo delle Scuole della Seconda
Opportunità, in seguito a specifiche iniziative europee (progetto Youthstart). Tali scuole sono diffuse in aree considerate a
rischio di grandi città come Napoli, Roma, Torino, ma anche in zone più agiate della nostra Penisola quali Reggio
Emilia,Verona e Trento. (Albert, Allasino Cerreti, 1996 Rossi-Doria, 1999 Ajello 2000, Brighenti, 2006, Ajello, Belardi
2007).
Esaminare le caratteristiche del funzionamento di queste scuole e dei ragazzi/e che le frequentano rappresenta una possibilità
unica di mettere a fuoco il legame fra specificità organizzative e micro-culturali della scuola e rappresentazioni degli
studenti: ciò può mettere in luce le ragioni del recupero del danno di motivazione e della rimessa in moto del processo di
apprendimento scolastico.
L’indagine si è articolata in 12 focus group con gli operatori delle scuole e 6 focus group con ragazzi/e delle sperimentazioni
richiamate (Torino, Roma, Napoli, Reggio Emilia, Verona, Trento). In questa sede si riferisce l’esito dell’analisi dei focus
group dei ragazzi/e per focalizzare esclusivamente il mutamento da loro segnalato come origine della riattivazione del
processo di apprendimento. Si è fatto riferimento alla prospettiva socioculturale per la considerazione delle caratteristiche
dell’organizzazione scolastica nel suo complesso (Lee, Burkam 2003) e della motivazione come risultato di interazioni
complesse nel processo di scolarizzazione (Ajello, 1999).
Metodo
Sono stati realizzati 6 focus group - composti da 6 a 8 partecipanti, maschi e femmine di età media di 16.08 anni per ciascuna
sperimentazione - condotti da due moderatori esperti, registrati e integralmente trascritti. Per l’analisi delle trascrizioni è stato
utilizzato il software Atlas.ti 5.2 I codici e le query tool, hanno permesso di delineare i modi di parlare della scuola della
seconda opportunità da parte dei partecipanti ai 6 focus group.
Il quadro d’insieme è stato ricondotto alle domande fondamentali che hanno guidato la conduzione dei focus group.; 1. il
progetto somiglia a…; 2. chi ha consigliato il progetto; 3. differenze con l’esperienza scolastica precedente in relazione al
che cosa si impara, alla metodologia e alle caratteristiche degli insegnanti; 4. che cosa pensano i genitori; 5. il consiglio ad un
amico; 6. la percezione del futuro del progetto.
51
Risultati
Riportiamo in questa sede i risultati alla domanda 3, relativa alle differenze con l’esperienza scolastica precedente, al che
cosa si impara, al come e alle caratteristiche degli insegnanti, perchè possono considerarsi più illuminanti per
l’identificazione degli elementi che promuovono la riattivazione del processo di apprendimento scolastico.
L’analisi ha messo in luce alcuni aspetti comuni percepiti dai ragazzi/e nelle diverse sperimentazioni che sono: 1) un
alleggerimento complessivo del carico didattico nel senso di un numero minore di attività, una loro maggiore
diversificazione, soprattutto in termini di autenticità, significatività e operatività; 2) una modalità di lavoro articolata per
gruppi, con costruzione di un rapporto progressivo, con l’insegnante prima e con i pari poi; 3) il riferimento alla libera scelta
dello studente, nel senso di una forte responsabilizzazione rispetto a ciò che viene fatto in classe; 4) la presenza di poche
regole e chiare valide per tutti (docenti compresi); 5) una modalità più calda che esprime accoglienza e interesse da parte dei
docenti, l’accettazione degli errori e la pazienza nel rispiegare tutte le volte che è necessario, una maggior controllo da parte
loro collegato a classi poco numerose.
Al negativo tre ragazzi segnalano che sono scuole dove “si gioca”, si fa poco, come a sottolineare che non è la scuola con la
S maiuscola, ma un rimedio per alunni come loro. Costoro rimandano un’immagine sedimentata della scuola come
situazione costrittiva, pesante e difficile: quando si conducono esperienze di apprendimento diverse pur apprezzate non sono
riconosciute come “scolastiche”.
POTENZIAMENTO DELLA COMPETENZA TESTUALE IN BAMBINI DI 4 E 5 ANNI
LUCIA BIGOZZI
Università di Firenze, Dipartimento di Psicologia
[email protected]
Introduzione
Nelle culture occidentali alfabetizzate la scoperta e la costruzione del codice scritto hanno inizio precocemente attraverso un
processo di alfabetizzazione emergente, distinto dalla successiva alfabetizzazione formalizzata (Pinto 2003).
L’alfabetizzazione emergente è alimentata dalle conoscenze, abilità, atteggiamenti dell’ambiente intorno al bambino ed è
rispecchiata nelle capacità che il bambino stesso dimostra di avere appreso spontaneamente prima dell’ingresso nella scuola
(Whitehurst e Lonigan 1998). Nel modello di alfabetizzazione emergente recentemente messo a punto da Pinto e coll. (2008;
in stampa), è presente il fattore competenza testuale, il quale chiama in causa la capacità del bambino di superare il piano
della singola unità di significato veicolata dalla parola per costituire quella rete di relazioni tra parole che è il testo; il quale è
un insieme dotato di coesione e coerenza locali e globali, secondo le configurazioni canoniche dei vari generi testuali.
La competenza testuale, in questa sua accezione, non è rilevabile attraverso le prove per misurare le competenze cognitivolinguistiche generali, perché indica una modalità di funzionamento linguistico che può essere rilevata solo da compiti
specifici.
La narrazione di storie è una sorta di predisposizione che secondo Bruner (1990) il bambino ha in sé molto precocemente e
tradizionalmente nella scuola dell’infanzia viene spesso sollecitata la produzione e la comprensione di storie. In uno studio
condotto su bambini dai 3 ai 5 anni (Pinto e Salzarulo 1998) emerge che i bambini di 4 anni sono già capaci di distinguere
due generi di narrazioni. Tuttavia, anche se è documentata l’emergenza di tali capacità, raramente viene stimolata la
comprensione dei vari generi testuali, né viene svolta un’attività di tipo metacognitivo sui vari generi.
Obiettivo.
Con questo lavoro abbiamo voluto verificare l’efficacia di un percorso ludico di potenziamento della competenza testuale
nella scuola dell’infanzia.
Campione. Hanno partecipato allo studio 109 bambini di 4 e 5 anni di una città Toscana, omogenei come provenienza socioculturale (56 bambini nel gruppo sperimentale, di cui 28 della sezione dei 4 anni e 28 della sezione dei 5 anni; 53 bambini
del gruppo di controllo, di cui 27 della sezione dei 4 anni e 26 della sezione dei 5 anni).
Metodo e materiali
Dopo avere valutato l’omogeneità dei due gruppi in ordine alla competenza testuale, i bambini sono stati sottoposti a prove
iniziali e finali: raccontare una storia ascoltata, dettare una lettera per un amico, dire una ricetta. Il gruppo sperimentale ha
svolto il trattamento in 20 incontri di durata variabile (una o due ore) nei quali è stato seguito un percorso di scoperta dei vari
generi testuali: indovinello, descrizione, cartolina, ricetta, leggenda e storia (Pinto e Bigozzi 2003). Le stimolazioni utilizzate
hanno attivamente coinvolto i bambini, che hanno sempre partecipato molto volentieri alle attività, le quali non hanno mai
assunto la forma di un’anticipazione delle lezioni formali della scuola elementare. Il gruppo di controllo ha svolto altre
attività (di cui è stata fornita dettagliata descrizione) che non prevedeva un intenzionale potenziamento della competenza
testuale, pur prevedendo, come di consueto, attività di lettura ad alta voce di storie, apprendimento di fiabe, teatro ecc.
Codifica e Analisi. E’ stata adottata per tutte le produzioni una codifica strutturale basata sulla presenza assenza di elementi
pregnanti (Spinillo e Pinto 1994). Per ogni prova abbiamo calcolato le medie e le deviazioni standard dei due gruppi. Per
verificare l’efficacia del trattamento abbiamo confrontato le medie delle differenze prima-dopo dei due gruppi con un T test
per campioni indipendenti.
52
Risultati
risultati attestano un significativo aumento della competenza testuale nel gruppo sperimentale per tutte e tre le forme testuali
indagate (Storia t = -6,585 p< .01; Lettera t = -6,9160 p<.01; Ricetta = - 6,8160 p< .01) oltre ad attestare l’efficacia di un
trattamento intenzionalmente predisposto per favorire lo sviluppo della competenza testuale, ci confermano la presenza di un
periodo fecondo per sviluppare la sensibilità al testo. L’importanza di tale potenziamento assume ancora più valore se si
considera che il fattore di competenza testuale orale in età prescolare costituisce uno specifico predittore della competenza
testuale scritta in prima elementare (Accorti et alii 2007). Ci preme sottolineare che la spontaneità con cui i giochi sono stati
svolti ed il fatto che tali giochi siano rimasti nel patrimonio ludico dei bambini, anche dopo la fine del trattamento, ci
rimanda ad un autentico concetto di “alfabetizzazione emergente” proprio come spontanea scoperta e condivisione di
pratiche culturali.
FACILITARE IL CAMBIAMENTO CONCETTUALE ATTRAVERSO LA STRUTTURA DEL TESTO DA
APPRENDERE: UN’ANALISI DEI PROCESSI COGNITIVI ATTIVATI DURANTE LA LETTURA
ILARIA DAL CASTELLO, LUCIA MASON
Università di Padova, Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione
[email protected]
Introduzione
I modelli più recenti del cambiamento concettuale (Dole & Sinatra, 1998; Gregoire, 2003) hanno evidenziato che solo un alto
livello di coinvolgimento cognitivo, metacognitivo e motivazionale conduce a un cambiamento profondo e duraturo.
Molteplici interazioni tra fattori di diversa natura sembrano infatti sottostare al processo di ristrutturazione di conoscenze
(Murphy & Mason, 2007; Sinatra, 2005; Vosniadou, 2007). L’obiettivo dello studio da noi svolto era di esaminare il ruolo di
alcune variabili che possono influire sul cambiamento concettuale, considerate finora separatamente dalla ricerca. Due erano
riferite al materiale di apprendimento (il tipo di testo e l’argomento di studio), mentre un’altra variabile riguardava una
caratteristica motivazionale dello studente (le sue credenze epistemiche sulla scienza). Nello specifico, è stata esaminata la
struttura del testo tramite cui far apprendere concetti su due argomenti scientifici (energia elettrica e luce/colori),
confrontando lo studio di un testo espositivo tradizionale con lo studio di un testo confutazionale che esplicita le
misconcezioni dei lettori, le confuta e introduce le conoscenze scientifiche come alternative più valide (Alvermann & Hynd,
1989; Guzzetti et al., 1993; Hynd, 2003). Si è indagato se i due testi favorissero o meno l’apprendimento per cambiamento
concettuale, analizzando non solo il prodotto off-line, ma anche i processi cognitivi on-line, cioè attivati durante la lettura dei
testi stessi (Kendeou & van den Broek, 2007). È stato ipotizzato che il testo confutazionale avrebbe facilitato il cambiamento
concettuale (Hynd, 2003; Mason et al., in press) in quanto favorisce l’integrazione tra pre e nuove conoscenze, nonché la
consapevolezza delle proprie misconcezioni. Ci si aspettava quindi che la lettura del testo confutazionale sollecitasse
maggiormente, per entrambi gli argomenti, pensieri “on-line” sull’uso di strategie di revisione concettuale, oltre che più
inferenze corrette, e che tali processi cognitivi fossero predittori dell’apprendimento. Inoltre, è stato ipotizzato che anche
credenze epistemiche più evolute avrebbero favorito il cambiamento concettuale, specialmente in relazione alla lettura del
testo confutazionale.
Metodo
Sono stati coinvolti 34 studenti di quinta classe di scuola primaria: 18 hanno letto un testo tradizionale sull’energia elettrica e
un testo confutazionale sulla luce e i colori, 16 un testo confutazionale sull’energia elettrica e un testo tradizionale sulla luce
e i colori. Sono state rilevate le conoscenze al pre e post-test, le credenze epistemiche sulla conoscenza scientifica
(questionario di Conley et al., 2004) e i procesi cognitivi attivati durante la lettura dei testi tramite il pensiero ad alta voce.
L’abilità di comprensione della lettura (Prove MT, Cornoldi & Colpo, 1998) è stata considerata come covariata nell’analisi
statistica.
Risultati
Da un’ANCOVA per misure ripetute sono emerse alcune interazioni significative: tempo x argomento, F(1, 59)=20.92,
p<.001; tempo x credenze epistemiche, F(1, 59)=5.32; p<.05; tempo x argomento x credenze epistemiche, F(1, 59)=4.06,
p<.05. La lettura dei testi su luce e colori ha complessivamente favorito un migliore apprendimento; gli studenti con
credenze epistemiche più evolute hanno ottenuto prestazioni superiori a chi possedeva credenze meno evolute, e tale effetto
si è rivelato maggiore per l’argomento sull’origine dei colori. Da un’ANCOVA per misure ripetute, eseguita solo per
l’argomento energia elettrica, è emersa un’interazione significativa tempo x tipo di testo, F(1, 31)=7.41, p<.05: il testo
confutazionale ha stimolato maggiormente il cambiamento concettuale. Un test di Mann-Whitney ha inoltre rivelato che il
testo confutazionale sull’energia elettrica ha sollecitato alcuni processi on-line in misura significativamente maggiore di
quello tradizionale. Durante la sua lettura, gli studenti hanno prodotto più inferenze corrette (Z = -3.06, p<.005) e strategie di
cambiamento concettuale (Z = -3.35, p<.005). Il testo confutazionale su luce e colori ha sollecitato, invece, solo più inferenze
corrette (Z = -2.19, p<.05). Inoltre, sull’argomento energia elettrica - cioè quello per cui il testo confutazionale ha favorito
53
maggiormente il cambiamento concettuale - le correlazioni di Spearman evidenziavano che solo per la lettura del testo a
struttura confutazionale, più inferenze corrette e strategie di cambiamento concettuale erano associate a prestazioni migliori.
Dall’analisi di regressione è emerso che per questo testo, dopo aver controllato il contributo di pre-conoscenze, credenze
epistemiche e abilità di comprensione, erano solo le strategie di cambiamento concettuale a essere predittori delle prestazioni
al post-test (Beta= .68, p<.01). Laddove la lettura del testo confutazionale favoriva maggiormente il cambiamento
concettuale, l’effetto positivo sembrava “passare” attraverso la consapevolezza dell’inadeguatezza delle proprie conoscenze.
EFFICACIA DI METODOLOGIE DIDATTICHE DIVERSE NELL’APPRENDIMENTO DELLA CONCEZIONE
DI TERRA E CICLO DÌ-NOTTE
PAOLA PERUCCHINI, CINZIA RONCHI
Università di Roma 3, Dipartimento Scienze dell'educazione
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi trent’anni numerosi studi hanno riguardato la formazione del concetto di Terra nei bambini, e da questi
sembrano emergere due diverse posizioni: la prima ritiene che i bambini a partire dalla propria esperienza si costruiscono dei
modelli mentali coerenti (ad es. Vosniadou e Brewer, 1992; 1994), l’altra che essi presentino nozioni frammentarie e non
sistematizzate (ad es. Nobes et al., 2005). Da queste diverse posizioni derivano ipotesi differenti sull’apprendimento di
conoscenze scientifiche sulla Terra: per la prima, tale processo sarebbe lungo e faticoso, perché richiede al bambino di
modificare e superare le proprie misconcezioni; per la seconda, si tratterebbe un processo relativamente semplice, perché il
bambino, non possedendo una concezione ingenua stabile, accoglie senza resistenza l’informazione scientifica.
Pochi studi sono finora stati condotti sull’apprendimento delle concezioni scientifiche di forma della Terra e gravità,
misurando l’efficacia di diversi tipi di interventi di istruzione in bambini di scuola primaria. Diakidoy e Kendeou (2001)
hanno rilevato come un approccio didattico che muova dalle conoscenze pregresse degli alunni sia maggiormente efficace
rispetto ad uno di tipo tradizionale. Hannust e Kikas (2007) hanno messo in luce come i bambini piccoli possono facilmente
acquisire informazioni fattuali sulla Terra, anche se durante gli interventi di istruzione possono sviluppare delle
misconoscenze.
Il presente lavoro si pone l’obiettivo di indagare gli effetti di due diversi tipi di percorsi didattici per bambini di seconda
classe di scuola primaria circa la forma e la gravità della Terra e sul ciclo dì-notte. Il primo percorso didattico si è ispirato al
lavoro di Lanciano (1996) sulla didattica dell’astronomia nella scuola primaria ed è basato sulla valorizzazione
dell’esperienza sensoriale, sull’utilizzo del corpo e dei gesti come strumenti per apprendere, sulla possibilità di creare un
legame tra le proprie esperienze e l’informazione scientifica. Esso parte dalle concezioni ingenue dei bambini e cerca di farle
evolvere verso modelli più coerenti e vicini a quelli scientifici. Il secondo percorso didattico, frequentemente usato a scuola,
utilizza la lezione frontale come metodologia preferenziale, durante la quale, con il sussidio di diversi tipi di testi, modelli,
immagini e filmati, vengono esposte informazioni scientifiche corrette, presentate come dati di fatto, senza tenere in
considerazione le conoscenze pregresse dei bambini. A livello pedagogico, questi due percorsi didattici possono essere
ricondotti a due metodi didattici per l’insegnamento delle scienze individuati da Laeng (1998): il metodo costruttivista e
quello espositivo.
Metodo
Il campione indagato comprende 73 bambini frequentanti le II classi di una scuola Primaria in provincia di Latina, ed è
suddiviso in gruppo sperimentale (36 bambini) e gruppo di controllo (37 bambini). Il gruppo sperimentale era a sua volta
distinto in classe A (15 bambini) e in classe B (22 bambini). Per indagare le concezioni infantili è stata utilizzata una prova
strutturata del tipo carta e matita, realizzata ad hoc sulla base della letteratura e composta da 22 item, alcuni dei quali a
risposta aperta, altri a scelta multipla di immagini o frasi. La prova è stata somministrata collettivamente all’intero campione
in fase iniziale, a conclusione di uno dei percorsi d’istruzione ed in fase finale. I percorsi d’istruzione, riguardanti le
medesime concezioni (forma della Terra, attrazione gravitazionale terrestre, ciclo dì-notte), si differenziano sulla base del
metodo didattico utilizzato: costruttivista (percorso 1) ed espositivo (percorso 2)
Dopo aver compilato la prova iniziale, la classe A ha partecipato al percorso 1, mentre la classe B ha partecipato al percorso
2. Alla fine di questa fase, della durata di un mese e mezzo, si è proceduto alla somministrazione della prova standardizzata
all’intero campione sperimentale e ad un sottogruppo di quello di controllo (18 bambini). Nella fase successiva, che ha avuto
la medesima durata, le due classi hanno proseguito l’attività didattica utilizzando l’altra metodologia: pertanto la classe B ha
effettuato il percorso 1 e la classe A ha partecipato al percorso 2. L’efficacia dei percorsi didattici è stata poi nuovamente
misurata attraverso la somministrazione dello strumento in fase finale all’intero campione osservato.
Risultati
I risultati preliminari riguardanti una delle due classi sperimentali mostrano un diverso effetto dei due percorsi didattici in
funzione del tipo di conoscenza della quale si valuta l’acquisizione nel test. In particolare si è potuto osservare che quando la
domanda presente nell’item implica il semplice recupero di informazioni, il metodo di tipo espositivo mostra effetti maggiori
54
rispetto a quello costruttivista. Nel caso della domanda “È più grande il Sole o la Terra?” si osserva al pre-test una
percentuale di risposte corrette del 23%, dopo il percorso costruttivista tale percentuale sale a 36%, e a seguito del percorso
di tipo espositivo il 100% dei bambini risponde correttamente alla domanda. Un andamento analogo si osserva per altre
domande, come ad esempio: “Il Sole si muove oppure no?”, alla quale in fase iniziale risponde correttamente il 15% dei
bambini, dopo il percorso costruttivista il 9%, e dopo il percorso espositivo il 69% . Analogamente, alla domanda “La Terra
si muove oppure no?” al pre-test rispondono correttamente il 33% dei bambini, al termine del percorso costruttivista il 18%
e, dopo il percorso di tipo espositivo il 92% dei bambini osservati.
Se invece viene chiesto di utilizzare le conoscenze possedute trasferendole in contesti di spiegazione diversi, come nel caso
di domande di tipo generativo (Vosniadou, 1992;1994), il metodo costruttivista si rivela maggiormente efficace rispetto a
quello espositivo.
Nel caso dell’item “Piove su tutta la Terra. Disegna la Terra con le nuvole e la pioggia”, al pre-test la maggior parte dei
bambini disegna una Terra piatta (46%); dopo aver partecipato al percorso costruttivista la maggior parte di essi rappresenta
sul foglio una Terra sferica con la pioggia che cade in direzione alto-basso rispetto al foglio (55%), mentre tale percentuale si
riduce (46%) dopo il percorso di tipo espositivo. Nel caso della domanda “Quando il Sole non c’è si può vedere l’ombra?”,
in fase iniziale risponde correttamente il 77% dei bambini, dopo il percorso costruttivista tutti i bambini forniscono la
risposta corretta, percentuale che dopo il percorso espositivo si attenua lievemente (92%). Riguardo l’item “Come mai di
notte non vediamo il Sole nel cielo? Disegna dove si trova il Sole durante la notte”, si rileva che in fase iniziale solo il 9%
dei bambini osservati effettua correttamente il suddetto disegno, e che tale percentuale sale al 55% dopo il percorso di tipo
costruttivista, incrementando anche a seguito del percorso di tipo espositivo (69%).
STUDIO-INTERVENTO IN SECONDA ELEMENTARE SU UN CURRICOLO DI BIOLOGIA:
LE NOZIONI DI BASE PER COMPRENDERE IN TERZA L’EVOLUZIONE DELLE SPECIE
LAURA TONEATTI, ANNA EMILIA BERTI
Università degli Studi di Padova
[email protected]
Introduzione
Varie ricerche hanno evidenziato misconcezioni sull’evoluzione presenti sia nei bambini (Samarapungavan e Wiers, 1997;
Deadman e Kelly, 1978) che negli adulti (Brumby, 1979; Greene, 1990). Il cambiamento nelle specie viene attribuito all’uso
o disuso di parti del corpo, allo sforzo, o alla sua stessa utilità o necessità, e non ai processi di variazione e selezione al centro
della teoria darwiniana. Secondo alcuni autori ciò deriva da difficoltà intrinseche alla teoria darwiniana, dovute alla
complessità dei concetti sottostanti e a fatto che essi contrastano con tendenze di pensiero profondamente radicate negli
esseri umani (Evans 2001; Ferrari e Chi, 1998; Herernurm 1992; Ohlsson, 1991). Altri studiosi hanno suggerito la possibilità
che le misconcezioni dell’evoluzione derivino anche da fattori sociali e culturali, come una carente educazione scientifica
(Miller, Scott & Okamoto, 2006), la diffusione di nozioni errate o imprecise da parte di testi divulgativi e programmi
televisivi (Anderson, Fisher e Norman , 2002) .
Una ricerca di Toneatti, Berti, Crivellari, Cesarotto, (2007) condotta con bambini di terza elementare prima e dopo che
avevano studiato a scuola “la terra prima dell’uomo” (argomento previsto dai vigenti programmi scolastici) ha mostrato che
la maggior parte di essi essi avevano acquisito l’idea di evoluzione e le spiegazioni proposte insegnanti e sussidiari, secondo
cui essa deriverebbe dal trascorrere del tempo o dall’esigenza di adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente. Questi risultati
inducono a chiederci se i bambini potrebbero comprendere e accettare una spiegazione darwiniana, qualora essa venga loro
esplicitamente proposta. Abbiamo perciò costruito e sperimentato un curricolo di biologia per la scuola elementare articolato
in due anni; nel primo (seconda elementare) sono state introdotte varie nozioni preliminari alla comprensione della teoria
darwiniana, che è stata trattata nel secondo (terza elementare). In questo intervento presentiamo i risultati della prima parte
del curricolo, sperimenta in seconda elementare.
Metodo
82 bambini (40 M e 42 F di età compresa tra 6,5 e 8,1 anni) sono stati sottoposti individualmente ad inizio anno scolastico
(pre-test) ad una intervista semi-strutturata sulle principali nozioni oggetto dell’intervento (caratteristiche distintive degli
animali; interno di un vertebrato; raggruppamenti di animali; somiglianze e differenze tra animali e piante; caratteristiche di
un essere vivente. L’intervista è stata ripetuta nella seconda metà di maggio (post-test) con l’aggiunta di alcune domande su
nozioni introdotte durante l’insegnamento. Alle insegnanti è stato chiesto inoltre di compilare un questionario per indicare il
rendimento complessivo dei singoli alunni.
In base alla disponibilità delle insegnanti, tre sezioni (60 bambini: 30 M e 30 F) sono state assegnate alla condizione
sperimentale ed una (22 bambini: 10 M e 12 F) a quella di controllo.
La sperimentazione del curricolo è stata condotta dalle insegnanti di classe tra fine ottobre e metà aprile sui seguenti
argomenti: identificazione, classificazione e differenze tra cose artificiali e naturali, viventi e non viventi; organi interni di un
mammifero; classificazione degli animali; cos’è una specie; differenze individuali tra individui della stessa specie; variazioni
che la proporzione di individui con diverse caratteristiche può presentare nel tempo, in relazione a vantaggi o svantaggi che
esse comportano in un dato ambiente
55
Risultati
Le risposte sugli animali sono state classificate da due giudici indipendenti in categorie costruite in base ad un’analisi
preliminare dei protocolli. Il grado di accordo tra i due giudici è andato da un minimo del 80% ad un massimo del 100%. E’
stato calcolato un indice complessivo di conoscenza, e su di esso è stata effettuata un’ANOVA mista, con sesso e gruppo
(sperimentale e di controllo) come variabili tra i soggetti, e tempo (pre-post test), come variabile entro i soggetti. Sono
risultati significativi gli effetti principali dei gruppi F (1, 80) = 27.5, p< .001, h2 = .26, e del tempo F (1, 80) = 214.9, p< .001,
h2 = .73. E’ inoltre risultata significativa l’interazione tra gruppo e tempo con differenze significative fra i due gruppi al posttest ma non a pre-test. In entrambi i gruppi c’è stato un progresso significativo dal pre- al post-test, ma questo è risultato più
consistente nel gruppo sperimentale. Alle differenze al post-test tra i due gruppi di bambini hanno contribuito in particolare
le maggiori conoscenze del gruppo sperimentale riguardo alle nozioni di vertebrato [c2 (2, N = 82) = 63.643, p<. 001] e di
specie [c2 (2, N = 82) = 28.283, p<. 001], ai nomi delle classi di vertebrati (p< .001) e ai loro significati, e l’uso più frequente
di criteri tassonomici per raggruppare gli animali.
56
Simposio 9
COMPETENZA SOCIALE IN ETÀ PRESCOLARE
Proponente: ROSALINDA CASSIBBA
Dipartimento di Psicologia-Università di Bari
[email protected]
Discussant: LAVINIA BARONE
Dipartimento di Psicologia - Università di Pavia
[email protected]
57
Presentazione
La nascita e il progredire delle relazioni interpersonali è un tema fondamentale per lo sviluppo sociale. I bambini stabiliscono
diversi tipi di relazione con partner differenti, sia all’interno della famiglia sia in contesti extra-familiari. Il presente simposio
si propone di approfondire alcune caratteristiche del processo di socializzazione nei bambini di età prescolare. Partendo
dall’analisi di alcune caratteristiche della prima relazione per eccellenza che il bambino costruisce e nella quale dà prova
delle sue grandi abilità di affrontare l’arduo compito di formare una relazione con un’altra persona, viene approfondito
successivamente il ruolo che questa relazione può avere nello sviluppo della capacità del bambino di entrare in relazione con
altri adulti e con i coetanei, in un contesto diverso da quello familiare.
Il primo lavoro, presentato da Lavelli e Carli, si focalizza sui pattern di comunicazione che emergono, nell’interazione
madre-figlio, come risultato della storia relazionale di ogni diade, e che ciascuna diade utilizza per gestire e affrontare le
difficoltà tipiche di ogni interazione. Il lavoro di Barone e Montirosso, e quello di Elia, Cassibba e Sette si soffermano ad
indagare come le competenze sociali acquisite nell’ambito del contesto familiare vengono trasferite in un contesto
relazionale diverso, qual è quello della scuola dell’infanzia, in cui il bambino sperimenta relazioni significative con altri
adulti e con i coetanei. Infine, la ricerca condotta da Caprin, Riva-Crugnola, Gazzotti e Apa indaga le relazioni esistenti tra
comportamenti sociali positivi e negativi, evidenziando l’interconnessione di due fenomeni quasi sempre studiati
separatamente.
PATTERN DI COMUNICAZIONE MADRE-BAMBINO E QUALITÀ DELL’ATTACCAMENTO ALLA MADRE
MANUELA LAVELLI (1), LUCIA CARLI (2)
(1) Dipartimento di Psicologia e Antropologia Culturale, Università degli Studi di Verona, via S. Francesco 22, 37129
Verona
(2) Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Piazza dell’Ateneo Nuovo 1, 20126 Milano
e-mail:
[email protected]
Introduzione
Nella formulazione classica della teoria dell’attaccamento Bowlby (1969) spiega che i pattern di interazione madre-bambino
che nel corso del primo anno si stabilizzano come prodotto dell’adattamento reciproco risultano determinanti per la qualità
dell’attaccamento alla madre. Tuttavia, nei decenni successivi la dimensione diadica delle modalità caratteristiche di
interazione appare poco esplorata rispetto allo studio di fattori individuali associati alla qualità dell’attaccamento. Dagli studi
condotti nell’ambito dell’Infant Research sappiamo però che fin dai primi mesi il lattante mostra una precoce sensibilità alla
qualità affettiva e alla contingenza della comunicazione con la madre (Lavelli, 2007), e grazie alla ricorrenza dei pattern di
comunicazione inizia a riconoscere e ad attendersi le modalità ricorrenti attraverso le quali “ha imparato” ad interagire con la
madre (Bigelow, Rochat, 2006; Cohn, Campbell, Ross, 1991; Soussignan et al., 2006), modalità che influenzano
considerevolmente anche lo sviluppo della qualità dell’attaccamento (Fonagy, 2001; Jaffe et al., 2002). Nell’ambito di questa
prospettiva, la proposta di Fogel (1997) di estendere il modello storico-relazionale all’interpretazione della qualità
dell’attaccamento offre una chiave di lettura che assume la diade madre-bambino come unità di analisi e sposta il centro
dell’osservazione dai comportamenti del bambino ai pattern di comunicazione che emergono come risultato della storia
relazionale di ogni diade, e di cui ogni diade dispone per affrontare e gestire lo stress della separazione e la riparazione di
episodi di mancata disponibilità.
All’interno di questo quadro teorico, lo studio si propone di fornire dati empirici al modello di Fogel; in particolare, di (a)
individuare i pattern di comunicazione messi in atto da diadi madre-bambino per gestire sia l’interazione, sia le separazioni e
le riunificazioni previste dalla Strange Situation (Ainsworth et al., 1978), evidenziando eventuali associazioni tra la
comunicazione durante il gioco e durante i momenti di separazione e riunione; (b) rilevare eventuali associazioni
significative tra i pattern di comunicazione diadica e i pattern di attaccamento del bambino; (c) esaminare la stabilità dei
pattern di comunicazione diadica rilevati a 12 e a 36 mesi.
Metodo
La ricerca ha coinvolto 45 diadi madre-bambino (età media = 12.4 mesi, ds = 0.85) videoregistrate durante la procedura della
Strange Situation, che ha permesso di classificare i pattern di attaccamento dei bambini. I pattern di comunicazione diadica
sono stati identificati attraverso la Frame Analysis (Fogel, 1993), come frames d’Interazione (Esplorazione Seguita, Gioco
Condiviso, Controllato, Conflittuale, Approccio B o M Fallito, Coccole/Accudimento, Non Interaz.), frames di Separazione
e/o Riunione (Gestita, a Distanza, Ignorata, con Approccio Fallito, Interminabile), e utilizzati come categorie mutualmente
esclusive per la codifica dei comportamenti diadici negli episodi 2, 3, 5 e 8 della SS.
22 diadi sono state videoregistrate anche due anni dopo, durante 10’ di gioco spontaneo, e i comportamenti codificati
utilizzando le categorie dei frames d’Interazione.
Risultati
L’analisi fattoriale effettuata sui frames emersi ha individuato 5 pattern di comunicazione che spiegano il 71.4% della
varianza totale: P1 (20.1%) “Comunicazione disperata” (Approcci B Falliti .67, S e R Interminabili .70), P2 (16.5%)
“Comunicazione ghiacciata” (Gioco Conflittuale e Non Interaz. .81, R con Approccio B Fallito .65), P3 (13%)
58
“Comunicazione caccia e fuga” (Gioco Controllato e Approcci M Falliti .58, S e R Ignorate .84), P4 (11.3%)
“Comunicazione tranquilla” (Esplorazione Seguita .52, R a Distanza .69, S e R Gestite .34), P5 “Comunicazione di cura
affettuosa” (10.1%, Coccole/Accudimento .68).
L’analisi dei cluster ha quindi permesso di classificare le diadi del campione secondo i pattern di comunicazione individuati,
ossia secondo l’elevata presenza di uno o due (nel caso di P4 e P5) di questi pattern. Infine, il metodo dei residui corretti
applicato alla matrice di contingenza tra i gruppi di diadi differenziati secondo i pattern di comunicazione e i gruppi
differenziati in base ai pattern di attaccamento del bambino ha evidenziato significative associazioni tra P1 e C, P2-P3 e A, e
P4+5 e B, suggerendo che i pattern di comunicazione diadica possono costituire un importante indicatore di qualità
dell’attaccamento.
La stabilità dei pattern di comunicazione diadica è invece stata mostrata da significative correlazioni tra alcuni frames
Interazione rilevati a 12 e a 36 mesi (Gioco Controllato e Approcci M Falliti, Esplorazione Seguita, Gioco Condiviso).
ATTACCAMENTO E COMPETENZA SOCIALE: UNA RICERCA IN ETÀ PRESCOLARE
LAVINIA BARONE (1), ROSARIO MONTIROSSO (2)
(1) Dipartimento di psicologia, Università degli Studi di Pavia, P.zza Botta n.6, 27100 Pavia
(2) IRCCS “E.Medea”, via Don Luigi Monza, 20 23842 Bosisio Parini, Lecco.
[email protected]
Introduzione
La teoria dell’attaccamento ha dimostrato la relativa stabilità longitudinale delle organizzazioni mentali d’attaccamento
(Modelli Operativi Interni) che si costituiscono a partire dall’interazione affettiva primaria. Inoltre diverse ricerche hanno
documentato che l’attaccamento si associa allo sviluppo di adeguate competenze socio-emozionali, ovvero alla capacità di
modulare l’espressione emotiva in funzione della possibilità di stabilire e mantenere relazioni soddisfacenti e reciproche
(Coble et al., 1996). In questa prospettiva i pattern di attaccamento forniscono un quadro di riferimento per indagare come le
competenze sociali vengono “traslate” dall’ambito di accudimento primario (la famiglia) a quello delle relazioni extrafamiliari. Da questo punto di vista l’età prescolare costituisce un periodo particolare poiché il bambino si trova a
sperimentare le prime interazioni significative sia con adulti sia con coetanei. La scuola materna rappresenta un osservatorio
privilegiato per valutare le competenze emotivo-relazionali e le associazioni che queste possono avere con i pattern
d’attaccamento. Valutazioni di questo tipo hanno una fondamentale rilevanza nella possibilità di evidenziare precoci
disfunzionalità nell’adattamento psicosociale.
Sulla base di queste premesse l’obiettivo del nostro studio è indagare la relazione tra la qualità dei modelli operativi interni
(sicuro vs insicuro) e le competenze socio-emotive dei bambini osservate dalle insegnanti in ambito scolastico.
Metodo.
43 bambini in età prescolare compresi tra i quattro e i sei anni (M = 62,9 mesi DS = 6,5) hanno partecipato allo studio con il
consenso informato dei genitori. Ciascuno di essi è stato valutato rispetto al pattern d’attaccamento con il Manchester Child
Attachment Story Task (MCAST) di Green e colleghi (2000); si tratta di uno strumento osservativo di recente formulazione
(Barone, Green, 2007; Barone et al. Submitted) che unisce le caratteristiche di valutazione della più conosciuta procedura di
valutazione dell’infanzia – la Strange Situation – con aspetti di analisi della narrazione propri alla procedura di valutazione
dell’età adulta (Adult Attachment Interview), arrivando alla formulazione di una classificazione su 4 categorie (B =
sicurezza, A = insicurezza di tipo evitante, C = insicurezza di tipo ambivalente e D = disorganizzazione). Per quanto riguarda
la valutazione della competenza sociale le insegnanti hanno compilato, per ciascun bambino, un questionario a 80 item con 8
scale di base e 4 riassuntive – Social Competence and Behavior Evaluation – SCBE (LaFreniere, Dumas, 1995), volto a
cogliere informazioni sulla competenza sociale, la qualità dell’espressione emotiva e le difficoltà comportamentali dei
bambini durante le interazioni in classe, sia tra pari sia con le insegnanti.
Risultati.
Rispetto alla valutazione dell’attaccamento, 27 bambini sono risultati sicuri e 16 insicuri. Il confronto tra i due sottogruppi
relativamente alle scale SCBE evidenzia che i bambini sicuri presentano una maggiore emozionalità positiva (t = 2,3; p =
0,02), una maggiore capacità di tollerare le frustrazioni (t = 2,0; p = 0,04) e di regolare la propria aggressività (t = 2,2; p =
0,03). Inoltre, globalmente presentano una maggiore competenza sociale (t = 2,7; p = 0,01) e un migliore adattamento
generale (t = 2,6; p = 0,01).
RELAZIONI FRA DIMENSIONI DELLA COMPETENZA SOCIALE E SICUREZZA DELL’ ATTACCAMENTO
LUCIA ELIA, ROSALINDA CASSIBBA, GIOVANNA SETTE
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Bari.
[email protected]
59
Introduzione
Nello studio della socializzazione infantile, lo sviluppo della competenza sociale intesa come capacità di raggiungere i propri
obiettivi personali mantenendo, al contempo, relazioni positive con gli altri, occupa un ruolo di spicco (Rose-Krasnor, 1997).
Tuttavia, a fronte del numero cospicuo di ricerche condotte sul tema, manca tuttora una operazionalizzazione unica e
condivisa del costrutto di competenza sociale (Durkin, 1995). Alcuni autori, utilizzando i metodi osservativi, si sono
focalizzati sulla valutazione degli aspetti comportamentali osservabili nel corso delle interazioni all’interno del gruppo
(Vaughn e Waters, 1980, 1981). Altri studi hanno privilegiato, invece, il ricorso a misure più indirette quali, ad esempio, il
grado di accettazione tra pari, partendo dalla constatazione che i bambini più popolari sono in possesso di un repertorio più
ampio di abilità sociali (Rose-Krasnor, 1997; Parker et al., 1995). Raramente, però, i differenti aspetti analizzati dai diversi
studi sono stati messi in relazione fra loro al fine di ottenere una valutazione meno “frammentata” delle competenze sociali
infantili.
Fra i fattori associati ai livelli di competenza sociale del bambino, un ruolo importante è risconosciuto alla sicurezza
dell’attaccamento al genitore (Cassibba, 2003; Richters e Waters, 1991; Thompson, 1999). La qualità del legame di
attaccamento che il bambino ha costruito con la madre risulta associata, infatti, ad alcuni aspetti dello sviluppo sociale quali
la capacità di interagire e di costruire relazioni positive con i pari (Cassidy, 1998; Main, Kaplan e Cassidy, 1985; Thompson,
1999). Anche la rappresentazione positiva di Sé, la capacità di esprimere, riconoscere e regolare le emozioni, caratteristiche
tipiche di un bambino con un attaccamento sicuro, risultano associate ad un elevato livello di competenza sociale (Carlton,
2000; Howes e Smith, 1995; Izard et al. 2001; Shields et al. 2001).
Il presente studio intende approfondire le associazioni tra differenti componenti della competenza sociale e la sicurezza del
legame di attaccamento madre-bambino in bambini di età prescolare.
Metodo
Il campione è costituito da 51 bambini di età prescolare (27 maschi) con un’età media di 71 mesi e 6 giorni (ds= 3 mesi e 29
giorni). I bambini frequentano le scuole dell’infanzia di Bari e provincia. Il livello socio-economico del campione è mediobasso. Per la valutazione della competenza sociale sono state utilizzate: due misure osservative, ottenute tramite la
metodologia Q-Sort, per valutare il comportamento sociale del bambino: il CCQ: California Child Q-sort di Block e Block
(1980) e il PQ: Preschool Q-sort di Baumrind (1967); uno Schema di codifica per la valutazione dello sguardo di Vaughn e
Waters (1980; 1981) e uno Schema di codifica per la valutazione delle interazioni, che consente di valutare le iniziative di
interazione e la qualità emotiva (positiva, negativa e neutra) delle stesse (Vaughn et al. 2001); due strumenti per la
valutazione dello status sociometrico del bambino: la Nomina dei pari (McCandless e Marshall, 1957) e la Comparazione
appaiata (Vaughn e Waters, 1981). Per valutare la sicurezza del legame di attaccamento è stato utilizzato il Manchester Child
Attachment Story Task (MCAST) (Green et al., 2000), che permette di identificare e classificare i modelli operativi interni
dei bambini mediante il completamento di storie.
Analisi dei dati e risultati
Le analisi di correlazione condotte tra aspetti specifici della competenza sociale e la sicurezza dell’attaccamento evidenziano
come questa risulti associata alla la capacità di intraprendere iniziative positive (r= .28 p.<.05), al grado di accettazione
sociometrica (r= .43 p< .01), alle abilità sociali rilevate tramite il PQ (r= .39 p.<.01) e al grado di visibilità all’interno del
gruppo dei pari (r= .43 p.<.01).
LE INTERAZIONI FRA PARI NELLA PRIMA INFANZIA:
UNO STUDIO SULLE RELAZIONI FRA I COMPORTAMENTI PROSOCIALI ED AGGRESSIVI
CLAUDIA CAPRIN, CRISTINA RIVA-CRUGNOLA, SIMONA GAZZOTTI, DEBORAH APA
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca
[email protected]
Introduzione
La ricerca sul comportamento sociale dei bambini ha studiato separatamente i comportamenti sociali positivi (affiliativi,
prosociali, altruistici, ecc.) e quelli negativi (aggressivi, di antagonismo, ecc.), rendendo così impossibile indagare le
relazioni esistenti fra i due fenomeni. Tuttavia alcuni studi evidenziano come nella prima infanzia comportamenti prosociali
e aggressivi siano interrelati in maniera complessa, infatti i bambini possono mostrare una propensione spiccata per l’una o
l’altra forma o utilizzarle entrambe a seconda delle circostanze (Persson 2005, Hawley 2003). Ricerche condotte sulle
strategie sociali dei bambini in età prescolare hanno evidenziato come esistano 3 tipologie di bambini: con strategie
prevalenti prosociali, coercitive e bistrategici. I bistrategici risultano socialmente competenti, come quelli prosociali, ma
sono manipolatori e aggressivi se ostacolati nel raggiungimento di un obiettivo (Hawley 2001).
Obiettivi
La ricerca è stata condotta a duplice scopo:
- indagare il comportamento sociale con i pari e in particolare la messa in atto di comportamenti prosociali e aggressivi
- verificare l’esistenza di possibili legami fra la messa in atto dei comportamenti altruistici e aggressivi
60
Campione
Hanno partecipato alla ricerca 105 bambini (M=55 F=50) di età fra 35-72 mesi, frequentanti 3 scuole materne di Milano. I
soggetti sono stati ripartiti in 4 gruppi sulla base della fascia d’età: G1=2-3 (N=13 m=29.6 ds=2.5), G2=3-4 (N=39 m=42.5
ds=3), G3=4-5 (N=38 m=55.1 ds=3) e G4=5-6 (N=15 m=67.5 ds=2.6).
Procedura
Sono state effettuate 2 osservazioni di ogni bambino durante il gioco libero di 20 min ciascuna. Si sono rilevati una serie di
microcomportamenti sociali di tipo positivo (premura, accudimento, espressioni di affetto, tutoraggio, ecc.) e negativo
(controllo di risposte aggressive, aggressività reattiva, strumentale, ostile, ritualizzata). Al termine di ogni sessione
l’osservatore stilava dei resoconti diaristici relativi alle interazioni in cui era presentato ognuno dei comportamenti rilevati.
Sulla base di questo materiale i comportamenti sociali positivi sono stati attribuiti a 3 macrocategorie di comportamenti
prosociali, secondo lo schema ideato da Persson.
I comportamenti positivi sono stati attribuiti alle seguenti categorie: comportamenti prosociali richiesti (risposte prosociali
alla richiesta esplicita di un pari o in conformità alle aspettative sociali), non altruistici (legati a un bisogno egoistico o a
simulazioni in giochi), altruistici (risposte ad un bisogno compreso su base empatica). Le categorie dei comportamenti
aggressivi invece sono rimaste invariate. Sia le osservazioni (k= .86) che le ricategorizzazioni dei comportamenti (k= .93)
sono state fatte da coppie di osservatori specificamente addestrate.
Risultati e discussione
Sono state condotte due serie di analisi. Nella prima si sono indagati gli effetti delle variabili fascia d’età e genere sulla
frequenza di messa in atto dei comportamenti. Rispetto ai comportamenti sociali positivi non si sono evidenziati degli effetti
significativi, contrariamente a quanto riportato in letteratura (Eisenberg & Fabes 1998). Invece rispetto ai comportamenti
aggressivi, in accordo con la letteratura (Persson 2005) con l’età si assiste ad un decremento nella messa in atto di forme di
aggressività strumentale (F (7,97) =4.7 p=.004) che ostile (F (7,97) =2.7 p=.049), infine per quanto riguarda la ostile si è
evidenziato un effetto del genere legato al sesso maschile (F (7,97) =6.7 p=.01).
Nella seconda serie si sono indagati i possibili legami esistenti nella messa in atto del comportamento prosociale e
aggressivo. Un dato interessante emerso è il legame positivo fra il comportamento altruistico e l’aggressività strumentale
(r=358 p<.001). Questa relazione, già riscontrata in letteratura (Hawley 2003; Persson 2005) può essere compresa facilmente
se si osservano da una prospettiva etologica i possibili esiti dei due comportamenti nel gruppo dei pari: entrambi possono
essere visti come strategie per ottenere risorse (materiali e sociali) e quindi rivelarsi adattivi e funzionali all’interno di un
piccolo gruppo. Si può ipotizzare che in questa fascia di età, non avendo ancora conseguito in modo completo le abilità
verbali e sociali per una buona negoziazione con i pari, alcuni bambini possano ricorrere ad entrambe le strategie.
Conclusioni
La ricerca ha evidenziato l’esistenza di relazioni fra la messa in atto di comportamenti altruistici e aggressivi durante la
prima infanzia, tuttavia dato che lo studio è rivolto a comportamenti a bassa emissione di frequenza si pone la necessità di
poter allargare le osservazioni ad un numero maggiore di bambini.
61
Simposio 10
COSTRUZIONE DI CONOSCENZA IN AMBIENTI ON LINE E VIRTUALI
Proponenti: STEFANO CACCIAMANI (1), PAOLA SPADARO (2)
(1) Università della Valle d’Aosta (CKBG)
[email protected]
(2) Università di Bari (CKBG)
[email protected]
Discussant: ANTONIO IANNACCONE
Università di Salerno
[email protected]
62
Presentazione
Il simposio si propone di aprire un confronto sulla ricerca sui processi di costruzione di conoscenza in comunità di
collaborazione che abbiano obiettivi formativi (Bereiter, 2002, Scardamalia, 2002, Paavola, Lipponen, Hakkarainen, 2004).
Esso si colloca sulla linea di lavoro del Collaborative Knowledge Building Group (CKBG), un gruppo inter-universitario che
studia le implicazioni educative dell’utilizzo delle tecnologie digitali.
I contributi analizzano una varietà di temi riferiti a diversi contesti online, esaminati mediante un’ampia gamma di tecniche
di indagine:
Riferendosi al modello della Knowledge Building Community, Cacciamani e colleghi combinano la Social Network
Analysis (SNA) e l’Analisi del Contenuto (AC) per individuare possibili differenze in termini di Attivazione Epistemica tra
studenti centrali e periferici ed in relazione allo stile di tutorship.
Il lavoro di De Marco si propone d’identificare se un’attività online presentata in modalità blended e orientata alla
cocostruzione di conoscenza favorisca un approccio più autoregolato e motivato allo studio.
Integrando la Teoria dell’Attività con la Teoria della Cognizione Distribuita, Spadaro e Ligorio descrivono una tecnica qualiquantitativa che combina le tecniche dell’AC e della SNA, per analizzare discussioni asincrone in un corso online
universitario.
Focalizzandosi sul tema dell’identità professionale, Varisco e Grion si propongono di indagare
le modalità socio-cognitive attraverso cui studenti non lavoratori, studenti-insegnanti-novizi e studenti-insegnati-avanzati
interagiscono e lavorano nei webforum durante attività di case-work, nonché i cambiamenti nelle caratteristiche delle
immagini del “buon insegnante” nelle diverse categorie di studenti, definiti pre e post le attività di case-work.
Il contributo di Vanin e Castelli, infine, si propone di individuare una frequenza di intervento ottimale del tutor di un corso
on line per sostenere l’interazione on line degli studenti.
STILE DI TUTORSHIP, PARTECIPAZIONE E RIFLESSIONE METACOGNITIVA NELLA COSTRUZIONE
DELLA CONOSCENZA IN UNA COMUNITÀ ON-LINE
STEFANO CACCIAMANI (1), DONATELLA CESARENI (2), TIZIANA FERRINI (1), MARIELLA LUCIANI (1),
ILARIA MANCINI (2), FRANCESCA MARTINI (2), VALENTINA POLIDORI (2)
(1) Università della Valle D'Aosta
(2) Università Sapienza di Roma
[email protected]
Introduzione
L’efficacia formativa dell’uso di ambienti di apprendimento on line riceve da tempo l’attenzione della ricerca in ambito
educativo. Ambienti di questo tipo, in particolare i webforum, sono stati sperimentati sia a livello internazionale
(Scardamalia e Bereiter, 1992; Scardamalia e Bereiter, 1994; Muukkonen, Hakkarainen, Lakkala, 1999) sia a livello
nazionale (Cesareni, Ligorio, Pontecorvo, 2001; Cacciamani, 2001; Cesareni e Martini, 2005) per la formazione
universitaria. Secondo tali autori, l'uso dei webforum nella didattica consente un apprendimento efficace e produttivo solo se
orientato verso la costruzione collaborativa di conoscenza, ossia se gli studenti lavorano insieme per elaborare idee,
confrontarsi e risolvere problemi comuni (Lakkala, Rahikainen e Hakkarainen, 2001).
Diversi autori ipotizzano che l’efficacia formativa di tali corsi possa essere legata a diversi fattori, fra i quali il ruolo del tutor
(Wise et al., 2004) e le competenze metacognitive dello studente, in particolare quelle auto-regolative (Choi, Land e
Turgeon, 2005, Sánchez-Alonso, Vovides, 2007). Il presente lavoro si è proposto di analizzare sotto quali condizioni sia
possibile realizzare corsi on line efficaci. In particolare si è inteso verificare se l’attività di costruzione di conoscenza messa
in atto dagli studenti assuma caratteristiche diverse in relazione allo stile di tutorship, alla presenza di spazi di riflessione
metacognitiva durante lo svolgimento del corso ed al livello di partecipazione alle discussioni.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca studenti di corsi on line di due sedi universitarie: nella prima sede, Università Sapienza di
Roma, Corso di Laurea in Psicologia, sono stati coinvolti 72 (13 M, 59 F) studenti iscritti al 3° e 5° anno di corso. Nella
seconda sede, Università della Valle d’Aosta, hanno partecipato 26 (6 M, 20 F) studenti lavoratori del 1° anno del Corso di
Laurea in Scienze della Formazione primaria.
L’attività di costruzione di conoscenza (variabile osservata) è stata rilevata in termini di Attivazione Epistemica (A.E. da qui
in avanti) (Scardamalia, 2002) mediante Analisi del Contenuto, con uno schema di codifica che distingue i contenuti dei
messaggi nel forum in termini di A.E. Avanzata (esplorare problemi e valutare contenuti e strategie) e A.E. di Base (fornire
ed elaborare informazioni). Due giudici indipendenti hanno utilizzato tale schema con un elevato grado di accordo (0,92 per i
dati di Roma e 0,80 per i dati di Aosta). Le variabili di disegno sono state definite in termini di livello di partecipazione degli
studenti (alto versus basso: in termini di messaggi prodotti nel forum, selezionando a caso 12 studenti al di sotto del 33°
percentile e 12 al di sopra del 66°), stile di tutoraggio (supportivo versus destabilizzante, messo in atto da tutor
appositamente preparati), modalità di organizzazione dell’attività (presenza o meno di riflessione metacognitiva) .
63
Sono state costruite tabelle di contingenza per ognuna delle variabili di disegno scelte in relazione al tipo di A.E. (Avanzata o
di Base), su cui è stato applicato il chi quadro.
Risultati
I risultati evidenziano una più marcata A.E. Avanzata tra gli studenti che hanno messo in atto un livello più alto di
partecipazione, ed una prevalente A. E. di Base tra gli studenti che si sono collocati in una posizione più periferica durante il
corso (Chi quadro(2)= 6.2, con p<.02). Si rileva inoltre una maggiore A.E. Avanzata negli studenti con tutor supportivo ed
un’A.E. di Base maggiormente presente tra chi ha avuto a che fare con un tutor destabilizzante (Chi quadro(2)= 11.1,
p<.001). Infine i soggetti che hanno partecipato al corso con spazi di riflessione metacognitiva tendono ad un’A.E. Avanzata,
mentre coloro che hanno partecipato al corso senza riflessione metacognitiva tendono ad una A.E. di Base (Chi quadro(2)=
14.9, p<.001). I risultati ottenuti lasciano ipotizzare che A.E. Avanzata e partecipazione costituiscano un circolo virtuoso in
cui i due elementi si rafforzano reciprocamente: tanto più si esplorano problemi e si valuta la conoscenza costruita (A.E.
Avanzata) tanto più si tende a scrivere e leggere messaggi e, viceversa, tanto più si legge e scrive nel forum tanto più si
trovano nuove opportunità per esplorare nuovi problemi e valutare la conoscenza costruita. In questo quadro si inserisce il
tutor supportivo che ha una funzione facilitante l’A.E. Avanzata: sembra infatti che il conflitto socio-cognitivo attivato con il
tutor (conflittuale) – a differenza di quanto avviene tra pari – tenda, probabilmente per una questione di status, ad inibire
l’esplorazione e la valutazione. La pratica di riflessione metacognitiva in itinere, essendo focalizzata sulla valutazione delle
proprie strategie di studio nel corso on line, potrebbe stimolare allo stesso modo gli studenti alla valutazione delle strategie di
costruzione di conoscenza e della conoscenza stessa, caratteristica dell’A.E. Avanzata.
FAVORIRE UN APPROCCIO AUTOREGOLATO E MOTIVATO ALLO STUDIO:
EFFETTI DI UN PERCORSO BLENDED ORIENTATO ALLA COCOSTRUZIONE DI CONOSCENZA
BARBARA DE MARCO
Università degli Studi di Milano Bicocca
[email protected]
Introduzione
Una delle problematiche che le università devono attualmente affrontare consiste nel garantire il successo accademico e
ridurre il rischio di abbandono (Albanese, De Marco, Fiorilli, in stampa). Favorire l’acquisizione di un approccio
autoregolato e motivato allo studio può risultare una strategia utile per raggiungere tale risultato (Albanese, De Marco,
Fiorilli, 2008; Zimmerman, 2000). Promuovere negli studenti obiettivi di approccio alla padronanza (Elliot e McGregor,
2001, Dweck, 1986), competenze in organizzazione, elaborazione personale e autovalutazione (De Beni, Moè e Cornoldi,
2003; Moè e De Beni, 2000) può infatti aiutarli a gestire personalmente la propria attività di studio, garantendo un uso più
efficace di tempi e risorse (Albanese, De Marco, Fiorilli, in stampa). Un approccio orientato alla cocostruzione di conoscenza
offre in tal senso notevoli opportunità: attraverso un confronto produttivo, gli studenti individuano problemi significativi per
il campo disciplinare di riferimento, si interrogano su soluzioni innovative, efficaci e coerenti con i saperi di riferimento
(Scardamalia e Bereiter, 2006). Al contempo, inseriti in una comunità di apprendimento, riflettono sui processi che loro
stessi mettono in atto nel corso del lavoro, secondo un principio di autodeterminazione della propria attività di studio
(Ligorio, 1994). Le proposte formative che si avvalgono dei nuovi media, in particolare nei casi di blended learning, dove la
formazione a distanza si accompagna alla formazione in presenza, si connotano come particolarmente efficaci nel
promuovere un approccio collaborativo alla conoscenza (Ligorio, Cacciamani e Cesareni, 2006; Cesareni et Al. 2008):
garantiscono infatti non solo una notevole flessibilità d’uso delle risorse e della gestione di spazi e tempi della formazione,
ma offrono anche la possibilità di tornare sui contenuti che restano registrati all’interno dello spazio virtuale, e sono di
conseguenza costantemente fruibili da parte degli studenti, e passibili di verifica e rielaborazione (Choi, Land e Turgeon,
2005). Scopo del presente lavoro consiste nell’identificare se un’attività online presentata in modalità blended e orientata alla
cocostruzione di conoscenza favorisce un approccio più autoregolato e motivato allo studio.
Metodo
La ricerca ha coinvolto 87 studenti universitari di primo anno iscritti al corso di Psicologia dello Sviluppo presso il CdL di
Scienze della Formazione Primaria, Università di Milano Bicocca. Agli studenti è stato proposto di partecipare ad un’attività
formativa blended. L’attività si è svolta in due fasi: una prima fase di familiarizzazione con lo spazio virtuale, una seconda di
rilevazione di problematiche significative e analisi dei contenuti finalizzata alla cocostruzione di conoscenza. Metà degli
studenti partecipanti all’attività online hanno inoltre avuto accesso ad uno spazio di riflessione metacognitiva. Il gruppo
totale dei partecipanti è stato così suddiviso: 29 studenti hanno svolto l’attività blended, 28 hanno partecipato all’attività
online potendo accedere anche ad uno spazio di riflessione meta cognitiva, 30 hanno seguito in presenza senza partecipare
all’attività on line.
Tutti gli studenti hanno compilato in ingresso ed in uscita tre questionari: Scala delle Concezioni Personali dell’Intelligenza
(Faria e Fontaine, 1997), Questionario di Autoregolazione (Moè e De Beni, 2000), Questionario sugli obiettivi di
apprendimento (Elliot e McGregor, 2001).
64
Gli studenti che hanno partecipato all’attività online hanno inoltre compilato una relazione conclusiva sottolineando i
vantaggi e gli svantaggi dell’attività on line.
Si sono confrontati i risultati dei questionari in ingresso e in uscita (MANOVA) per identificare eventuali differenze nelle
competenze autoregolative e motivazionali degli studenti; nelle relazioni finali si sono analizzate le cooccorrenze per
delineare quali aspetti metacognitivi rappresentano per gli studenti vantaggi e svantaggi dell’attività on line. Infine, è stata
condotta un’analisi lessicale dei contenuti dei forum, per evidenziare se gli studenti inseriscono spontaneamente riflessioni di
tipo metacognitivo nelle discussioni sui contenuti.
Risultati
I dati rilevati dai questionari indicano già in ingresso competenze autoregolative medio-alte e in linea con i dati in letteratura,
e obiettivi di studio funzionali. I questionari non rilevano tuttavia un miglioramento nelle abilità oggetto di analisi in
funzione dell’attività blended svolta. Le analisi condotte sulle relazioni finali indicano invece una esplicita relazione tra
termini legati all’autoregolazione (Es. Valutarmi, gestire il lavoro, programmare, riuscire) e termini come “vantaggio” e
“aiutato a..”, ad indicare una precisa consapevolezza negli studenti del valore formativo dell’attività anche dal punto di vista
metacognitivo.
NETWORK COGNITIVI NELLE ATTIVITÀ DI COLLABORAZIONE DIGITALI:
ESPLORAZIONE DI UNA TECNICA DI ANALISI
PAOLA F. SPADARO, M. BEATRICE LIGORIO
Università di Bari
[email protected]
Introduzione
Tra le teorie che hanno spiegato meglio le dinamiche psicologiche in termini culturali, la Teoria dell’Attività e la Teoria della
cognizione distribuita si sono finora ben prestate all’analisi degli ambienti CSCW (Halverson, 2001).
La Teoria dell’Attività (TdA) assume che durante le interazioni finalizzate ad un obiettivo, un insieme di fattori (soggetto,
artefatti, regole, comunità, modalità di interazione, obiettivi e oggetto) si influenzano reciprocamente. L’insieme di tali fattori
definisce un “sistema di attività” (SA). Ogni soggetto è portatore di un proprio SA che si modifica nel dialogo con gli altri
(Engeström, 1987).
Nella teoria della Cognizione Distribuita (TdCD), i processi cognitivi non si esauriscono nella mente individuale ma sono
estesi all’ambiente esterno, agli artefatti e alla sequenzialità temporale degli eventi. L’insieme di tali elementi costituisce un
“sistema cognitivo” (SC). Ciascun elemento è agente attivo nel SC e quindi contribuisce al processo cognitivo (Hutchins,
2000).
Secondo Halverson (2001), le due teorie differiscono in tre punti principali:
1) la TdA è centrata sugli individui, benché situati in un contesto; la TdDC è centrata sulle interazioni all’interno di un
sistema di cui il soggetto è solo una parte;
2) Nella TdA sono ben definiti gli elementi che fanno parte di un SA; nella TdDC non esiste la medesima attenzione retorica
per spiegare un SC;
3) La TdA descrive un processo attraverso un diagramma statico ma efficace; la TdDC usa descrizioni narrative, quindi
meno efficaci.
Entrambe le teorie sono state utilizzate per lo studio degli ambienti CSCW e CSCL in quanto danno una specifica legittimità
agli artefatti tecnologici e si basano su un’idea di apprendimento come prodotto dall’interazione collaborativa.
Obiettivo e Metodo
In questo contributo si intende descrivere una tecnica di analisi che possa integrare le due teorie superando le lacune di
ciascuna. Si tratta di una tecnica quali-quantitativa che si serve delle suggestioni dell’analisi del contenuto e della Social
Network Analysis per analizzare sessioni di discussioni asincrone.
La descrizione è supportata da un esempio di applicazione su una discussione avvenuta all’interno della piattaforma
Synergeia (Ligorio e Veermans, 2005) tra 10 studenti del corso di laurea in Psicologia delle comunicazioni dell’Università di
Bari. Sono state analizzate 72 note scritte durante un corso blended.
La tecnica di analisi prevede 4 fasi:
1- Analisi del discorso: ciascuna nota è segmentata in unità di discorso, chiamate azioni, aventi ciascuna un’autonomia
comunicativa.
2- Analisi del Contenuto: ciascuna azione è ulteriormente segmentata in elementi definiti dalle 6 categorie identificate dalla
TdA. A ciascun elemento è stata attribuita una delle sottocategorie definite dalla griglia GAct (Spadaro, 2008), strumento che
operazionalizza la TdA;
3- Analisi dei nodi e delle relazioni: è verificata la presenza di legami discorsivi tra elementi, per i quali alcuni elicitano
l’emergenza di altri. Sono quindi attribuiti i valori di elemento elicitante ed elemento elicitato.
65
4- Inter-Actions Network Analysis: sulla base della tecnica della Social Network Analysis, in questa fase sono calcolati gli
indici relativi al network creato tra elementi elicitati ed elicitanti. É quindi studiata la struttura del SA e ed eventualmente i
suoi cambiamenti nel tempo.
Risultati
Nei dati esemplificativi sono state rintracciate 124 azioni. La media di 1,72 azioni per nota dimostra che i messaggi non sono
unità di comunicazione semplici ma contengono una varietà di azioni comunicative. Gli elementi più frequentemente
esplicitati nelle azioni sono quelli orientati al compito (modalità di lavoro, oggetto e artefatti) ma sono anche presenti molti
riferimenti agli aspetti identitari che caratterizzano il gruppo di discussione (soggetto, comunità).
Gran parte degli elementi non sono elicitati da altre azioni, essi subiscono probabilmente una trasformazione nel passaggio
da un’azione all’altra. La modalità di lavoro è l’elemento più usato come nodo di passaggio e la rete di inter-azione mostra
una distribuzione della discussione sbilanciata verso il settore destro del diagramma della TdA. Ciò dimostra che
l’orientamento della discussione è prevalentemente sul compito. Centrale sembra anche il ruolo della comunità che però non
possiede legami con gli obiettivi del compito. Le regole sono marginali, soprattutto non hanno un carattere di mediazione né
sono interiorizzate dal soggetto o reificate negli artefatti.
La tecnica di analisi descritta offre una visione reticolare del processo di distribuzione della cognizione entro un’attività
digitale. Applicata all’analisi di attività finalizzate alla costruzione di conoscenza, essa può dare rilievo alle porzioni di
attività che favoriscono/inibiscono i risultati della collaborazione.
COSTRUZIONE DEL SÉ PROFESSIONALE IN FORUM ON LINE
BIANCA M. VARISCO, VALENTINA GRION
Università degli Studi di Padova
[email protected]
Introduzione
Il tema dell’identità professionale è oggetto di crescente attenzione da parte dei ricercatori che si occupano di formazione
degli insegnanti (Korthagen, 2004; Beijard et al, 2004; Alsup, 2005; Russel & Loughran, 2007). Varie letture dell’identità
professionale ne rilevano il carattere dinamico e la natura relazionale. Esiste una confermata ipotesi che solide immagini di
sé come insegnanti permetterebbero agli studenti di procedere più efficacemente nel percorso di sviluppo professionale
(Bullogh, 1991). Ritenendo inoltre strettamente correlate immagini dei sé e identità professionale, alcuni autori (Loughran,
2006; Korthagen & Verkuyl, 2007) rilevano la necessità di offrire contesti formativi in cui costruire, de-costruire, ri-costruire
se stessi per sviluppare solide identità professionali.
Nell’ambito di una ricerca biennale condotta presso l’Università di Padova, il cui obiettivo è stato quello di mettere a punto
modelli formativi on line per insegnanti e futuri insegnanti, è stato proposto un laboratorio on line in cui riflettere insieme sul
personale cammino di formazione professionale.
Dopo aver esplicitato individualmente la propria immagine di “buon insegnante”, i soggetti, suddivisi in gruppi omogenei
(STU o studenti non lavoratori; INSN o studenti insegnanti-novizi; INSE o studenti insegnanti-avanzati,) negoziando e
collaborando alla soluzione di casi scolastici vissuti, narrati e condivisi, sono stati condotti a riflettere sui propri sé
professionali e a ri-costruire e ri-esplicitare, individualmente, la propria idea di “buon insegnante”.
In questo paper s’intende presentare una parte della ricerca i cui obiettivi sono stati quelli di indagare:
-le modalità socio-cognitive attraverso cui gli studenti STU, INSN, INSE) hanno interagito e lavorato nel forum durante le
attività di case-work;
-le caratteristiche delle immagini del “buon insegnante” nelle diverse categorie di studenti, definiti pre e post le attività di
case-work.
Metodo
Durante il primo anno (a.a. 2005-2006) 41 soggetti di sesso femminile, hanno partecipato al laboratorio: 12 studenti
lavoratori, INSN o INSE e 29 STU senza esperienze d’insegnamento.
Nel secondo anno (a.a. 2006-2007) hanno frequentato le medesime attività laboratoriali 31 soggetti (30 di genere femminile e
1 maschile), di cui 15 INSN e INSE, 10 STU.
I dati raccolti nell’ambiente on line asincrono, sono:
- i testi scritti per definire il “buon insegnante” pre e post;
- le sequenze di messaggi prodotti da ciascun gruppo durante le discussioni in forum.
La ricerca e l’analisi dei dati sono state condotte utilizzando, un disegno di ricerca multi-fase e multi-metodo (qualitativoquantitativo) (Teddlie e Tashakkori, 2005).
In particolare, sui testi del “buon insegnante”, sono state effettuate l’analisi automatica delle specificità e delle
corrispondenze. Sulle sequenze di messaggi è stata effettuata un’analisi qualitativa del contenuto attraverso una rivisitazione
delle categorie IPA (Interaction Process Analysis) (Bales, 1950; Hare et al., 1955; Bales, 1970). Questi ultimi dati sono stati
66
anche elaborati con un sistema di analisi di interazioni dialogiche, costruito integrando il sistema della SNA (Social Network
Analysis) con il citato sistema di analisi del contenuto.
Risultati
L’analisi dei dati è stata svolta in riferimento alle tre categorie professionali dei soggetti partecipanti alla ricerca (STU,
INSN, INSE).
Le attività formative on line hanno prodotto effetti diversi nelle tre categorie di soggetti. In entrambi gli anni i risultati hanno
mostrato che sono stati attivati processi co-costruttivi in forum e sono avvenuti cambiamenti pre-post negli STU e negli
INSN, mentre ciò non si è realizzato con gli INSE. Il sé individuale di quest’ultima categoria di soggetti sembra avere
prevalso sull’obiettivo di comunità, né è nato uno spirito di gruppo.
In particolare, mentre con l’analisi delle specificità si è rilevato che, alla fine del laboratorio, i soggetti nel loro complesso
hanno prodotto profili caratterizzati da una pluralità di dimensioni tipiche del ruolo docente, non presenti all’inizio, con
l’analisi delle corrispondenze si sono potute apprezzate differenze fra i profili pre e post nelle diverse categorie professionali.
Si è evidenziata in particolare la fissità funzionale (Chi, 2006; Turniansky & Friling, 2006) della categoria degli INSE, che
tra pre e post non presenta modifiche.
I sociogrammi relativi all’analisi contenutistico-relazionale dei forum hanno permesso infine di rilevare differenti “profili”
socio-cognitivi nelle tre categorie di soggetti. Tali profili che nei 2 anni presentano caratteristiche simili in ciascuna categoria
di soggetti, hanno confermato:
-l’efficacia della proposta formativa per STU e INSN,
-la loro inefficacia per gli INSE.
Quest’ultimo risultato apre una nuova questione (quale metodologia può far crescere le concezioni degli INSE?), che stiamo
attualmente esplorando.
FORUM E FORMAZIONE A DISTANZA:
QUANTO E QUANDO DEVE INTERVENIRE UN TUTOR NELL’INTERAZIONE ONLINE?
LUCA VANIN, STEFANO CASTELLI
Università degli Studi di Milano Bicocca
[email protected]
Introduzione
Il contributo presenta i alcuni risultati di un più vasto progetto di ricerca (Cesareni et al., 2008) relativo all’utilizzo di
ambienti di formazione online nella didattica universitaria.
I risultati qui riportati mirano ad indagare l’attività di tutorship che si svolge all’interno di corsi online, in particolare
focalizzando l’attenzione sulle frequenze di intervento del Tutor all’interno di tali attività, cercando di evidenziare, da un
punto di vista puramente quantitativo, stili diversi di interazione e ponendoli in rapporto con l’attività di discussione svolta
dagli studenti. Più nello specifico, l’obiettivo di tale indagine è la definizione di quanto e con quale frequenza un “buon
tutor” debba intervenire nella discussione per ottenere una partecipazione degli studenti che sia quantitativamente adeguata
alla discussione stessa.
Metodo
I dati analizzati provengono da un forum di discussione utilizzato come supporto alla didattica tradizionale e come strumento
interattivo per l’orientamento e il tutoring online la facoltà di Psicologia dell’Università di Milano Bicocca. In tale indagine il
numero totale di studenti coinvolto è di 1107 (Maschi: 221, Femmine: 764, Non Rilevabili: 122), provenienti da diversi Corsi
di laurea. I Tutor sono in totale 21 suddivisi in 10 gruppi di attività. Nel complesso sono stati presi in considerazione 7970
messaggi distribuiti in 390 discussioni.
Sulla scorta di precedenti studi (Castelli, 2007; Castelli et al., 2006; Vanin, 2006; Vanin et al., 2005; Vanin et al., 2007a,
2007b; Vanin et al., 2008 - In stampa), le singole discussioni sono state ricondotte ai Tutor che le hanno avviate o che vi
hanno preso maggiormente parte rispetto ad altri tutor. Per ogni Tutor sono stati calcolati alcuni indici di produttività
(apertura nuove discussioni, partecipazione/risposte a messaggi/discussioni degli studenti), di presenza (rapporto tra il
numero di messaggi e il numero di messaggi degli studenti), di dispersione temporale (messaggi del Tutor distribuiti nel
tempo oppure concentrati in periodi particolari), distinguendo tra meccanismi di tipo push (apertura nuove discussioni e
proposta di riflessioni) da interventi di tipo pull (risposta a discussioni e messaggi degli studenti).
Risultati
Sono stati condotti alcuni T-Test, dai quali emergono differenze significative per quanto riguarda la presenza, in particolare
per quanto concerne l’apertura di nuove discussioni (p<.05; F= 6.366; t=2.251) e la frequenza di risposte ricevute (p<.05;
F=26.082; t=-2.313): un Tutor che apre poche discussioni rispetto al totale favorisce l’apertura di discussioni da parte degli
studenti e riceve mediamente più risposte. Tale relazione si ritrova anche nella frequenza di risposte fornite dal Tutor
(p=<.05, per tutte le variabili indagate): in generale, un intervento moderato (alto rapporto tra interventi del Tutor e interventi
67
degli studenti) e che lasci spazio all’interazione tra studenti risulta correlato positivamente con la partecipazione da parte
degli studenti e con la possibilità che siano loro stessi a proporre discussioni.
Si sono poi esplorati alcuni modelli di equazioni strutturali con LISREL VIII relativi alla frequenza di intervento dei Tutor
nelle discussioni online. Dalle analisi, in sintesi, emerge che l’apertura di nuove discussioni da parte degli studenti dipende
(tra le variabili indagate) da un elevato rapporto tra messaggi scritti dagli studenti e messaggi scritti dal Tutor.
Il Tutor deve pertanto intervenire moderatamente, lasciando ampio spazio agli studenti, riducendo l’apertura di nuove
discussioni. Il secondo obiettivo esplorativo ha indagato la variabile tempo nell’inserimento dei messaggi da parte dei Tutor:
per dispersione temporale, infatti, intendiamo distinguere tra Tutor che intervengono con una certa costanza nel tempo (ad es.
un messaggio ogni giorno) e Tutor che intervengono sporadicamente (ad es. una volta ogni quindici giorni), inserendo più
messaggi per volta. Queste variabili sono state incrociate con diversi indici di partecipazione degli studenti e i risultati
rivelano uno scenario complementare con quello più sopra illustrato: un’alta dispersione temporale delle risposte da parte del
Tutor favorisce l’interazione degli studenti.
Concludendo, da una parte emerge la necessità di contenere il numero di messaggi inseriti in un forum da parte dei Tutor. In
tal senso, il rapporto tra il numero di messaggi inseriti dal Tutor e quello degli studenti deve pesare a favore di questi ultimi,
tenendo limitata la percentuale di interventi del Tutor sul totale. Dall’altra parte, a livello temporale, il Tutor deve intervenire
in modo costante, distribuendo omogeneamente nel tempo il proprio intervento.
68
Simposio 11
IO E TU: ALCUNE INCURSIONI NELL’INDAGINE DELLE RELAZIONI TRA
L’INDIVIDUO ED I SUOI COETANEI DALLA FANCIULLEZZA
ALL’ADOLESCENZA
Proponente: SILVIA CIAIRANO
Dipartimento di Psicologia – Laboratorio di Psicologia dello Sviluppo - Università di Torino
[email protected]
Discussant: FRANCA TANI
Dipartimento di Psicologia – Università di Firenze
e-mail:
[email protected]
69
Presentazione
Sappiamo da tempo come le relazioni tra l’individuo e gli altri siano intrinsecamente connesse alla nostra natura di esseri
sociali, vale a dire di homo socius come già individuato da Fonzi agli inizi degli anni ’90, in quanto ci richiedono di
bilanciare tra bisogni di autorealizzazione e di appartenenza, seppure declinati in modi diversi a seconda della fase del ciclo
di vita. In particolare, le relazioni con i coetanei sono cruciali per l’adattamento a partire dalle fasi più precoci dello sviluppo
(Fonzi, 2003), tra la fanciullezza e l’adolescenza (Hartup, 1989) e per tutto il ciclo di vita (Tani, 2005). Dai primi studi
condotti nel contesto nazionale sono ormai passati circa 20 anni e questo tema non ha affatto perso il suo fascino e la sua
rilevanza. Da una parte, infatti, i continui progressi teorici e metodologici hanno messo in evidenza aspetti poco chiari o
ancora inesplorati, richiedendo al ricercatore di approfondire le proprie indagini. Dall’altra parte, i rapidi cambiamenti a cui
la nostra società è soggetta, contribuiscono a connotare i rapporti tra l’individuo e gli altri in modo peculiare rispetto al
passato, richiedendo un continuo aggiornamento delle conoscenze acquisite fino a quel momento. Infine, a fronte della
sempre maggiore complessità (di teorie, metodologie e tecniche, nonché dei fenomeni stessi) è importante che il ricercatore
cerchi sia di selezionare su base teorica obiettivi chiari, sia di impiegare metodologie innovative ma anche utili ad una
maggiore comprensione di tali fenomeni. Si tratta di una sfida non facile che gli autori dei contributi di questo simposio
hanno accettato di raccogliere. Tali contributi rappresentano altrettante incursioni sul tema delle relazioni tra l’adattamento
dell’individuo nel suo contesto di sviluppo (nei termini di maggiore o minore coinvolgimento nel rischio e benessere) e la
qualità dei rapporti con i coetanei durante la fanciullezza e l’adolescenza, vale a dire quando queste relazioni iniziano ad
assumere e ad acquisiscono la connotazione di ascritte o selettive, con l’obiettivo di individuare a quali condizioni: Tu-altro
possa rappresentare una risorsa per Io-individuo ed in quali invece Tu-altro possa rappresentare un rischio per Io-individuo.
ALCUNI PRECURSORI DELLO STILE DI VITA TRA I BAMBINI IN ETÀ SCOLARE:
CONDIZIONE FISICA, SEDENTARIETÀ, RISPETTO DELLE REGOLE E RAPPORTI CON I COETANEI
GIULIA BARDAGLIO (1) (2), FULVIA GEMELLI (1), GIOVANNI MUSELLA (1), ANGELO LISSIOTTO (1), MONICA
LIUBICICH (1) (2)
(1) Centro Ricerche Scienze Motorie, S.U.I.S.M., Università degli Studi di Torino
(2) Dottorato di Scienze Umane – Indirizzo di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, Università degli Studi di Torino
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi due decenni, le condizioni di sovrappeso e obesità e di sedentarietà hanno subito un notevole incremento in tutta
la società occidentale ed in particolare tra i bambini e i ragazzi (ISTAT, 2007), tanto da riconoscerle come un pericolo per il
benessere individuale e la salute pubblica (Berenson et al., 1998). Recentemente alcuni autori (tra cui: Spruijt-Metz, 1999)
hanno invitato gli studiosi a cercare di andare al di là della semplice fenomenologia del fenomeno per individuarne i
precursori ed i correlati, dal momento che la possibilità di prevenzione basata sulla semplice informazione circa ciò che è
salutare e ciò che invece è a rischio appare del tutto insufficiente. Le persone sono perfettamente consapevoli che non fare
esercizio fisico è dannoso per la salute, ma risulta molto difficile cambiare i loro comportamenti abituali. Infine, altri autori
(Jessor et al., 2003, 2007) hanno incominciato ad evidenziare l’importanza di indagare le relazioni tra stile di vita più o meno
salutare ed il più generale adattamento dell’individuo nel suo contesto di sviluppo, dal momento che l’essere sovrappeso e
svolgere una vita eccessivamente sedentaria potrebbe non collegarsi solo allo sviluppo di patologie fisiche, ma anche ad una
generale difficoltà di adattamento nel proprio contesto, anche nei termini di difficoltà relazionali o di disagio espresso in varie
forme.
Un aspetto finora inesplorato del fenomeno è rappresentato dalle relazioni tra la condizione fisica dei bambini, nei termini di
rapporto tra peso ed altezza, i precursori di uno stile di vita più o meno salutare, il rispetto delle regole (comportamentali e
relazionali) e le relazioni amicali con i coetanei.
Lo studio presentato qui appartiene ad un progetto di ricerca più ampio che ha l’obiettivo di effettuare una mappatura della
condizione attuale dei bambini in età scolare, esplorare i precursori di stili di vita più salutari e le abitudini quotidiane,
implementare uno studio sperimentale (volto all’esercizio di abilità fisico-motorie) e costruire un’azione sinergica nella
comunità per orientare le future strategie di intervento, come suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO,
2004).
Obiettivi.
Questo studio ha i seguenti obiettivi: 1) descrivere nei due generi: a) i correlati antropometrici rilevati attraverso l’BMI e le
abilità fisiche dei bambini (attraverso misure oggettive); b) le relazioni amicali ed il coinvolgimento in attività fisiche durante
il tempo libero (attraverso un questionario autosomministrato); c) descrivere il rispetto delle regole di comportamento e
relazionali durante sessioni di attività motorie (valutate attraverso una griglia di osservazione); 2) indagare le relazioni tra i
sopraccitati aspetti.
Metodo
Hanno partecipato allo studio 492 bambini che frequentano le classi 1° e 2° di alcune Scuole primarie del Piemonte, di ambo i
70
sessi (52% maschi e 48% femmine), di età media pari a 7,1 (d.s.=0.6): 33% tra 6-6.5 anni, 48% tra 7-7.5 anni, 19% tra 8-9
anni.
Risultati
- Solo il 40% dei bambini (43% i maschi e 37% le femmine) si dedica regolarmente ad attività motorie.
- La maggior parte dei bambini (circa il 60%) ha più di cinque amici con i quali sta insieme molte volte.
- Si riscontrano significative differenze di genere per la condizione antropometrica a 6 e a 7 anni: è in sovrappeso il
20% dei maschi di 6 anni e il 19% a 7 anni (vs. rispettivamente il 9% ed il 4% delle bambine); tali differenze non si
riscontrano a 8 anni.
- Circa il 70% dei bambini rispetta regolarmente le regole (le bambine più frequentemente dei bambini: 80% vs. 60%).
- I bambini possiedono mediamente delle abilità motorie e conoscenze adeguate all’età.
Per le relazioni tra questi fenomeni, è emerso che i bambini che possiedono più amici e coloro che svolgono attività motoria in
modo continuo e controllato rispettano maggiormente le regole ed hanno una migliore conoscenza del proprio corpo. I
bambini in soprappeso sembrano invece rispettare meno frequentemente le regole, sia comportamentali che relazionali.
Discussione e conclusioni
Pur consapevoli del bisogno di approfondire queste prime analisi descrittive, magari includendo altre dimensioni come la
popolarità nel gruppo dei coetanei, riteniamo che questi primi risultati incoraggino a proseguire sulla strada intrapresa. Questi
risultati ci sembrano importanti soprattutto considerando che proprio in questa età è possibile consolidare le basi per costruire
delle soddisfacenti relazioni sociali e uno stile di vita più salutare.
BULLISMO E SOVRAPPESO: POSSIBILI RELAZIONI IN UN CAMPIONE DI ADOLESCENTI
MATTEO GILETTA (1) (2), RUTGER ENGELS (2), RON SCHOLTE (2)
(1) Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Torino
(2) Behavioral Science Institute, Radboud University Nijmegen, The Netherlands
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi decenni la prevalenza di obesità e sovrappeso tra bambini ed adolescenti è in crescente e continuo aumento in
tutto il mondo (WHO, 1998). Nonostante l’obesità in adolescenza sia correlata a molteplici patologie a livello fisico, quali
diabete, alterazioni dell’apparato cardiocircolatorio e respiratorio, numerosi studi precedenti hanno evidenziato come le
conseguenze negative più diffuse dell’obesità coinvolgano l’ambito psicosociale. In particolare alcune ricerche hanno
sottolineato come gli adolescenti in sovrappeso siano spesso stigmatizzati, derisi e rifiutati, e tendano quindi ad occupare una
posizione marginale nelle loro reti amicali (Dietz, 1998; Strauss & Pollack, 2003). Tuttavia, benché evidenze empiriche
mostrino come spesso le vittime di bullismo appartengano a gruppi socialmente stigmatizzati, poca attenzione è stata dedicata
all’analisi della relazione tra sovrappeso e bullismo.
Allo stesso tempo si potrebbe supporre che gli adolescenti in sovrappeso proprio per la loro prestanza fisica, mettano in atto
comportamenti di vittimizzazione, assumendo quindi il ruolo di bulli. In tali circostanze, specialmente per i ragazzi tra cui è
più frequente un bullismo di tipo diretto, il sovrappeso potrebbe diventare una strategia per dominare gli altri e acquisire
maggiore popolarità tra i pari.
Due recenti studi hanno confermato questa ipotesi, mostrando come gli adolescenti in sovrappeso rivestano più spesso il ruolo
di bulli rispetto ai loro pari normopeso (Janssen et al., 2004; Griffiths et al., 2006). Tuttavia differenze nelle età dei campioni
(fanciulli o adolescenti) e l’impiego di misure self-report dell’Indice di Massa Corporea (BMI), rendono necessaria
un’indagine più accurata del fenomeno.
Obiettivi.
Il presente studio si propone di analizzare la relazione tra il sovrappeso e il coinvolgimento in episodi di bullismo in un
campione di adolescenti. In particolare si ipotizza che: 1) i soggetti di entrambi i generi con un elevato BMI siano
maggiormente vittime di atti di bullismo rispetto ai loro pari; 2) i ragazzi con un elevato BMI siano più spesso protagonisti di
atti di bullismo rispetto ai loro pari.
Metodo
I partecipanti che hanno preso parte allo studio sono 2051 (1056 ragazzi e 995 ragazze) di età compresa tra 11 e 16 anni (M =
13.8, SD = 0.7), frequentanti sette differenti scuole secondarie sul territorio olandese.
Questo studio è parte di un più ampio progetto di ricerca intitolato “Mental health and Health habits”, in cui i dati sono stati
raccolti tramite un approccio multimetodo. In particolare uno strumento di nomina dei pari è stato utilizzato per individuare i
soggetti più coinvolti nei ruoli di bulli e vittime all’interno della classe di appartenenza. Allo stesso tempo, solo per la
vittimizzazione è stato impiegato anche uno strumento self-report.
Per ogni partecipante è stato inoltre calcolato l’Indice di Massa Corporea (BMI) tramite la rilevazione di peso e statura,
effettuata dai ricercatori attraverso procedure standardizzate.
71
Risultati
Le analisi di regressione gerarchica mostrano risultati differenti utilizzando le due misure di vittimizzazione (self-report e
nomina dei pari):
un’associazione significativa tra il BMI e la vittimizzazione misurata attraverso lo strumento self-report ( = .11, R2=
.012, p < .001). Indipendentemente dal genere, gli adolescenti con un maggiore BMI sembrano essere più frequentemente
vittime di bullismo rispetto ai loro coetanei;
nessuna associazione tra il BMI e la vittimizzazione misurata attraverso nomina dei pari. Gli adolescenti con un
elevato BMI non differiscono dai loro coetanei; tuttavia si riscontrano differenze di genere con i ragazzi maggiormente
vittimizzati rispetto alle ragazze ( = -.07, R2= .007, p < .01).
L’associazione tra sovrappeso e bullismo si è rivelata significativa solo per il sottogruppo dei maschi: i ragazzi con un elevato
BMI sembrano maggiormente inclini a mettere in atto comportamenti di bullismo rispetto ai loro pari ( = .08, R2= .086, p <
.001).
Discussione
Nonostante la necessità di ulteriori approfondimenti, i risultati emersi sembrano sollevare una nuova questione relativa alla
metodologia di raccolta dati: le differenze nelle misure della vittimizzazione (self-report e nomina dei pari) nell’associazione
con il BMI, suggeriscono che gli adolescenti con un elevato BMI si sentano maggiormente vittimizzati rispetto a quanto non
riportino i loro pari.
In linea con gli studi precedenti i ragazzi con un elevato BMI sembrano più soventemente protagonisti di episodi di bullismo.
Al contrario non è emersa alcuna relazione per le ragazze: la diffusione di forme di bullismo indiretto potrebbe spiegare in
parte questa differenza (Baldry, 1998; Nansel et al., 2001).
QUALITÀ DELLE RELAZIONI DI AMICIZIA E POPOLARITÀ TRA GLI ADOLESCENTI:
RISORSA O RISCHIO?
MARIA FERNANDA VACIRCA, EMANUELA RABAGLIETTI
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Torino
[email protected]
Introduzione
Il ruolo dei coetanei, ed in particolare della qualità della relazione con il migliore amico e della popolarità nel gruppo dei
coetanei, è uno dei temi più dibattuti nella psicologia dell'adolescenza. Recentemente gli studiosi hanno superato la
concezione di semplice influenza negativa da parte dei coetanei in adolescenza, riconoscendo la presenza sia di una
potenziale influenza positiva in particolare rispetto all’adattamento individuale (Burk, Laursen, 2005), emotivo (Demir,
Urberg, 2004), scolastico (Tomada et al. 2005) e sociale (Brendgen et al. 1999), sia di processi di selezione reciproca
(Engels, ter Bogt 2001).
La ricerca su questi fenomeni si è inoltre gradualmente spostata da un interesse focalizzato principalmente sugli aspetti
quantitativi dei rapporti con i coetanei (ad es. il numero di amici), alla necessità di approfondire dimensioni più qualitative
dell’amicizia, come il sostegno ed il conflitto, e di utilizzare sia l'auto che l'eterovalutazione (Bukowski, Newcomb, Hartup,
1996). A nostra conoscenza gli studi che, durante l’adolescenza, considerano congiuntamente questi aspetti e ne valutano le
relazioni con l’adattamento o meno dell'adolescente sono però ancora piuttosto scarsi. Riteniamo che per una maggiore
comprensione del fenomeno, gli aspetti più squisitamente qualitativi dei legami amicali vadano investigati insieme alla
popolarità di cui gli adolescenti godono presso i coetanei.
Il presente studio si propone di: 1) descrivere il sostegno e il conflitto nelle relazioni con il migliore amico e la popolarità
goduta nel contesto scolastico, nei termini di numero di nomine ricevute dai compagni di classe o di scuola., considerando
anche il cambiamento nel tempo, le relazioni tra questi aspetti e le differenze di genere, fascia d'età e tipo di scuola
secondaria; 2) indagare le relazioni tra sostegno, conflitto e popolarità e: a) comportamenti rischiosi (come indicatore di
condotte potenzialmente a rischio); b) alimentazione salutare (come indicatore di condotta salutare); c) successo scolastico
(come indicatore di adattamento socio-istituzionale); d) malessere psicologico (nei termini di sentimenti depressivi e senso di
alienazione). La nostra ipotesi è che il sostegno ed il conflitto nelle relazioni amicali vadano ad incidere maggiormente sui
comportamenti;
mentre ci aspettiamo che godere di popolarità si associ in particolare ad un minore malessere psicologico.
Metodo
Hanno partecipato allo studio 310 adolescenti (182 ragazze 59%; 128 ragazzi 41%), di età compresa tra 14 e 20 anni (M
16.2, SD 1.4), frequentanti diversi tipi di scuola secondaria nel Nord-Ovest di Italia (228 studenti di Liceo 74%; 82 studenti
di Istituti tecnici e professionali 26%).
72
A questi studenti è stato somministrato un questionario anonimo (contenente sia le scale della qualità dell’amicizia,
Bukowski, Hoza, Boivin. 1994, sia scale tratte da Bonino, Cattelino, Ciairano, 2007). Gli adolescenti hanno anche compilato
una versione di nomina dei pari (Ennett, Bauman, 1994) con cui è stato possibile valutare la popolarità.
La rilevazione dei dati è avvenuta ad inizio e fine dell'anno scolastico.
Risultati
- Sostegno, conflitto e popolarità non cambiano tra le due rilevazioni.
- È presente una debole correlazione (r= .20) tra sostegno e popolarità, mentre non c’è nessun legame tra conflitto e
popolarità.
- In entrambe le rilevazioni, le ragazze e gli studenti dei licei percepiscono un maggiore sostegno da parte degli amici
e sono più popolari.
- Per quanto riguarda l’età, i più giovani (14-15 anni) percepiscono un minore sostegno ed un maggiore conflitto.
Per le relazioni tra qualità dell’amicizia, popolarità, comportamenti rischiosi, alimentazione salutare, successo scolastico e
malessere psicologico (analizzate attraverso una serie di regressioni lineari gerarchiche, controllando per il valore della
variabile dipendente a T1):
- Il sostegno è collegato negativamente ai comportamenti rischiosi ( = -.08, R2= .01) e positivamente
all’alimentazione salutare ( = .16, R2= .02) e successo scolastico ( = .09, R2= .01).
- Il conflitto è collegato positivamente ai comportamenti rischiosi ( = .07, R2= .01) e negativamente
all’alimentazione salutare ( = -.17, R2= .04).
- La popolarità risulta invece negativamente connessa al malessere psicologico ( = -.09, R2= .01).
- Non sono state riscontrate relazioni tra qualità dell’amicizia e malessere psicologico.
Discussione
Questi risultati meritano certamente ulteriori approfondimenti. Sembra comunque che le nostre ipotesi, di una maggiore
relazione tra qualità del legame amicale e comportamenti e tra popolarità e condizione psicologica, siano confermate. I
rapporti amicali in adolescenza possono rappresentare tanto una risorsa quanto un rischio, a seconda della particolare
connotazione positiva e negativa che assume la qualità del legame. Infine, essere apprezzati dai coetanei sembra un buon
antidoto contro il malessere psicologico connesso al diventare grandi.
SUPPORTO PERCEPITO DAI COETANEI E RESILIENZA IN ADOLESCENZA
PALMA MENNA, LAURA ALENI SESTITO
Dipartimento di Scienze Relazionali “Gustavo Iacono”- Università degli Studi di Napoli “Federico II”
[email protected]
Introduzione
Il presente contributo si inserisce in un più ampio studio che esplora le caratteristiche del supporto sociale percepito dagli
adolescenti, in forme simmetriche o asimmetriche, in relazione ai compiti di sviluppo connessi alla costruzione dell’identità
in adolescenza (Aleni Sestito et al., 2007, 2008).
Il quadro teorico di riferimento è dato da una prospettiva di analisi che considera lo sviluppo come azione nel contesto
(Silbereisen, Eyferth e Rudinger, 1986), sottolineando l’importanza dell’azione e dell’intenzione dell’individuo all’interno
del proprio ambiente di vita, che gli offre opportunità e risorse, e al contempo definisce limiti e vincoli. Il nostro focus si
centra dunque sulla relazione tra l’individuo ed il suo ambiente, che formano un insieme integrato e dinamico, “come
elementi inscindibili che si influenzano reciprocamente” (Magnusson e Stattin, 1998). La nostra ricerca si propone di
approfondire in particolare il ruolo del supporto sociale percepito dai coetanei in relazione a caratteristiche personali
associate alla capacità di gestire in modo flessibile gli impulsi e le emozioni, in relazione ad eventi stressanti, interni o
esterni (ego-resiliency) (Block e Block, 1980). In tale sede, il costrutto di supporto sociale è inteso nell’accezione proposta
da Harter (1985, 1988): esso si configura come una specifica forma di “validazione” da parte degli altri (Harter, 1990),
come riconoscimento e approvazione che il soggetto percepisce di ricevere da altri significativi, dei quali incorpora e fa
proprio il giudizio attraverso un graduale processo di interiorizzazione. Tale modello esplicativo, che differenzia questo
particolare tipo di supporto da altre forme di supporto (quello emotivo o strumentale, ad esempio) viene qui privilegiato in
quanto sembra svolgere funzioni che possono essere considerate predittive di importanti dimensioni più propriamente
individuali. Da un punto di vista meta-cognitivo, inoltre, sperimentare relazioni supportive contribuisce a generare
nell’individuo processi di auto-attribuzione positiva, i quali a loro volta possono influenzare in maniera positiva la capacità
di affrontare e gestire le situazioni problematiche. Intendiamo porre particolare attenzione al contesto sociale di riferimento,
dal momento che bisogna aspettarsi che la qualità delle relazioni con gli altri avrà un impatto sui comportamenti resilienti,
considerando che le relazioni rilevanti con altri significativi rivestono centrale importanza per l’apprendimento di
comportamenti con funzione adattiva (Zimmer-Gembeck, Locke, 2007). In sintesi, intendiamo analizzare il grado di
supporto percepito da parte dei coetanei (amici e compagni di classe) e valutare se esso possa essere connesso ai processi di
resilienza. Ipotizziamo in particolare che gli adolescenti che percepiscono un più alto livello di supporto da parte degli amici
73
abbiano maggiori livelli di resilienza rispetto a quelli che si caratterizzano per uno scarso livello di supporto percepito. Più
in dettaglio, gli obiettivi del presente studio sono: 1) descrivere le differenze e similarità in relazione al supporto sociale
percepito ed alla resilienza considerando il genere e l’età; 2) indagare la relazione tra la resilienza e il supporto percepito dai
coetanei (in particolare, da parte del migliore amico e dei compagni di classe).
Metodo
Soggetti – Il campione è costituito da 312 soggetti di età compresa tra i 14 e i 20 anni (età media: 16.84), di ambo i sessi
(maschi: 49%); femmine: 51%), frequentanti diversi tipi di istituti scolastici superiori nella città di Napoli.
Strumenti – Per raccogliere i dati è stata utilizzata la versione italiana del Social Support Scale for Children and
Adolescents (Harter, 1985, Aleni Sestito et al., 2008) e la versione italiana della Scala di Ego-Resiliency (Block e Kremen,
1996, Caprara, Steca e De Leo 2003).
Analisi statistiche – Per l’analisi statistica dei dati raccolti sono state usate statistiche descrittive (calcolo della frequenza,
confronto delle medie) e analisi di correlazione e regressione tra i costrutti indagati. Le analisi sono state condotte
attraverso il pacchetto per l’analisi statistica SPSS 12.0.
Risultati
Le analisi preliminari hanno messo in luce differenze di genere statisticamente significative per quanto attiene al livello di
supporto percepito, con punteggi più alti da parte delle ragazze. I risultati dell’analisi della varianza ad una via sui punteggi
totali ottenuti nella scala di ego-resiliency non mostrano differenze significative tra maschi e femmine. Rispetto alla
relazione tra supporto sociale percepito e ego-resiliency emerge una correlazione significativa di segno positivo tra livello
di supporto percepito dai coetanei e ego-resiliency. I ragazzi e le ragazze con più alti livelli di resilienza hanno un più
marcato livello di supporto percepito dagli amici e dai compagni di classe, con differente consistenza a seconda del genere.
Ulteriori analisi dei dati sono attualmente in corso.
ADOLESCENTI TRA RISCHIO E RESPONSABILITÀ: IL GRUPPO DEI PARI E LA GUIDA PERICOLOSA
ALESSIA BASTIANELLI (1), DAVIDE MARENGO (2), GIULIO VIDOTTO (1)
(1) Università degli Studi di Padova
(2) Università degli Studi di Torino
[email protected]
Introduzione
In Italia, i traumi legati ad incidenti stradali rappresentano la seconda causa di morte, dopo la malattia, nella fascia di età tra i
15 e i 29 anni; malgrado infatti la mortalità legata ad incidenti sia globalmente diminuita nel corso degli ultimi trent’anni di
circa il 40%, in questa fascia di età tale flessione non è stata registrata se non di pochi punti percentuali (ISS, 2003). Tra i
fattori che favoriscono il coinvolgimento in adolescenza in comportamenti a rischio come la guida pericolosa l’influenza dei
coetanei può rivestire un ruolo importante, in particolare in presenza di pari già coinvolti in attività a rischio (Shope,
Raghunathan & Patil, 2003). Studi suggeriscono che un buon livello di autoefficacia può essere un fattore di protezione
rispetto alle pressioni dei pari a trasgredire le proprie norme personali (Caprara, Barbaranelli, Pastorelli & Cervone, 2004);
d’altra parte anche il grado di responsabilità riconosciuto dagli adolescenti alle proprie azioni (e agli eventi ad esse connessi),
o locus of control, può influenzare la percezione del rischio associato a (e quindi potenzialmente la messa in atto di
comportamenti come la guida pericolosa, che possono rivestire funzioni decisamente attraenti in particolare in questa fase di
sviluppo (quali, sperimentazione di sè e dei propri limiti, riconoscimento da parte dei pari, e rinforzo dell’autostima). La
letteratura sull’argomento, benchè ampia, riporta tuttavia risultati ambivalenti (Gidron, Gal & Desevilya, 2003; Ozkan,
Lajunen, 2005).
In questa luce, il presente studio si propone di: 1) valutare l’impatto di tali fattori di personalità sull’assunzione da parte degli
adolescenti di comportamenti rischiosi alla guida del motorino 2) investigare il ruolo svolto dai modelli offerti dal gruppo dei
pari riguardo all’uso del casco, dall’importanza attribuita alle opinioni dei pari e dalla qualità dei rapporti con gli amici
nell’influenzare la percezione del rischio e gli atteggiamenti di guida degli adolescenti.
Metodo
Hanno partecipato allo studio 398 adolescenti (201 ragazze 50,1%; 200 ragazzi 49,9%), di età compresa tra 14 e 15 anni,
frequentanti il primo anno di scuola secondaria nel Nord-Est di Italia.
A questi studenti è stato somministrato un questionario anonimo in cui vengono investigati il livello di autoefficacia
regolatoria (Pastorelli & Piconi, 2001), il locus of control relativo alla guida (CBA-BG, Vidotto, Sica, & Baldo, 1995), scale
relative al coinvolgimento in comportamenti di guida pericolosa, ai rapporti coi coetanei e ai modelli da essi rappresentati
(Bonino, Cattelino, Ciairano, 2007). La rilevazione dei dati è avvenuta nel secondo semestre dell'anno scolastico.
Risultati
- Alla guida del motorino i ragazzi tendono a prendere più rischi (F = 20,15, p<.0001) rispetto alle loro coetanee.
74
-
Un buon livello di autoefficacia regolatoria risulta essere protettivo rispetto all’assunzione di comportamenti di
guida pericolosa (B = - .248; 2 = .16 ).
- La tendenza a locus of control esterno si associa, seppure debolmente, ad una guida più pericolosa da parte dei
soggetti (B = .143, 2 = .03)
Relativamente all’influenza sull’assunzione di comportamenti di guida pericolosa da parte di fattori come l’uso del casco da
parte degli amici, l’importanza assegnata all’opinione dei coetanei e dei genitori riguardo la salute e la qualità dei rapporti coi
pari:
- una scarsa qualità dei rapporti coi coetanei risulta positivamente connessa all’esibizione di comportamenti di guida
pericolosa (B = 8.91, 2 = .04 ), sebbene risulti protettiva in presenza di pari che non usano il casco (B = -16,25, 2
= .05 );
- la tendenza a favorire l’opinione dei genitori, associata a scarsi rapporti coi coetanei, sembra favorire
comportamenti di guida più sicuri da parte degli adolescenti (B = - 9.91, 2 = .04)
- assegnare più importanza alle opinioni di amici rispetto ai genitori, associata alla presenza nel gruppo dei pari di
ragazzi che non usano il casco, rappresenta un fattore di rischio rispetto all’assunzione comportamenti rischiosi alla
guida del motorino (B = 17,26, 2 = .05)
Discussione
I risultati sembrano confermare l’influenza dei fattori di personalità nel mediare il coinvolgimento degli studenti in
comportamenti di guida rischiosi; in particolare si conferma significativo il contributo che un buon livello di autoefficacia
regolatoria fornisce nel contrastare l’assunzione di rischi degli adolescenti, mediando in tal senso la relazione col gruppo di
pari devianti. Il ruolo dei pari risulta però ambiguo: se da un lato la presenza di coetanei coinvolti in attività a rischio
favorisce atteggiamenti simili in chi li frequenta, soprattutto dove essi rappresentano la principale fonte di confronto e di
opinione, relazioni negative coi pari risultano avere effetti altrettanto problematici, confermando come l’influenza del gruppo
non si espliciti solo in termini appartenenza ma anche di esclusione.
75
Simposio 12
SVILUPPO DEL LESSICO TRA FONOLOGIA E SEMANTICA
Proponente: MARGHERITA ORSOLINI
Università di Roma “Sapienza"
[email protected]
Discussant: BEATRICE BENELLI
Università degli Studi di Padova
[email protected]
76
Presentazione
In una visione non modularista del linguaggio lo sviluppo del lessico può essere considerato una componente dello sviluppo
più generale di un sistema di memoria “dichiarativa” (Ullman, 2004) di cui fa parte sia la conoscenza di fatti e nozioni
(memoria semantica) sia la memoria di eventi (memoria episodica). Alla base di questo sistema c’è la capacità di apprendere
rapidamente (in base ad una singola presentazione) un legame arbitrario tra informazioni (memoria associativa).
In che misura abilità squisitamente linguistiche e abilità cognitive non-linguistiche contribuiscono allo sviluppo del lessico?
Gli studi evolutivi mostrano un ruolo importante delle abilità linguistiche. Per ciò che riguarda la componente fonologica, la
fase iniziale della produzione lessicale dei bambini e’ caratterizzata dall’utilizzazione flessibile di pacchetti articolatori gia’
sperimentati nella lallazione (Vihman, 1991). Il ruolo delle abilità fonologiche è confermato anche dagli studi su bambini più
grandi che evidenziano come nei bambini anglofoni un compito di ripetizione di non-parole sia un buon predittore dello
sviluppo del lessico tra i 4 e i 5 anni (Gathercole, Willis, Emslie, Baddeley, 1992).
Nonostante sia piuttosto controversa l’interpretazione grammaticale versus semantica dei differenti profili di acquisizione dei
nomi e dei verbi (Gentner, 1982; Longobardi e Camaioni, 2005; Tardif et al., 1999) la fase iniziale della produzione lessicale
dei bambini mostra anche che alcune proprietà delle parole rivestono una notevole importanza. In particolare, studi crossculturali hanno rilevato nelle prime produzioni infantili un prevalere dei nomi rispetto ai predicati per ordine di frequenza ed
età di comparsa (Caselli, Casadio e Bates 1999). In una fase avanzata dello sviluppo lessicale, la capacità linguistica di
spiegare e definire il significato delle parole sembra essere un ulteriore importante fattore che contribuisce allo sviluppo del
lessico (Belacchi e Benelli, 2007).
E’ ancora poco chiaro negli studi eolutivi in che misura le abilità concettuali, o altre abilità cognitive non-linguistiche
contribuiscano allo sviluppo lessicale in bambini con sviluppo tipico. Il ruolo delle abilità concettuali è tuttavia suggerito da
alcuni studi su bambini con disturbo specifico di linguaggio (DSL): una scarsa concettualizzazione di oggetti target influenza
una difficoltà ad apprendere o recuperare il nome di questi oggetti (McGregor, Newman, Reilly, Capone 2002; Brackenbury,
Pye, 2005; Capone, McGregor, 2005).
In questo simposio presentiamo ricerche che esplorano il ruolo di diverse componenti -linguistiche e non-linguistiche- nello
sviluppo lessicale dei bambini.
COMPONENTI COGNITIVE, PRAGMATICHE E LINGUISTICHE NELLA COSTRUZIONE DELLA
COMPETENZA DEFINITORIA IN BAMBINI PRESCOLARI: CONFRONTO TRA NOMI, VERBI E AGGETTIVI
CARMEN BELACCHI, SOFIA POLLINI
Istituto di Psicologia dell’ Università degli studi “Carlo Bo” di Urbino
[email protected]
Introduzione e obiettivi
Definire parole, una delle abilità linguistiche più complesse, comporta un uso integrato di diverse componenti: cognitivoconcettuali (organizzazione semantica delle rappresentazioni), comunicativo-pragmatiche (efficacia nella esplicitazione del
contenuto), linguistico-formali (conoscenza lessicale e morfo-sintattica). La padronanza integrata di tutte queste componenti
rende possibile la funzione elettivamente metalinguistica della definizione lessicografica (Belacchi e Benelli, 2007). Gli studi
tradizionali (Litowitz 1977; Wehren, De Lisi e Arnold, 1981, Snow et al., 1989; Watson, 1995) si sono per lo più concentrati
sulla definizione di nomi concreti, enfatizzando a volte le caratteristiche formali di una definizione, a volte quelle di
contenuto senza riuscire a considerare tali componenti costitutive in modo congiunto e integrato. Alcuni studiosi hanno
considerato il ruolo del tipo di stimolo: termini concreti vs astratti e/o le diverse classi formali delle parole (Markowitz e
Franz, 1988; Nippold e al., 1999; Johnson e Anglin, 1995; Marinellie e Johnson, 2003), evidenziando, in generale, la
maggior complessità dei verbi e degli aggettivi.
La presente ricerca si propone due obiettivi principali:
- distinguere il peso delle diverse componenti implicate nella costruzione della competenza definitoria, al fine di individuarne
gli specifici percorsi evolutivi e la reciproca integrazione in età prescolare;
- confrontare il ruolo di tali componenti nelle definizioni di nomi, verbi e aggettivi.
Metodo
Hanno partecipato 247 bambini prescolari suddivisi in tre gruppi: 69 con un’età media di 3;7 (range: 3;0 - 4;0), 87 con un’
età media di 4;7 (range: 4;1 – 5;0) e 91 con un’età media di 5;8, (range: 5;1- 6;5). Ai bambini è stato chiesto di aiutare un
personaggio che non conosce la nostra lingua a comprendere il significato di alcune parole. La lista di parole, tutte concrete e
altamente familiari (Caselli e Casadio, 1995) costituta da 4 nomi, 4 verbi e 4 aggettivi è stata sottoposta in ordine random. Le
risposte, audioregistrate e trascritte verbatim, sono state codificate secondo quattro scale: Scala Forma (S.F.), Scala
Originaria (S.O.), Scala Informativa (S.I.) e Scala Semantica (S.S.). Lo scoring delle risposte nelle diverse scale si articola da
0 a 5 punti, secondo criteri specifici e differenziati per ciascuna scala: costruzione dell’enunciato linguistico di tipo
aristotelico, senza tener conto del contenuto (S.F.); costruzione dell’abilità di esprimere il significato di un termine in modo
comunicativamente efficace, senza tener conto della forma (S.I.); progressiva integrazione della componente linguistico77
formale e semantico concettuale (S.O.) e progressiva organizzazione tassonomica delle rappresentazioni semantiche senza
tener conto del tipo di esplicitazione linguistica (S.S.).
Risultati
Da un’analisi Anova a misure ripetute e dal post-hoc di Waller-Duncan sui punteggi medi nelle 4 scale di definizione, come
variabili dipendenti, e con i gruppi di età, come variabile indipendente, è risultato un effetto significativo del tipo di Scala [F
(3,732) = 1016.32) p< .001], senza interazione con l’età. Le prestazioni sono risultate decrescenti dalla S.F (3.18), alla S.I.
(2.72), alla S.O. (2.58) alla S.S. (1.32), in maniera analoga in tutti i gruppi di età. Le correlazioni parziali, corrette per l’età,
indicano significative relazioni tra i punteggi medi di tutte le scale, con indici più elevati tra la S.F. e la S.O. (.973) e tra la
S.I. e la S.S. (.770). L’analisi fattoriale sui punteggi medi nelle 4 scale ha evidenziato due componenti principali che
complessivamente spiegano il 94% della varianza: la prima componente, denominata Forma, spiega il 49% della varianza e
satura la S.F. e la S.O., mentre la seconda componente, denominata Contenuto, spiega il 45% della varianza e satura la S.I. e
la S.S.. L’analisi di regressione (metodo step-wise) ha evidenziato che la prestazione nella S.S. è un predittore significativo
delle prestazioni in tutte le altre scale di competenza definitoria. Per quanto concerne il fattore tipo di stimolo, sono state
condotte analisi Anova a misure ripetute sui punteggi di aggettivi, nomi e verbi rispettivamente nelle 4 scale, come variabili
dipendenti, e con i gruppi di età come variabile indipendente. È emerso un effetto significativo del tipo di stimolo [F (2,488)
= 82.60) p< .001], con i nomi più facili da definire (2.72) rispetto ai verbi (2.35) e agli aggettivi (2.28); si è ottenuta anche
un’interazione significativa tra tipo di stimolo ed età [F (4,488) = 3,76 p< .005], evidenziando come critico il passaggio tra il
secondo e il terzo gruppo di età.
ESPLORARE LO SVILUPPO DELLE CONOSCENZE LESSICALI-SEMANTICHE ATTRAVERSO UNA PROVA
DI DENOMINAZIONE DI NOMI E PREDICATI PER BAMBINI FRA 2 E 3 ANNI DI ETÀ.
ARIANNA BELLO (1), MARIA CRISTINA CASELLI (1), PAOLA PETTENATI (1), SILVIA STEFANINI (2)
(1) Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR - Roma
(2) Dipartimento di Neuroscienze – Università degli Studi di Parma
[email protected]
Introduzione
Diversi studi hanno cominciato ad interessarsi dell’organizzazione del lessico rispetto all’ampiezza del primo vocabolario
acquisito. Gli studi condotti sull’ampliamento e la composizione del vocabolario hanno suggerito che le principali categorie
lessicali (nomi, verbi aggettivi) sono apprese in tempi diversi nelle prime fasi dello sviluppo. In particolare, studi crossculturali hanno rilevato nelle prime produzioni infantili un prevalere dei nomi rispetto ai predicati per ordine di frequenza ed
età di comparsa (Caselli, Casadio e Bates 1999), ma il rapporto nomi-predicati tende a cambiare già a partire dal secondo
anno di vita. I fattori che potrebbero essere alla base di queste differenze nei tempi di acquisizione delle diverse categorie
lessicali sono secondo alcuni autori di tipo linguistico (Longobardi e Camaioni, 2005; Tardif et al., 1999), mentre secondo
altri di tipo cognitivo (Gentner, 1982). Alcuni studi hanno inoltre suggerito che il significato di una parola non esprime solo
informazioni concettuali in senso stretto ma anche quelle che provengono da diversi contesti di esperienza, in particolare da
rappresentazioni schematiche come gli script, le storie o le nozioni enciclopediche. Già in fasi precoci di sviluppo del
linguaggio, concetti e significati tendono a convergere, nel senso che le conoscenze vengono sempre più “tradotte” a livello
mentale in rappresentazioni linguistiche; categorie lessicali diverse (nomi, verbi e aggettivi) sarebbero inoltre organizzate
nella mente in modi differenti (Benelli, 2007; Belacchi e Benelli 2007). La maggior parte degli studi sopra menzionati sono
stati condotti attraverso strumenti di osservazione indiretta, come questionari per i genitori o attraverso analisi di interazioni
spontanee.
Il nostro studio si propone di studiare, attraverso l’uso di una prova di denominazione: - cambiamenti evolutivi nella
produzione del lessico e i rapporti fra nomi e predicati; - i tipi di errori che i bambini producono, allo scopo di esplorare la
diversa natura rappresentazionale delle due categorie lessicali in bambini molto piccoli.
Metodo
Il materiale utilizzato nel presente lavoro è la Prova lessicale- PL- (Bello, Caselli, Pettenati, Stefanini, in preparazione). La
prova Lessicale (PL) è uno strumento di osservazione diretta delle competenze lessicali, recettive ed espressive, predisposta
per la fascia 2-3 anni di età. Le voci lessicali contenute nel test sono state selezionate, attraverso procedure statistiche, dai
dati normativi del PVB (Caselli, e Casadio 1995). In questo studio verranno presentati i risultati relativi alla prova di
produzione che si compone di:
- un set di foto che elicitano nomi (24 item);
- un set di foto che elicitano predicati (verbi, avverbi, aggettivi) (22 item).
La prova lessicale è stata proposta a un gruppo di circa 250 bambini con sviluppo tipico di età compresa tra 24 e 37 mesi,
divisi in 8 fasce di età, di due mesi ciascuna. In ogni sottogruppo, il numero di bambini varia da un minimo di 25 a un
massimo di 50. Le risposte dei bambini sono state trascritte, informatizzate e poi analizzate dal punto di vista quantitativo e
78
qualitativo. E’ stata condotta una prima analisi delle risposte attese (target) al compito di produzione lessicale al fine di
conoscerne gli andamenti evolutivi dell’acquisizione di nomi e predicati.
E’ stata inoltre condotta un’ analisi degli errori (risposte non target - RNT) utilizzando uno schema di classificazione adattato
da Lucariello et al., 1992 (Benelli e Belacchi 2007).
Risultati
Sono state calcolate le medie e le deviazioni standard delle risposte attese nelle diverse fasce di età sia nella produzione nomi
che predicati.
Le analisi evidenziano per entrambe le categorie lessicali un cambiamento significativo del numero di risposte attese in
funzione dell’età (per i nomi Anova F(7,251)= 26,65, p <0,001); per i predicati Anova F(7,219)= 23,59, p <0,001). Inoltre
dal confronto tra i due subtest in ogni fascia di età considerata, si osserva che: i) i nomi sono conosciuti meglio dei predicati
(effetto principale del tipo di categoria lessicale F(1,196)= 208; p<.001); ii) la loro conoscenza migliora al crescere dell’età
(effetto principale dell’età F(6,196)= 27; p<.001); iii) la distanza tra nomi e predicati diminuisce al crescere dell’età (effetto
interazione tra i due fattori F(1,196)= 2.5; p=.019). Un’ulteriore analisi evidenzia la presenza di una forte correlazione
positiva che è stata trovata tra i due substest di produzione nomi e predicati (Pearson r =, 832, per p<.01).
Ulteriori analisi riguarderanno la tipologia degli errori, allo scopo di verificare se e come le conoscenze semantiche di cui i
bambini dispongono si modificano in funzione dell’età.
CONFRONTO TRA NOMI E VERBI: LA DENOMINAZIONE DI FIGURE IN BAMBINI DI ETÀ PRESCOLARE
SIMONETTA D’AMICO (1), ANTONELLA DEVESCOVI (2), STEFANIA MARCOLINI (3)
(1)Dipartimento di medicina interna e sanità pubblica, Università degli studi dell’Aquila
(2) Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e di Socializzazione, Università di Roma “Sapienza"
(3) Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, CNR, Roma
[email protected]
Introduzione
In letteratura sono numerosi i dati su adulti con o senza disturbi acquisiti del linguaggio che documentano maggiori difficoltà
nell’elaborazione dei verbi, nonostante non manchino casi di pazienti con maggiori disturbi nell’elaborazione dei nomi
(Levelt, Roelofs e Meyer, 1999). In età evolutiva viene comunemente riscontrato che il primo vocabolario dei bambini
include in prevalenza nomi piuttosto che verbi, così come nelle prime combinazioni di parole l’uso dei nomi precede l’uso
dei verbi (Gentner, 2006). Anche i bambini con disturbi del linguaggio manifestano disfunzioni più rilevanti nell’uso dei
verbi piuttosto che dei nomi (Leonard, 1998).
In anni recenti, è stato sostenuto che la dissociazione tra nomi e verbi emerge dalla struttura di connessioni regolari tra
proprietà di differenti componenti del lessico, quali la componente semantico-concettuale, la componente sintatticogrammaticale e la componente fonologica (Black e Chiat, 2003). Per alcuni autori sarebbe la struttura argomentale del verbo
a rendere l’elaborazione lessicale intrinsecamente più complessa rispetto all’elaborazione dei nomi, comportando uno
svantaggio nella loro acquisizione e rendendone particolarmente vulnerabile la padronanza nei disordini evolutivi ed
acquisiti. La presente ricerca si inserisce nell’ambito di questi studi indagando l’accesso lessicale di nomi e verbi in bambini
di 5-6 anni. In particolare, viene esaminata la componente sintattico-grammaticale delle categorie nomi e verbi, mettendo a
confronto nomi, verbi transitivi e verbi intransitivi, in un compito di denominazione di figure. L’obiettivo della ricerca è
quello di verificare se, in bambini non ancora scolarizzati ma di un’età in cui si suppone siano state già acquisite le strutture
sintattiche basilari della lingua (Cipriani, Chilosi, Bottari e Pfanner, 1993), le caratteristiche sintattico-grammaticali di nomi
e verbi influenzano l’accesso lessicale in modo simile a quanto accade per gli adulti.
Metodo
Sono stati selezionati due gruppi di 34 bambini di 5-6 anni senza disturbi. Al primo gruppo è stata richiesta la denominazione
di 250 figure rappresentanti nomi-oggetto o nomi-essere-animato (si veda anche D’amico, Devescovi e Bates, 2001). Al
secondo gruppo è stata richiesta la denominazione di 275 figure rappresentanti verbi-azione. I bambini dovevano denominare
il più velocemente possibile con una sola parola cosa era rappresentato nella figura che appariva sul video del PC. Nel caso
dei verbi, i bambini dovevano produrre le forme della terza persona singolare del presente indicativo. Per ciascuno stimolo
veniva rilevato l’onset della denominazione, la percentuale di accordo sull’etichetta verbale prodotta con più frequenza, e il
numero di alternative lessicali prodotte. Sono state condotte analisi a correlazione e regressione sulle figure per le quali vi era
accordo sull’etichetta lessicale più frequentemente prodotta sia dai bambini che da adulti in precedenti. Inoltre è stata
condotta un’analisi ANOVA sui dati relativi a 3 liste di 25 parole/figure ciascuna: la prima lista era composta da nomioggetto o nomi-essere-animato, la seconda da verbi transitivi, la terza da verbi intransitivi. Le tre liste variavano per
complessità della struttura argomentale, mentre erano bilanciate per aspetti fonologici e semantico-concettuali.
Risultati e Conclusioni
79
Dalle analisi di correlazione e regressione emerge che sia le figure-nome che le figure-verbo vengono denominate più
velocemente se sono più immaginabili e se sono state apprese in età più precoce. All’aumentare dell’immaginabilità di nomi
e verbi si ha un aumento della percentuale di accordo sull’etichetta attribuita alla figura, mentre si ha una diminuzione del
numero delle alternative lessicali prodotte. Nel caso dei nomi, i suddetti effetti sono osservabili anche al diminuire dell’età di
acquisizione. I risultati dell’ANOVA evidenziano che le figure-nome vengono denominate più velocemente delle figureverbo, mentre le figure-verbo-intransitivo vengono denominate più velocemente delle figure-verbo-transitivo. Inoltre, le
figure-nome sono denominate con meno alternative lessicali rispetto alle figure-verbo e con una percentuale maggiore di
accordo rispetto alle figure-verbo-transitivo. In generale, i risultati dimostrano che in età precoce i fattori semantico-lessicali
e sintattico-grammaticali condizionano i processi di accesso lessicale in modo simile a quanto accade per gli adulti.
L’INFLUENZA DEI FATTORI BIOLOGICI E DELLO SVILUPPO FONOLOGICO SULLO SVILUPPO
LESSICALE DEI BAMBINI NATI PRETERMINE
LAURA D’ODORICO, MIRCO FASOLO, MARINELLA MAJORANO, NICOLETTA SALERNI, CHIARA SUTTORA
Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Milano-Bicocca
[email protected]
Introduzione
Numerose ricerche evidenziano come i bambini nati prematuramente soffrano in misura maggiore, rispetto ai bambini nati a
termine, di ritardi nello sviluppo cognitivo e socio-affettivo (si veda Aylward, 2005 per una rassegna sull’argomento). Per
quel che riguarda lo sviluppo della comunicazione linguistica, invece, i risultati non sembrano essere univoci (cfr. Costantini,
2007). In generale, gli studi longitudinali condotti hanno cercato di evidenziare quali siano i fattori che maggiormente
influenzino un esito di sviluppo positivo: da una parte i fattori “biologici” (in particolare, perso alla nascita ed età
gestazionale), dall’altra quelli “ambientali” (livello di scolarizzazione materna, sviluppo del legame di attaccamento, ecc).
Scopo della presente ricerca è: a) valutare se vi sia stabilità nello sviluppo prelinguistico al passaggio dai 12 ai 18 mesi d'età;
b) valutare quale sia l’effetto a breve e medio termine delle variabili biologiche sullo sviluppo cognitivo e linguistico; c)
individuare degli indici precoci dello sviluppo linguistico a 24 mesi di età.
Metodologia
Soggetti
Il campione del presente studio è composto da 16 soggetti (7 femmine e 9 maschi) nati prematuramente (età gestazionale:
media = 30,02 settimane, gamma = 26-32) e sottopeso (peso alla nascita: media = 1341 grammi, gamma = 740-1850).
Procedura
Nel corso dei primi due anni di vita, madre e bambino erano invitati a partecipare ad una serie di incontri duranti i quali
erano valutati i seguenti aspetti: lo sviluppo motorio e cognitivo a 6, 12 e 24 mesi d’età, con le scale Bayley (Bayley, 1993);
lo sviluppo fonologico e linguistico a 12, 18 e 24 mesi d’età, durante delle sessioni video-registrate di interazione madrebambino; l’ampiezza del vocabolario ricettivo e produttivo a 18 e 24 mesi d'età, per mezzo del “Primo Vocabolario del
Bambino” (Caselli e Casadio, 1995).
Risultati
Una prima serie di analisi ha preso in considerazione la relazione esistente tra le variabili biologiche considerate e lo
sviluppo motorio e cognitivo. Dai risultati emerge come il numero di settimane di gestazione e il peso alla nascita correlino
positivamente con lo sviluppo motorio a 6, 12 e 24 mesi d’età, mentre la relazione con lo sviluppo mentale risulta
significativa solo alla prima rilevazione.
Le analisi sulla comunicazione prelinguistica hanno preso in considerazione aspetti quantitativi delle lallazioni prodotte (il
livello medio di babbling, o Mean Babbling Level - MBL) e aspetti qualitativi (la tipologia del babbling prodotto – semplice,
reduplicato, variato e bi-trisillabico; la produzione di consonanti). Ad entrambe le rilevazioni, a 12 e a 18 mesi d’età, il
babbling di Livello 1 risulta essere quello maggiormente prodotto, tuttavia, l’incremento della produzione nei Livelli 2 e 3 (e
la conseguente diminuzione nella produzione del Livello 1) risulta statisticamente significativa, così come l’aumento del
MBL, a conferma di un aumento della complessità delle produzione preverbali. L’aumento quantitativo delle produzioni
prelinguistiche è associato ad un aumento qualitativo delle produzioni stesse: al passaggio dai 12 ai 18 mesi si ha una
diminuzione significativa della produzione di babbling semplice, per contro, si ha un aumento statisticamente significativo
della produzione del babbling reduplicato e di produzioni bi-trisillabiche. La complessità del babbling prodotto risulta essere
correlata con le variabili biologiche considerate, anche se non sempre in misura significativa.
In generale, una maggiore età gestazionale e un maggiore peso alla nascita sembrano essere responsabili di uno sviluppo
fonologico più avanzato a 12 mesi d’età. A sua volta, lo sviluppo fonologico a 12 mesi è collegato all’ampiezza del
vocabolario produttivo a 24 mesi d’età.
Conclusioni
80
I risultati sono stati interpretati alla luce di un modello di sviluppo Step by Step, secondo il quale il livello di sviluppo
raggiunto ad una fase precedente funge da base ed influenza lo sviluppo del livello successivo. In particolare, i risultati
sembrano confermare l’influenza delle variabili biologiche sulle prime fasi dello sviluppo fonologico, mentre è quest’ultimo
a spiegare lo sviluppo lessicale raggiunto dal bambino al termine del secondo anno di vita.
PREDITTORI DELLO SVILUPPO LESSICALE IN BAMBINI DI 4 E 5 ANNI
MARGHERITA ORSOLINI (1), ANGELA SANTESE (1), MARIAPAOLA BIANCHINI (1), RACHELE FANARI (2)
(1) Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e di Socializzazione, Università di Roma “Sapienza”
(2) Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Cagliari
[email protected]
Introduzione
Finora gli studi evolutivi sullo sviluppo del lessico in età prescolare sono stati molto influenzati dall’ipotesi di un legame tra
memoria fonologica a breve termine e lessico. Gli studi di Gathercole e collaboratori hanno mostrato che nei bambini
anglofoni un compito di ripetizione di non-parole è un buon predittore dello sviluppo del lessico tra i 4 e i 5 anni (Gathercole,
Willis, Emslie, Baddeley, 1992). Alcuni recenti studi sui bambini con disturbo specifico di linguaggio mostrano però che un
ruolo altrettanto importante può essere rivestito da abilità concettuali e semantiche. Una scarsa concettualizzazione di oggetti
target influenza una difficoltà ad apprendere o recuperare il nome di questi oggetti (McGregor, Newman, Reilly, Capone
2002; Brackenbury, Pye, 2005; Capone, McGregor, 2005). A loro volta, le conoscenze concettuali possono basarsi su altre
componenti cognitive non-linguistiche, come le abilità visuo-spaziali. Gli studi di Rourke (1995; 2000) sui bambini con
disturbo di apprendimento non-verbale forniscono una certa evidenza sul legame tra deficit nelle abilità visuo-spaziali e
deficit nello sviluppo semantico.
Questo lavoro offre un contributo allo studio dei rapporti tra memoria fonologica a breve termine, abilità visuo-spaziali,
abilità concettuali-semantiche e sviluppo del lessico in bambini di 4 e 5 anni che hanno uno sviluppo linguistico tipico.
Metodo
Hanno partecipato 40 bambini di età compresa tra 4 e 4,11 anni e 40 bambini di età compresa tra 5 e 5,11 anni a cui abbiamo
individualmente somministrato la Batteria per la valutazione delle abilità semantiche (Belacchi, Fanari, Orsolini, Masciarelli,
Santese, in preparazione), un compito di ripetizione di non-parole (Orsolini, Santese e Capriolo, 2004), due prove
visuospaziali, che sono subtest del TPV (Hammil, Pearson, Vorress, 1994), una prova di lessico, che fa parte del Test Fonolessicale (Vicari, Marotta, Luci, 2007).
Risultati
Per capire quali, tra le variabili considerate, contribuiscano maggiormente ad influenzare la prestazione nel lessico, abbiamo
effettuato l’analisi statistica della regressione multipla. In ambedue i gruppi di età ci sono 3 predittori su 8 ad entrare
nell’equazione di regressione (con un coefficiente di determinazione di 0,51 [F(3,36)= 12,808 p<,00001]). Il predittore con
un peso maggiore è il compito “contestualizzazione” che coinvolge la categorizzazione di un’immagine target in funzione del
luogo-contesto di appartenenza che è anch’esso illustrato da un’immagine (es., vigile-strada). Il secondo predittore è diverso
nelle due fasce di età ma accomunato dal coinvolgimento di una componente metalinguistica: il bambino esplicita e spiega
una categorizzazione di oggetti (predittore per il gruppo di 4 anni) o spiega il significato di una parola (predittore per il
gruppo di 5 anni). Il terzo predittore è un compito che coinvolge abilità visuo-spaziali. Un’analisi discriminante mostra che
simili predittori entrano in un modello che discrimina al 100% bambini con una prestazione lessicale alta o bassa. In
quest’analisi emerge anche, con un peso poco rilevante ma statisticamente significativo, il ruolo di “memoria di parole” -un
compito semantico in cui si chiede di apprendere e ricordare coppie di oggetto-parola (collegate da legami associativi,
relazioni tassonomiche o legame arbitrario)- e il ruolo del compito di ripetizione di non-parole (memoria fonologica a breve
termine).
I risultati suggeriscono che nello sviluppo del lessico tra i 4 e i 5 anni hanno un ruolo importante la conoscenza concettuale
di alcuni “fatti” (situazioni di vita sociale e oggetti tipici che li caratterizzano), un’abilità di compiere un’efficiente analisi
visuo-spaziale, e la capacità linguistica di esplicitare e spiegare concetti e significati. Memoria a breve termine fonologica e
memoria a lungo termine di associazione oggetto-parola hanno un ruolo minore ma contribuiscono a spiegare prestazioni
estreme (molto alte o molto basse) nel lessico.
81
Simposio 13
IL RUOLO DELL’INFORMAZIONE CINETICA NELL’ORGANIZZAZIONE
PERCETTIVA
Proponente: ELOISA VALENZA
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
[email protected]
Discussant: VIOLA MACCHI CASSIA
Università degli Studi di Milano – Bicocca
[email protected]
82
Presentazione
L’origine e lo sviluppo della conoscenza della realtà che ci circonda ha come punto di partenza la percezione del mondo.
Negli ultimi decenni, grazie all’adozione di metodologie accurate rese possibili da un supporto tecnologico sempre più
efficace e preciso, le ricerche psicologiche sulle competenze percettive precoci si sono arricchite di nuovi dati che hanno
contribuito ulteriormente a modificare le nostre conoscenze riguardo le prime fasi dello sviluppo percettivo. Se da un lato è
ormai ampiamente dimostrato che a partire dalla nascita il bambino non si comporta come se fosse “prigioniero dei suoi
sensi”, ma percepisce la realtà che lo circonda attraverso processi sostanzialmente simili a quelli adottati dal sistema adulto,
dall’altro sono innegabili le rilevanti trasformazioni che avvengono nelle modalità attraverso le quali i bambini interpretano
la realtà nei primi mesi vita.
L’obiettivo del presente simposio è quello di offrire un panorama aggiornato della ricerca empirica attualmente in corso in
Italia relativamente alle capacità percettive presenti alla nascita. Si cercherà in particolare di individuare in quali condizioni il
sistema percettivo del neonato si dimostra capace di percepire e organizzare la realtà come costituita da oggetti unitari e
distinti. Si cercherà inoltre di evidenziare come, a pochi giorni dalla nascita, l’informazione dinamica venga utilizzata come
una chiave di lettura privilegiata per decodificare l’ambiente percettivo.
I primi 3 contributi del simposio presenteranno alcune ricerche condotte con neonati di pochi giorni di vita che dimostrano
come alla nascita il bambino sia facilitato nel percepire la realtà sociale e fisica in presenza di indici cinetici.
Più precisamente, il primo contributo (Turati & Bulf) presenterà alcuni studi che dimostrano che fin dalla nascita
l’informazione dinamica costituisce un’importante fonte d’informazione per il riconoscimento dei volti, poiché già alla
nascita il bambino si dimostra capace di riconoscere l’identità di un volto al variare delle diverse prospettive che l’immagine
retinica può assumere.
Il secondo contributo (Bardi, Simion & Regolin) presenterà alcune recenti ricerche che dimostrano che neonati di pochi
giorni di vita si dimostrano capaci di discriminare il movimento biologico da altri tipi di movimento e manifestano una
preferenza spontanea per il movimento biologico. Questi dati suggeriscono che, in modo simile a quanto è stato dimostrato in
altre specie animali, anche gli esseri umani sono dotati di un sistema innato e indipendente dall’ esperienza predisposto
all’elaborazione del movimento degli esseri viventi
Il terzo contributo (Valenza) riporterà alcuni studi che testimoniano che alla nascita, quando il sistema visivo non ha ancora
raggiunto la sua completa maturazione, il movimento è un indice cruciale perché facilita la segmentazione di scene visive
negli oggetti fisici che la compongono.
Infine, benché come dimostrano i contributi fino a qui presentati, gli indici dinamici giochino un ruolo importante nella
percezione di una scena visiva fino dalla prima infanzia, importanti cambiamenti nelle modalità attraverso le quali il sistema
percettivo utilizza il movimento si verificano anche ad età successive. L’ultimo intervento del simposio (Actis Grosso) si
focalizzerà su bambini di età compresa tra i 4 e i 7 anni, presentando una ricerca che si propone di indagare la capacità dei
bambini di questa età di inferire il movimento di un personaggio chiave quando esso viene rappresentato in una sequenza di
immagini statiche che si succedono temporalmente, dando così l’impressione di muoversi nello spazio.
IL RUOLO DEL MOVIMENTO NEL RICONOSCIMENTO DEL VOLTO ALLA NASCITA
CHIARA TURATI (1), HERMANN BULF (2)
(1) Dipartimento di Psicologia – Università degli Studi di Milano-Bicocca
(2) Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione – Università degli Studi di Padova
[email protected]
Introduzione
Raramente i volti che circondano i bambini nella prima infanzia sono statici, molto più frequentemente essi si presentano in
movimento. Nonostante ciò, gli studi sull’abilità dei neonati e dei bambini nei primi mesi di vita di riconoscere i volti hanno
impiegato pressoché esclusivamente stimoli statici. Il presente contributo si propone di contribuire a colmare questa lacuna
indagando in che misura il riconoscimento di un volto alla nascita è modulato dall’informazione cinetica.
La letteratura ha dimostrato che fin dai primi giorni di vita i bambini preferiscono il volto della loro mamma a quello di una
donna estranea (Bushnell et al., 1989; Pascalis et al., 1995) e riconoscono un volto a cui sono stati abituati (Pascalis e de
Schonen, 1994, Turati et al., 2006). I neonati sono anche in grado di riconoscere un volto al di là di talune variazioni di
prospettiva, ad esempio riconoscono un volto anche se viene presentato di 3/4 piuttosto che nella stessa prospettiva frontale
in cui era stato appreso (Turati et al., 2008). Tuttavia, i neonati non sono in grado di generalizzare l’identità di un volto nel
caso in cui il volto sia ritratto di profilo (Turati et al., 2008). Studi effettuati con soggetti adulti dimostrano che un volto in
movimento viene riconosciuto con maggiore accuratezza di un volto statico, in particolare in condizioni percettive non
ottimali (ad esempio quando l’immagine è degradata) (e.g., Pike et al., 1997). Inoltre numerose ricerche dimostrano che
l’informazione dinamica facilita la percezione degli oggetti nella prima infanzia (e.g., Valenza et al., 2006). Il presente studio
si proponeva di indagare se l’uso di un movimento rigido, in cui la testa si muove ma gli elementi interni al volto sono statici,
promuova l’abilità dei neonati di riconoscere quelle caratteristiche del volto che si mantengono stabili al variare della
prospettiva, consentendo al neonato di riconoscere un volto come familiare anche quando viene presentato di profilo.
83
Metodo
Tre diversi esperimenti sono stati condotti utilizzando la tecnica dell’abituazione visiva. Bambini di età compresa tra le 24 e
le 70 ore di vita sono stati abituati a una serie di immagini dello stesso volto ritratto in diverse prospettive (60° sx, 30° sx, 0°,
30° dx, 60°dx). Le diverse immagini del volto venivano presentate simulando un movimento rigido che avveniva secondo
una sequenza ordinata (Esperimento 1), un movimento rigido non ordinato (le immagini venivano presentate in ordine
scorretto - Esperimento 2), o venivano mostrate come una serie di immagini statiche (Esperimento 3). In tutti gli esperimenti,
nella fase test venivano mostrati i profili di un volto familiare e di un nuovo volto.
Risultati
I risultati dimostrano che i neonati manifestano una preferenza per la novità solo nella condizione di movimento rigido con
sequenza ordinata (Esp. 1). Nella condizione di movimento rigido non ordinato i neonati guardano più a lungo in direzione
del volto familiare (Esp. 2), mentre nella condizione in cui le immagini del volto sono statiche non manifestano alcuna
preferenza (Esp. 3). Nel complesso i risultati dimostrano che fin dalla nascita gli indici dinamici costituiscono un’importante
fonte di informazione per il riconoscimento dei volti.
LA SENSIBILITÀ AL MOVIMENTO BIOLOGICO NEI NEONATI: IL RUOLO DELLA FORMA
LARA BARDI (1), FRANCESCA SIMION (2), LUCIA REGOLIN (1)
(1) Dipartimento di Psicologia Generale, Università degli Studi di Padova
(2) Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università degli Studi di Padova
[email protected]
Introduzione
Il riconoscimento dei movimenti generati dagli esseri viventi costituisce una capacità critica per l’adattamento all’ambiente,
l’interazione sociale, l’imitazione, la comunicazione. Numerosi studi, che hanno indagato la sensibilità del sistema visivo
umano al movimento dei vertebrati, hanno dimostrato che gli adulti elaborano questo stimolo in maniera molto efficiente.
Sono sufficienti infatti una dozzina di punti luminosi, posti sulle principali articolazioni di una persona che si muove in una
stanza buia, per produrre, in un osservatore, l’ immediata impressione di vedere un corpo umano (Johansson, 1973).
Recentemente, alcuni studi sui pulcini, hanno dimostrato che questi animali, testati in totale assenza di esperienza visiva,
manifestavano una preferenza spontanea, non specie-specifica, per il movimento biologico (Vallortigara et al, 2005). Questi
risultati hanno portato ad ipotizzare la presenza di un sistema innato, selezionato dall’evoluzione, che predispone i vertebrati
a rilevare ed elaborare il movimento degli esseri viventi (Johnson, 2006). Recentemente, questa ipotesi è stata testata sui
neonati. I risultati di questa ricerca hanno dimostrato che i neonati erano in grado di discriminare il movimento biologico dal
movimento non biologico casuale e, alla prima esposizione a questi stimoli, esibivano una preferenza spontanea per il
movimento biologico. Quest’ ultimo era inoltre preferito ad uno stimolo identico ruotato di 180°, suggerendo che l’effetto di
inversione sia presente fin dalla nascita (Simion, Regolin, Bulf, 2007). A partire da questi risultati, rimangono tuttavia aperte
alcune questioni che riguardano i diversi aspetti implicati nella percezione del movimento biologico. L’ obiettivo di questo
studio era quello di indagare il ruolo svolto dalla forma, che emerge dal movimento relativo dei punti nella sequenza, nel
determinare la preferenza per il movimento biologico nei neonati.
Metodo
Sono stati realizzati tre esperimenti su un campione di 38 neonati (età media=43+4,7ore). In tutti gli esperimenti, gli stimoli
sono stati costruiti con la tecnica classica di Johansson. Nel primo esperimento, attraverso il paradigma dell’abituazione
visiva, è stato valutato se i neonati erano in grado di discriminare una sequenza costituita da un insieme di punti che
rappresentavano il movimento di una gallina che cammina dalla sua versione scrambled, ottenuta dislocando i singoli punti
nello spazio ma lasciandone inalterate le traiettorie di movimento. Le due sequenze erano quindi indistinguibili sulla base
delle caratteristiche di movimento locale. Nel secondo e nel terzo esperimento, il contributo della forma che emerge dal
movimento dei punti, nel determinare la preferenza per il movimento biologico, alla nascita, è stato valutato mettendo a
confronto, in un paradigma di preferenza visiva, la sequenza che rappresentava la gallina che cammina (movimento
biologico), con uno stimolo costituito dagli stessi punti che si muovevano dando origine ad un cilindro in rotazione
(movimento rigido) e con la sequenza scrambled.
Risultati
Nel primo esperimento i neonati erano in grado di discriminare la sequenza di movimento biologico dalla sequenza
scrambled dimostrando che sono sensibili alla coerenza figurale o gestalt che emerge, a livello globale, dal movimento
relativo dei punti nello stimolo di movimento biologico. Nel secondo esperimento, i neonati mostravano una preferenza
spontanea per il movimento della gallina rispetto al movimento rigido dimostrando che la preferenza per il movimento
biologico nei neonati non può essere spiegata sulla base della proprietà dell’ organizzazione del movimento di per sé. Tale
preferenza sembra invece essere specifica per la natura del movimento semirigido la cui particolare dinamica dipende dalla
naturale direzione della forza di gravità. Che la forma, di per sé, non costituisca un caratteristica determinante nella
84
preferenza dei neonati per il movimento biologico è confermato inoltre dai risultati del terzo esperimento. I risultati del terzo
esperimento dimostrano che i neonati non manifestavano alcuna preferenza tra la sequenza che rappresentava la gallina e
quella scrambled. La sequenza scrambled manteneva le stesse proprietà del movimento biologico ma, ad un osservatore
adulto, forniva l’impressione di vedere una creatura vivente la cui forma non era definibile. In conclusione, i risultati di
questo studio vanno a sostegno dell’ipotesi che, in modo simile a quanto è stato dimostrato in altre specie animali, gli esseri
umani siano dotati di un sistema innato e indipendente dall’ esperienza, che garantirebbe la detezione e l’elaborazione
preferenziale del movimento degli esseri viventi. Tale sistema sarebbe non specie-specifico, perché indipendente dalla forma,
e guidato dalla sensibilità alle proprietà specifiche che caratterizzano il movimento delle creature viventi e lo distinguono dal
movimento degli oggetti.
L’ORGANIZZAZIONE PERCETTIVA DI OGGETTI FISICI ALLA NASCITA
ELOISA VALENZA
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
[email protected]
Introduzione
Per segmentare scene visive complesse in unità percettive separate e distinte è necessario segregare gli oggetti dallo sfondo,
determinare i diversi piani di profondità nei quali risiedono oggetti diversi del campo visivo, individuare i margini che
definiscono ciascuna configurazione e integrare le informazioni visive necessarie per percepire gli oggetti come unitari
(Nakayama & Shimojo, 1996). Poiché tali capacità sono un prerequisito necessario per poter individuare gli oggetti, e poiché
nell’adulto esse possiedono le caratteristiche tipiche dei processi automatici, è plausibile ipotizzare che la loro comparsa sia
molto precoce durante lo sviluppo (Kellman & Spelke, 1983; Kellman & Arterberry, 1998; Johnson & Mason, 2002).
Classicamente lo studio dell’organizzazione percettiva della realtà fisica nella prima infanzia è avvenuto indagando quello
che in letteratura è noto come “il problema dei dati mancanti”, ovvero indagando la comparsa delle capacità di percepire
figure illusorie (i.e. triangolo di Kanizsa) o oggetti parzialmente occlusi. I dati presenti in letteratura testimoniano che
entrambe queste abilità sono presenti a partire dai 7 mesi (Bertenthal, Campos & Haith,1980; Craton, 1996; Condry, Smith &
Spelke, 2001; Csibra, 2001; Csibra, Davis, Spratling & Johnson, 2000). Tuttavia se gli stimoli sono presentati in movimento
tali abilità si manifestano già a 3-4 mesi di vita (Kelman & Spelke 1983; Johnson, 1990; Johnson & Aslin, 1995, 1996;
Otsuka & Yamaguchi, 2003). Sulla base di questi dati è possibile ipotizzare che nei primi mesi di vita, quando il sistema
visivo non ha ancora raggiunto la sua completa maturazione, il movimento sia un’informazione saliente perché facilita la
segmentazione di scene visive negli oggetti che la compongono (e.g., Kellman & Arterberry, 1998).
L’obiettivo del presente studio è stato quello di indagare la presenza alla nascita della capacità di percepire figure illusorie e
oggetti parzialmente occlusi quando vengono utilizzati display dinamici.
Metodo
A tal fine sono stati condotti tre esperimenti. Complessivamente sono stati testati 175 neonati sani e a termine con un’età
media di 48 ore (range 24-72 ore). Utilizzando la tecnica della preferenza visiva, nel primo esperimento è stata presentata
una figura illusoria (i.e., un quadrato di Kanizsa) insieme ad una figura di controllo non illusoria ottenuta ruotando gli
elementi induttori di 180°. Gli stimoli sono stati presentati sia in condizione dinamica (i.e. gruppo sperimentale) che in
condizione statica (i.e. gruppo di controllo).
Nel secondo esperimento è stata utilizzata la tecnica dell’abitazione visiva. I soggetti sono stati abitati ad una barra
parzialmente occlusa che si muoveva dietro un occlusore in 4 diverse condizioni che differivano per il tipo di movimento
utilizzato. Per tutte le condizioni, dopo la fase di abituazione, sono state presentate una barra spezzata insieme ad una barra
completa.
Infine, nel terzo esperimento le due capacità indagate rispettivamente nell’Esperimento 1 e 2 sono state combinate in un
unico stimolo al fine di verificare se la capacità del neonato di percepire l’unità di una barra parzialmente occlusa si
manifesta anche quando l’ occlusore è illusorio.
Risultati
I risultati dimostrano che i neonati manifestano una preferenza spontanea per lo stimolo illusorio nella condizione dinamica,
ma non nella condizione statica (Esp.1). Inoltre alla nascita è presente la capacità di percepire come unitari oggetti
parzialmente occlusi, almeno nelle condizioni in cui lo stimolo si muove con un movimento facilmente rilevabile
dall’immaturo sistema del neonato (Esp.2). Infine i risultati rivelano che già alla nascita il bambino si dimostra capace di
percepire come unitario un oggetto parzialmente nascosto da un occlusore illusorio (Esp.3).
85
LA PERCEZIONE DEL MOVIMENTO COME BASE PER L'ORGANIZZAZIONE PERCETTIVA
ROSSANA ACTIS-GROSSO
Dipartimento di Psicologia Generale, Università degli Studi di Milano-Bicocca.
[email protected]
Introduzione
Come attributo percettivo, il movimento convoglia molteplici informazioni, ed è senza dubbio la dimensione più potente
dello stimolo visivo: forse per questo è particolarmente efficace nella cattura dell’attenzione. Oltre a convogliare
informazioni sulla posizione e sulla velocità, il movimento è anche un fattore di unificazione figurale (gli oggetti percettivi si
costituiscono anche grazie al principio del destino comune), è un potente indizio di tridimensionalità ed è caratterizzato da
qualità espressive che consentono all’osservatore di vedere per così dire le “intenzioni” del movimento stesso: un movimento
può essere minaccioso o rilassato, incerto o sicuro. Dal momento che il movimento si definisce attraverso spazio e tempo, lo
studio della percezione del movimento è ovviamente strettamente interconnesso sia alla percezione dello spazio che a quella
del tempo, ma è per lo studio di quest’ultimo che si dimostra un ineludibile banco di prova: è il movimento – o più in
generale il cambiamento - a definire l’esistenza del tempo psicologico, che è poi l’essenza della nostra coscienza.
E’ inoltre il movimento che rende possibile la permanenza dell’oggetto anche a dispetto di vistosi cambiamenti figurali
(Michotte, 1963), garantendo quindi, paradossalmente, la stabilità dell’universo percepito. Il movimento infine, essendo
particolarmente legato all’azione e alla possibilità di interagire, si caratterizza per qualità espressive grazie alle quali, se vi
sono due oggetti in movimento compresenti nel campo visivo, ben difficilmente saranno percepiti come indipendenti: il
nostro sistema percettivo tende ad unificare più movimenti in un unico evento, dando loro un significato che va dalla
causalità percepita all’attesa o alla reazione (e.g. Kanizsa e Vicario, 1968).
Il movimento dunque sembra avere un ruolo dominante nella percezione visiva, e questo verosimilmente per due motivi:
1) la percezione del movimento poggia sulla nozione d’identità dell’oggetto percepito;
2) il movimento è legato all’azione più d’ogni altra caratteristica dello stimolo visivo, come dimostrato dalla percezione del
movimento biologico (Johansson, 1973).
Per quanto riguarda il punto 1, verranno presentati i dati di una ricerca in corso sull’interpretazione di opere d’arte - del XIV
e XV secolo - da parte di bambini e di adulti, che ha consentito di mettere in evidenza come durante lo sviluppo del concetto
di tempo i bambini siano migliori degli adulti nel riconoscere l’identità di una doppia rappresentazione che nell’intenzione
dell’artista sta a rappresentare lo stesso individuo in due momenti temporali successivi.
Metodo
Sono stati condotti due esperimenti con 40 bambini di età compresa tra i 4 e 7 anni. Una prima fase dell’esperimento
prevedeva la replica di un classico esperimento di Piaget, al fine di definire il livello raggiunto da ciascun bambino nello
sviluppo della comprensione del concetto di tempo, inteso come sequenzialità e simultaneità degli eventi. Nella seconda fase
dell’esperimento venivano mostrate ai bambini le riproduzioni di due quadri – e di due disegni a tratto riproducenti gli stessi
quadri ma con personaggi più vicini ai bambini - nei quali l’autore rappresenta la sequenzialità di un evento semplicemente
ripetendo due volte il personaggio chiave della vicenda all’interno della stessa scena. Al bambino si chiedeva di raccontare
allo sperimentatore ciò che vedeva. L’esperimento 2 si configurava come esperimento di controllo dell’esperimento 1, ed è
stato effettuato sullo stesso campione di bambini a distanza di un anno.
Risultati
A seconda del livello raggiunto nella comprensione del concetto di tempo i bambini sono stati divisi in tre stadi: lo stadio I
includeva i bambini che non erano in grado di mettere in relazione le differenti fasi di un evento con le differenti fasi di un
altro evento; lo stadio II includeva i bambini che, pur comprendendo le differenti fasi di un singolo evento, non erano in
grado di comprendere tutti i differenti aspetti di una data situazione, e infine lo stadio III includeva i bambini che avevano
raggiunto un completo sviluppo del concetto di tempo. I risultati hanno mostrato come i bambini allo stadio II – e soltanto
loro – si riferissero spontaneamente alla doppia rappresentazione del personaggio chiave come alla stessa persona
rappresentata in momenti temporali successivi (e dunque in movimento), mentre gli altri due gruppi di bambini vi si
riferivano come due persone diverse – sebbene molto simili per aspetto – coesistenti nello stesso momento temporale. Questi
risultati, che confermano i dati provenienti da una più vasta ricerca con un campione di soggetti adulti, indicano come lo
sviluppo del concetto di tempo sia strettamente legato all’identità dell’oggetto percepito (sulla quale il movimento si basa),
tanto da portare i bambini che stanno sviluppando questo concetto a basarsi sull’identità più di quanto non facciano gli adulti.
86
Simposio 14
DAL SEGNO AL SIGNIFICATO: COMPONENTI COGNITIVE, SOCIALI E
CULTURALI DELLA RAPPRESENTAZIONE PITTORICA INFANTILE
Proponente: GIULIANA PINTO
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Firenze
[email protected]
Discussant: ANNA EMILIA BERTI
Facoltà di Psicologia, Università degli Studi di Padova
[email protected]
87
Presentazione
La ricerca sul disegno infantile ha ricevuto in tempi recenti nuovo impulso grazie al rinnovato interesse per le potenzialità
offerte a livello comunicativo dal mezzo pittorico. Il disegno può essere considerato come un linguaggio attraverso il quale è
possibile osservare come si modifica la mente infantile in relazione a diverse variabili, di natura cognitiva, sociale e culturale
che entrano in gioco nel corso dello sviluppo (Cox, 2005). Capire un disegno richiede in primo luogo che questo sia
riconosciuto come rappresentazione della realtà; questo significa che un’immagine è al tempo stesso qualcosa che assomiglia
ma è diversa dalla realtà che rappresenta, nella sua duplice realtà di oggetto bidimensionale che rimanda a un mondo
tridimensionale, e che soprattutto è qualcosa di intenzionalmente prodotto allo scopo di comunicare un significato (Winner,
2006). L’approccio cognitivo si è così focalizzato sulla funzione simbolica del disegno, sottolineando l’importanza di capire
come il bambino concepisca la relazione tra simbolo e referente, come si costruisca un sistema di rappresentazione simbolica
e come questo si modifichi in relazione a fattori di natura evolutiva e esperienziale (Milbrath e Trautner, 2008).
Il simposio che proponiamo intende fornire un contributo in questo ambito, con il duplice obiettivo di indagare da una parte
le componenti cognitive che si collocano alla base dell’acquisizione del sistema di denotazione simbolica (Morra) e che ne
regolano le possibilità di variazione (Pinto e de Bernart); dall’altra il peso che variabili sociali, riconducibili all’esperienza
quotidiana nel proprio contesto di vita (Parrello, Donsì e Aprea), e culturali, relative al paese di provenienza (Tallandini e
Dimitrovna), esercitano sul modo in cui diversi aspetti delle relazioni interpersonali infantili possono essere rappresentati
attraverso il disegno.
ALLE ORIGINI DEL DISEGNO
SERGIO MORRA
Dipartimento di Scienze Antropologiche, Università di Genova
[email protected]
Introduzione
L’origine del disegno infantile dallo “scarabocchio” è un fenomeno evolutivo tuttora in gran parte inspiegato. Diverse teorie
classiche, precedenti la psicologia cognitiva, concepivano lo scarabocchio come esercizio motorio o produzione di segni
interessanti nel loro aspetto visivo, ma privi di significato referenziale. Ricerche successive hanno però evidenziato che
anche i bambini capaci di produrre solo scarabocchi possano attribuire al segno grafico un valore simbolico e
rappresentativo. Ciò emerge da esperimenti sul completamento di disegni (Freeman, 1980; Yamagata, 2001), da analisi
dettagliate delle componenti grafiche degli scarabocchi (Adi Japha et al., 1998) e da osservazioni sulla rappresentazione non
mediante segni ma attraverso l’attività grafica stessa (Matthews, 1984). È perciò necessario spiegare sia lo sviluppo
dell’abilità di produrre segni, sia l’emergere dell’attribuzione di significati – eventualmente attribuiti a forme ancora lontane
dagli schemi grafici propriamente detti, ma già prodotte con un’intenzione simbolica. Un lavoro recente (Morra, 2008)
propone che sia la comparsa e lo sviluppo dello scarabocchio, sia la transizione al disegno rappresentativo presuppongano un
adeguato sviluppo della capacità di memoria di lavoro nel bambino. L’abilità di produrre scarabocchi richiederebbe la
coordinazione di 5 schemi sensomotori: schemi figurativi della matita (o altro strumento per disegnare), della superficie su
cui tracciare i segni, della punta della matita a contatto con la superficie, e schemi operativi motori per impugnare la matita e
per muovere la mano. Un ulteriore schema figurativo (l’immagine sia pure grossolana della forma da produrre) sarebbe
coinvolto nella produzione di scarabocchi visivamente controllati, quali ad esempio forme chiuse. La produzione di forme
con un valore simbolico richiederebbe una più complessa coordinazione di: (a) significato, (b) configurazione visiva, (c)
segno grafico. Fino a circa due anni e mezzo, la limitata capacità della memoria di lavoro dei bambini potrebbe consentire
loro di coordinare due di questi aspetti, ma più difficilmente tutti e tre. Il modello proposto si basa su una rassegna della
letteratura e osservazioni sporadiche; scopo del presente lavoro è iniziare a verificarlo.
Metodo
In uno studio pilota condotto su 11 bambini di età compresa tra i 21 e i 34 mesi (età media = 28.5), abbiamo misurato la
capacità di memoria di lavoro dei bambini mediante l’Imitation Sorting Task (IST) di Alp (1994) e video-registrato una
seduta di disegno comprendente:
- una prima fase di disegno libero;
- una serie di disegni da completare (un viso in cui tracciare naso e bocca; una figura umana cui disegnare braccia, gambe e
ombelico; un’auto cui aggiungere una ruota e la maniglia della porta);
- la richiesta esplicita di disegnare su un foglio bianco una figura umana.
Risultati
Nel disegno libero le carenze di controllo grossolane (sguardo diretto altrove, scarabocchio che esce dal foglio) sono rare e
associate a punteggi bassi nell’IST. La presenza di forme chiuse o di diagrammi e l’attribuzione di significati appaiono
correlate al punteggio nell’IST. Nei disegni da completare, l’abilità di individuare spontaneamente i principali elementi
mancanti (naso, bocca, braccia, gambe, ruota) è rara e associata a punteggi alti nell’IST; viceversa ai punteggi bassi nell’IST
corrisponde (anche dopo esplicita richiesta di disegnare una certa parte) la difficoltà sia a collocare questi elementi in
posizioni appropriate, sia a rappresentarli con segni di forma adatta. Anche la presenza di scarabocchi diffusi nei disegni da
88
completare è associata a punteggi bassi nell’IST. Infine, nel disegno della persona, la presenza di diagrammi e forme chiuse e
l’attribuzione di significati sono associate a punteggi IST elevati e la presenza di scarabocchi diffusi a punteggi IST bassi. Lo
studio pilota conferma la validità del metodo utilizzato e offre un primo sostegno alle ipotesi. Uno studio più sistematico è in
corso di svolgimento su due campioni più ampi di bambini italiani e turchi, di età compresa tra i 18 e i 36 mesi.
FARE DISEGNI “DIVERSI”: LO SVILUPPO DELLE STRATEGIE DI DIFFERENZIAZIONE
RAPPRESENTAZIONALE IN BAMBINI DAI 3 AI 12 ANNI
GIULIANA PINTO, DILETTA DE BERNART
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Firenze
[email protected]
Introduzione
Disegnare richiede non solo la presenza di un adeguato modello mentale dell’oggetto che si intende raffigurare, ma anche un
sufficiente repertorio di equivalenti pittorici che il disegnatore deve poter combinare sulla base delle proprie intenzioni
rappresentative e comunicative, nonché delle caratteristiche del compito e del contesto in cui esso si situa (Cox, 2005).
L’acquisizione di questo codice porta i bambini a padroneggiare, dai 3 anni in poi, un repertorio di schemi esecutivi che
permettono la realizzazione di disegni riconoscibili e comunicativamente efficaci (Milbrath e Trautner, 2008). Questi schemi
possono essere modificati se il contesto in cui il disegno si colloca lo richiede, (Tallandini e Toneatti, 1995); alla base di
questa capacità di innovazione è stato posto sia l’utilizzo di strategie pittoriche che si fanno qualitativamente più complesse e
variate via via che aumenta l’età del disegnatore (Bombi e Cannoni, 2003), sia l’effetto giocato dalle componenti ideative e
dagli aspetti contestuali e cognitivi nel processo di cambiamento rappresentazionale (Berti e Freeman, 1997). È utile, infine,
ricordare che realizzare un’innovazione pittorica deve essere un obiettivo esplicito del disegnatore, consapevolezza che
risulta soggetta a importanti variazioni di tipo evolutivo (Pinto et al., 2003). In questa prospettiva, il presente studio si
propone di indagare lo sviluppo della flessibilità rappresentativa attraverso l’analisi dell’esecuzione di un compito di
differenziazione pittorica; in particolare verranno analizzati il grado di efficacia comunicativa e le modalità impiegate, a
livello ideativo ed esecutivo, da bambini di età diverse per rispondere alla richiesta di eseguire due diversi disegni di una
casa.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 182 bambini, 101 maschi e 81 femmine, di età compresa tra i 3 e i 12 anni; tutti i bambini
frequentano scuole dell’infanzia, elementari e medie del centro Italia con un bacino di utenza di ceto medio. A ciascun
bambino è stato chiesto di eseguire due disegni di casa: 1)“uno fatto in modo da far capire cosa è una casa, come se una
persona che non ha mai visto una casa dovesse capirlo dal vostro disegno”; 2) “uno fatto per fare una casa il più bella
possibile, la più bella che vi riesce”. I disegni così raccolti sono stati classificati a due livelli: un primo livello, qualitativo, ha
riguardato la valutazione dell’efficacia con cui ciascun bambino ha risposto al compito propostogli. Il secondo livello di
analisi si è basato sulla classificazione dei disegni attraverso un sistema di valutazione della flessibilità pittorica infantile
composto da sei indici o strategie di differenziazione pittorica. Sui dati così ottenuti sono state condotte analisi, non
parametriche (chi quadro) e parametriche (ANOVA), allo scopo di confrontare i diversi livelli di efficacia comunicativa e
l’utilizzo delle strategie di differenziazione pittorica in base all’età.
Risultati
I risultati mostrano come la possibilità di trovare una risposta efficace al compito proposto dipenda dall’età dei bambini (Chi
quadrato14 = 7.636; p <.001), e dunque dal loro livello di sviluppo grafo-pittorico e cognitivo: i bambini più piccoli, con
un’età compresa tra i 3 e i 6 anni, sono risultati infatti meno capaci di differenziare i due disegni, producendo
rappresentazioni simili oppure differenziate tra loro, ma senza che fosse possibile stabilire quale disegno rappresentasse la
casa “fatta per far capire” e quale la casa “più bella possibile”; l’unica eccezione in questo gruppo riguarda i bambini di 5
anni di età, che si sono segnalati per l’elevata capacità di fornire una risposta adeguata alle richieste proposte, realizzando
due disegni di cui uno chiaramente connotato in senso informativo e l’altro apprezzabile sul versante estetico. L’analisi
quantitativa dei disegni ha evidenziato l’emergere di diverse strategie di differenziazione. In particolare da una parte è
possibile individuare nel numero di elementi e di colori di cui i disegni sono forniti due importanti indici di differenziazione,
utilizzati in maniera traversale dai bambini di tutte le età considerate per creare rappresentazioni più dettagliate e
cromaticamente più ricche nel caso della casa “più bella possibile”, rispetto a una raffigurazione più essenziale preferita per
il disegno della “casa fatta per far capire”; altre strategie di differenziazione rappresentazionale sembrano invece dipendere
più strettamente dal livello evolutivo dei disegnatori, coinvolgendo gli aspetti di soluzione rappresentativa e di realizzazione
tecnica delle rappresentazioni: in particolare i bambini più grandi sembrano essere più consapevoli della necessità di
modificare le proprie rappresentazioni a livello ideativo mostrando diversi aspetti della casa (F181 = 6.813; p < .0001), o
esecutivo attraverso l’impiego di particolari tecniche realizzative (F181 = 6.139; p < .0001), in risposta ad un preciso intento
comunicativo.
89
“DISEGNA TE STESSO CON UN ADULTO STRANIERO”:
LA RAPPRESENTAZIONE INFANTILE DELL’ALTERITÀ
SANTA PARRELLO, LUCIA DONSI’, SIMONE APREA
Dipartimento di Scienze Relazionali “G. Iacono”, Università degli Studi di Napoli “Federico II”
[email protected]
Introduzione
Il disegno infantile è insieme proiezione di soggettività e rappresentazione della realtà, mai priva di una connotazione
sociale. In questa prospettiva, il significato che trae origine e alimento dal rapporto intersoggettivo è altrettanto importante
dei vissuti fantastici ed emotivi che “colorano” la rappresentazione grafica (Donsì, Parrello, 2005). Il disegno va inteso
dunque come un testo, una narrazione che racconta gli altri, il mondo, così come il bambino li vede e li vive. Nel momento in
cui oggetto della rappresentazione viene ad essere la relazione con uno straniero, si apre una possibilità di osservare in che
modo i bambini si affacciano su mondi distanti e spesso ignoti e si rapportano ad essi. Ramsey (1991) ha dimostrato quanto
la razza sia saliente nel categorizzare altri individui, Pinto e Safina (2001) hanno indagato la relazione tra bambini italiani e
bambini stranieri, per cogliere in che misura vi traspongano le relazioni con i coetanei italiani, trovando comunque un clima
positivo; prendendo spunto dai loro lavori, e alla luce dell’ipotesi che forse i bambini si mostrano meno intimoriti dai loro
coetanei, ci siamo proposti di indagare quali caratteristiche assuma la rappresentazione infantile di un adulto straniero, anche
in relazione a contesti che offrono più o meno frequenti possibilità di contatto con stranieri.
Obiettivo del nostro lavoro è stato dunque esaminare in che modo i bambini caratterizzano nel disegno la propria relazione
con figure di adulti indicati come italiani e stranieri (volutamente lasciando indefinito il concetto di straniero), per verificare
se età, genere e contesto di vita differenzino le rappresentazioni, l’identità assegnata all’adulto e la definizione stessa di
“straniero”.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 139 soggetti, 66 maschi e 73 femmine, frequentanti la terza elementare (N = 71; età media:
8,4) e la prima media (N = 68; età media: 11,3), in scuole di Napoli (80 soggetti) e dell’isola di Capri (59 soggetti). Ai
partecipanti è stato richiesto collettivamente, in aula, di disegnare con la matita “se stesso in compagnia di un adulto
straniero” e, poi, su un secondo foglio, “se stesso con un adulto italiano”. In seguito, a ciascun soggetto sono state poste
individualmente alcune domande relative all’identità dei personaggi disegnati e al significato del termine “straniero”. La
partecipazione alla ricerca è stata volontaria e anonima.
Ciascun disegno è stato analizzato categorizzando il tipo di indicatori utilizzato per connotare la figura dell’adulto, sia
italiano che straniero, e ricorrendo, per valutare la relazione, a una versione ridotta della griglia utilizzata da Pinto e Safina
(2001), ma rispettando i criteri indicati dalle Autrici per l’attribuzione dei punteggi a ciascuna scala e subscala. Sono stati
valutati: il grado di coesione tra le figure rappresentate, il grado di distanziamento, il grado di somiglianza ed il clima
emotivo. Per quanto riguarda i primi tre, sono stati calcolati i punteggi medi dei gruppi per età, genere e soggetto del disegno
(straniero vs italiano). Relativamente al clima emotivo e all’identità è stata calcolata in termini percentuali la frequenza delle
sottocategorie considerate per ciascun gruppo. Si è infine proceduto ad analizzare e categorizzare le definizioni del termine
“straniero”.
Risultati
I primi risultati sembrano indicare che: 1. per quanto riguarda il confronto tra adulto italiano e straniero, l’80% dei
partecipanti ha differenziato le due rappresentazioni e, come già nel lavoro di Pinto e Safina (2001), l’immagine di sé è
significativamente più simile al partner italiano; il clima emotivo è più positivo quando il disegno raffigura bambino e adulto
italiano; 2. relativamente alla variabile età, emerge che la rappresentazione della somiglianza tra sé e lo straniero non si
modifica con lo sviluppo, mentre quella tra sé e l’adulto italiano diminuisce; quanto al clima emotivo, al crescere dell’età
aumenta l’ostilità verso lo straniero; 3. nel confronto tra i generi, le femmine (che nel 59% dei casi hanno scelto di disegnare
un’adulta straniera) percepiscono una minore somiglianza con lo straniero, ma in un clima emotivo di pacifica ed armonica
relazione; 4. in quanto all’identità dell’adulto, per lo straniero viene in primo piano l’appartenenza etnica, e al primo posto si
collocano i cinesi (30%); per l’italiano, invece, prevalgono le definizioni relazionali (parentela, amicizia); 5. quanto alla
variabile contestuale, nei disegni degli scolari capresi sembra emergere una maggiore somiglianza fra sé e lo straniero
rispetto a quanto ravvisato nei disegni degli scolari napoletani, in cui, tuttavia, tale dato non si accompagna ad una reazione
più negativa di fronte all'alterità; 6. per i nostri soggetti, infine, il termine “straniero” equivale spesso ad “estraneo”, che non
si conosce ma incuriosisce, senza apparire particolarmente minaccioso.
90
IL DISEGNO DELLA FAMIGLIA DI BAMBINI ALBANESI, SERBI E ITALIANI:
SIMILARITÀ E DIFFERENZE
MARIA ANNA TALLANDINI, RADOSVETA DIMITROVA
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Trieste
[email protected]
Introduzione
Il disegno della famiglia è stato utilizzato per indagare le modalità con cui i bambini appartenenti a culture diverse
rappresentano le relazioni familiari. Infatti l’influenza della cultura si riflette sull'immagine infantile della famiglia ideale
(D'Alessio & Venini, 1998), sulla presenza di somiglianza tra genitori e figli (Bombi & Cannoni, 2001), sul tipo di affinità
psicologica, sul grado di identificazione fisica con le figure parentali (Pinto, Bombi & Cordioli, 1997), sulla formazione dei
legami tra il bambino e i suoi genitori e il mantenimento dell'identità e dell'autonomia del bambino rispetto agli altri
personaggi rappresentati (Pinto & Arciènega, 2001). Nel loro insieme questi studi consentono di evidenziare la presenza di
variazioni legate alla diversità culturale nelle concezioni infantili dei ruoli genitoriali e del rapporto tra genitori e figli. Sulla
base dei risultati delle ricerche sopra riportate, il nostro lavoro ha rivolto la sua attenzione alla rappresentazione pittorica
degli aspetti centrali delle relazioni familiari quale modo di rilevare le possibili configurazioni della struttura familiare in
contesti culturali specifici. Il focus della nostra attenzione è stato posto sulla relazione con la figura materna e paterna,
ipotizzando una maggiore valorizzazione delle figure parentali nella cultura italiana rispetto alle culture da noi prese in
considerazione come osservato in precedenti lavori con etnie diverse (Tallandini, 2002; de Bernart, 2007). Questa analisi
mira ad ampliare la nostra conoscenza nei confronti del quesito se le rappresentazioni grafiche infantili delle relazioni
interpersonali e nello specifico, familiari, riflettano elementi di natura universale o non piuttosto dipendano dalla diversità
della realtà culturale di provenienza. La ricerca condotta esplora le modalità con le quali bambini di tre gruppi etnici
(albanesi, serbi e italiani) percepiscono le relazioni familiari in termini di coesione, distanza, somiglianza e valore tra la
rappresentazione del sé e delle figure genitoriali (Bombi & Pinto, 2002).
Metodo
Il campione è costituito da 356 bambini dei quali 78 albanesi, 98 serbi e 180 italiani. Preliminarmente è stato applicato il test
della figura umana (Goodenough & Harris, 1964; Polacek & Carli, 1977) per verificare l’accessibilità del mezzo grafico e il
grado di esperienza pittorica dei partecipanti allo studio. L’analisi comparativa condotta sui punteggi ottenuti (analisi della
varianza 3x1) non ha rivelato differenze statisticamente significative in relazione all’abilità grafica infantile.
Successivamente, a ciascun bambino, è stato chiesto di disegnare se stesso con la propria famiglia. I bambini avevano a
disposizione il materiale costituente la normale dotazione scolastica, con fogli A3. Ciascun disegno è stato analizzato
applicando le Scale di Coesione, Distanziamento, Somiglianza e Valore sviluppate da Bombi e Pinto (2002). Entro ciascun
disegno sono stati effettuati due confronti: tra la figura del soggetto e quella della madre e tra la figura del soggetto e quella
del padre. Allo scopo di individuare le diverse modalità di organizzazione familiare nei disegni sui punteggi di Coesione,
Distanziamento, Somiglianza e Valore ottenuti dai soggetti sono state eseguite due analisi della varianza (Manova) con
variabile indipendente il gruppo etnico di appartenenza e variabile dipendente le scale (3 x 4) relativamente ai due confronti
(Sé-Madre e Sé-Padre).
Risultati
I risultati hanno rivelato l’esistenza di differenze statisticamente significative tra i gruppi. Nei disegni eseguiti dai bambini
albanesi e serbi, le figure parentali sono caratterizzate da una minore valorizzazione e da una maggiore coesione rispetto alla
figura del disegnatore stesso. Quindi i bambini albanesi e serbi connotano come più stretto il legame con entrambi i genitori
(coesione) ma attribuiscono loro una minore rilevanza (valore). Invece, le figure genitoriali nei disegni dei bambini italiani
sono caratterizzate da una maggiore valorizzazione (valore) e un maggior distacco (distanziamento) rispetto alla figura del
figlio. La valorizzazione del padre e della madre nei disegni dei bambini italiani è realizzata in gran parte attraverso una
maggiore cura nei particolari e da indizi pittorici quali lo spazio occupato e la posizione dominante. Possiamo quindi
concludere che i nostri dati indicano la necessità di studiare la rappresentazione della famiglia legata al contesto culturale di
appartenenza del disegnatore. Essi inoltre confermano analoghi risultati ottenuti in precedenti ricerche con etnie diverse,
presentando ancora una volta una maggiore valorizzazione delle figure parentali nei bambini italiani rispetto alle altre etnie
considerate. In senso generale offrono ulteriore sostegno all’ipotesi che le rappresentazioni grafiche infantili delle relazioni
interpersonali e nello specifico, familiari, riflettano la diversità della realtà culturale di provenienza.
91
Simposio 15
IL RISCHIO ESTERNALIZZATO E INTERNALIZZATO IN
ADOLESCENZA
Proponente: ELENA CATTELINO
Scienze della Formazione, Università della Valle d’Aosta
Centro Interuniversitario per la Ricerca sulla Genesi e lo Sviluppo delle Motivazioni
Prosociali e Antisociali, Università di Roma “Sapienza”
[email protected]
Discussant: EMMA BAUMGARTNER
Facoltà di Psicologia 2, Università di Roma “Sapienza”, Centro Interuniversitario per
la Ricerca sulla Genesi e lo Sviluppo delle Motivazioni Prosociali e Antisociali,
Università di Roma “Sapienza”
[email protected]
92
Presentazione
L’adolescenza è una fase dello sviluppo non necessariamente problematica, ma con maggiori aspetti di criticità rispetto alle
età precedenti. Infatti, i repentini cambiamenti, il bisogno di sperimentare e di tentare nuovi percorsi possono portare
l’adolescente a vivere alcune forme di rischio per la sua salute e il suo benessere (Moffitt, 1993; Palmonari, 1997; Jessor,
1998; Bonino, Cattelino, Ciairano, 2007²). Il rischio durante l’adolescenza assume caratteristiche del tutto peculiari e si
configura come un fenomeno estremamente complesso e multidimensionale. In particolare la letteratura sull’argomento fa
riferimento a due principali espressioni di rischio: quello internalizzato e quello esternalizzato. Il primo riguarda espressioni
di disagio che coinvolgono maggiormente il vissuto individuale, come il manifestarsi di sentimenti depressivi, di stress, di
malessere. Più visibile è il rischio esternalizzato, dato dall’attuazione di comportamenti che mettono in pericolo la salute
fisica e psicologica, presente e futura, degli adolescenti (es: comportamenti devianti e aggressivi, uso di sostanze psicoattive,
guida pericolosa).
Diversi studi hanno evidenziato come maschi e femmine si differenzino fra loro per la modalità di espressione del loro
disagio (Honess, Charman, Zani, Cicognani, Xerri, Jackson, Bosma, 1997): i ragazzi, in generale, sono maggiormente
coinvolti in espressioni di rischio esternalizzato, mentre nelle ragazze prevalgono le forme internalizzate (Palmonari, 1997;
Borca, Cattelino, Bonino 2002).
Il simposio si propone di sviluppare una riflessione sui temi del rischio in adolescenza tra diversi gruppi di ricerca ponendo
una particolare attenzione ai predittori, ai mediatori, alle funzioni e agli esiti di diverse espressioni di rischio. Particolare
attenzione verrà posta alle differenze di genere, tenendo conto che le due forme di rischio, internalizzato ed esternalizzato,
non necessariamente si escludono a vicenda, ma possono essere compresenti.
PROBLEMI COMPORTAMENTALI INTERNALIZZANTI ED ESTERNALIZZANTI E CARATTERISTICHE
PERSONALI DELL’ADOLESCENTE
FRANCESCA LIGA, ALIDA LO COCO, MARIA GRAZIA LO CRICCHIO E SONIA INGOGLIA
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Palermo
[email protected]
Introduzione
Numerose ricerche hanno mostrato come nel corso dell’adolescenza le difficoltà emotive e comportamentali del giovane,
generalmente classificate come problemi di natura internalizzante o esternalizzante, tendano a farsi più intense (Moffitt,
1993), inducendo gli studiosi a focalizzare l’attenzione sui loro possibili predittori, come il legame dell’adolescente con i
genitori (Marta et al., 2004) e le relazioni con i pari (Garnefski, 2000). Il presente studio si inserisce nell’ambito di una più
ampia riflessione sul ruolo svolto dalle caratteristiche personali dell’adolescente (Manders et al., 2006), con l’obiettivo di
esplorare le caratteristiche personali legate al processo di regolazione dei confini Sè-Altro.
Durante l’adolescenza, l’acquisizione di un senso stabile del Sé e di confini chiari tra l’esperienza di sé e quella dell’altro è
una delle sfide più rilevanti con cui si confronta l’individuo e il modo in cui si realizza una acquisizione di tal genere può
avere un impatto sul suo benessere personale. Tra i vari aspetti che caratterizzano il processo generale attraverso cui
l’individuo regola tali confini vi sono il livello di differenziazione Sè-Altro, gli orientamenti del Sé e la disposizione alla
responsività empatica. La prima di queste dimensioni fa riferimento al grado in cui il soggetto sperimenta un senso
differenziato di sé nelle relazioni con gli altri (Olver et al., 1989). Gli orientamenti del Sé sono costellazioni di pensieri,
sentimenti e azioni riguardanti la relazione che l’individuo ha con gli altri e il Sé come distinto dagli altri; di recente sono
stati descritti due orientamenti di base, il Sé connesso e il Sé separato (Pearson et al., 1998). Infine, la disposizione alla
responsività empatica è la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro e di condividerne le emozioni (Bonino, Lo Coco,
& Tani, 1998).
Obiettivi
Sulla base di tali considerazioni, lo studio vuole indagare il legame esistente tra le difficoltà emotive e comportamentali e le
caratteristiche personali dell’adolescente legate al processo di regolazione dei confini Sé-Altro. In particolare, si ipotizza che
a) il livello di differenziazione Sé-Altro, gli orientamenti del Sé e la disposizione alla responsività empatica siano legati ai
problemi internalizzanti ed esternalizzanti; b) il genere possa moderare tali relazioni. Così come dimostrato da numerose
ricerche, da un lato, i maschi tendono a manifestare maggiormente problemi esternalizzanti, mentre le femmine sembrano
maggiormente a rischio per problemi internalizzanti. Dall’altro lato, i ragazzi tendono a mostrare un senso di sé più
differenziato e un costrutto del Sé maggiormente orientato alla separazione.
Metodo
Partecipanti
Alla ricerca hanno preso parte 331 adolescenti (46% maschi) di età compresa fra i 16 e i 20 anni (età media = 17.04; d.s. =
1.14), che frequentavano la terza e la quinta classe di diverse scuole superiori siciliane.
Misure
I problemi comportamentali dei giovani sono stati valutati mediante lo YSR (Achenbach & Edelbrock, 1987). Il grado in cui
i soggetti sperimentano un senso differenziato di sé nelle relazioni con gli altri è stato valutato mediante la SODS (Olver et
93
al., 1990). Gli orientamenti generali del Sé sono stati valutati attraverso due subscale del RSI (Pearson et al., 1998): Sé
connesso e Sé separato. La disposizione alla responsività empatica è stata valutata per mezzo di tre subscale dell’IRI (Davis,
1980; Albero et al., 2006): considerazione empatica, perspective taking e disagio personale.
Procedura
La ricerca è stata condotta durante la prima parte dell’anno scolastico. Le scale sono state somministrate collettivamente
all’interno di ciascuna classe, durante le ore di lezione, da un gruppo di giovani ricercatori.
Risultati
Allo scopo di valutare l’adeguatezza del modello di relazioni ipotizzato è stata impiegata la tecnica dei modelli di equazioni
strutturali su gruppi multipli.
In generale, i risultati evidenziano un legame significativo tra le caratteristiche personali dell’adolescente e le difficoltà
comportamentali ed emotive da questi esibite. Da un lato, gli adolescenti che manifestano un senso meno differenziato di sé
nelle relazioni con gli altri e che tendono a sperimentare un intenso disagio emotivo quando sono esposti alla sofferenza
altrui tendono ad evidenziare maggiormente sintomi internalizzanti. Dall’altro, i giovani che hanno una minore capacità di
mettersi dal punto di vista dell’altro e di condividerne le emozioni, e un costrutto del Sé più orientato alla connessione
tendono a riportare maggiormente sintomi esternalizzanti.
Le analisi hanno, tuttavia, evidenziato un effetto moderatore del genere su alcune delle relazioni indagate: i problemi
internalizzanti ed esternalizzanti sono più intensamente associati tra i maschi che tra le femmine; un senso meno
differenziato del Sé e uno schema del Sé maggiormente orientato alla separazione predicono un comportamento aggressivo e
distruttivo solo per i maschi.
EFFETTI DELL’ESPOSIZIONE ALLA VIOLENZA NEL QUARTIERE SULLE CONDOTTE TRASGRESSIVE E
SULLE PROBLEMATICHE INTERNALIZZANTI IN ADOLESCENZA
GAETANA AFFUSO (1), DARIO BACCHINI (2)
(1) Centro Interuniversitario per la Ricerca sulla Genesi e lo Sviluppo delle Motivazioni Prosociali e Antisociali, Università
di Roma “La Sapienza”
(2) Dipartimento di Psicologia, Seconda Università di Napoli
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una ampia diffusione della violenza e dell'illegalità che appaiono evidenti soprattutto
nelle grandi città, piuttosto che nei piccoli centri. La diffusione della micro-criminalità e la realizzazione di attività illegali
espongono gli adolescenti a confrontarsi costantemente con un contesto deviante. Osservare o sperimentare violenze di
questo tipo minaccia il benessere psicologico degli adolescenti modificandone la percezione di sicurezza nel loro ambiente
prossimale (Margolin, 1998). Riguardo a questi problemi, un’area relativamente nuova di ricerca ha investigato gli effetti
dell'esposizione alla violenza nel quartiere, mostrando che gli adolescenti che vivono in un contesto sociale caratterizzato da
elevati livelli di illegalità e violenza hanno maggiori probabilità di mostrare disturbi postraumatici da stress (PTSD), ansia e
depressione (Lynch & Cicchetti, 1998; Martinez & Richters, 1993), aumento di comportamenti aggressivi ed antisociali
(Gorman-Smith & Tolan, 1998). Vi è, inoltre, un generale accordo che differenti tipi di esposizione alla violenza
determinano conseguenze differenti (Tolan, 2001). Essere "testimoni" di violenza incita ad una maggiore aggressività e ad
una valutazione positiva dei comportamenti aggressivi, mentre essere "vittime" di violenza agisce sulle abilità di
regolamentazione emotiva ed espone al rischio di vittimizzazione da parte dei pari (Schwartz e Proctor, 2000).
Legata all'esposizione alla violenza è la percezione di problemi sociali, termine usato per riferirsi alla percezione individuale
della diffusione dell’illegalità e delle pratiche delinquenziali nel quartiere (Roché, 1996).
Un ulteriore filone di studi ha indagato il ruolo delle “credenze normative” circa l’appropriatezza dei comportamenti sociali
come fattori di autoregolazione cognitiva della condotta, evidenziando come i soggetti più aggressivi abbiano acquisito
schemi cognitivi che li conducono a rappresentare il mondo come un luogo più ostile e ad avere credenze normative secondo
le quali l’aggressione è accettabile (Guerra et al., 2003).
L’obiettivo del seguente studio è, dunque, di analizzare gli effetti dell’esposizione alla violenza nel quartiere sulle condotte
trasgressive e sulle problematiche internalizzanti, contemplando la mediazione delle credenze normative.
Metodo
La ricerca è stata condotta su 507 adolescenti, 264 maschi e 243 femmine (età media 16,94 anni, ds=1,65) iscritti al secondo
e al quinto anno di scuola media superiore della città di Napoli. La batteria di valutazione comprendeva le seguenti scale:
percezione di illegalità nel quartiere (Bacchini, Mercurio, Vajro, 2005) che misura con che intensità l’adolescente percepisce
la diffusione di pratiche illegali e delinquenziali nel proprio quartiere; esposizione alla violenza (Bacchini e Affuso, 2006),
riadattamento del Community Experience Questionnaire di Schwarz e Proctor (2000), in cui viene chiesto al soggetto con
che frequenza è stato, rispettivamente, vittima e/o testimone di violenza nel proprio quartiere; giudizio di gravità sui
comportamenti trasgressivi in adolescenza (Bacchini et al., 2005) che valuta quanto i ragazzi giudicano gravi le violazioni
94
delle norme; disimpegno morale civile (Caprara et al., 2006 ) che misura la propensione degli individui a utilizzare
meccanismi di disimpegno morale quando il personale interesse entra in conflitto con i diritti degli altri; misurazione della
trasgressione (Bacchini et al., 2005), che misura la frequenza di comportamenti trasgressivi sia gravi che lievi;
ansia/depressione tratta dallo Youth Self Report (Achenbach, & Edelbrock, 1987).
Risultati
In primo luogo abbiamo valutato eventuali differenze di genere attraverso un’ANOVA (Wilks’lambda=.76, F=22.56, df=7,
p<.0001): i maschi riferiscono una maggiore esposizione alla violenza sia come vittime che come testimoni, giudicano meno
gravi le violazioni delle norme, sono più disimpegnati e trasgressivi, mentre le femmine percepiscono una maggiore
diffusione di pratiche illegali e sono più ansiose e depresse.
Successivamente è stato testato un modello di equazioni strutturali al fine di verificare la nostra ipotesi.
Il modello, testato simultaneamente per i maschi e per le femmine, presenta ottimi indici di adattamento ai dati: 2 (22,
N=507) 26.18; p=.24; NNFI=0.98; CFI=.99; RMSEA=.027. e spiega il 82% (M) ed il 51% (F) di varianza del
comportamento trasgressivo ed il 7% (M) e 4% (F) di varianza dell’ansia/depressione.
I risultati della ricerca, coerentemente con quanto teorizzato, dimostrano il ruolo determinante dell’esposizione alla violenza
sulle problematiche esternalizzanti ed internalizzanti ed il ruolo aggiunto delle cognizioni morali che mediano gli effetti
dell’esposizione alla violenza come testimone sulle condotte trasgressive e sull’ansia/depressione.
DISAGIO PSICOLOGICO E RELAZIONI SENTIMENTALI NELL’ADOLESCENZA
FRANCA TANI (1), MARTINA SMORTI (2), ALICE BONECHI (1)
(1) Dipartimento di Psicologia- Università di Firenze
(2) Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche- Università di Firenze
[email protected]
Introduzione
Un corposo numero di indagini ha ampiamente mostrato come lo stabilire relazioni sentimentali di buona qualità possa
costituire un importante fattore di protezione a fronte del rischio psicosociale lungo l’intero arco di vita (Noller, Feeney e
Peterson, 2001; Collins, 2003; Tani e Steca, 2007). Relazioni sentimentali positive sono inoltre una delle maggiori fonti di
supporto emotivo (Furman, 2002) e permettono di garantire una buona realizzazione di sé, migliorando l’autostima (Bonino
e Cattelino, 1998) e aumentando la fiducia nelle proprie capacità di coping e le attese di successo in vari ambiti esistenziali
(Cattelino, 2000. Soprattutto nell’adolescenza, inoltre, l’assenza di relazioni sentimentali viene avvertita come la principale
fonte di stress dalla maggior parte dei soggetti (Nieder e Seiffge-Krenke, 2001).
Del resto, avere relazioni sentimentali di scarsa qualità risulta correlato con una grande varietà di esiti evolutivi negativi
(Berscheid & Reis, 1998; Galliher,Welsh, Rostosky,& Kawaguchi, 1998). Nello specifico, le indagini dimostrano che i
conflitti e le difficoltà di coppia possono avere conseguenze deleterie, non solo sul generale benessere psicosociale, ma anche
sullo stato di salute degli individui (Kiecolt-Glaser et al., 1997; Heller, Watson e Ilies, 2004).
In questo ambito d’indagine, numerose ricerche hanno perciò cercato di mettere in luce come la qualità di tali relazioni possa
variare nei soggetti che presentano forme diverse di disagio psicologico. A tal proposito, è stato evidenziato che i soggetti
con disturbi depressivi hanno rapporti sentimentali che garantiscono minore supporto e sostegno emotivo (Daley E Hammen,
2002), e temono continuamente di venire abbandonati o di essere rifiutati (Carnelley, Pietromonaco, Kenneth, 1994). I
soggetti vittimizzati riferiscono un più alto livello di disagio nelle loro relazioni e mostrano pattern di attaccamento ansioso
nei confronti del proprio partner (Ledley, Storch, Coles, Heimberg, Moser e Bravata, 2006), gli individui timidi e insicuri, a
causa della scarsa competenza sociale, hanno legami caratterizzati da una scarsa qualità, rispetto ai soggetti ben adattati
(Nelson, Padilla-Walker, Badger, McNamara Barry, Carroll e Madsen, 2007). Al contrario, coloro che presentano disturbi di
tipo esternalizzato tendono ad utilizzare modalità di interazione di tipo aggressivo, stabiliscono rapporti di coppia connotati
da gelosia, possessività, frustrazione e scarsa fiducia reciproca, (Feiring, Deblinger, Hoch-Espada, Hawoth, 2002; Linder,
Crick, Collins, 2002) e sono portati ad avere per partner soggetti con le medesime caratteristiche (Yamaguchi e Kandel,
1997).
Gli studi che hanno approfondito tale tematica sono tuttavia ancora poco numerosi, quasi esclusivamente concentrati su
soggetti adulti e per lo più condotti in contesti culturali diversi dal nostro.
A partire da queste considerazioni, la ricerca che presentiamo intende approfondire questa tematica in relazione
all’adolescenza e nello specifico contesto italiano. In particolare, è nostro interesse valutare se soggetti con tipologie
specifiche di disagio psicologico si differenziano relativamente agli aspetti quantitativi e qualitativi che caratterizzano i loro
rapporti sentimentali. Sul piano operativo, è nostro obiettivo verificare: 1) se il numero e la qualità delle relazioni
sentimentali variano significativamente tra soggetti ben adattati e soggetti che presentano forme di disagio di tipo
internalizzato e esternalizzato; 2) verificare il ruolo che le differenze di genere svolgono nel mediare le relazioni fra tali
ordini di variabili
95
Metodo
Partecipanti. 678 soggetti (341 maschi e 337 femmine) di età compresa fra 14 e 18 anni (x = 16.16; d.s.= .91) divisi in tre
gruppi: 1) ben adattati; 2) con disturbi di tipo internalizzato e 3) con disturbi di tipo esternalizzato.
Strumenti: Per rilevare i sintomi di disagio eventualmente presentati dai soggetti abbiamo utilizzato lo Youth Self-Report
(Achenbach, 1991).
Per rilevare le caratteristiche qualitative della relazione sentimentale, abbiamo utilizzato solo le sottoscale relative alle
dimensioni di: Compagnia, Conflitto, Intimità, Unione, Supporto, Rivalità, Potere della versione italiana già usata in
precedenti studi da Tani e Guarnieri (2007) del Network of Relationships Inventory (Furman e Buhrmester, 1985; 1992).
Risultati
L’analisi dei dati ha evidenziato che le relazioni sentimentali variano significativamente, sia dal punto di vista quantitativo
che qualitativo, in funzione del disagio psicosociale presentato dagli adolescenti. Sono emerse inoltre significative differenze
in funzione del genere.
LA PREVENZIONE DELL’USO DI SOSTANZE PSICOATTIVE:
IL RUOLO DI ALCUNE VARIABILI SCOLASTICHE IN UNA PROSPETTIVA LONGITUDINALE
TATIANA BEGOTTI, GABRIELLA BORCA
Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Psicologia
[email protected]
Introduzione
L’esperienza scolastica svolge un ruolo fondamentale per l’adolescente, sia nel processo di costruzione dell’identità
personale che nella promozione di capacità cognitive e di competenze sociali (Coleman e Hendry, 1990; Pombeni, 1997;
Bonino e Cattelino, 2002). L’esperienza scolastica inoltre riveste un importante ruolo protettivo nei confronti di diversi
comportamenti a rischio, sia esternalizzati che internalizzati (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2007). I principali fattori di
protezione legati alla scuola possono essere ricondotti in primo luogo all’esperienza vissuta in questo contesto; elementi
fondamentali da questo punto di vista sono l’importanza attribuita alla scuola e la soddisfazione per l’esperienza scolastica,
l’utilità ad essa riconosciuta, le attese di successo e l’autoefficacia percepita in quest’ambito, nonché i risultati conseguiti; la
scuola inoltre può svolgere un ruolo protettivo attraverso la predisposizione e la condivisione di regole relative al
comportamento e all’organizzazione della vita scolastica sia nell’istituto che in classe (Begotti, Borca e Calandri, 2008).
L’obiettivo di questo lavoro è analizzare la relazione tra l’andamento di alcune variabili riguardanti l’esperienza scolastica e
il cambiamento in un comportamento esternalizzato, nello specifico nel livello di consumo di sostanze psicoattive in
adolescenza, nell’arco di un anno scolastico. Verranno presi in esame il fumo di sigarette, di spinelli e il consumo di alcol.
Per quanto riguarda invece le variabili scolastiche saranno analizzati i seguenti aspetti: l’importanza attribuita alla scuola, la
soddisfazione per l’esperienza scolastica, la percezione dell’utilità della scuola, le intenzioni di abbandono scolastico, lo
stress per la scuola, le attese di successo scolastico, l’autoefficacia nel successo scolastico e nella regolazione
dell’apprendimento, i voti conseguiti e la severità delle regole scolastiche. Per tutte le relazioni verranno considerate le
eventuali differenze legate al genere dei soggetti. L’ipotesi di ricerca è che ad un miglioramento dell’esperienza vissuta nel
contesto scolastico (in termini di aumento del livello delle variabili sopra indicate) corrisponda una diminuzione del consumo
di sostanze psicoattive.
Metodo
Per la rilevazione dei dati è stato utilizzato il questionario: “Io, la scuola e il mio stile di vita” (Cattelino, Begotti, Bonino,
1999), somministrato a circa 1300 studenti di ambo i generi, di età compresa tra i 14 e i 19 anni, frequentanti diversi tipi di
scuola media superiore del Nord-Ovest d’Italia. La somministrazione è stata effettuata a scuola, da parte di ricercatori
appositamente preparati, in due tempi (inizio e fine anno scolastico). Il questionario contiene specifiche scale relative alle
variabili sopra indicate. I dati sono stati analizzati attraverso analisi descrittive e analisi della varianza modello Anova a
misure ripetute.
Risultati
I risultati mostrano che le variabili scolastiche sono principalmente in relazione con il fumo di sigarette e di spinelli. In
particolare, per entrambi questi comportamenti, giocano un ruolo significativo la soddisfazione per l’esperienza scolastica e
le intenzioni di abbandono; infatti, tra coloro che aumentano il consumo si riscontra una riduzione della soddisfazione
scolastica ed un aumento dell’intenzione di abbandonare la scuola. In relazione alle differenze di genere, i risultati delle
analisi evidenziano come l’importanza attribuita al successo scolastico sia significativa nei maschi, per tutti e tre i
comportamenti: tra coloro che aumentano il consumo di sostanze psicoattive si registra una diminuzione dell’importanza
attribuita alla riuscita. Tra le ragazze, invece, sono maggiormente significative le attese di successo e le convinzioni di
autoefficacia (nel successo e nella regolazione dell’apprendimento): tra coloro che aumentano il consumo si rileva una
diminuzione significativa delle attese di successo, così come delle convinzioni di autoefficacia.
96
FUNZIONI PSICOLOGICHE DELLA GUIDA PERICOLOSA IN ADOLESCENZA E COINVOLGIMENTO
NELLA GUIDA PERICOLOSA E IN ALTRE FORME DI RISCHIO ESTERNALIZZATO ED
INTERNALIZZATO
MANUELA BINA (1), EMANUELA CALANDRI (1), ELENA CATTELINO (2), GIOVANNI VECCHIO (3), FEDERICA
GRAZIANO (1)
(1) Dipartimento di Psicologia, Università di Torino
(2) Università della Valle d’Aosta
(3) Università di Roma “Sapienza”
[email protected]
Introduzione
Fra i comportamenti a rischio per la salute e a rischio psicosociale in adolescenza, la guida pericolosa si configura come una
delle condotte di tipo esternalizzato che comportano maggiori rischi nell’immediato per l’incolumità dei ragazzi e delle
ragazze adolescenti; gli incidenti stradali in Italia rappresentano infatti la principale causa di morte fra i 15 e i 34 anni
(ISTAT/ACI, 2006). Nell’ambito della letteratura psicologica sul tema, guidare in modo rischioso (Jessor, 1987; Jessor,
1998) è considerato, al pari di altre condotte a rischio attuate in adolescenza, un’azione dotata di scopo e significato, messa in
atto dagli adolescenti per raggiungere obiettivi personalmente rilevanti in relazione ai compiti di sviluppo tipici di questa età
(Silbereisen, Eyferth & Rudinger, 1986; Silbereisen & Kastner, 1986). Essa svolge quindi particolari funzioni in relazione a
specifici obiettivi di crescita quali ad esempio la costruzione dell’identità e la ridefinizione dei legami sociali (Bonino,
Cattelino, Ciairano, 2007).
Le funzioni dei comportamenti a rischio sono state in prima istanza indagate in modo indiretto, attraverso l’analisi delle
relazioni tra il coinvolgimento nelle condotte a rischio, le caratteristiche degli individui e quelle del contesto (Jessor et
al.1991; Engels, 1998; Engels & ter Bogt, 2001; Bonino et al., 2003). Successivamente alcuni studi hanno indagato le
funzioni della guida pericolosa (Møller, 2004) e, più in generale, di altri comportamenti a rischio (Shapiro et al., 1998;
Spruijt-Metz et al., 2004; Ciairano, 2004; Tilleczek & Hine, 2006) percepite dagli adolescenti, analizzando direttamente il
loro punto di vista. Quest’ultima modalità d’indagine appare rilevante in quanto può consentire di mettere in relazione le
funzioni che gli adolescenti attribuiscono ai comportamenti a rischio e l’implicazione negli stessi comportamenti.
Obiettivi
Lo studio si propone di indagare in modo diretto le funzioni della guida pericolosa percepite dagli adolescenti e la loro
relazione con l’implicazione nel comportamento stesso. In secondo luogo, vuole valutare l’eventuale legame fra tali funzioni
e il coinvolgimento in altre condotte a rischio di tipo esternalizzato e internalizzato che, analogamente alla guida pericolosa,
possono essere legate a difficoltà nell’affrontare specifici compiti di sviluppo. Più in dettaglio gli obiettivi sono i seguenti: 1)
individuare le funzioni della guida pericolosa percepite dagli adolescenti; 2) analizzare la struttura fattoriale sottostante a tali
funzioni; 3) analizzare la relazione fra funzioni e implicazione nella guida pericolosa; 4) analizzare la relazione fra funzioni
della guida pericolosa e altre forme di rischio esternalizzato (consumo di sostanze psicoattive legali) e internalizzato
(sentimenti depressivi). Rispetto al secondo obiettivo ipotizziamo l’esistenza di due fattori sottostanti alle funzioni della
guida pericolosa: uno relativo alle funzioni maggiormente legate alla ridefinizione dell’identità, l’altro maggiormente legato
alle funzioni inerenti le relazioni con i coetanei. Rispetto al secondo e terzo obiettivo ci attendiamo che a diverse funzioni
percepite dagli adolescenti corrispondano diversi livelli di coinvolgimento nel rischio considerato.
Metodo
Il campione è composto da 743 adolescenti di età compresa fra i 15 e i 19 anni; bilanciato per genere e rappresentativo degli
adolescenti di Torino e provincia che frequentano diversi tipi di scuole secondarie di secondo grado.
I dati sono stati raccolti attraverso un questionario anonimo, comprendente domande relative alle condotte di guida, al
coinvolgimento nella guida pericolosa e in altre condotte a rischio (di tipo internalizzato ed esternalizzato) e alle funzioni
della guida pericolosa. Gli item relativi a tali funzioni sono state costruiti a partire da uno studio esplorativo preliminare,
condotto attraverso interviste di focus group (Bina, Graziano, Calandri, Borca, in press). I relativi dati sono stati sottoposti ad
analisi fattoriale esplorativa e confermatoria.
Risultati
in linea con le ipotesi formulate le analisi hanno mostrato l’esistenza di due fattori sottostanti alle funzioni della guida
pericolosa: un primo fattore relativo alle relazioni con i pari, un secondo includente le funzioni legate alla ridefinizione
dell’identità. Il modello di analisi confermatoria che mostra un fit migliore è il modello obliquo che prevede l’esistenza di
due fattori fra loro correlati e non dipendenti da un fattore latente di secondo orine. Analisi di correlazione e regressione
mostrano che le funzioni legate all’identità sono in relazione ad un maggior coinvolgimento nella guida pericolosa, nel
consumo di sostanze psicoattive legali, nell’alimentazione disturbata e, esclusivamente per le ragazze, nei sentimenti
depressivi.
97
Simposio 16
AGIRE IN ADOLESCENZA: TRA COMPORTAMENTI A RISCHIO E
DISADATTAMENTO PSICOLOGICO
Proponenti: EMANUELA CONFALONIERI (1), UGO PACE (2)
(1)C.R.I.d.e.e., Università Cattolica, Milano
[email protected]
(2)Università Kore, Enna
[email protected]
Discussant: ALIDA LO COCO
Università degli Studi di Palermo
[email protected]
98
Presentazione
Il fenomeno delle condotte a rischio porta a focalizzare l’attenzione sullo sviluppo della personalità dell’adolescente in
funzione delle sfide evolutive che egli è chiamato ad assolvere nel perseguimento di una maggiore stabilità interiore e di una
più funzionale forma di adattamento alla realtà esterna.
Affrontare i cambiamenti psicologici e i nuovi ruoli nel rapporto con gli adulti può generare una condizione di stallo
caratterizzata da vissuti di isolamento e difficoltà di orientamento. Ciò può essere considerato precursore delle condotte
devianti in adolescenza: la differenza fra passaggio all’atto come ricerca di autonomia e comportamento a rischio
rappresenta, in questo senso, uno dei temi di ricerca più promettenti della psicologia dello sviluppo.
Il potenziale di rottura implicito in questo passaggio evolutivo è chiaramente percepibile nelle dinamiche di disancoramento
che l’adolescente attua nei confronti del proprio passato, nel tentativo di affermare un’immagine di sé spinta verso il futuro
che risente però in maniera ambivalente dei legami con il proprio mondo infantile.
Se la condotta a rischio può inserirsi in questo contesto di sviluppo, assumendo il ruolo di fattore esperienziale, è evidente
che la valenza evolutiva di tale movimento trova il suo limite quando il rischio risulta sganciato da un’esperienza di crescita
rendendo l’adolescente incapace di valutare le conseguenze di un certo comportamento.
È proprio il passaggio all’atto, nella sua deriva potenzialmente disadattiva, utilizzato dall’adolescente per far fronte alle sfide
evolutive, il tema aggregante dei lavori presentati in questo simposio.
Il lavoro di Gatti, Confalonieri, Ionio, Traficante affronta il tema dell’obesità in adolescenza come passaggio all’atto
conseguente all’incapacità a contenere i propri impulsi aggressivi, ad accettare le modificazioni corporee e ad avvicinarsi alla
sfera della sessualità. Il lavoro di Pace e Zappulla si propone di valutare la relazione tra qualità dell’attaccamento e disagio
adolescenziale e, in particolare, il ruolo che la trasformazione dei legami di attaccamento in adolescenza gioca
nell’insorgenza di problemi internalizzanti, esternalizzanti e nell’ideazione suicidaria. Il lavoro di Dilani vuole verificare
l’esistenza di eventuali relazioni fra l’so problematico di internet, la qualità delle relazioni interpersonali e le modalità
cognitive utilizzate dai ragazzi per affrontare i problemi quotidiani. Ardino e Todisco indagano il ruolo del DPTS come
fattore di rischio che favorisce l'insorgenza dei disturbi dell'alimentazione. In particolare, viene anche indagato come il
comportamento autolesivo in tale popolazione non favorisca l'elaborazione del trauma.
QUANDO E’ IMPOSSIBILE RESISTERE AL CIBO.
UNO STUDIO SULLA PERCEZIONE E RAPPRESENTAZIONE DELL’IMMAGINE CORPOREA IN
ADOLESCENTI AFFETTI DA OBESITA’ PSICOGENA
ELENA GATTI, EMANUELA CONFALONIERI, CHIARA IONIO, DANIELA TRAFICANTE
C.R.I.d.e.e, Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica, Milano
[email protected]
Introduzione
L’obesità è una condizione patologica che sta diventando sempre più frequente nella società Occidentale, già a partire
dall’età evolutiva. Escludendo forme dovute a disfunzioni genetiche o metaboliche, la maggior parte degli adolescenti soffre
di obesità psicogena (circa il 90% dei casi), in cui l’aumento ponderale eccessivo è dovuto principalmente ad un disagio
psichico caratterizzato da un senso di noia, vuoto, inutilità e ansia diffusa (DSM IV, 1994). Questa condizione psicologica si
traduce spesso in comportamenti volti all’assunzione di una quantità di cibo incontrollata. L’iperfagia viene così considerata
come un vero e proprio impulso ad agire o una condotta d’accumulo, ossia una tendenza a compiere un atto che
sopraggiunge all’improvviso, al di fuori di ogni controllo e con una forte connotazione emotiva (Marcelli & Bracconier,
2006).
L’insorgenza o la persistenza di una condizione di obesità, in questo periodo, assume connotati particolari per quanto
riguarda l’adolescente stesso, la percezione di Sè e la sua immagine corporea. Quest’ultima, in particolare, è spesso distorta e
caratterizzata da attribuzioni negative (Thompson, 1996; Smolak, Levine, & Thompson, 2001). Alcuni studi segnalano la
presenza di dispercezioni dell’immagine corporea nella genesi e nel mantenimento dell’obesità in gruppi adulti (Thompson,
1996; Molinari & Riva, 2004) ma è ancora poco esplorato il ruolo che svolgono le percezioni e rappresentazioni corporee in
pazienti adolescenti.
Il presente studio si prefigge l'obiettivo di esplorare la percezione e rappresentazione dell'immagine corporea e percezione di
Sé, operando un confronto tra un gruppo di obesi e un gruppo non-clinico composto da adolescenti di ugual genere ed età.
Si ipotizza che gli adolescenti affetti da obesità psicogena siano meno soddisfatti della loro immagine corporea, si
rappresentino con forme e caratteri sessuali meno accurati del gruppo di controllo. Si ipotizza anche che questa percezione
corporea negativa possa riflettersi in un basso valore attribuito a Sé a cui si accompagna una percezione di scarsa competenza
nei diversi domini che lo compongono.
Metodo
Sono stati coinvolti 80 adolescenti (m=40;f=40) di età compresa tra 13 e 17 anni (M=14,16; d.s.=1,2). Il gruppo clinico è
costituito da 40 adolescenti (M=23;F=17) di età compresa tra i 12 e i 17 anni (M=13,9; d.s.=0,8) contattati presso un istituto
di cura a cui si erano rivolti per una prima valutazione diagnostica e selezionati in seguito in base alla formulazione di una
99
diagnosi di “obesità psicogena”. Il gruppo non-clinico, appaiato per genere ed età al gruppo clinico, è costituito da 40
adolescenti di età compresa tra 12 e 17 anni (M=14,12; d.s.=0,6), contattati presso alcune scuole secondarie di secondo grado
della provincia di Milano. Per entrambi i gruppi è stato chiesto e ottenuto il consenso scritto per la partecipazione alla ricerca
e al trattamento dei dati personali da parte dei genitori.
Ai ragazzi è stato chiesto di compilare il Body Esteem Scale (BES - Mendelson et al., 2001; validazione italiana di
Confalonieri, Gatti, Ionio, & Traficante, submitted), il Body Image Satisfaction Questionnaire (BIS - Von Wright, 1989;
Trad. Ita. Alparone et al., 2000), e il Self Perception Profile for Adolescents (SPPA - Harter, 1986; Forzi & Not, 2003). Ai
ragazzi è stato inoltre chiesto di eseguire il test grafico “Mi disegno” (Witkin, 1962; Adatt. Ita. Confalonieri, Gatti, Ionio, &
Traficante, in press).
Risultati
I confronti tra i gruppi evidenziano come la presenza/assenza di obesità psicogena differenzi le percezioni e rappresentazioni
degli adolescenti in tutte le scale e sottoscale comprese negli strumenti. In particolare, gli adolescenti obesi mostrano delle
percezioni più negative rispetto al gruppo non-clinico nelle tre sottoscale del BES: Apparenza (F(1,50)=8,327; p=.006), Peso
(F(1,50)=41,667; p<.001) e Attribuzione (F(4,250); p.045). L’insoddisfazione percepita dal gruppo clinico coinvolge anche
le dimensioni del Sé sociale e del Sé corporeo; infatti le correlazioni tra gli strumenti relativi rispettivamente all’immagine
corporea e al Sé (BES; BIS e Self Perception Profile for Adolescents) mostrano che gli adolescenti affetti da obesità
psicogena sono anche coloro che si percepiscono poco competenti nelle sottoscale dell’Accettazione sociale (r=.396;
p=.006); del Romantic Appeal (r=.471; p=.001) e delle amicizie intime (r=.342; p=.020).
Allo strumento Body Image Satisfaction, gli adolescenti obesi mostrano una soddisfazione minore nella sottoscala Figura
(F(1,50)=15,779; p<.001).
Nello strumento “Mi disegno” le rappresentazioni grafiche del gruppo clinico mostrano Forme poco accurate (U=197,00;
Z=-1,902; p=.047), difficoltà di Integrazione (U=174,00; Z=-2,597; p=.009) tra i diversi distretti corporei e scarsa attenzione
all’Abbigliamento (U=155,00; Z=-2,380; p=.017).
Discussione
I risultati indicano come la presenza di un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato da condotte compulsive,
giochi un ruolo rilevante nelle percezioni di sé e nelle rappresentazioni della propria immagine corporea. La significativa
insoddisfazione a livello del Sé corporeo percepita nel gruppo degli obesi e rappresentata anche attraverso forme grafiche
poco accurate e con uno scarso numero di dettagli, sembra riflettersi anche nelle dimensioni del Sé di tipo sociale
sottolineando la valenza relazionale e sociale che il corpo assume in adolescenza. Tali evidenze sperimentali diventano degli
indicatori di rischio che se non adeguatamente colti e elaborati potrebbero bloccare in questo modo l’intero processo di
sviluppo
STILI INSICURI DI ATTACCAMENTO, CORRELATI COMPORTAMENTALI E IDEAZIONE SUICIDARIA IN
ADOLESCENZA
UGO PACE (1), CARLA ZAPPULLA (2)
(1) Università Kore Enna
(2) Università degli Studi di Palermo
[email protected]
Introduzione
L’ideazione suicidaria ha catturato negli ultimi anni in misura sempre maggiore l’attenzione dei ricercatori. Un rapporto
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) mostra che, nel 2000, sono morte suicide nel mondo circa un milione di
persone: si calcola che il tasso globale di mortalità sia di 16 individui ogni 100 mila, con una morte ogni 40 secondi circa.
Sebbene le statistiche ufficiali diano una stima per difetto della reale entità del fenomeno, oggi il suicidio rientra tra le tre
principali cause di morte fra gli individui di età compresa tra i 15 e i 44 anni, di entrambi i sessi (ISTAT, 2005). Tuttavia, è
opportuno focalizzare l’attenzione sul sottile confine che separa lo sviluppo tipico o atipico dei pensieri suicidari (Marcenko,
Fishman e Friedman, 1999). Malgrado il percorso distruttivo che lega ideazione, tentativo e compimento dell’atto possa
ritrovarsi in quasi tutte le anamnesi di chi si è tolta la vita, i pensieri suicidari non predicono sempre l’atto estremo (Levy e
Deykin, 1989). Di conseguenza, considerando che quasi il 75% degli adolescenti riporta di avere pensato al suicidio (Strang
e Orlofsky, 1990), ma per la maggior parte non tenta di togliersi la vita, occorre comprendere quali fattori intervengano a
mediare la relazione fra ideazione e atto.
La relazione tra qualità dell’attaccamento e funzionamento psicosociale in adolescenza è stata sottolineata da numerosi studi
che riportano associazioni significative tra attaccamento insicuro e disturbi della condotta (Marcus e Betzer, 1996), sintomi
depressivi (Margolese, Markiewicz e Doyle, 2005), problemi di natura internalizzata (Allen e Land, 1999) e ideazione e
comportamenti suicidari (Bostik e Everall, 2006). In particolare alcuni autori (Adam, Keller, West, Larose e Goszer, 1994)
sottolineano come l’ideazione e i tentativi di suicidio possano riflettere un fallimento nello sviluppo di un attaccamento
sicuro a causa della percezione di una mancanza di disponibilità emotiva da parte dei genitori: l’impossibilità da parte
100
dell’adolescente di poter contare su una figura di attaccamento responsiva non lo metterebbe in condizione, nel momento in
cui si trova davanti ad un evento critico e stressante, di trovare conforto e rassicurazione; allo stesso modo, egli si aspetterà
poca disponibilità da parte degli altri e tenderà a sviluppare un’idea negativa di sé, sentimenti di depressione e di impotenza,
che possono metterlo ad elevato rischio di comportamento suicidari (Adam et al. 1994).
Obiettivi e ipotesi
La ricerca si propone di valutare il ruolo che gli stili di attaccamento insicuri, ansioso ed evitante, giocano nell’insorgenza di
sentimenti di depressione, dell’ideazione suicidaria e di problemi comportamentali di natura internalizzata ed esternalizzata
in
adolescenza. Si ipotizza un’associazione significativa tra l’insicurezza dell’attaccamento e gli aspetti del disagio considerati.
Metodo
Partecipanti: Hanno preso parte alla ricerca 403 adolescenti (239 maschi, 164 femmine), di età compresa tra 13 e 18 anni.
Strumenti: allo scopo di esaminare la qualità dell’attaccamento è stata somministrata la versione italiana (Fossati et al., 2003)
dell’Attachment Style Questionnaire (ASQ; Feeney et al., 1994); per valutare i sentimenti di depressione e l’ideazione
suicidaria é stato somministrato il Child Depression Inventory (CDI) di Kovacs (1980); allo scopo infine di esplorare i
problemi comportamentali è stato somministrato lo Youth Self-Report (Achenbach e Edelbrock, 1987).
Risultati
Le analisi preliminari indicano che non esistono differenze statisticamente significative di genere e di età per i costrutti
considerati.In generale, i dati confermano il ruolo che l’insicurezza dell’attaccamento gioca nel disagio adolescenziale. In
particolare lo stile di attaccamento ansioso risulta significativamente predittivo di problemi internalizzanti (Beta= .46,
p<.000), di sentimenti depressivi (Beta=.37, p<.000) e di ideazione suicidaria (Beta=.20, p<.000), mentre, diversamente da
quanto ipotizzato, lo stile di attaccamento evitante gioca un ruolo predittivo nei confronti dei problemi internalizzanti
(Beta=.14, p<.003), ma non nei confronti dei sentimenti depressivi (Beta=-.02, ns) e dell’ideazione suicidaria (Beta=.04, ns).
L’associazione fra insicurezza dell’attaccamento e disagio adolescenziale sembra quindi essere diversa a seconda della
qualità dell’insicurezza stessa. Lo stile di attaccamento ansioso sottenderebbe un’idea negativa di sé: è probabile che le
percezioni di incertezza e scarsa disponibilità altrui incrementino l’idea negativa di se stessi e la tendenza a sviluppare
difficoltà di natura internalizzata, sentimenti depressivi e ideazione suicidaria. Al contrario pattern disadattivi originati
dall’attaccamento evitante non sfocerebbero nell’insorgenza di disordini depressivi e soprattutto nell’ideazione suicidaria.
QUALITÀ DELLE RELAZIONI INTERPERSONALI E UTILIZZO PROBLEMATICO DI INTERNET IN
ADOLESCENZA
LUCA MILANI (1), DANIA OSUALDELLA (2)
(1) CRIDEE, Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica di Milano
(2) Università Cattolica di Milano
[email protected]
Introduzione
In pochi anni Internet è diventato uno dei principali strumenti di socializzazione e di svago per bambini e adolescenti italiani:
ben il 77% dei ragazzi italiani di entrambi i sessi utilizza in modo abituale la Rete come strumento di comunicazione
(Rivoltella, 2006). Internet appare particolarmente appetibile per gli adolescenti per via di alcune caratteristiche tecnologiche
che offrono la possibilità, oltre che di raccogliere e scambiare informazioni con i pari, di interagire con altre persone
mantenendo l’anonimia, di sperimentare nuove identità, e in alcuni casi di provare un senso di comunità e di accettazione
sociale. Può succedere, tuttavia, che da un semplice svago la navigazione in Internet possa virare verso forme di utilizzo più
problematiche, fino a diventare una vera e propria dipendenza.
Secondo i dati presenti in letteratura, la prevalenza dell’uso problematico di Internet nella popolazione adolescenziale varia
dal 7,5% (Ko et al, 2007) al 70% circa (Morahan-Martin e Schumacher, 2000). Tale ampio scarto risente soprattutto delle
differenze in termini di definizione del fenomeno e di misure utilizzate per rilevarne l’entità.
Ad oggi gli studi condotti nell’ambito sembrano poter identificare una stabile correlazione tra cattiva qualità delle relazioni
interpersonali del giovane e potenziale dipendenza dall’uso di Internet (cfr. Young, 1996; Morahan-Martin e Schumacher,
2000; Chih-Hung Ko et al., 2005; Ko et al., 2007). Inoltre, secondo Davis (2001), anche una scarsa capacità cognitiva di fare
fronte ai problemi della vita di tutti i giorni – specialmente in adolescenza – può essere correlata a un uso problematico della
Rete, che può diventare per alcuni ragazzi un “rifugio mentale” per allontanare quei problemi che percepiscono come
insormontabili.
In questo settore appare quindi di un certo interesse approfondire la natura dell’interazione e della possibile reciproca
influenza tra utilizzo problematico di Internet e alcune caratteristiche evolutive e dell’ambiente di vita prossimale dei
ragazzi., e accertare se l’ipotizzato legame tra qualità delle relazioni interpersonali, capacità cognitiva di far fronte ai
momenti di crisi, e utilizzo problematico della Rete sia valido anche nel nostro Paese.
Obiettivi:
101
L’obiettivo della presente ricerca è verificare l’esistenza di eventuali relazioni tra l’uso problematico di Internet, la qualità
delle relazioni interpersonali e le modalità cognitive abitualmente utilizzate dai ragazzi per affrontare i problemi quotidiani.
In particolare viene ipotizzato che ragazzi con relazioni interpersonali povere o problematiche possano essere maggiormente
predisposti ad un uso problematico di Internet, questo perché la comunicazione mediata dal computer sembrerebbe poter
offrire una risposta vicaria a quei bisogni affiliativi non soddisfatti dalle relazioni e dalle interazioni intrattenute nella vita
reale.
Si ipotizza inoltre che l’utilizzo preferenziale di quelle strategie di gestione cognitiva dei momenti problematici considerate
più adattive (coping attivo e di ricerca di supporto) sia correlato con una minore tendenza ad un uso problematico della Rete.
Metodo
Campione:
98 ragazzi di età compresa tra i 14 e i 19 anni (media=16,28), frequentanti una scuola secondaria superiore della provincia di
Milano. Quarantasei partecipanti sono di sesso maschile (età media=16,59 anni), 52 di sesso femminile (età media=16,00
anni).
Procedura:
Ai partecipanti sono stati somministrati i seguenti strumenti:
• IAT- Internet Addiction Test (Young, 1997). Lo strumento è stato tradotto in italiano, ma non è attualmente validato per la
popolazione italiana. Si tratta di un test che misura l’esistenza di un possibile utilizzo problematico di Internet, composto da
20 item a scelta multipla.
• TRI - Test delle relazioni interpersonali (Bracken, 1996), test che valuta la qualità delle interazioni e delle relazioni sociali.
Si compone di 105 quesiti a risposta multipla che vanno ad indagare la sfera relazionale relativa ai pari, alle figure genitoriali
e agli insegnanti.
• Children’s Coping Strategies Checklist (Ayers e Sandler; 1999; versione italiana a cura di Di Blasio e Camisasca, 2006).
Questionario di rilevazione delle strategie cognitive preferenziali utilizzate dai ragazzi per far fronte alle situazioni percepite
come problematiche. Si compone di 54 quesiti a scelta multipla. La scala è composta di 4 punteggi relativi a quattro strategie
di coping: elaborazione attiva, evitamento, ricerca di supporto e distrazione.
Ai genitori dei partecipanti è infine stata somministrato il seguente strumento:
• Child Behavior Checklist (Achenbach, 1991; versione italiana a cura di Figerio, Istituto Medea, 2001) – composto da 112
quesiti a scelta multipla e 8 sezioni con domande aperte. Il test misura la presenza di problemi di natura psicologica nei
ragazzi e in particolare in termini di problemi di esternalizzazione e di internalizzazione.
Risultati
Non sono emerse differenze di genere per nessuna delle misure prese in considerazione. Applicando il punteggio di cutoff
(>50) suggerito da Young (1997) per identificare i soggetti con un utilizzo problematico di Internet, il 36,7% dei partecipanti
(N=36) è stato categorizzato come “problematico”. Suddividendo quindi il campione in “soggetti problematici” e “non
problematici” relativamente all’uso di Internet, è emerso come i primi utilizzino Internet per più ore alla settimana (21,05 vs
8,89; t=4,28***), ricorrano maggiormente a strategie di coping di evitamento (2,44 vs. 2,20; t=3,30**), e abbiano peggiori
relazioni interpersonali (TRI=90,31 vs. 94,80; t=-1,97*). La distribuzione di soggetti “problematici” e “non problematici” per
l’uso di Internet non è risultata differente tra maschi e femmine.
I punteggi relativi alle strategie di coping attivo e di ricerca di supporto sono risultati correlati significativamente con il
punteggio TRI relativo alla qualità delle relazioni interpersonali (rispettivamente .356** e .392**). La qualità delle relazioni
interpersonali è risultata correlata negativamente con il punteggio del test IAT (-.213*). Infine il punteggio al test IAT è
risultato correlato con il punteggio del coping evitamento (.381**).Da questi dati emerge come i soggetti con relazioni
interpersonali peggiori e con peggiori strategie di coping tendano ad utilizzare Internet in modo più problematico.
Per verificare l’esistenza di relazioni di mediazione tra le variabili prese in considerazione, è stato infine applicato il metodo
di Baron e Kenny (1986) tramite regressioni lineari tra le variabili “uso problematico di internet”, “strategie di coping” e
“qualità delle relazioni interpersonali”, secondo la metodologia. I risultati hanno mostrato come la qualità delle relazioni
interpersonali sia una variabile in grado di predire negativamente il livello di dipendenza da internet ( =-.213*), e
positivamente il punteggio rilevato nel coping attivo ( =.356***) e nel coping di ricerca di supporto ( =.392***). L’effetto
diretto e protettivo della qualità delle relazioni interpersonali viene inoltre potenziato dalla qualità delle due strategie di
coping adattive qui menzionate: attivo ( =-.296**) e ricerca di supporto (-.305**).
Per concludere, si potrebbe affermare che una migliore qualità delle relazioni interpersonali sia in grado di proteggere
direttamente gli adolescenti da un uso problematico di Internet, e qualora questa qualità si coniughi a un uso preferenziale
delle strategie di coping considerate adattive (strategia attiva e di ricerca di supporto), l’effetto protettivo sia più consistente.
“AGIRE” IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS:
CIBO E AUTOLESIONISMO COME FUGA DAL TRAUMA
VITTORIA ARDINO (1), PATRIZIA TODISCO (2)
(1) Psychology Department, University of Bedfordshire (UK)
102
(2) Centro per i disturbi del comportamento alimentari, Spedali Civili di Brescia (IT)
[email protected]
Introduzione
Gli adolescenti con un disturbo del comportamento alimentare, spesso, raccontano storie di trauma. Questa ricerca ha
l’obiettivo di tracciare traiettorie evolutive di rischio che mettano in luce il ruolo dei sintomi post-traumatici nel favorire il
mantenimento del disturbo e il “passaggio all’atto” in tale popolazione. Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) è un
disturbo d’ansia in cui l’acting out può essere uno dei sintomi prominenti in adolescenza, sintomi che si manifestano sia
attraverso condotte antisociali eterodirette sia attraverso comportamenti autolesivi. Resta tuttavia da approfondire il legame
tra i sintomi post-traumatici e l’autolesionismo negli adolescenti che sviluppano un disturbo dell’alimentazione. Una recente
revisione della letteratura (Brewerton, 2007) ha evidenziato che la prevalenza del DPTS in soggetti bulimici è del 37%
mentre la prevalenza dello stesso in soggetti non bulimici è del 12%. Inoltre, gli adolescenti che soffrono di un disturbo
alimentare riportano maggiori amnesie rispetto al trauma e una tendenza più severa alla dissociazione (Brewerton, Dansky,
Kilpatrick, & O’Neil, 1999). Altre ricerche, invece, hanno mostrato un’interazione tra condotte autolesive in adolescenti
anoressiche o bulimiche (Wiederman & Pryor, 1996).
Gli obiettivi di questa ricerca sono duplici. Il primo obiettivo è quello di analizzare l’importanza di eventuali esperienze
traumatiche e dei sintomi del DPTS nel favorire una traiettoria di rischio rispetto ai disturbi dell’alimentazione in un gruppo
di adolescenti femmine. Il secondo obiettivo è quello di verificare la fenomenologia dei comportamenti autoaggressivi in tale
popolazione e eventuali relazioni significative con la sintomatologia post-traumatica. L’ipotesi della ricerca presuppone che
il DPTS sia un fattore di rischio nel determinare sia l’insorgenza di disturbo dell’alimentazione sia eventuali comportamenti
autolesivi.
Metodo
Hanno partecipato allo studio 60 adolescenti (età media 17.8; DS 6.83) ricoverate presso un Centro pubblico per i Disturbi
del Comportamento Alimentare del Nord Italia. Il campione è femminile per necessità di campionamento e in linea con
quanto la letteratura sui disturbi alimentari ha mostrato da molti anni presentando tale patologia come principalmente
presente nelle ragazze e solo in casi rarissimi nei maschi. Alle partecipanti sono stati somministrati una serie di questionari
self-report. Per verificare la presenza di eventuali eventi traumatici nell’infanzia, hanno compilato il Ceca-Q (Childhood
Experience of Care and Abuse; Bifulco, 2003), uno strumento in grado di discriminare abusi o maltrattamenti perpetrati dalla
madre piuttosto che dal padre. Il DPTS è stato misurato con il LASC (Los Angeles Symptoms Checklist; King, King, Leskin,
& Foy, 1995 ), un self-report a 43 item e relative sottoscale rappresentanti I tre cluster di sintomi del DPTS. Le condotte
autoaggressive sono state valutate con il Self-Injury Inventory (Zlotnick, Shea, Pearlstein, Simpson, Costello, & Begin,
1996). I partecipanti sono stati invitati a partecipare alla ricerca al loro ingresso nel centro e dopo aver avuto una spiegazione
circa gli obiettivi della ricerca da parte dell’èquipe del centro che ha, inoltre, garantito per la confidenzialità dei dati. Tutti i
partecipanti hanno firmato il consenso informato; per coloro che non avevano ancora raggiunto la maggiore età è stato
chiesto ai genitori di firmare il consenso.
Risultati.
Sul campione totale, il 24.1% ha riportato un esperienza di abuso psicologico o emozionale da parte del padre e il 27.6% ha
riportato esperienze di trascuratezza paterna. Il 10.7% ha vissuto episodi di abuso sessuale. Il 40% presenta una diagnosi di
DPTS e il 70% di worry patologico, mentre il 36% presenta condotte autolesive. Analisi di correlazione mostrano che è l’
abuso psicologico da parte del padre ad avere un’interazione significativa con il DPTS (.361; p<0.01).
Nel confronto tra gruppi è emerso che le adolescenti con comportamenti autolesivi hanno vissuto un numero maggiore di
esperienze traumatiche rispetto a quelle che non presentavano tali comportamenti (F=22.87, df=1, 363, p<0.001).
Discussione
I risultati mostrano che la presenza del DPTS rappresenta una traiettoria di rischio per l’insorgenza dei disturbi
dell’alimentazione e per il mantenimento di tali disturbi e che altri fattori intervengono a rendere tale relazione più
complessa. Infatti la presenza di condotte autolesive,potrebbe non favorire la rielaborazione dell’evento traumatico e
cristallizzare il rapporto patologico con il cibo.. Il limite della ricerca consiste nell’aver scelto un campione di pazienti
ricoverate. Occorrono, dunque, maggiori studi di comunità per poter tracciare modelli di rischio più precisi. Future ricerche
dovranno, inoltre, indagare il ruolo di altre tipologie di traumi e altre modalità di passaggio all’atto in studi prospettici per
meglio comprendere il ruolo di diversi fattori di mediazione nella connessione tra DPTS e disturbi dell’alimentazione.
103
Simposio 17
CARATTERISTICHE EVOLUTIVE DEI DISTURBI DELLO SPETTRO
AUTISTICO: INTERSOGGETTIVITÀ E COGNIZIONE SOCIALE
Proponente: PAOLA MOLINA
Università degli Studi di Torino
[email protected]
Discussant: MARINA PINELLI
Università degli studi di Parma
[email protected]
104
Presentazione
La letteratura recente relativa alla patologia autistica (Dawson e Osterling, 1997; Rogers, 1998; Baron Cohen, 2002; Gallese,
2004) ha messo in luce l' importanza di una diagnosi quanto più precoce possibile per mettere a punto un trattamento efficace
ed arginare i deficit sia relazionali che cognitivi. Attualmente, seguendo i criteri del DSM IV o ICD 10 la diagnosi non può
essere fatta prima che il bambino abbia raggiunto l'età in cui generalmente dovrebbero essersi sviluppate le capacità
linguistiche e sociali (ad esempio: l' iniziativa sociale, l'offrire conforto, l'attenzione condivisa). Il simposio presenta il lavoro
di un gruppo di ricerca che, partendo dallo sviluppo tipico e considerando i Disturbi dello Spettro Autistico (DSA) in
relazione con questo sviluppo, intende contribuire a rendere disponibili in Italia un insieme di indicatori utili per individuare
fin dai primi anni di vita deficit di funzionamento tipici dei DSA, e per contribuire in età successive alla diagnosi funzionale
e all'intervento. In particolare, le comunicazioni riguarderanno contributi innovativi in tre aree principali: i precursori dello
sviluppo sociale e comunicativo, i deficit cognitivi, le alterazioni del movimento.
Il contributo di Esposito, Falco & Venuti e quello di Surian & Caldi studiano le età più precoci. Il primo, estendendo studi
recenti (Teitelbaum et al., 1998, Mari et al., 2003, Teitelbaum et al., 2004), evidenzia possibili indicatori diagnostici legati al
movimento e alla postura, sviluppando strumenti osservativi specifici. Il secondo approfondire aspetti precoci della
comprensione della mente, aspetto che risulta selettivamente danneggiato nell'autismo: lo studio di questa capacità, e
l'individuazione di strumenti che ne mettano in luce la presenza in età precoce (Onishi e Baillargeon, 2005; Tomasello e
Haberl, 2003; Southgate, Senju e Csibra; 2007; Surian, Caldi e Sperber, 2007), può permettere di sviluppare ulteriori prove
diagnostiche e di affrontare inoltre la questione della primarietà dei deficit di teoria della mente, un problema centrale per la
comprensione delle basi psicologiche dell’autismo. Sempre in età precoce, ma con uno studio retrospettivo basato sui video
familiari, il contributo di Ongari, Tomasi & Marchesoni si focalizza su un'area tipicamente deficitaria nelle sindrome
autistiche, quello dell'attenzione condivisa (Lord 1995; Baron-Cohen, 1996).
Gli ultimi due contributi riguardano invece possibili strumenti diagnostici in età successive, soprattutto finalizzati alla
diagnosi funzionale e all'intervento: Balboni, Bianchi, Igliozzi e Tasso analizzano la capacità discriminante delle scale
Vineland-II, mentre Bulgarelli, Gianotti & Molina presentano uno strumento innovativo di valutazione della comprensione
degli stati mentali in età prescolare e scolare, il ToM Storybooks (Blijd-Hoogewys, et al., 2003), prospettandone un possibile
utilizzo per la valutazione dei deficit dei bambini con DSA in quest'area di competenza.
L'insieme di questi studi, che utilizzano metodologie diverse e partono da prospettive teoriche differenti, consente un
approccio multidimensionale delle problematiche legate ai DSA, ricco e fecondo sia dal punto di vista teorico che
applicativo.
GLI INDICATORI PRECOCI DEI DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO: L’ANALISI DEL MOVIMENTO
GIANLUCA ESPOSITO, SIMONA DE FALCO, PAOLA VENUTI
Dipartimento di Scienze Cognitive e della Formazione, Università degli Studi di Trento
[email protected]
E’ stato ampiamente discusso come interventi precoci in bambini con disturbi dello spettro autistico (DSA) producano
migliori outcome sia nel funzionamento globale, sia nelle performance intellettuali (Dawson e Osterling, 1997; Rogers,
1998). Per tale motivo è indispensabile l’individuazione di indicatori precoci della patologia. Tra gli indicatori precoci, il
movimento è stato considerato con grande interesse. L’interesse per il movimento è dato dal fatto che esso non dipende dallo
sviluppo sociale e linguistico e non è mascherato da altri meccanismi compensativi. Partendo da queste considerazioni
l’obiettivo del nostro studio è quello di studiare lo sviluppo della motricità in soggetti con DSA, in soggetti con sviluppo
tipico (ST) ed in soggetti con ritardo mentale (RM).
Metodo.
Il campione era composto di 46 bambini a 5 mesi (18 DSA, 18 ST e 10 RM). Lo studio si è basato sull’analisi di homevideo
retrospettivi. Gli homevideo retrospettivi, raccolgono momenti ed episodi diversi dei primi anni di vita di un bambino filmati
prima di conoscerne la diagnosi (Baranek, 1999; Werner et al., 2000). I video della ricerca sono stati analizzati attraverso la
Eshkol-Wachman Movement Notation (Eshkol e Harris, 2001).
Risultati.
Le analisi hanno mostrato per il giacere, differenze significative tra i bambini con DSA ed i gruppi di controllo (p<.05).
Inoltre il gruppo di soggetti con DSA è risultato meno omogeneo ed è sembrato suddiviso in 2 sottogruppi (uno con alto e
l’altro con basso livello di funzionamento motorio).
Conclusioni. Le anomalie motorie possono rivelarsi utili come segnali precursori della patologia. E’ possibile che i differenti
livelli di funzionamento motorio rispecchiano differenti percorsi neuronali di accesso alla patologia. In particolare i bassi
livelli di funzionamento potrebbero essere collegati ad un anomalia delle cellule di Purkinje nella zona cerebellare, spesso
descritta in un sottogruppo di soggetti con DSA.
105
LA RAPPRESENTAZIONE DEGLI STATI MENTALI NEGLI INFANTI
LUCA SURIAN
Dipartimento di Scienze Cognitive e della Formazione, Università degli studi di Trento
[email protected]
Nella letteratura sullo sviluppo della ‘teoria della mente’ domina la convinzione che i bambini a 3 anni sappiano ragionare
sui desideri diversi dai propri e tener conto delle credenze vere delle persone per comprendere o anticipare le azioni e le
reazioni emotive delle altre persone. Tuttavia, questi bambini non sanno rappresentare credenze false, non hanno ancora
acquisito la capacità di usare il concetto di credenza e non possiedono una teoria della mente rappresentazionale. Tale teoria
della mente emerge verso i 4 anni. Questa opinione è stata recentemente messa in crisi da una serie di studi sperimentali che
hanno usato procedure adatte ad esaminare bambini di 12-24 mesi (ad es., Surian, Caldi e Sperber, 2007). Nel presente
lavoro prendiamo in esame le ricerche condotte finora sulle precoci capacità di attribuire stati mentali epistemici nel secondo
anno di vita. Concludiamo che i risultati di queste ricerche indicano che gli infanti (1) sono in grado di attribuire stati mentali
epistemici, (2) non applicano il ragionamento mentalista solo alle persone, ma lo estendono alle azioni di agenti non umani,
(3) modificano il loro comportamento comunicativo in base alle attribuzioni di credenze e (4) sanno che le credenze possono
essere aggiornate e corrette da interventi comunicativi verbali e non verbali. Queste conclusioni hanno importanti
implicazioni per le teorie sullo sviluppo della capacità di mentalizzazione e per il problema della relazione fra sviluppo del
linguaggio e sviluppo concettuale. Infine, le ricerche che discutiamo in questo intervento possono essere utili ad
approfondire la comprensione delle basi cognitive dell’autismo perché possono aiutarci a studiare sperimentalmente la
questione della primarietà dei deficit di teoria della mente.
L’OSSERVAZIONE DEI COMPORTAMENTI DI ATTENZIONE CONGIUNTA IN HOME VIDEO DI BAMBINI
CON DIAGNOSI SUCCESSIVA DI DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO
BARBARA ONGARI, FRANCESCA TOMASI, LAURA FRATINI
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università degli studi di Trento
[email protected]
Introduzione
La difficoltà di condividere l’attenzione nei bambini autistici viene ipotizzata da alcuni Autori (Leekam, Lopez, More, 2000)
come correlata a disturbi attentivi più generalizzati, soprattutto alla lentezza nell’orientarsi verso lo stimolo ed al ritardo nel
comprendere il girare la testa ed il pointing nel loro significato sociale. Gli studi retrospettivi su home video (cfr. rev.
Palomo, 2006) hanno evidenziato capacità di attenzione condivisa significativamente minori nei bambini con diagnosi
successiva di DSA rispetto a soggetti con sviluppo tipico (ST) in una fascia di età compresa tra i 12 e i 30 mesi. Osterling e
collaboratori (Osterling, Dawson, Munson, 2002) hanno indicato nella incapacità di rivolgere lo sguardo e di orientarsi verso
l’altro in risposta al proprio nome la caratteristica distintiva dei bambini poi diagnosticati con DSA. Inoltre, nelle interazioni
con l’adulto si è rilevata una minore competenza nell’iniziare le sequenze e livelli più elementari nella comunicazione
convenzionale, rispetto a bambini con ST; mentre la capacità di rispondere a sollecitazioni di attenzione condivisa aumenta a
fronte di proposte dirette e strutturate degli adulti (Blanc, Adrien, Roux, Barthelemy, 2005).
La ricerca intende valutare in ottica retrospettiva le abilità di attenzione congiunta di bambini con diagnosi successiva di
DSA, in funzione del ruolo svolto dal bambino nell’interazione sociale con l’adulto (risposta e iniziativa), al fine di
individuare un insieme di indici osservativi specifici per discriminare precocemente le modalità tipiche dei bambini con
DSA. L’ipotesi da verificare è che in questi bambini la competenza nell’iniziare/promuovere la condivisione dell’attenzione
nei confronti dell’adulto sia inferiore rispetto alla capacità di rispondere alle sollecitazioni.
Metodo
Sono stati codificati tramite il sistema Observer XT video-pro (v.5, Noldus Information Technology) circa 2070’ di
homevideo di 20 bambini di età inferiore ai 36 mesi (10 successivamente diagnosticati con DSA e 10 con ST). Il materiale è
stato messo a disposizione dal Laboratorio di Osservazione e Diagnosi Funzionale dell’Università di Trento. Si tratta di
filmati realizzati dai genitori in chiave diaristica, riguardano situazioni varie di vita familiare del bambino, il cui contenuto
prevalente è la routine (pasto, cambio, bagnetto..), spesso filmata dalla madre/dal padre mentre interagisce verbalmente con
il/la figlio/a e l’altro genitore presente, a volte in compagnia del fratello o della sorella. La qualità eterogenea del materiale
relativo ad ogni soggetto, in termini di situazioni e persone coinvolte, ha reso necessario un lavoro preparatorio di
ricostruzione sequenza per sequenza di ogni clip, al fine di ordinare con chiarezza i tempi ed i contenuti delle immagini.
La codifica è stata svolta da due osservatori indipendenti, in seguito alla fase di training e di applicazione delle due griglie
(SCSP e ECAC) ad alcuni filmati di prova. Due le griglie osservative utilizzate: 1) una versione semplificata della Scala di
Comunicazione Sociale Precoce (SCSP, Molina, Ongari, Schadee, 1998), 2) la Scala di Valutazione dei Comportamenti di
106
Attenzione Congiunta (Échelle des comportements d’attention conjointe ECAC; Tourrette, 1998; Barbe, Soares-Boucaud,
2000).
Risultati: L’analisi delle frequenze agli item di entrambe le griglie (ECAC ed SCSP) ha sostanzialmente confermato l’ipotesi
generale (IAC < RAC nei DSA).
La rilevazione degli item della griglia ECAC (scala RAC) è quantitativamente e qualitativamente abbastanza analoga in
entrambi i gruppi (DSA e ST). Decisamente inferiori i comportamenti di attenzione congiunta non silenziosi o che
comprendono lallazioni nel gruppo DSA (es. item “alterna lo sguardo tra oggetto ed adulto con lallazione”; DSA=15;
ST=46). Anche le risposte di tipo linguistico, prese in considerazione nella griglia SCSP, risultano poco frequenti in rapporto
a quelle del gruppo ST.
Per quanto riguarda i comportamenti di iniziativa all’attenzione congiunta (scala IAC) le differenze tra i due gruppi
aumentano (es. item SCSP: “segue interessato il movimento dell’oggetto verso l’adulto”; DSA=64, ST=275).
Inoltre, analizzando le risposte di pointing associato all’alternanza dello sguardo tra l’oggetto e l’adulto, nei bambini con
diagnosi successiva di DSA si sono rilevate frequenze significativamente inferiori (item ECAC – RAC; F=4; ST=31). Quasi
assente invece l’utilizzo dichiarativo del pointing nel gruppo con DSA (es. item ECAC – IAC: “pointing sull’oggetto per
mostrare e sguardo verso l’adulto”, F=1; ST=9), come evidenziato in altri studi (Mars, Mauk & Dowrick, 1998; Camaioni,
Perrucchini, Muratori, Parrini e Cesari, 2003).
SCREENING DEL DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO IN BAMBINI IN ETÀ PRESCOLASTICA:
VALUTAZIONE DEL COMPORTAMENTO ADATTIVO
GIULIA BALBONI (1), FEDERICA BIANCHI (1), PAOLO GUZZON (2), ROBERTA IGLIOZZI (1), (3),
ALESSANDRA TASSO (1), MARIA ROSA VALSECCHI (4)
(1) Facoltà di Psicologia, Università degli Studi della val d'Aosta
(2) Centro Santa Maria al Castello Fondazione Don C. Gnocchi
(3) IRCCS Stella Maris
(4) Fondazione Istituto Sacra Famiglia ONLUS, Cesano Boscone (Milano)
[email protected]
Introduzione
Per realizzare interventi efficaci nel caso di Disturbi dello Spettro Autistico (DSA), è fondamentale identificare
precocemente i bambini per i quali vi è sospetto di tale disturbo e che quindi richiedono una valutazione diagnostica
approfondita (Landa, Holman, & Garrett-Mayer, 2007). A tale scopo, è necessario disporre di strumenti di facile e veloce
somministrazione. In letteratura, sono disponibili vari test di screening ma nessuno sembra contraddistinto da elevata
capacità discriminante (ad es., Bryson, Rogers, & Fombonne, 2003). Recentemente è stata pubblicata la nuova versione delle
Scale Vineland (Vineland-II, Sparrow, Cicchetti, & Balla, 2005). Esse permettono di rilevare abilità adattive quali quelle di
tipo comunicativo e sociale che sono compromesse in bambini con DSA (ad es., Kraijer, 2000) e sono di facile e veloce
somministrazione. Quindi le Vineland-II potrebbero essere utilizzate durante i primi anni di vita nella valutazione di tutti i
bambini per identificare quelli che necessitano di ulteriori valutazioni. Ma, a tale scopo, è necessario verificare il grado in cui
tali scale riescono a differenziare bambini con DSA da pari con altro disturbo dello sviluppo. Varie indagini hanno rilevato la
capacità discriminante delle Vineland-I (ad es., Paul, Miles, Cicchetti, Sparrow, Klin, Volkmar, Coflin, & Booker, 2004),
mancano indagini analoghe per la nuova edizione. Per tale motivo, è stata verificata la validità delle Scale Vineland-II nel
discriminare due gruppi simili di bambini, dai tre ai sei anni di età, con diagnosi di disturbo autistico/PDDNOS (n = 32) o di
altro disturbo dello sviluppo non appartenente alla categoria dei DSA ma con caratteristiche ad essi simili (ad es., disturbo
del linguaggio, della regolazione; n = 22).
Metodo
Fra i due gruppi di partecipanti non vi erano differenze rispetto alle variabili età, genere, e livello di istruzione del padre e
della madre. Al contrario, i partecipanti con disturbo autistico/PDDNOS avevano competenze intellettive e linguistiche
statisticamente inferiori (rilevate con i test Leiter-R e Peabody-R rispettivamente). Tutti i bambini sono stati reperiti in centri
specializzati. Le diagnosi dei partecipanti e la loro classificazione nei due gruppi con DSA e con Altro Disturbo è stata
realizzata dai professionisti di tali strutture basandosi anche sull’esito della Scala ADOS. Allo scopo di disporre di punteggi
normativi per le Scale Vineland II, è stato selezionato un terzo gruppo costituito da 122 bambini dai tre ai sei anni di età, tutti
con sviluppo tipico.
Sia per i partecipanti con disturbo che per quelli con sviluppo tipico sono state compilate le Scale Vineland-II Survey Form
intervistando il caregiver e sono stati somministrati il test di intelligenza non verbale Leiter-R ed il test di comprensione
linguistica Peabody-R. Solo ai partecipanti con disturbo è stata somministrata la Scala ADOS. Chi ha somministrato le Scale
Vineland era all’oscuro dell’esito della Scala ADOS.
Risultati
107
Poiché i partecipanti con autismo/PDDNOS e altro disturbo non erano appaiati rispetto a livello intellettivo e di competenza
linguistica, è stato necessario calcolare punteggi ponderati delle Scale Vineland-II che esprimessero, per ciascun partecipante
con disturbo, la sua posizione rispetto alle attese per bambini con sviluppo tipico che hanno il medesimo livello intellettivo e
di competenza linguistica (Volkmar, Carter, Sparrow, & Cicchetti, 1993).
Allo scopo di individuare la combinazione di raggruppamenti di item Vineland II che meglio classifica i partecipanti nei due
gruppi con autismo/PDDNOS e con altro disturbo, è stata rilevata la capacità discriminante di ogni raggruppamento sia con
la ROC analyses (che permette di rilevare la probabilità di classificazione corretta) che con la regressione logistica (che
permette di rilevare la percentuale di partecipanti correttamente classificata). Quindi, sono state realizzate varie analisi
discriminanti con le possibili combinazioni di raggruppamenti con la migliore capacità di discriminare. In tale modo, è stato
rilevato che i raggruppamenti ottimali sono 1. Prime forme di linguaggio; 2. Esecuzione di istruzioni; 3. Gioco; e 4.
Espressione idee complesse. Essi consentono di classificare correttamente l’80% di tutti i partecipanti con disturbo ed in
particolare l’87% di quelli con DSA ed il 68% di quelli con altro disturbo.
Poiché le Scale Vineland-II hanno validità discriminante, si può sostenere che possono essere utilizzate come strumento di
screening dei DSA da utilizzare con tutti i bambini nei primi anni di vita. Ulteriore indagini con altri partecipanti anche di età
inferiore sono necessarie per confermare e generalizzare tali risultati.
DATI PRELIMINARI DELLA STANDARDIZZAZIONE ITALIANA DEL TOM STORYBOOKS
(BLIJD-HOOGEWYS, ET AL., 2003)
DANIELA BULGARELLI, FRANCESCA GIANOTTI, PAOLA MOLINA
Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino
[email protected]
Introduzione
Questo studio riguarda la validazione italiana del ToM Storybooks (Blijd-Hoogewys, et al., 2008), un test che valuta la
Teoria della Mente (ToM) nei bambini dai 3 agli 8 anni. Il test è basato sulla teoria di Wellman (1990) e prende in
considerazione diverse componenti della ToM (il riconoscimento delle emozioni, la differenziazione tra entità fisiche e
mentali, “vedere è conoscere”, il ruolo dei desideri, delle credenze e delle false credenze sulle condotte e sulle emozioni). Il
test è progettato secondo la prospettiva della Teoria dei Sistemi Dinamici (Ford & Lerner, 1992; Thelen & Smith, 1994; van
Geert, 2003), per cui offre più di una occasione di risposta per ogni singola competenza, garantendo quindi una valutazione
più affidabile e meno influenzata da aspetti contingenti delle singole prove. Esistono quattro diverse versioni parallele del
ToM Storybooks, basate sulla stessa struttura sottostante, consentendone un utilizzo longitudinale. Il test inoltre risulta poter
discriminare le prestazioni dei bambini autistici ad alto funzionamento da quelle di un campione a sviluppo normativo (BlijdHoogewys, et al., 2008) e quindi risulta particolarmente interessante per lo studio delle diverse componenti della ToM in
questo particolare tipo di popolazione.
Metodo
(1) Descrizione dello strumento: Il ToM Storybooks è formato da 6 libri illustrati, che propongono situazioni quotidiane per
valutare le componenti principali della ToM. La somministrazione richiede 40-50 minuti, ma il bambino ha la possibilità di
giocare con i libretti, aprendo finestrelle, applicando faccine, ecc.; è prevista una pausa dopo i primi 3 libri. Nel ToM
Storybooks le risposte richieste sono prevalentemente di tipo verbale, e vengono rilevate tramite 77 domande chiuse
(punteggio quantitativo) e 18 domande aperte (punteggio qualitativo), che formano, sommati, il punteggio totale. Nella sua
versione olandese, il test ha mostrato un’alta consistenza interna (alpha=.85, N=324), una buona affidabilità test-retest (r=.87,
p<.005, N=45) e una buona validità discriminante, differenziando significativamente i bambini con sindrome dello spettro
autistico ad alto funzionamento dal campione di controllo (M=80.26 versus M= 99.9, p=.001).
(2) Procedure: La traduzione italiana è stata svolta solo per la serie “Sam” del ToM Storybooks, a partire dalla versione
inglese messa a punto dagli autori stessi; l’adeguatezza della traduzione è stata verificata tramite una back-translation in
olandese del testo italiano (van de Vijver, Hambleton, 1996), poi discussa con i colleghi olandesi. Il test è stato
somministrato individualmente presso nidi, scuole materne ed elementari di Torino e Provincia. La raccolta dei dati è
avvenuta tra maggio 2005 e settembre 2007.
(3) Analisi dei dati: Il controllo interosservatore è stato svolto sulla codifica delle 18 risposte aperte, effettuata da due
osservatori (Bulgarelli e Gianotti) su 40 soggetti. I valori dei K di Cohen sono tutti significativi (P>.001), presentano una
media di .89 e variano da un massimo di 1.00 a un minimo di .534. I disaccordi sono stati discussi e risolti. La codifica degli
unici due item che presentavano un K inferiore a .85 è stata rivista su tutto il campione. Abbiamo verificato che i punteggi
del test discriminassero i bambini in base all’età e abbiamo calcolato i percentili di riferimento. Abbiamo controllato la
presenza di differenze in base al genere, la presenza di fratelli e il titolo di studio dei genitori. Infine abbiamo svolto un
confronto con il campione di standardizzazione olandese.
(4) Campione: Il campione è costituito da 204 bambini dai 3 agli 8 anni, 34 per ciascuna fascia di età, 17 maschi e 17
femmine. 138 bambini (70,8%) hanno fratelli e 54 di essi (27,7% del campione) sono primogeniti. Il livello di formazione
scolastica dei genitori è medio-alto (39% dei genitori sono diplomati e il 21% laureati).
108
Risultati
L’Anova univariata sul punteggio totale, con il confronto multiplo post-hoc di Duncan, ha evidenziato la presenza di 5
sottoinsiemi: ogni età presenta un punteggio che significativamente si differenzia da quello delle altre età, ad eccezione dei
bambini di 6 e 7 anni, che si configurano come un gruppo unico (il livello di significatività della differenza dei punteggi fra i
due anni è di .397). Non abbiamo rilevato differenze significative in base al genere (T-test: punteggio totale: maschi=60.53,
femmine=60,17, F=.333, p>.20), alla presenza di fratelli controllando per l’età (regressione gerarchica con età come primo
predittore: variabile “età”: t=18.224, p<.001; variabile “fratelli”: t=.867, p>.20), e al titolo di studio dei genitori (Anova
univariata: punteggio totale: media inferiore: 66.83, media superiore: 58.42, laurea: 60.55, F=2.83, p>.05). Il confronto dei
punteggi medi italiani con quelli olandesi ha mostrato punteggi medi sistematicamente inferiori nei bambini italiani, ma
questa differenza non è risultata significativa a 6 e a 8 anni di età (p>.05).
L'utilizzo dello strumento con bambini con disturbi dello spettro autistico è in via di sperimentazione anche nella
popolazione italiana.
109
Simposio 18
LE RELAZIONI TRA PARI DALL’INFANZIA ALL’ADOLESCENZA:
FATTORI ADATTIVI E MALADATTIVI
Proponenti: ELENA CATTELINO (1), SILVIA BONINO (2)
(1) Scienze della Formazione, Università della Valle d’Aosta
Centro Interuniversitario per la Ricerca sulla Genesi e lo Sviluppo delle Motivazioni Prosociali e
Antisociali, Università di Roma “Sapienza”
[email protected]
(2) Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino
Centro Interuniversitario per la Ricerca sulla Genesi e lo Sviluppo delle Motivazioni Prosociali e
Antisociali, Università di Roma “Sapienza”
[email protected]
Discussant: DARIO BACCHINI
Dipartimento di Psicologia, Seconda Università di Napoli
Centro Interuniversitario per la Ricerca sulla Genesi e lo Sviluppo delle Motivazioni Prosociali e
Antisociali, Università di Roma “Sapienza”
[email protected]
110
Presentazione
Le esperienze tra pari costituiscono fondamentali situazioni di crescita nel corso dell’intero ciclo di vita (Rutter, Rutter,
1992). All’interno di tali contesti bambini e adolescenti acquisiscono un ampio spettro di abilità, attitudini, competenze che
influenzano il loro adattamento psicosociale. I pari dunque rappresentano potenti agenti di socializzazione la cui influenza si
esercita sul benessere emotivo, sociale e cognitivo di bambini e adolescenti (Rubin, Bukowsky, Parker, 1998; Bonino, 2000;
Baumgartner, Bombi, 2005). Ciò è anche dovuto al fatto che, oggi più che in passato, questi vivono buona parte della
giornata in gruppi di coetanei più o meno ampi.
Se generalmente le relazioni con i coetanei rappresentano un fattore di protezione per lo sviluppo, tuttavia in numerose
situazioni e in periodi particolari della crescita, come quelli di transizione, il rapporto tra coetanei può contribuire a generare
disordine e problemi comportamentali anche gravi (Hanish, Martin, Fabes 2005), come quelli che sono inclusi nei fenomeni
di prepotenza e prevaricazione (per esempio il bullismo, le condotte antisociali e delinquenziali) o di isolamento sociale.
Solitamente all’aumentare dell’età decrescono i fenomeni di aggressione e vittimizzazione; tuttavia vi sono delle transizioni
evolutive nelle quali invece è più alto il rischio di stabilizzazione delle condotte aggressive e antisociali, così come di quelle
di isolamento.
Poiché le relazioni tra coetanei cambiano nel corso dello sviluppo, si modificano anche le potenzialità, adattive o disadattive
ad esse associate.
Il simposio qui presentato vuole in particolare approfondire la comprensione delle caratteristiche delle relazioni tra pari e la
loro influenza sui diversi percorsi di sviluppo: dall’età prescolare alla fanciullezza, dalla prima alla tarda adolescenza,
individuando, nei diversi momenti dello sviluppo, alcune peculiarità, gli antecedenti e i predittori sia dei percorsi a rischio sia
di quelli tipici.
ASPETTO FISICO E ADATTAMENTO SOCIALE IN ETÀ PRESCOLARE
ANNA DI NORCIA, ANNA SILVIA BOMBI, ELEONORA CANNONI, FABIO LUCIDI
Facoltà di Psicologia 2 - Università di Roma “Sapienza”
[email protected]
Introduzione
Diverse ricerche condotte su bambini in età scolare e su adolescenti hanno rilevato l’esistenza di una relazione tra il peso
eccessivo e il rischio di essere canzonati o isolati dai propri compagni, con tutte le conseguenze che questo tipo di
comportamento provoca a livello dell’autostima di chi li subisce. I bambini e gli adolescenti sovrappeso risultano presi in
giro (Hayden-Wade et al., 2005) e rifiutati dai pari (Strauss et al., 1985), più di quanto non accada per i loro coetanei
normopeso; in alcuni casi gli scherni degenerano in abusi e minacce di tipo verbale, fino a dare vita a veri e propri atti di
bullismo ripetuti nel tempo (Janssen et al., 2004).
Subire prepotenze o rifiuto potrebbe anche attivare nei bambini la tendenza verso comportamenti di ritorsione. Uno studio
recente condotto in Italia su bambini di scuola elementare (Cannoni et al., 2007) ha mostrato l’esistenza di una correlazione
positiva tra l’indice di massa corporea (BMI) degli esaminati e la messa in atto di comportamenti aggressivi, un dato
evidenziato anche in alcuni studi anglosassoni (Zeller et al. 2008).
Sul rapporto tra caratteristiche auxologiche e adattamento sociale in età prescolare, invece, si sa piuttosto poco, nonostante
l’evidente importanza di conoscere le eventuali difficoltà fin dal primo insorgere; del resto, proprio in età prescolare
prendono avvio numerosi programmi per la prevenzione dell’obesità (Bluford et al, 2007). Il nostro studio, pertanto, si
propone di verificare se i fenomeni di vittimizzazione e/o aggressività, associati al sovrappeso, rilevati nella fanciullezza e in
adolescenza, siano in realtà già presenti tra i bambini che frequentano la scuola dell’infanzia.
Metodo
Il campione è composto da 167 bambini, 75 maschi e 92 femmine tra i 3 e i 5 anni.
L’aspetto fisico è stato valutato rilevando peso e statura dei bambini; tali misure hanno successivamente permesso di
calcolare il Body Mass Index (BMI = peso del soggetto in kg/altezza in metri al quadrato). Le altezze e i BMI sono poi stati
normalizzati rispetto a genere e età (Cacciari et al., 2006).
L’adattamento sociale è stato misurato chiedendo a due delle insegnanti di ciascuna classe di stimare per ogni alunno la
frequenza di comportamenti indicativi di aggressività, prosocialità, vittimizzazione, isolamento, popolarità e rifiuto, su una
scala da 1 (mai/quasi mai) a 3 (tante volte).
I punteggi globali dei vari indici di adattamento sono stati calcolati sommando i punteggi dei singoli item e dividendoli per il
loro numero. Il punteggio finale per ogni indice è ricavato dalla media dei punteggi delle due insegnanti, successivamente
standardizzata per genere.
Allo scopo di avere un quadro più completo del livello evolutivo del bambino e eventualmente valutare l’intervento di altre
variabili sul rapporto tra aspetto fisico e adattamento sociale, abbiamo misurato il livello di sviluppo cognitivo dei bambini
somministrando le Matrici Progressive Colorate (CPM; Raven, 1947). Questo test è stato scelto in quanto fornisce, attraverso
una somministrazione piuttosto rapida, una stima delle abilità di ragionamento, considerate un buon indicatore del livello di
111
sviluppo cognitivo. I punteggi ottenuti sono stati standardizzati per fasce di età di sei mesi e correlati tramite r di Pearson con
i punteggi standardizzati delle valutazioni degli insegnanti e con il BMI.
Risultati
Le correlazioni iniziali mostrano un solo risultato significativo, ovvero la relazione positiva tra BMI e vittimizzazione (r =
.244; p<.01). Per poter interpretare meglio questo risultato abbiamo incrociato i punteggi dicotomici di vittimizzazione (0 =
assenza di vittimizzazione, 1= presenza di vittimizzazione) con quattro categorie di BMI, corrispondenti alla distribuzione
del BMI normalizzato divisa in quartili. Da questo incrocio è emerso che i bambini fisicamente più grossi sono i più
vittimizzati dai compagni (tau di Kendall = .196; p = .01- Chi2(1) linear by linear association = 5.843; p<.05).
In conclusione, anche tra bambini di età prescolare, sembra che l’aspetto fisico, valutato mediante l’indice di massa corporea,
possa influire sull’adattamento sociale: infatti i bambini con peso relativamente elevato (anche se non clinicamente obesi)
risultano i più vittimizzati dai compagni di classe. La più massiccia corporatura non implica, invece, a questa età un
maggiore ricorso ad azioni aggressive. Non si è inoltre rilevato alcun effetto di variabili cognitive.
Tali risultati sono molto importanti dal punto di vista applicativo. Infatti le difficoltà relazionali riconducibili all’aspetto
fisico possono influire negativamente sulla strutturazione dell’immagine di sé, all’interno della quale l’immagine corporea
riveste un ruolo di primo piano (Gardner et al., 1997; Strauss et al., 1985), creando delle problematiche tanto nell’infanzia
quanto nell’adolescenza e in età adulta (Grilo et al., 1994). Per questi motivi sarebbe dunque importante intervenire quanto
più precocemente per evitare l’insorgenza e la strutturazione di comportamenti disadattivi e la stigmatizzazione di bambini
sovrappeso (Latner e Stunkard, 2003).
IL FUNZIONAMENTO SOCIALE DEI BAMBINI NELLA SCUOLA DELL’INFANZIA:
PUNTI DI VISTA A CONFRONTO
EMMA BAUMGARTNER, ANNA SILVIA BOMBI, ELEONORA CANNONI, ANNA DI NORCIA.
Università di Roma “Sapienza”, Facoltà di Psicologia 2
[email protected]
Introduzione
Nella ricerca evolutiva, la competenza sociale, al pari di altri costrutti psicologici complessi, è stata definita in modi diversi,
a seconda dell’enfasi posta sulle abilità sociali (Mize e Ladd, 1990), oppure sulla popolarità (Parker et al. 1995), o ancora
sulle capacità di lettura delle informazioni sociali (Dodge, 1985).
Rubin , Bukowski, Parker (1998) definiscono la competenza sociale come “l’abilità di raggiungere obiettivi personali
nell’interazione mantenendo al tempo stesso relazioni positive con gli altri nel tempo e nelle diverse situazioni”. Il modello
assertivo della competenza sociale può essere integrato, ponendo maggiore attenzione agli aspetti relazionali, come
propongono Bombi e Cannoni (2000), definendo la competenza sociale come “la capacità di instaurare una rete sociale
sufficientemente ampia e differenziata, che includa sia rapporti con gli adulti che con i coetanei.” In questa prospettiva,
l’attenzione si sposta sulla capacità di stabilire e mantenere buoni rapporti, capacità di cui l’agire prosociale costituisce un
elemento chiave.
La prosocialità si manifesta precocemente, anche se le specifiche forme che assume dipendono da numerosi fattori
riguardanti i singoli bambini, le loro storie di relazione, gli atteggiamenti degli adulti significativi, genitori e insegnanti. A
questo proposito, dalle ricerche precedentemente condotte risulta che nella scuola dell’infanzia le insegnanti tendono a
sottovalutare il potenziale educativo rappresentato dalle condotte prosociali dei bambini, sottolineando, e quindi
implicitamente rinforzando, quasi esclusivamente i comportamenti negativi (Baumgartner, Pistorio, 2005; 2006). I bambini,
invece, apparivano informatori più affidabili della propria e altrui prosocialità, probabilmente per i diversi criteri che adulti e
bambini utilizzano nel valutare gli eventi sociali (Turiel, 2008).
Nell’indagine sul funzionamento sociale infantile, è necessario prevedere una pluralità di fonti di informazioni perché
soltanto attraverso il confronto tra diversi informatori si potrà ottenere una descrizione accurata dei fenomeni esaminati.
In questo studio sono state indagate le eventuali corrispondenze tra le valutazioni fornite dalle insegnanti e quelle fornite dai
bambini stessi: in particolare le valutazioni delle insegnanti sulle caratteristiche comportamentali e sociometriche dei
bambini sono state confrontate con le nomine e con le preferenze, attribuite e ricevute dai bambini stessi , per verificare il
grado di congruenza tra le valutazioni delle insegnanti e le scelte operate dai bambini.
Soggetti e procedure
Hanno partecipato alla ricerca 167 bambini di età compresa fra i 3 e i 5 anni, provenienti da diverse classi, e 24 insegnanti:
queste ultime hanno valutato i bambini tramite un questionario composto da 14 item relativi a prosocialità, aggressività,
vittimizzazione, popolarità e rifiuto. Ai bambini invece è stata somministrata una intervista semistrutturata sulle relazioni di
amicizia, che prevede, tra l’altro la nomina e la scelta dei compagni preferiti (Bombi, Bosco, Colantuono 2002).
E’ stato valutato il grado di accordo tra le insegnanti (2 per ogni classe) sulle diverse categorie , comportamentali e
sociometriche: la corrispondenza tra le classificazioni sociometriche, ricavate dalle valutazioni delle insegnanti, e le nomine
e le preferenze espresse dai bambini è stata esaminata tramite analisi di varianza ad una via.
112
Risultati
Sia per quanto riguarda le valutazioni comportamentali che quelle sociometriche, le insegnanti concordano in misura
rilevante sulle variabili negative ( aggressività vittimizzazione, rifiuto) (percentuale di accordo compresa tra il 74% e il 95%)
mentre l’accordo diminuisce notevolmente sulle variabili positive quali prosocialità (48%) e popolarità (41,7%). Dal
momento che non c’era variabilità nel tempo trascorso settimanalmente in classe dalle due insegnanti che hanno effettuato la
valutazione (tra le 25 e le 27 ore), non è stato necessario pesare l’effetto di questa variabile. Le nomine e le preferenze
espresse dai bambini si distribuiscono in modo significativamente diverso e coerente con la classificazione sociometrica
operata dalle insegnanti mentre le valutazioni comportamentali delle insegnanti si discostano dalle scelte espresse dai
bambini.
Conclusioni
I risultati del presente studio confermano la tendenza delle insegnanti a focalizzare la loro attenzione sugli aspetti negativi
piuttosto che su quelli positivi; d’altro canto si evidenzia che già all’età di tre anni i bambini sono testimoni attendibili circa
il funzionamento sociale del gruppo, perché le loro scelte si distribuiscono in maniera coerente con l’immagine dei gruppi
fornita dalle insegnanti. Tuttavia, per quanto riguarda i giudizi delle insegnanti sulle caratteristiche comportamentali dei
bambini e i criteri di preferenza sociale adottati da questi ultimi, non è stata verificata la congruenza attesa, un risultato
meritevole di ulteriori approfondimenti.
ECOLOGIA DEL BULLISMO IN CLASSE:
EFFETTI DEL SOGGETTO E DELLA RELAZIONE CON L’INSEGNANTE
ERSILIA MENESINI, VALENTINA DIANDA, ENRICA CIUCCI
Dipartimento di Psicologia – Università di Firenze
[email protected]
Introduzione
Il bullismo, definito come un comportamento aggressivo intenzionale e ripetuto tipico del contesto dei pari, è stato finora
studiato in relazione ai fattori individuali e alle influenze e ai ruoli sociali che si strutturano tra compagni. Sul versante
individuale, numerose ricerche hanno rilevato il peso dei fattori di personalità sottolineando come i bulli siano caratterizzati
da un profilo di aggressività generalizzata sia di tipo ostile che reattivo (Olweus, 1993; Camodeca e Gooseen, 2002), mentre
le vittime sono spesso caratterizzate da isolamento e rifiuto sociale e presentano caratteristiche di ansia ed insicurezza
(Hawker e Boulton, 2000). In relazione alla natura sociale del fenomeno si è evidenziato come i pari possono costituire un
rinforzo alla dinamica delle prepotenze non solo appoggiando il bullo durante le sue vessazioni ma anche ignorando il
problema o facendo finta di non vedere cosa succede in classe (Maines e Robinson, 1991; Menesini, 2000; Salmivalli et al.
1996).
In questa area è stata finora scarsamente considerata l’influenza dell’insegnante. In che misura l’atteggiamento e la relazione
tra insegnanti e alunni può influenzare i fenomeni di bullismo/ vittimizzazione? Quegli studi che si sono occupati
specificamente della relazione insegnante – allievo sottolineano come questa possa assumere aspetti importanti anche al di là
del semplice apprendimento e dello sviluppo delle capacità cognitive, andando ad influenzare la capacità dei bambini di
instaurare rapporti con i compagni o modificando le traiettorie orientate verso il successo o l’insuccesso degli alunni in
ambito scolastico (Bombi e Scittarelli, 1998; Pianta, 1999).
Il presente contributo, muovendo da un approccio ecologico e multifattoriale, intende esaminare all’interno di un modello
multivariato il peso del profilo comportamentale del soggetto e della qualità della relazione con l’insegnante in rapporto
all’incidenza dei fenomeni di bullismo e vittimizzazione in bambini di scuola primaria.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca169 soggetti, 85 femmine e 84 maschi delle classi 3°, 4° e 5° elementare di due città toscane.
Per la misura delle variabili da noi esaminate, sono stati utilizzati 3 diversi questionari: 1) il questionario sulle nomine dei
pari (Boulton e Smith, 1994; Fonzi, Ciucci, Berti e Brighi, 1996) per rilevare alcuni aspetti del profilo comportamentale dello
studente (aggressività reattiva, comportamenti di disturbo e isolamento sociale); 2) lo Student-Teacher Relationship
Questionnaire (STRQ; Murray e Greenberg, 2001; Tonci, 2006) per la misura della qualità della relazione con l’insegnante
che individua 3 scale: “legame”: alpha=0.67; “vicinanza”: alpha=0.83; “insoddisfazione”: alpha=0.67); 3) un questionario sul
coinvolgimento in fenomeni di bullismo/vittimizzazione che si compone di due scale: una scala di cinque item per la misura
delle prepotenze agite (alpha= 0.70) e una scala simile per quelle subite (alpha= 0.65) (Wolke e Samara, 2004; Menesini,
Camodeca e Nocentini, 2007).
Risultati
Sulla base delle correlazioni fatte in precedenza abbiamo effettuato due regressioni lineari multivariate utilizzando il metodo
a blocchi: nel 1° blocco abbiamo inserito il genere, nel 2° le variabili personali: “aggressività reattiva”, “comportamenti di
113
disturbo”, “non essere ricercato” e nel 3° la variabile “insoddisfazione verso l’insegnante”. In relazione al bullismo (varianza
spiegata=24%), il modello finale ha evidenziato un peso significativo dei comportamenti di disturbo ( =.27),
dell’aggressività reattiva ( =.17), e dell’insoddisfazione nei confronti dell’insegnante ( =.22). Nel caso della vittimizzazione
(varianza spiegata= 14%) i predittori significativi sono l’aggressività reattiva ( =.20) e la variabile comportamenti di
disturbo ( =.02).
Dai risulti emerge che in relazione al bullismo sia fattori di tipo individuale, che variabili di tipo più prossimale risultano
avere un ruolo significativo: in particolare l’insoddisfazione nei confronti dell’insegnante risulta contribuire
significativamente all’aumento dei fenomeni di bullismo, evidenziando come emergano possibili processi di rinforzo dei
comportamenti disadattivi tra pari a partire non solo dalla relazione con compagni, ma anche dalla relazione con
l’insegnante.
Sul fenomeno della vittimizzazione i nostri dati rilevano un’incidenza dei medesimi fattori individuali, ma in questo caso la
qualità percepita della relazione con l’insegnante non concorre a spiegare il fenomeno.
IL CONTRIBUTO DI AMICI E PARTNER ALLA PROMOZIONE DEL BENESSERE IN ADOLESCENZA
EMANUELA CALANDRI (1), ELENA CATTELINO (2)
(1) Dipartimento di psicologia, Università degli studi di Torino
(2) Scienze della Formazione, Università della Valle d’Aosta
[email protected]
Introduzione
La ricerca psicologica ha evidenziato il ruolo fondamentale svolto dalle interazioni coi coetanei per l’adattamento
psicosociale dell’individuo nel corso del ciclo di vita (Bombi, 2000; Tani, 2005) ed in specifico nei momenti di transizione
(Rutter, Rutter, 1992).
In particolare, in adolescenza si assiste ad una progressiva trasformazione e ridefinizione dei rapporti con i coetanei. In
questo periodo, la soddisfazione nelle relazioni coi pari è particolarmente importante per promuovere uno sviluppo dagli esiti
positivi (Hartup, 1993). Infatti, le relazioni d’amicizia intense e significative costituiscono per gli adolescenti un fattore di
promozione dell’adattamento psicosociale, di una maggiore stima di sé (Claes, 1992), di maggiori sentimenti di benessere
psicologico (Rabaglietti, Roggero, Settanni, Ciairano, 2007) e rappresentano un elemento protettivo nei confronti dei
sentimenti di malessere (Heaven, 1994).
Occorre comunque sottolineare che la funzione positiva per lo sviluppo svolta dai legami di amicizia dipende in gran parte
dal tipo di attività svolta con gli amici, dal grado di accordo tra i pensieri e le opinioni degli amici e quelli dei genitori,
nonché dal livello di convenzionalità degli amici stessi (Cattelino, Bonino, 1999; Mahoney, Larson, Eccles, 2005).
Durante l’adolescenza, inoltre, si avverte maggiormente il desiderio di vivere delle relazioni intime e si sviluppa la capacità
di realizzare relazioni amorose (Pombeni, 1997; Zani, 1997). La relazione d’amore spesso si integra con le relazioni con gli
amici più che sostituirsi ad esse (Cattelino, 2000).
A partire da tali premesse, il primo obiettivo di questo contributo consiste nell’analizzare alcuni aspetti relativi alla qualità
dei legami di amicizia in adolescenza; si tratta di un argomento che al momento risulta ancora poco indagato (Chen, Miller,
2004; Bukowski, Adams, Santo, 2006), soprattutto nel contesto italiano (Ciairano, Bonino, 2007). Tuttavia, sono proprio le
caratteristiche delle relazioni di amicizia (come la soddisfazione per il legame, il sostegno, il controllo, la fiducia, e
l’intimità) ad influenzare l’adattamento psicosociale degli adolescenti e quindi il loro benessere psicologico.
Il secondo obiettivo consiste nell’analizzare le relazioni fra pari considerando i legami di amicizia e i rapporti con un partner
non in forma isolata l’uno dall’altro, ma nella loro reciproca interazione e nella loro influenza congiunta sui sentimenti di
benessere e malessere psicologico degli adolescenti.
Metodo
I partecipanti alla ricerca sono circa 1000 adolescenti, bilanciati per genere, di età compresa tra i 14 e i 18 anni, frequentanti
la scuola secondaria di secondo grado del Piemonte e della Vale d’Aosta. Lo strumento utilizzato per la raccolta dei dati è il
questionario “Io, la scuola e il mio stile di vita” (Cattelino, Begotti, Bonino, 1999).
Il questionario contiene specifiche domande indaganti le caratteristiche dei legami di amicizia (come per esempio il numero
di amici, le attività condivise, la qualità del rapporto, il sostegno percepito) e le caratteristiche delle relazioni con il partner
(come per esempio il numero di appuntamenti, la stabilità del legame, il tempo trascorso insieme) oltre che una scala di
benessere e una di malessere psicologici.
I dati sono stati analizzati attraverso diverse analisi statistiche: le correlazioni, l’analisi della varianza modello Anova,
l’analisi della regressione multipla, a seconda degli obiettivi e dei livelli di scala delle variabili considerate.
Il questionario è stato somministrato ai ragazzi e alle ragazze a scuola, in forma anonima, da ricercatori appositamente
addestrati, in assenza degli insegnanti. La riconsegna del questionario compilato è stata immediata.
114
Risultati
Da una prima descrizione emerge come le relazioni positive con gli amici siano esperienza della maggior parte degli
adolescenti. La presenza o meno del sostegno costituisce un’importante caratteristica che differenzia il modo di vivere e di
percepire l’amicizia stessa. In particolare, esso è maggiormente presente nelle relazioni amicali delle ragazze e tra gli
adolescenti più grandi.
I primi risultati evidenziano come sia la buona qualità delle relazioni amicali sia le relazioni col partner aumentano
l’autostima e l’ottimismo nel futuro, e che il sostegno offerto dagli amici e la relazione stabile col partner promuovono la
fiducia nelle proprie capacità di affrontare le difficoltà ed il senso di autoefficacia. Al contempo le relazioni con gli amici
svolgono una funzione protettiva nei confronti del malessere psicologico, mentre la relazione col partner, pur promuovendo
il benessere, agisce in modo più circoscritto e differenziato nella riduzione dei sentimenti di malessere. In particolare
emergono differenze legate al genere e all’età che saranno oggetto di approfondimento in questo stesso contributo.
LA QUALITA’ DELLE RELAZIONI DIADICHE IN ADOLESCENTI TIMIDI E AGGRESSIVI
MARIA GRAZIA LO CRICCHIO, ALIDA LO COCO, CARLA ZAPPULLA
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Palermo
[email protected]
Introduzione
Nell’ambito della psicologia dello sviluppo, numerose ricerche (Ladd, 1990; McGuire & Weisz, 1982; Rubin et al., 1998;
Rubin et al., 2003) mostrano come le relazioni tra pari giochino un ruolo significativo nello sviluppo emotivo e sociale degli
adolescenti. L’amicizia, in particolare, è risultata associata allo sviluppo di capacità di perspective taking (McGuire & Weisz,
1982) e a livelli di autostima elevati (Bagwell, Newcomb, & Bukowski, 1998). Studi recenti (Brendgen, Vutaro & Bukowski,
2003; Ladd & Troop-Gordon, 2003; Rubin et al. 2005) focalizzano l’attenzione sulle relazioni amicali dei ragazzi aggressivi
e rifiutati e di quelli timidi e socialmente isolati. Nonostante, infatti, si sappia molto dei problemi di questi a livello
individuale e nel gruppo, ben poco si conosce a livello diadico. Gli studi evidenziano come l’amicizia, in tali casi, costituisca
un fattore protettivo, sia per il funzionamento psicologico che per l’adattamento, compensando le mancanze derivanti da un
rapporto non funzionale con il gruppo allargato (Burgess et al., 2006; Rubin et al., 2006). I timidi con amici risultano, ad
esempio, meno timidi, e caratterizzati da meno problemi internalizzanti rispetto a quelli senza amici (Ladd & Troop-Gordon,
2003; Parker & Seal, 1996). Resta, tuttavia, da valutare se gli adolescenti, aggressivi o timidi, siano capaci di formare e
mantenere rapporti amicali e, in caso affermativo, individuare quali caratteristiche psicologiche e comportamentali li
contraddistinguono.
Obiettivi
Sulla base di tali considerazioni, la presente ricerca si pone l’obiettivo generale di esaminare le caratteristiche
comportamentali degli adolescenti timidi e aggressivi e quelle dei loro amici. In particolare, si intende: a) verificare se
adolescenti timidi e aggressivi abbiano amici e se questi ultimi presentino caratteristiche a loro simili, sia nella valutazione
dei compagni che in quella degli insegnanti; b) analizzare il ruolo dell’amicizia quale fattore in grado di ridurre le
caratteristiche negative legate all’essere timidi o aggressivi.
Metodo
Partecipanti
973 adolescenti, equamente distribuiti per sesso, di età compresa tra i 10 e i 15 anni (età media= 12.03; d.s.= .47),
appartenenti a famiglie di status socio-economico medio che frequentavano la prima classe, nell’anno scolastico 2007-2008,
di diverse scuole medie di Palermo e provincia.
Misure
A tutti i partecipanti è stata somministrata, all’inizio dell’anno scolastico, la Friendship Nominations (Bukowski, Hoza &
Boivin, 1994) per l’individuazione delle coppie di amici e la versione estesa del Class Play (ECP; Burgess, et al., 2003) per
valutare la reputazione sociale di ciascun soggetto. Al fine di ottenere da parte degli insegnanti una valutazione sul
funzionamento emotivo e comportamentale dei soggetti è stata somministrata loro la Teacher-Child Rating Scale (T-CRS;
Highower et al., 1986). Infine, al gruppo totale dei soggetti, per verificare la stabilità nel tempo dell’amicizia è stata
somministrata a fine anno la Friendship Nominations.
Procedura
Sul gruppo totale di soggetti, in funzione del criterio di reciprocità alla nomina dell’amicizia e di un’analisi cut-off dei
punteggi al Class Play, sono stati individuati 130 (67 M, 63 F) timidi con amici e 79 (47 M, 32 F) senza e 161 (71 M, 90 F )
aggressivi con amici e 74 (46 M, 28 F) senza.
Risultati
Dall’analisi dei dati raccolti emerge come la maggior parte dei ragazzi timidi e aggressivi abbiano amici e come il legame tra
questi sia caratterizzato da stabilità nel tempo. I timidi e gli aggressivi, inoltre, scelgono prevalentemente come amici ragazzi
con caratteristiche loro simili. Sia i timidi che gli aggressivi non vengono valutati differentemente dai loro migliori amici, né
115
dai compagni, per ciò che riguarda capacità di leadership, prosocialità e livelli di rifiuto/vittimizzazione, né dagli insegnanti
nelle dimensioni rilevate dalla TCRS. Si sono riscontrate, inoltre, differenze significative tra soggetti con e senza amici. Per
ciò che riguarda i bambini timidi, quelli con amici sono giudicati dai pari come più leader e prosociali e meno
rifiutati/vittimizzati e dagli insegnanti come meno assertivi e con più problemi di apprendimento di quelli senza amici. Per
ciò che concerne i bambini aggressivi, quelli con amici sono giudicati dai pari come meno aggressivi e rifiutati/vittimizzati e
più leader e prosociali e dagli insegnanti come più capaci di orientamento al compito rispetto a quelli senza amici. I dati,
infine, mostrano un interessante risultato a seguito dall’analisi fattoriale della versione estesa del Class Play: emerge una
nuova dimensione, presumibilmente legata a fattori culturali tipicamente siciliani, denominata “Spacconeria”, che sembra far
riferimento ad una particolare forma di aggressività.
116
Simposio 19
LO SVILUPPO DELLE COMPETENZE DI SCRITTURA: INDICAZIONI DI
INTERVENTO PER LA SCUOLA PRIMARIA E SECONDARIA
Proponente: PIETRO BOSCOLO
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo - Università di Padova
[email protected]
Discussant: MARGHERITA ORSOLINI
Facoltà di Psicologia 2 - Università degli Studi di Roma 'La Sapienza'
[email protected]
117
Presentazione
Il tema che accomuna gli studi presentati in questo simposio è l’attenta analisi di condizioni e modi di intervento che possono
favorire il superamento delle difficoltà di scrittura dalla scuola primaria alla scuola secondaria di primo grado. I contributi si
collocano su una linea di continuità sia sul piano evolutivo, indagando lo sviluppo delle competenze alfabetiche in fasce
d’età successive, sia sul piano concettuale, ricoprendo i grandi temi della ricerca sull’alfabetizzazione: rapporto scritturalettura, intervento precoce per lo sviluppo delle abilità alfabetiche, relazione tra componenti cognitive e motivazionali nella
produzione del testo.
Il primo contributo illustra la relazione tra lettura e scrittura, mostrando come queste due attività siano tra loro legate in modo
significativo, sia a livello globale che per effetto di specifiche componenti, e suggerisce le possibili implicazioni di questi
risultati in ambito educativo. Il secondo contributo propone un confronto tra metodi diversi rivolti all’apprendimento delle
competenze ortografiche in alunni delle prime classi della scuola primaria, esaminando in particolare l’effetto che essi hanno
su scrittori con difficoltà di apprendimento per la lingua scritta. Il terzo contributo illustra come un intervento di istruzione,
centrato su aspetti motivazionali e cognitivi, migliori le capacità di produzione del testo e gli atteggiamenti verso questa
attività in poveri scrittori di scuola primaria e secondaria.
BRAVI SCRITTORI BRAVI LETTORI?
RAPPORTI TRA SCRITTURA E LETTURA ALL’INIZIO DELLA SCUOLA PRIMARIA
BEATRICE ACCORTI GAMANNOSSI, GIULIANA PINTO, CLAUDIO VEZZANI
Dipartimento di Psicologia, Università di Firenze
[email protected]
Introduzione
In età scolare apprendere il sistema alfabetico, nella sua duplice forma scritta e orale, riveste notevole importanza sia come
acquisizione in quanto tale, sia per l’essenziale mediazione che il codice linguistico svolge nell’apprendimento scolastico. In
questa prospettiva l’apprendimento scolastico richiede la piena efficienza delle funzioni linguistiche in quanto queste
assumono un doppio significato di mezzo preferenziale attraverso cui le competenze vengono assimilate e di codice
attraverso cui le nuove conoscenze vengono immagazzinate (Pinto, 2003).
Sul piano dell’apprendimento scolastico scrittura e lettura sono spesso considerate separate: mentre la lettura viene vista
dagli insegnanti come un’abilità multidisciplinare, la scrittura è considerata una disciplina di per sé. Sul piano della ricerca,
quella sui processi di lettura è stata più stimolata perché associata ai problemi educativi legati ai disturbi specifici di
apprendimento della lettura (Boscolo, 2007). Sebbene ricercatori e insegnanti riconoscano che bambini con difficoltà in
lettura tendono ad essere cattivi scrittori, pochi sono stati i tentativi di unire i due campi (Accorti Gamannossi, 2003).
Aspetti comuni a questi due ambiti sono stati individuati dai modelli che hanno studiato i processi di alfabetizzazione
emergente: in età prescolare, prima dell’insegnamento formalizzato di scrittura e lettura, il bambino comincia a costruire la
relazione tra orale e scritto mediante il padroneggiamento delle abilità di alfabetizzazione emergente (Whitehurst e Lonigan,
1998; Sénéchal, LeFevre, Smith-Chant e Colton, 2001; Pinto, Bigozzi, Accorti Gamannossi e Vezzani, 2008).
I modelli teorici che hanno preso in esame i rapporti tra scrittura e lettura nelle loro forme di competenza più avanzata ne
evidenziano l’interdipendenza mostrando come i bambini possano aumentare le proprie conoscenze in uno dei due ambiti
grazie ai risultati raggiunti nell’altro (Frith, 1985; Goswami e Bryant, 1990; Shanahan, 1997).
Questo studio si inserisce in tale prospettiva indagando il tipo di relazione esistente tra questi due agenti di alfabetizzazione
in un particolare momento evolutivo: la fine della prima classe elementare, quando cioè le competenze strumentali sono state
acquisite e il bambino inizia a padroneggiare scrittura e lettura come abilità di apprendimento e di studio per le discipline
scolastiche.
Metodo
Hanno partecipato 448 bambini (243 maschi e 205 femmine; età media: 5;9) frequentanti la prima elementare in cinque
Circoli didattici della provincia di Firenze. A tutti i soggetti sono state somministrate la batteria per la valutazione della
scrittura e della competenza ortografica nella scuola dell’obbligo (Tressoldi e Cornoldi, 1991) e le prove di lettura MT
(Cornoldi e Colpo, 1998). Per ogni soggetto sono stati calcolati gli indici di correttezza ortografica nelle prove di scrittura
(dettato di brano, dettato di frasi, descrizione di scena, scrittura di numeri) e di rapidità, correttezza e comprensione nella
lettura.
Preliminarmente, per confermare la struttura fattoriale delle prove, è stata condotta un’analisi fattoriale esplorativa e, a
partire dai risultati di questa analisi, è stata condotta un’analisi fattoriale confermativa per verificare la relazione tra scrittura
e lettura.
Risultati
L’analisi fattoriale esplorativa ha evidenziato, come atteso, l’esistenza di due fattori (scrittura e lettura) saturati in modo
significativo dalle variabili relative alle rispettive prove. L’analisi fattoriale confermativa ha consolidato il dato dell’esistenza
118
di una struttura bifattoriale riportando dei coefficienti di bontà dell’adattamento più che soddisfacenti (CFI = .96; SRMR =
.04) e ha evidenziato una correlazione significativa tra i due fattori (r = .79).
Conclusioni
I risultati del presente studio evidenziano l’esistenza di rapporti significativi tra scrittura e lettura che si esprimono sia a
livello globale che per effetto di loro specifiche componenti in un momento evolutivo che vede il primo consolidarsi di
queste competenze all’avvio della scuola primaria.
Questi dati avvalorano le necessità metodologiche di approfondire i rapporti tra scrittura e lettura nel continuum dei processi
di apprendimento: consentono infatti di discutere i legami di tipo causale tra scrittura e lettura, facendo riferimento da un lato
a un set di competenze comuni, dall’altro a un processo per cui il raggiungimento della padronanza di un determinato
processo in una delle due abilità permetterebbe un salto qualitativo anche nell’altra.
Tali risultati hanno importanti applicazioni anche in ambito educativo, in quanto scrittura e lettura sono insegnate insieme
nella scuola primaria ma non sempre con lezioni integrate e con uno scopo unitario (Boscolo, 2007). Alla luce dell’esistenza
di specifiche relazioni tra queste due variabili, sarebbe opportuno che gli insegnanti considerassero scrittura e lettura come
pratiche di alfabetizzazione piuttosto che come singole competenze.
SVILUPPO DELLE ABILITÀ DI TRASCRIZIONE IN BAMBINI DI LINGUA ITALIANA:
EFFICACIA DI TRAINING ORTOGRAFICI DIVERSI
BARBARA ARFÉ, BIANCA DE BERNARDI, MARGHERITA PASINI, FRANCESCA POETA
Dipartimento di Psicologia e antropologia culturale, Università di Verona
[email protected]
Introduzione
Il sistema alfabetico della lingua Italiana è caratterizzato da un pattern di relazioni suono-segno trasparenti, piuttosto regolari
e prevedibili. Grazie a questo, i bambini non incontrano solitamente grosse difficoltà ad apprendere le regole di
trasformazione fonema-grafema necessarie a scrivere. Esistono tuttavia eccezioni a questa regola, rappresentate da parole la
cui trascrizione è ambigua (es. genio e segno) o viola le regole di corrispondenza uno-a-uno: un suono corrisponde a due
grafemi (es. luglio), allo stesso suono corrispondono due varianti ortografiche (es. gola e ghiro), o due grafemi diversi (es.
cuore e quota) (Zoccolotti et al., 2005). Queste eccezioni sono generalmente all’origine delle difficoltà ortografiche che
incontrano i bambini italiani nei primi anni di scuola e costituiscono una fonte di difficoltà, in particolare per quei bambini
che hanno problemi di lettura e scrittura (Burani et al. 2006; Barca et al., 2006). Nei paesi di lingua anglosassone, dove
l'irregolarità del sistema ortografico pone questo problema più di frequente, l’uso di training che associno l’esame fonologico
della parola alla sua componente visiva si è dimostrato efficace (Berninger et al., 2008). Anche in paesi di lingua tedesca,
l'impiego di training visivi ha dato risultati positivi (Hell, 2003). Il presente lavoro aveva un duplice scopo: a) verificare
l'effetto di training ortografici a componente visiva e fonologica su bambini di lingua italiana del primo ciclo di scuola
elementare; b) verificare se un maggior esercizio su materiale ortografico complesso (a ortografia più irregolare o ambigua)
producesse benefici in misura superiore rispetto a un esercizio meno specificamente rivolto alle difficoltà ortografiche della
lingua italiana.
Metodo
Hanno preso parte allo studio 3 classi seconde e 3 classi terze elementari di un Istituto comprensivo della provincia di Como.
Complessivamente, 104 alunni: 54 di seconda (M=28, F=26) e 50 di terza elementare (M=30, F=20). Il pre-test, svolto
all'inizio dell'anno, ha valutato la prestazione nelle prove di dettato di parole e non parole (Batteria per la Valutazione della
Dislessia e Disortografia Evolutiva, Sartori et al., 1995) e dettato di brano (Batteria per la Valutazione della Competenza
Ortografica, Tressoldi & Cornoldi, 1991). Sulla base di questa valutazione iniziale, sono stati individuati 27 poveri scrittori
(16 in seconda, 11 in terza elementare), 49 scrittori nella media (30 in seconda e 19 in terza) e 26 buoni scrittori (8 in seconda
e 18 in terza).
I training. Le tre classi seconde e terze sono state destinate casualmente a tre diverse condizioni di training: copia visiva di
parole a ortografia complessa, dettato di parole a ortografia complessa, dettato di parole a ortografia semplice. In ciascuna
delle tre condizioni, una lista di 6 parole veniva dettata all'inizio di ogni lezione, per un totale di 9 lezioni (tre incontri
settimanali, per tre settimane). Nelle prime due condizioni di training veniva impiegata una lista di parole in prevalenza
complesse (lista A): 1/3 regolari e trasparenti, 2/3 con difficoltà e/o ambiguità ortografiche. Nella terza condizione, veniva
impiegata una lista di parole in prevalenza semplici (lista B: 2/3 ortograficamente regolari, 1/3 complesse), equivalenti per
lunghezza e frequenza a quelle della lista A. Nella condizione di copia, le parole della lista A erano presentate visivamente,
alla lavagna, osservate attentamente e memorizzate dai bambini, prima di trascriverle. Nelle altre due condizioni le parole
venivano presentate in forma uditiva, dettate dall'insegnante. Nel posttest le abilità di codifica ortografica dei bambini erano
nuovamente testate mediante le prove impiegate nella fase di pretest: dettato di parole e non parole e dettato di brano.
119
Risultati
Un confronto tra i punteggi ottenuti alle prove di dettato nel pretest ha consentito di verificare che le classi destinate alle
diverse condizioni di training non differissero in misura significativa nelle abilità oggetto del training. I risultati indicano per
le seconde, un generale beneficio del training visivo per la codifica ortografica di non parole [t (16)=5,83, p<.01], di parole [t
(17)=2,36, p<.05], e di brano [t (16)=2,19, p<.05]. Il gruppo sottoposto al dettato di parole complesse migliora nel dettato di
parole [t (16)=3,89, p<.01], e di brano [t (16)=4,31, p<.01], ma non nel dettato di non parole. Il gruppo sottoposto al dettato
della lista semplice migliora in tutti e tre i compiti [t (15)=4,86, p<.001; t (12)=3,64, p<.05; t (12)=3,24, p<.001]. Per le classi
terze, l'effetto dell'intervento è più marginale, e riguarda unicamente la scrittura di parole. In generale, gli scrittori in
difficoltà (poveri scrittori) traggono beneficio da tutti e tre i training, fatta eccezione per il dettato della lista complessa (lista
A) che risulta meno efficace per la prestazione relativa alle non-parole.
INSEGNARE IL TESTO NARRATIVO A STUDENTI CON DIFFICOLTÀ DI SCRITTURA:
UNA RICERCA-INTERVENTO
PIETRO BOSCOLO, LERIDA CISOTTO, CARMEN GELATI
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo; Dipartimento di Scienze dell’Educazione-Università di Padova
[email protected]
Introduzione
A vari livelli di scolarità gli insegnanti rilevano le difficoltà che gli allievi - in particolare, ma non esclusivamente, gli
immigrati – incontrano nella composizione scritta. Nella ricerca internazionale sulla scrittura a queste difficoltà si è cercato
di ovviare con tecniche di facilitazione procedurale (per es., Bereiter & Scardamalia, 1987) e con l’insegnamento di tecniche
di autoregolazione (Graham & Harris, 2005; Harris & Graham, 1996, 1999). Tali difficoltà tendono ad aggravarsi e hanno
effetti negativi sull’atteggiamento dei cattivi scrittori nei confronti della scrittura, sia per quanto riguarda la motivazione a
scrivere che l’autopercezione di competenza (Boscolo & Gelati, 2007; Hidi & Boscolo, 2006, 2007).
Obiettivo della ricerca è analizzare gli effetti di un intervento di istruzione sulla composizione del testo narrativo condotto
con studenti del quarto anno della scuola primaria elementare e del primo della scuola secondaria di primo grado. L’
intervento è stato progettato con un duplice obiettivo: migliorare le capacità di organizzazione del testo, da un lato, e
modificare positivamente l’atteggiamento degli studenti nei confronti della composizione scritta, dall’altro. Al termine
dell’intervento sul testo narrativo ci si aspetta quindi che gli studenti scrivano testi narrativi più corretti e meglio organizzati,
e che considerino lo scrivere più piacevole e difficile.
Metodo
Partecipanti
Hanno partecipato alla ricerca 173 allievi delle province di Padova e Verona: 85 del quarto anno della scuola primaria (M =
41, F = 44) e 88 del primo anno della scuola secondaria di primo grado (M = 41, F = 47). Gli studenti sono stati sottoposti a
due prove preliminari di scrittura narrativa: una cronaca personale (“Racconta una festa a cui hai partecipato recentemente”)
e un testo inventato (“Un campeggiatore pianta la tenda ai margini di una foresta e…”). E’ stata chiesta agli insegnanti di
italiano la valutazione della capacità di scrittura secondo la scala consueta (da ‘insufficiente’ a ‘ottimo’). I testi sono stati
analizzati in termini di correttezza (rapporto tra numero di errori e lunghezza del testo), coerenza e qualità espresse da un
punteggio olistico su una scala da 1 a 5.
Gli studenti i cui punteggi si sono collocati al di sotto del 33° percentile nei punteggi dei due testi e nella valutazione degli
insegnanti sono stati considerati allievi con difficoltà di scrittura, così distribuiti: 39 del quarto anno della scuola primaria (M
= 22, F = 17) e 37 del primo anno della scuola secondaria di primo grado (M = 20, F = 17), per un totale di 76 (M = 42, F =
34).
Misure prima dell’intervento.
Tutti i partecipanti hanno svolto i seguenti pre-test:
-Prova MT di comprensione della lettura
-Scrittura di una cronaca personale
-Scrittura di un testo inventato
-Prova di combinazioni di frasi (sentence combining: consiste nel proporre frasi semplici, ciascuna -conclusa da un punto,
che vanno combinate in periodi più complessi)
-Questionario di autopercezione di competenza narrativa
-Questionario di piacevolezza per l’attività di scrittura
Gli interventi
Gli interventi didattici, diversificati per livello di scolarità, sono stati condotti da due insegnanti esperti. Ciascun intervento si
è articolato in 6 incontri di 2 ore ciascuno, da ottobre a dicembre 2007, durante i quali gli studenti con difficoltà lavoravano
al di fuori delle classi di appartenenza.
Nella programmazione degli interventi sono stati tenuti presenti tre principi metodologico-didattici:
120
a) il rapporto lettura/ scrittura/ conversazione metacognitiva: analisi di testi narrativi, guidata da conversazioni
metacognitive, per arricchire il repertorio ideativo e le forme retoriche (lessico e modalità espressive), e per promuovere la
conoscenza degli elementi costitutivi delle storie e della loro organizzazione strutturale.
b) il laboratorio di scrittura: per migliorare le condizioni di contesto dello scrivere e rendere meno meccanico il rapporto con
la scrittura, potenziando gli aspetti della pro-cessualità, migliorandone la gestione e incrementando l’attitudine alla revisione
ricorsiva.
c) l’alternanza di lavoro collettivo, di gruppo e individuale: il lavoro collettivo è rivolto in particolare alla prima fase
dell’intervento, relativa all’esplorazione guidata dei testi. Il laboratorio di scrittura è rivolto invece nello specifico agli allievi
in difficoltà e prevede percorsi intensivi e mirati sulla scrittura, da condurre sotto forma di gestione individualizzata dei
processi tramite il lavoro di gruppo e individuale. La gestione collaborativa del compito, oltre ad avere un impatto
motivazionale positivo, consente una gestione distribuita del carico cognitivo e delle operazioni dello scrivere, mentre il tutor
esercita un’azione di scaffolding, avvalendosi in particolare della conversazione metacognitiva.
L’intervento ha incluso attività di pianificazione del testo, di trascrizione e di revisione (Hayes & Flower, 1980).
Misure dopo gli interventi
Al termine dell’intervento tutti i partecipanti hanno svolto i seguenti post-test:
-Scrittura di una cronaca personale
-Scrittura di un testo inventato
-Sentence combining
-Questionario di autopercezione di competenza narrativa
-Questionario di piacevolezza per l’attività di scrittura
Risultati
Dall’analisi delle prove di scrittura narrativa emerge un miglioramento nella coesione e organizzazione sia della cronaca
personale che del testo inventato, mentre il miglioramento della correttezza non è significativo. L’intervento sembra inoltre
influenzare positivamente la percezione di piacevolezza della scrittura narrativa, mentre non emergono differenze
significative tra prima e dopo l’intervento nell’autopercezione di competenza.
121
Simposio 20
COMPETENZA EMOTIVA TRA SVILUPPO AFFETTIVO, COGNITIVO E
SOCIALE
Proponenti: ILARIA GRAZZANI GAVAZZI , OTTAVIA ALBANESE
Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, Università degli studi di Milano-Bicocca
[email protected]
Discussant: DARIO VARIN
Università degli studi di Milano-Bicocca
[email protected]
122
Presentazione
Il costrutto di competenza emotiva ha ricevuto, negli ultimi anni, un interesse crescente per le implicazioni che esso offre alla
conoscenza dei diversi percorsi evolutivi. Tale costrutto, infatti, si riferisce a un insieme di abilità che riguardano la
comprensione, l’espressione e la regolazione delle emozioni in sé e negli altri e pertanto abbraccia un ampio spettro di
componenti, rilevanti per lo sviluppo psicologico. Tra di esse vi sono la consapevolezza delle proprie e altrui emozioni, la
capacità di riconoscere le emozioni degli altri utilizzando indici espressivi e situazionali appropriati, la padronanza del
lessico psicologico emotivo e l’abilità nell’usarlo durante gli scambi comunicativi, la capacità empatica, l’abilità di fare
fronte ad esperienze emotive di valenza negativa utilizzando adeguate strategie che intervengono sulla durata e intensità
emotiva, la gestione efficace degli scambi emotivi all’interno delle relazioni, la capacità di auto-regolazione emozionale, e
così via (Gordon, 1989; Saarni, 1999). Uno degli aspetti maggiormente indagati è stato quello della comprensione delle
emozioni nei bambini, che ha portato alla costruzione del Test di Comprensione delle Emozioni nella versione italiana
standardizzata (Albanese, Molina, 2008) dal TEC (Pons, Harris, 2000). Di recente, la ricerca si è rivolta allo studio dei
correlati dello sviluppo della competenza emotiva. Componenti del costrutto vengono, infatti, messe in relazione con aspetti
della competenza socio-affettiva e cognitiva. Obiettivo del simposio è raccogliere studi che si muovono in questa direzione,
attraverso la presentazione di ricerche con bambini di età compresa tra l’infanzia e la preadoelscenza. Alcuni di questi studi
sono stati svolti da ricercatori già impegnati nella validazione italiana del TEC, che hanno poi ampliato il loro ambito
d’interesse per abbracciare il tema delle competenze correlate alla comprensione delle emozioni o considerare altri aspetti
della competenza emotiva.
STRATEGIE DI REGOLAZIONE EMOTIVA E PATTERN DI ATTACCAMENTO
CRISTINA RIVA CRUGNOLA, CLAUDIA CAPRIN, SIMONA GAZZOTTI, LAURA BOATI
Dipartimento di Psicologia, Università di Milano-Bicocca
[email protected]
Introduzione
Lo sviluppo delle strategie di regolazione emotiva rappresenta un importante compito evolutivo per il bambino, a partire
dalle competenze autoregolatorie a sua disposizione fin dai primi mesi (Grolnick et al., 1996; Tronick, 1989, 2005). Tale
sviluppo appare connesso ai legami di attaccamento che il bambino forma nel primo anno di vita delineabili (Cassidy, 1994;
Sroufe, 1995) come stili di regolazione diadici costruiti in rapporto alle figure più significative e base degli stili di
regolazione delle ulteriori fasi evolutive (Siegel, 1999).
L’obiettivo del nostro studio è stato quello di rilevare eventuali differenze nelle strategie di regolazione adottate da bambini
con differenti pattern di attaccamento (Diener et al., 2002; Speranza et al., 2002; Riva Crugnola et al., 2007), a partire
dall’ipotesi che esistano differenze nelle strategie di auto e etero regolazione utilizzate da bambini con pattern di
attaccamento sicuro, insicuro ambivalente ed insicuro evitante, valutate nel secondo anno di vita.
Metodo
Soggetti
I soggetti sono 37 bambini (23 maschi e 14 femmine) di età compresa tra i 12 e i 18 mesi (età media di 13,916 mesi; ds =
2,026), di nazionalità italiana, senza patologie alla nascita. L’8,33 % delle famiglie dei soggetti ha un livello socioeconomico basso, il 61.11% medio e il 30.55% elevato. 32 bambini provengono da un progetto di ricerca sugli indicatori di
rischi precoci in una popolazione tipica coordinato da Riva Crugnola e 5 da un analogo progetto di ricerca di Tambelli
dell’Università di Roma La Sapienza. *
Procedura e analisi dei dati
Tutti i soggetti hanno preso parte al paradigma sperimentale della Strange Situation e sono stati valutati secondo il relativo
sistema di classificazione (Ainsworth et al., 1978). Sulla base di tale classificazione, i soggetti sono stati suddivisi in tre
gruppi: 20 bambini sicuri, 5 bambini insicuri ambivalenti, 12 bambini insicuri evitanti. Le Strange Situation sono state
analizzate da un giudice formato con apposito training (condotto da Alan Sroufe, Università del Minnesota).* Le strategie di
regolazione emotiva sono state valutate codificando le videoriprese della Strange Situation tramite l’Infant Regulatory
Scoring System (Tronick, Weinberg, 1996), con alcune modifiche a livello di categorie.
Risultati e conclusioni
L’applicazione del test non parametrico di Kruskal-Wallis con test esatto metodo Monte Carlo ha rilevato differenze
significative nelle frequenze dei comportamenti dei diversi gruppi nell’intera procedura sperimentale. I bambini sicuri hanno
adottato strategie di coinvolgimento sociale nei confronti dell’adulto più differenziate, privilegiando interazioni positive
( ²=5.863, p=.039), ad es. il riferimento sociale, verso la madre rispetto agli insicuri ( ²=8.576, p=.012). Gli insicuri
ambivalenti hanno mostrato invece rispetto agli altri gruppi un maggiore coinvolgimento sociale negativo verso l’adulto (
²=14.699, p<.001) con una maggiore presenza di pianto ( ²=13.677, p=.001), esprimendo coinvolgimento positivo
prevalentemente attraverso la ricerca di contatto fisico con la madre ( ²=11.427, p=.004) e con l’estraneo ( ²=5.616,
p=.050). Gli evitanti si sono differenziati per quanto riguarda l’orientamento verso l’ambiente in funzione regolatoria,
123
utilizzando maggiormente gli oggetti ( ²=6.555, p=.031) rispetto agli altri gruppi. Durante gli episodi di separazione dalla
madre, è risultato inoltre che i bambini sicuri ricercavano quest’ultima in misura maggiore rispetto a evitanti e ambivalenti (
²=7.286, p=.021).
Sono emersi risultati significativi anche dall’analisi per episodi; il test di Kruskal-Wallis ha rilevato, tra l’altro, nell’episodio
in cui il bambino è solo nella stanza, come i bambini evitanti utilizzino maggiormente il “parlare tra sé e sé” come forma di
regolazione ( ²=6.693, p=.034), rispetto agli altri gruppi.
In sintesi, l’analisi dei dati ha permesso di approfondire la descrizione degli stili di regolazione emotiva relativa ai diversi tipi
di attaccamento. In particolare, per quanto concerne le strategie di eteroregolazione, i bambini evitanti, adottando in minor
misura strategie di eteroregolazione, sia di tipo positivo che negativo, mostrano di minimizzare l’espressione delle emozioni
rispetto agli altri gruppi. I bambini sicuri per contro privilegiando con l’adulto l’interazione sociale positiva, e tuttavia
utilizzando, più raramente, anche il coinvolgimento negativo, si dimostrano capaci di esprimere una più ampia gamma di
emozioni anche in confronto agli ambivalenti che privilegiano strategie eteroregolatorie centrate prevalentemente sul
coinvolgimento negativo.
* Ringraziamo la Prof.ssa Renata Tambelli per i soggetti messi a disposizione per il presente lavoro e la Dott.ssa Samanta
Sagliaschi per la codifica delle Strange Situation.
IL FENOMENO DEL RIFERIMENTO SOCIALE NELLA RELAZIONE MADRE-PADRE-BAMBINO
ELENA VENTURELLI
Università degli Studi di Parma, Dipartimento di Psicologia
[email protected]
Introduzione
Il riferimento sociale è un processo comunicativo nel quale l’interpretazione di un’altra persona, di un evento o di un oggetto
considerati ambigui, viene “utilizzata” per formarsi una propria comprensione del medesimo evento e per regolare il
comportamento (Feinman, 1982; Klinnert et al., 1983). Questo fenomeno compare nei bambini negli ultimi mesi del primo
anno di vita.
Il riferimento sociale è un processo che coinvolge e combina diversi aspetti dello sviluppo: emotivo e comunicativo
(discriminazione e riconoscimento delle emozioni, reazione appropriata a tale emozione e successiva regolazione
comportamentale; Harris, 1989; Sroufe, 1996); intersoggettività (ricerca intenzionale del commento affettivo dell’altro;
Lavelli, 2007); cognitivo e metacognitivo (costruzione di conoscenze sulla realtà circostante; Feinman, 1992). In questo
senso, quindi, il riferimento sociale si rivela essere un fenomeno estremamente adattivo con una funzione di mediazione tra
l’esperienza emotiva interna e l’ambiente esterno contribuendo a costruire nel bambino quel senso di “sicurezza” (Bowlby,
1969) o quella capacità di “contenimento” (Bion, 1962) che garantiscono l’esplorazione del nuovo. Da una analisi della
letteratura disponibile emerge che, la maggior parte degli studi sull’argomento (Walden, Kim, 2005; Gunnar et al., 1984), si
sono focalizzati sulla diade bambino-madre; inoltre prevedono disegni sperimentali strutturati, dove il comportamento del
genitore viene rigidamente predisposto dal disegno sperimentale.
Obiettivo della presente ricerca è esaminare il fenomeno del riferimento sociale, analizzandolo nella sua forma spontanea e
all’interno di una dinamica triadica che consideri le interazione madre-padre-bambino. Infine, a partire dai risultati di
precedenti ricerche (Dickstein et al., 1988), si è interessati a rilevare l’esistenza di una relazione tra riferimento sociale e
grado di soddisfazione di coppia percepita da ciascun genitore.
Metodo
Soggetti
I soggetti sono 20 famiglie composte da padre, madre e figlio. I bambini sono 11 maschi e 9 femmine (età: 12-20 mesi, età
media: 15, 3 mesi).
La ricerca è stata condotta in laboratorio di osservazione, accessoriato di telecamere e specchio unidirezionale. Ogni triade è
stata osservata attraverso due fasi (-gioco libero della durata di 10 minuti, -riferimento sociale rilevato attraverso l’ingresso
di un oggetto sconosciuto dalle caratteristiche ambigue). Infine, i genitori compilavano un questionario sulla soddisfazione di
coppia (Gentili et al., 2002).
Procedura e analisi dei dati
L’osservazione delle famiglie è stata effettuata attraverso la videoregistrazione e la successiva codifica per intervalli (ogni 5
o 15 secondi in rapporto alla frequenza media di comparsa della categoria considerata). Le categorie di osservazione sono
state riprese e adattate da precedenti ricerche (Stenberg, 2003; Blackford et al., 1998;) e riguardano lo sguardo di riferimento,
le espressioni emotive e l’esplorazione dello stimolo per il bambino; le espressioni emotive, l’attenzione e le strategie
comportamentali per i genitori. La codifica è stata condotta da due osservatori indipendenti (il valore medio di K di Choen è
pari a 0,86).
124
Risultati e conclusioni
I dati sono stati analizzati attraverso i test di Mann-Whitney, test di Wilcoxon, test di Kruskal-Wallis. In continuità con i dati
presenti in letteratura, i risultati mostrano che tutti i bambini mettono in atto il riferimento sociale. Per quanto riguarda la
regolazione emotiva e comportamentale del bambino rispetto allo stimolo ambiguo, emerge una relazione significativa tra
l’avvicinamento del bambino e l’attenzione sia della madre [ 2(2)=6,59; p =.037], che del padre [ 2(2)=11,59; p =.003], i
genitori dei bambini che non si avvicinano al gioco ambiguo mostrano una minore attenzione verso lo stimolo stesso. Inoltre,
il comportamento di avvicinamento del bambino allo stimolo risulta essere in relazione sia alle espressioni emotive positive
[ 2(2)=11,84; p =.003], sia a quelle negative [ 2(2)=10,53; p =.005] del bambino stesso; non solo, i bambini che si avvicinano
mostrano maggiori espressioni positive e minori espressioni negative rispetto ai bambini che non si avvicinano, ma questa
relazione tra comportamento espressivo e comportamento di avvicinamento riguarda anche la precedente situazione di gioco
libero [ 2(2) =9,14; p =.010] in cui lo stimolo non è ancora presente. Infine, dai risultati relativi alla soddisfazione di coppia
della madre, emerge un effetto sul riferimento sociale del bambino al padre [ 2(2)=0,80; p =.012], i bambini, le cui madri
hanno una maggiore soddisfazione di coppia, mostrano un maggiore riferimento sociale al padre. Alla luce di questi risultati,
il riferimento sociale potrebbe essere considerato non tanto un fenomeno a sé stante, che compare ad un certo punto dello
sviluppo, quanto una forma di comunicazione che si inserisce nel più ampio dialogo emotivo tra madre, padre e bambino.
LESSICO PSICOLOGICO EMOTIVO E COMPRENSIONE DELLE EMOZIONI:
UN TRAINING STUDY CON BAMBINI DI ETÀ PRESCOLARE
VERONICA ORNAGHI, ILARIA GRAZZANI GAVAZZI
Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, Università degli studi di Milano-Bicocca
[email protected],
[email protected]
Introduzione
Il presente lavoro si inserisce all’interno di un progetto di ricerca sulla relazione fra lessico psicologico e sviluppo della
teoria della mente (Astington, Baird, 2005; Lecce, Pagnin, 2007), finalizzato a indagare l’effetto che l’uso del lessico
psicologico, attraverso un training con giochi linguistici, produce sulla comprensione degli stati mentali da parte di bambini
in età prescolare (Nelson, 2007). In questo contesto, presentiamo una parte della ricerca, focalizzandoci sul legame fra
lessico psicologico emotivo (ad es., essere arrabbiati, spaventarsi) e comprensione delle emozioni, due importanti aspetti
della competenza emotiva. Il principale obiettivo del lavoro è di verificare se, stimolando i bambini all’uso di tale lessico, e
non solamente esponendoli ad esso con l’ascolto di storie (Peskin, Astington, 2004), si favorisca lo sviluppo della loro
comprensione delle emozioni. Pons et al. (2004) hanno individuato nove componenti di tale comprensione, che riguardano la
comprensione della natura, delle cause e della regolazione delle emozioni. Inizialmente i bambini si focalizzano sugli aspetti
esterni delle emozioni, in seguito ne comprendono gli aspetti mentali e, infine, essi divengono in grado di riflettere sulle
strategie di regolazione emotiva. Seguendo questo modello evolutivo, ci si aspetta che i bambini partecipanti al training
sull’uso del lessico psicologico emotivo (gruppo sperimentale) ottengano, nella fase di re-test, punteggi significativamente
superiori rispetto ai bambini del gruppo di controllo. Inoltre, si ipotizza di non trovare differenze significative fra maschi e
femmine.
Metodo
Partecipanti
Hanno preso parte alla ricerca 102 bambini di Milano e provincia divisi in tre gruppi di età equamente distribuiti rispetto alla
variabile genere: 34 bambini di 3 anni (età media: 3 anni e 4 mesi; d.s.: 3,5), 36 bambini di 4 anni (età media: 4 anni e tre
mesi; d.s.: 2,9), e 32 bambini di 5 anni (età media: 5 anni e 3 mesi; d.s.: 3,4). Ciascun gruppo d’età è stato suddiviso in
gruppo sperimentale e gruppo di controllo. I partecipanti, di madrelingua italiana, non presentavano deficit linguistici o
problemi psicologici.
Materiali, procedura e codifica dei dati
La ricerca si è svolta in tre fasi: test, training e re-test. Durante la prima fase (test), a tutti i soggetti è stato somministrato
individualmente il TEC (Test of Emotion Comprehension; Pons, Harris, 2000), finalizzato a valutare la comprensione della
natura, delle cause e della regolazione delle emozioni. Nella seconda fase, per due mesi e con cadenza bi-settimanale, a tutti i
bambini, in piccolo gruppo (circa 6/7 bambini per gruppo), sono state lette storie illustrate appositamente arricchite di lessico
psicologico. Durante ogni incontro, al termine della lettura della storia i bambini del gruppo sperimentale partecipavano a un
training sull’suo del lessico psicologico tramite giochi linguistici (usando la tecnica del ‘lancio della parola’, Ciceri, 2002),
finalizzati a stimolarli ed allenarli ad utilizzare termini mentalistici emotivi; i bambini del gruppo di controllo, invece, al
termine della storia, si dedicavano ad attività di gioco libero.
Dopo circa due settimane dal termine del training, tutti i bambini sono stati nuovamente testati mediante il TEC. Sulla scorta
dello schema di codifica proposto da Pons e Harris (si veda inoltre Albanese, Molina, 2008) le risposte sono state codificate
in modo da ottenere punteggi parziali alle dimensioni o scale esterna, mentale e riflessiva, e un punteggio globale di
comprensione emotiva.
125
Risultati
I dati sono stati analizzati applicando il T-test per campioni indipendenti. Confrontando i punteggi medi ottenuti dai bambini
prima del training, non sono emerse differenze statisticamente significative fra i livelli di partenza dei gruppi sperimentale e
di controllo. Le analisi relative ai punteggi ottenuti al re-test hanno confermato le ipotesi di partenza, mostrando differenze
statisticamente significative in favore del gruppo sperimentale a 3, 4 e 5 anni. Per quanto riguarda i bambini di 3 anni, i
partecipanti del gruppo sperimentale hanno ottenuto punteggi medi significativamente superiori sia nel punteggio globale (t =
2,9; df = 32; p = .009), sia nella scala esterna (t = 3,5; df = 32; p = .001). A 4 anni, i bambini del training migliorano in tutte
le componenti della comprensione delle emozioni, in particolare nella sottoscala mentale (t = 2; df = 34; p = .06). Inoltre,
anche nel gruppo dei bambini di 5 anni, emergono differenze statisticamente significative rispetto alla dimensione mentale
in favore del gruppo sperimentale (t = 2,7; df = 30; p = .010). Infine, in linea con la letteratura, non sono emerse differenze
statisticamente significative in funzione del genere. I risultati della ricerca mostrano l’effetto che un training sull’uso del
lessico psicologico emotivo è in grado di produrre sullo sviluppo della comprensione delle emozioni.
MIND-MINDEDNESS E SVILUPPO DELLA COMPRENSIONE DELLE EMOZIONI
CATERINA FIORILLI (1), SIMONA DE STASIO (2), CARLO DI CHIACCHIO (3)
(1) Università degli Studi di Milano - Bicocca
(2) IUSM, Roma
(3) Invalsi
[email protected]
Introduzione
Lo sviluppo della comprensione delle emozioni è stato oggetto di un considerevole numero di ricerche nate nella cornice
teorica degli studi sulla “teoria della mente” (Astington, Harris, Olson,1988; Harris, 2000; 1989). I bambini, sin dalla prima
infanzia, sono in grado di riconoscere emozioni semplici e complesse, considerare l’interazione tra stati mentali ed eventi
esterni, attribuire correttamente le emozioni agli altri tenendo insieme dimensioni complesse come desideri, memoria e
regole sociali (Pons, Harris, 2000; Harris, 1989; 2000). Le abilità che consentono l’acquisizione progressiva della
comprensione emotiva nella cornice teorica di Pons ed Harris (2000) si intersecano e si sovrappongono con la più generale
comprensione socio-cognitiva di cui, la riflessione sugli stati mentali propri ed altrui, ne rappresenta un aspetto saliente.
Gli studi che si sono occupati delle espressioni verbali riferite agli stati interni, definite anche lessico psicologico, hanno
analizzato sia le esperienze pregresse dei bambini, verbali e relazionali, in seno alla famiglia (Brown, Brown, Beardsall,
1991; Dunn, Brown, Slomkowski et al., 1991; Ontai, Thompson, 2002); sia il legame con la più generale comprensione
socio-cognitiva dei bambini (Carpendale, Lewis, 2004; Bartsch, Wellman, 1995; de Rosnay, Pons, Harris, Morrell, 2004;
Meins et al., 1998; 2002; Symons, 2004).
La prospettiva da cui parte lo studio presentato trae origine dai lavori sviluppati da Meins et al. (2006) sul lessico psicologico
valutato in bambini in età scolare attraverso la richiesta di descrizione del migliore amico.
Obiettivi e ipotesi
Lo studio qui riportato si propone di analizzare in bambini in età scolare il rapporto tra la mind-mindedness, intesa come
propensione ad attribuire stati mentali interni e la capacità di comprendere le emozioni. L’abilità di descrivere in termini
mentalistici presuppone una capacità riflessiva che molto ha in comune con le competenze necessarie al superamento delle
prove proposte con il TEC(test of emotion comprehension) (Pons e Harris, 2000).L’obiettivo della ricerca è di indagare il
legame tra la comprensione delle emozioni, in particolare nelle sue componenti mentali e riflessive, e l’uso di termini mentali
e riflessivi attraverso il compito di descrizione del migliore amico (mind-mindedness task).E’ stato inoltre verificato l’effetto
dell’età e del sesso.
Metodo
Partecipanti
Hanno partecipato alla ricerca 120 bambini dai 6 ai 9 anni di due scuole elementari di Roma e Milano. La loro età media è di
M= 7.1 (d.s.= 1.19). Tutti i bambini sono di lingua italiana, provengono da un ambiente socio-culturale medio e non
presentano problemi di apprendimento e/o comportamentali segnalati.
Procedura
A tutti i bambini è stato somministrato individualmente il TEC (Pons e Harris, 2000) e il compito di mind-mindedness
secondo le procedure e norme proposte da Meins et al. (2006). I test sono stati proposti random in due distinti momenti della
vita scolastica.
126
Analisi dei dati
L’associazione tra comprensione delle emozioni e l’uso di termini mentali e riflessivi attraverso il compito di descrizione del
migliore amico è stata analizzata con la Rho di Spearman.
La relazione tra mind-mindedness, età e sesso è stata indagata attraverso il test del chi quadrato.
La capacità mentalistica è stata ulteriormente analizzata effettuando un’analisi del contenuto dei protocolli di bambini
intervistati. Sono stati calcolati indici qualitativi della connotazione affettiva
(Losito, 2003).
Risultati
Analisi preliminari evidenziano una correlazione positiva tra l’abilità dei bambini di descrivere il miglior amico nelle sue
caratteristiche mentali e riflessive e la competenza emotiva (Rho= .396, p<.01). In particolare la componente riflessiva del
TEC risulta avere una correlazione più elevata con il compito di MM (Rho = .359, p<.05).
I risultati evidenziano empiricamente l’esistenza di una moderata relazione di proporzionalità diretta tra componenti
riflessive e indice di mentalizzazione nei bambini, la capacità di attribuire stati mentali all’altro cresce di pari passo con
l’abilità di fronteggiare aspetti emotivi più complessi legati a divieti morali ed ambivalenza.
In linea con gli studi di Meins et al. (2006) i bambini non manifestano differenze legate all’età e al sesso nel compito di MM.
Sembra che la sofisticata capacità di riflettere sugli stati emotivi che sottende una capacità di mentalizzazione, non sia usata,
così come operazionalizzata nel compito ideato dalla Meins, dai bambini per descrivere il migliore amico.
Interessanti riflessioni ,infine, scaturiscono dall’analisi qualitativa del testo dei protocolli del compito di MM e dagli indici
qualitativi della connotazione affettiva.
MISURARE IL RICONOSCIMENTO DELLE EMOZIONI IN BAMBINI DI SCUOLA ELEMENTARE
ENRICA CIUCCI (1), ANNALAURA NOCENTINI (2), PAMELA CALUSSI (1)
(1) Dipartimento di Psicologia –Università di Firenze
(2) Centro Interuniversitario per al ricerca sulla genesi e sullo sviluppo delle motivazioni prosociali e antisociali –
Università di Roma “La Sapienza”
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi decenni, a partire dal costrutto di competenza emotiva (Denham, 1998; Grazzani Gavazzi, 2004; Saarni, 1999,
2000), lo studio delle emozioni ha ricevuto un notevole impulso, sia nella direzione di individuare i processi in congiunzione
ad altre aree dello sviluppo, sia nell’individuare nuovi metodi di misurazione. Un’abilità della competenza emotiva è la
capacità di riconoscere le emozioni utilizzando indici di natura verbale e non verbale. Se il volto fornisce elementi
fondamentali per distinguere le emozioni, i gesti o la postura forniscono informazioni sull’intensità dell’emozione stessa.
Uno strumento che valuta la capacità di identificare le emozioni di base a partire sia da espressioni facciali sia da indici
posturali è il DANVA2 (The Diagnostic Analysis of Nonverbal Accuracy, di Nowicki e Duke, 1994). In un precedente
lavoro, su un piccolo campione di prima e seconda elementare, (Ciucci, Menesini, 2006) era stata verificata la coerenza
interna dello strumento. Visti i risultati sufficientemente promettenti, ci è sembrato interessante indagare su un campione più
ampio di scuola elementare la struttura fattoriale del DANVA2, le eventuali differenze di genere ed età e la relazione tra il
DANVA2 e il test di Ekman e Friesen (1975) e il Tec (Test of Emotion Comprehension) (Pons e Harris, 2000; versione
italiana: Albanese, Molina, 2008).
Metodo
I partecipanti alla ricerca sono 855 soggetti (422 maschi e 433 femmine) frequentanti il primo e secondo ciclo della scuola
elementare. Su un sottogruppo di 282 soggetti (124 maschi e 158 femmine) è stata verificata la relazione tra DANVA2 e il
test di Ekman e Friesen (1975); su un diverso sottogruppo di 103 soggetti (48 maschi e 55 femmine) è stata verificata la
relazione tra DANVA2 e TEC.
Il DANVA2 è composto da foto di espressioni di volti di adulti (DANVA2-AF) e di bambini (DANVA2-CF) e posture di
adulti (DANVA2-POS) relativi a felicità, tristezza, rabbia, paura. I primi due test consistono di 24 fotografie con un uguale
numero di volti maschili e femminili, ad alta e bassa intensità (Nowicki e Carton, 1993); il test delle posture è stato utilizzato
nella versione ridotta a 12 item con un uguale numero di posture in piedi e sedute, rappresentate sia da maschi che da
femmine. Il test di Ekman e Friesen è composto da 24 fotografie (più 2 di prova), raffiguranti le espressioni facciali di adulti
relative alle emozioni di felicità, tristezza, paura, rabbia, sorpresa e disgusto. Le emozioni sono espresse da quattro attori, due
maschi e due femmine. Il tempo di esposizione delle foto è stato di 2 secondi per il DANVA2 e di 10 secondi per il test di
Ekman e Friesen, in accordo con le istruzioni degli autori. E’ stato assegnato 1 per ogni riconoscimento corretto e 0 per ogni
errore. Relativamente al TEC abbiamo utilizzato soltanto la scala relativa alla componente ESTERNA che fornisce una
misura del riconoscimento delle emozioni di base. Gli strumenti sono stati somministrati individualmente e in ordine
controbilanciato.
127
Risultati
E’ stata condotta un’analisi fattoriale confermativa sui 60 item che compongono il DANVA2. Le analisi hanno evidenziato
una struttura fattoriale di secondo ordine, confermando la struttura teorica degli autori. Ognuno dei fattori di secondo ordine,
DANVA2-AF, DANVA2-CF e DANVA2-POS, è risultato composto dalle 4 emozioni, misurate attraverso 6 item per i volti,
e 3 per le posture. La struttura fattoriale ha mostrato adeguati indici di FIT, con saturazione media di .71; i coefficienti di
KR-20 hanno mostrato accettabili valori per DANVA2-AF (.68) e DANVA2-CF (.80), ma valori non adeguati per
DANVA2-POS (.52). Per tale motivo, nelle analisi successive sono stati presi in esame soltanto i primi due fattori. Le analisi
descrittive non hanno evidenziato differenze di genere, ma di età: i bambini che frequentano le classi di livello più alto
presentano punteggi maggiori di riconoscimento dei volti di adulti e di bambini. DANVA2-AF e DANVA2-CF correlano
con il punteggio complessivo al test di Ekman e Friesen rispettivamente di .33 e .34 (p<.01) e con la sottoscala del TEC di
.28 (p<.01) e .21 (p<.05).
In conclusione, nel nostro campione il DANVA2 ha mostrato una maggiore affidabilità e coerenza interna relativamente ai
fattori del riconoscimento delle emozioni attraverso i volti di adulti e di bambini, mentre ha rivelato un’insufficiente
affidabilità riguardo alle posture come già evidenziato dal precedente studio. Le correlazioni positive tra le scale del
DANVA2 e la scala del riconoscimento delle emozioni del TEC e il test di Ekman e Friesen supportano la validità dello
strumento da noi preso in esame.
T.E.C. E TOM STORYBOOKS: UNO STUDIO DI VALIDITÀ CONCORRENTE
PAOLA MOLINA, DANIELA BULGARELLI, LAURA ARATI
Dipartimento di Psicologia, Università di Torino
[email protected]
Introduzione
La nostra ricerca si propone di valutare la validità concorrente tra il T.E.C. (Pons & Harris, 2000; Albanese & Molina, 2008)
e il ToM Storybooks (Blijd-Hoogewys, et al., 2003). Il T.E.C. (Test di Comprensione delle Emozioni) consente di valutare la
comprensione delle emozioni in bambini dai 3 agli 11 anni. Esso si articola in nove componenti che riguardano la
comprensione emozioni (di base e miste), la comprensione delle cause delle emozioni (cause esterne, ricordi, desideri,
credenze e valori morali) e la comprensione della possibilità di controllo dell’espressione delle emozioni (distinzione tra
emozione apparente e provata, e regolazione dell’esperienza in corso). Il ToM Storybooks, invece, è un test che valuta la
Teoria della Mente in bambini dai 3 agli 8 anni. Esso è basato sulla teorizzazione di Wellman (1990) relativamente alla
comprensione degli stati mentali, per cui prende in considerazione le diverse componenti della ToM, attraverso prove
riguardanti il riconoscimento delle emozioni, la differenziazione tra entità fisiche e mentali, “vedere è conoscere”, desideri,
credenze e false credenze; ed è progettato secondo la prospettiva della Teoria dei Sistemi Dinamici (Ford & Lerner, 1992;
Thelen & Smith, 1994; van Geert, 2003), per cui offre più di una occasione di risposta per ogni singola competenza e ne
esistono diverse versioni parallele basate sulla stessa struttura sottostante, in modo da consentirne un utilizzo longitudinale.
Nel complesso, queste caratteristiche rendono il ToM Storybooks uno strumento innovativo.
La nostra ricerca, quindi, propone un confronto tra il ToM Storybooks e il T.E.C., poiché i due strumenti valutano
competenze in parte sovrapponibili, e la comprensione delle emozioni e la ToM sono aspetti complementari, sebbene
differenti, della competenza sociale dei bambini. I due strumenti si presentano entrambi come libri di storie, che il bambino
legge insieme all'adulto, con alcune domande a cui deve rispondere. Le modalità di risposta, oltre che il disegno generale
degli strumenti, sono però molto diverse: nel TEC, concepito per una rapida somministrazione, le singole componenti sono
valutate ciascuna da un singolo item, e si chiede al bambino di indicare con il dito l’espressione facciale appropriata, quindi
la risposta è tipicamente di tipo non-verbale. Nel ToM ogni aspetto indagato è valutato da più di un item, le risposte richieste
al bambino sono prevalentemente di tipo verbale, e vengono rilevate sia tramite domande aperte (punteggio qualitativo) che
domande chiuse (punteggio quantitativo), che formano, sommati, il punteggio totale.
Metodo
I due test sono stati somministrati a 60 bambini dai 3 agli 8 anni (10 per fascia di età), bilanciati per genere; l’intervallo di
tempo intercorso tra la somministrazione dei due test non ha mai superato le due settimane e l’ordine di somministrazione dei
test è stato casualizzato e bilanciato. Il campione è stato reperito presso in un nido, tre scuole materne e due scuole
elementari della Città di Torino e Provincia e rappresenta una parte dei campioni di standardizzazione italiana dei due test. I
dati sono stati raccolti tra maggio 2006 e maggio 2007.
Risultati
I punteggi al T.E.C. e al ToM Storybooks correlano con l’età (T.E.C.: rho=.784, p<.001; ToM Storybooks: r=.810, p<.001 –
rho=.795, p<.001) e non vi sono differenze significative tra essi e i rispettivi campioni normativi (T-test: T.E.C.: F=.192,
p>.20; ToM Storybooks: F=.181, p>.20). Come nei rispettivi campioni normativi, non abbiamo riscontrato differenze rispetto
al genere (T-test: T.E.C.: F=.515, p>.20; ToM Storybooks: F=1.182, p>.20) e le differenze legate alla presenza o meno di
128
fratelli, pur significative, scompaiono però se si tiene conto dell’effetto dell’età. I punteggi totali dei due test differenziano
significativamente le performance dei bambini tra i gruppi di età (Anova: T.E.C.: F=21.30, p<.001; ToM Storybooks:
F=24.00, p<.001; vedi tabella 2) e crescono regolarmente con l’età: l’unica eccezione è costituita dai punteggi al T.E.C. dei
bambini di 6 che sono leggermente superiori a quelli dei bimbi di 7 anni. Le prestazioni complessive dei bambini ai due test
correlano in modo molto soddisfacente (rho=.78, p<.01), anche controllando per l’età (rho=.37, p<.01). Anche le correlazioni
di ogni singola competente del T.E.C con il punteggio totale al ToM Storybooks sono buone e sempre significative
(.67<rho<.39, p<.01) ad accezione della componente 9 (rho=.25, p>.05). L’analisi di regressione sui punteggi totali dei test
ha evidenziato un contributo reciproco significativo, che conferma che essi valutano una competenza in parte sovrapponibile.
STILI DI ATTACCAMENTO E REGOLAZIONE DELLE EMOZIONI IN BAMBINI DI 10 E 11 ANNI
CARLA ANTONIOTTI
Dipartimento di Scienze Umane “Riccardo Massa”, Facoltà di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi Milano
Bicocca
[email protected]
Introduzione
Articolando il costrutto di competenza emotiva, Saarni (1999) sottolinea il concetto di efficacia, in riferimento alle
transazioni sociali che inducono un coinvolgimento emotivo; in quest’ottica la regolazione emotiva può implicare le strategie
attraverso cui le persone sono in grado di influenzare le emozioni che provano, quando le provano e come le esprimono
(Gross, Thompson, 2007). Lo studio dello sviluppo della regolazione emotiva porta ad indagare i legami affettivi che sono
all’origine di tali esperienze e la teoria dell’attaccamento sembra avere le caratteristiche per offrire un quadro unitario della
gestione delle emozioni da parte del bambino. Nella relazione di attaccamento si verifica un tipo particolare di interazione
caratterizzato da un graduale processo di co-regolazione tra il bambino e l’adulto (Stern, 1985). La madre riconosce lo stato
interno del bambino, gli attribuisce significato ed organizza una risposta comportamentale. I bambini con attaccamento
sicuro risultano più competenti emotivamente, sembrano avere accesso ad una gamma più ampia di contenuti emozionali
(Grossman, et al., 1999); mentre i bambini con attaccamento insicuro risultano incapaci di riconoscere certi contenuti
emozionali e di elaborarli a livello cosciente. Gli studi che riguardano gli stili di attaccamento nelle età dello sviluppo sono
tendenzialmente rivolti a bambini sotto i due anni, trascurando le fasce d’età più avanzate. L’obiettivo della presente ricerca è
quello di differenziare i diversi tipi di attaccamento e di delineare diversi profili di regolazione emotiva in relazione
all’attaccamento, in soggetti di 10-11 anni, un’età in cui i bambini hanno sviluppato discrete abilità metacognitive (Cornoldi,
1995) che permettono loro di riflettere esplicitamente sui vissuti emotivi (Barone, 2007).
Metodo
Partecipanti
92 bambini di 10-11 anni di età (range: 10,01- 11,06; media 10,3 anni; d.s.=0,4), 51 maschi e 41 femmine, frequentanti la
classe quinta elementare, senza problemi segnalati.
Strumenti
Un test per valutare lo stile di attaccamento, il SAT-Separation Anxiety Test (Klagsbrun, Bowlby,1976; versione modificata
Attili, 2001); e tre questionari self report per valutare la regolazione delle emozioni, APEN-Autoefficacia Percepita nella
Gestione delle Emozioni Negative, APEP-Autoefficacia Percepita nell’Espressione delle Emozioni Positive (Caprara,
Gerbino, 2001) e HIF-How I Feel (Walden, et al., 2003), quest’ultimo, multifattoriale, riguarda Emozioni Positive, Emozioni
Negative e Controllo emotivo, rispetto alle dimensioni Frequenza e Intensità.
Risultati
I risultati al SAT hanno permesso di suddividere il campione nei quattro pattern di attaccamento. Il 46% dei bambini risulta
sicuro (B), il 18,4% evitante (A), il 23% ambivalente (C) e il 12,6% disorganizzato (D). La distribuzione del campione, in
termini di pattern di attaccamento, è in linea con quanto risulta in letteratura (Attili, 2007). I test di regolazione emotiva
correlano fra loro, evidenziando una coerenza nei punteggi ai diversi test. L’analisi della correlazione tra i risultati ai due
questionari di autoefficacia emotiva (APEN e APEP) e le categorie in cui si collocano le risposte al SAT (test di Pearson) ha
evidenziato una correlazione negativa tra l’Autoefficacia percepita nella gestione delle emozioni Negative e la Confusione
espressa in situazioni di separazione (r=-.26, p<.05), oltre che una correlazione negativa tra l’Autoefficacia percepita
nell’espressione delle emozioni Positive e la Confusione in situazioni di separazione moderata (r=-.32, p<.01). La
correlazione tra i punteggi al questionario di regolazione emotiva HIF e le categorie in cui si collocano le risposte al SAT
(test di Pearson) ha permesso di rilevare che: la mancanza di autostima aumenta all’aumentare delle emozioni negative
(r=.24, p<.05) e diminuisce all’aumentare delle emozioni positive (r=-.23, p<.05); all’aumentare delle emozioni negative,
aumenta l’incapacità di affrontare le separazioni (r=.24, p<.05) e all’aumentare delle emozioni positive, diminuiscono le
modalità di evitamento (r=-.22, p<.05); all’aumentare delle emozioni positive e all’aumentare del controllo delle emozioni,
diminuisce il senso di confusione emotiva (r=-.23, r=-.26, p<.05); infine maggiore è la frequenza con cui i bambini
dichiarano di sentire le emozioni, maggiore è l’angoscia nelle situazioni di separazione (r=.29, p<.01). Il confronto post-hoc
129
tra i quattro gruppi di attaccamento (test di Tukey) ha evidenziato differenze statisticamente significative, nella regolazione
delle emozioni negative, tra i bambini D e i bambini B e C: i bambini D dichiarano di aver sentito molte più emozioni
negative rispetto agli altri [(B=C)<D, p<.05]. Il gruppo D non si differenzia in modo significativo dal gruppo A in quanto
anche i bambini A dichiarano di sentire in modo particolare le emozioni negative.
TEORIA DELLA MENTE, COMPRENSIONE DELLE EMOZIONI E CONSAPEVOLEZZA EMOTIVA NELLA
SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO
GIULIA CAVALLI
Unità di Ricerca sulla Teoria della Mente, Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore
[email protected]
Introduzione
La Teoria della Mente (ToM), ovvero l’abilità di comprendere gli stati mentali propri e altrui e di ritenerli alla base del
comportamento, è stata studiata in relazione alla comprensione delle emozioni utilizzando differenti metodologie (Liverta
Sempio, Marchetti, 2006), che hanno mostrato lo stretto legame tra esse (ad es. Cutting, Dunn, 1999; Repacholi, Trapolini,
2004).
Recentemente, la comprensione delle emozioni è stata intesa in termini più articolati quale comprensione circa la natura, le
cause, le conseguenze e il controllo delle proprie e altrui emozioni e ne è stata individuata l’evoluzione dall’infanzia alla
preadolescenza (Harris, 1989; de Rosnay et al., 2004; Pons, Harris, 2005); gli studi hanno mostrato l’esistenza di un legame
positivo tra tale comprensione, valutata tramite il Test of Emotion Comprehension (TEC) (Pons, Harris, 2000), e la ToM (cfr.
Albanese, Molina, 2008).
La relazione tra ToM e consapevolezza emotiva, definita come l’abilità di identificare e descrivere le proprie e altrui
emozioni (Lane, Schwartz, 1987), è stata poco considerata; il rapporto tra tali variabili è stato indagato come relazione tra
alessitimia (scarsa consapevolezza emotiva) e ToM in soggetti adulti (Keightley et al., 2006; Moriguchi et al., 2006), ma si
può supporre che un buon livello di consapevolezza emotiva si associ ad abilità mentalistiche avanzate in soggetti in età
dello sviluppo (Liverta Sempio, Cavalli, Valle 2007).
Il presente studio, considerando l’importanza che la ToM gioca nello sviluppo del preadolescente (Chandler, 1997; Bosacki,
Astington, 1999), intende indagare, utilizzando prove tratte da ciascun ambito di ricerca, le relazioni tra ToM, comprensione
delle emozioni e consapevolezza emotiva, considerando anche l’influenza della variabile linguistica – che gli studi hanno
mostrato essere in stretta connessione con la ToM (Antonietti, Liverta Sempio, Marchetti, 2006; Milligan, Astington, Dack,
2007) e la comprensione delle emozioni (Pons, Harris, de Rosnay, 2003) – e dello status socio-culturale genitoriale, intesa
come variabile familiare che potrebbe incidere sulle variabili in esame (Cole, Mitchell, 1998; Cutting, Dunn, 2006).
Metodo
Partecipanti: 60 soggetti (30 M, 30 F), età media: 12,5 anni (d.s.=1,1), frequentanti le classi I e III della scuola secondaria di
primo grado.
Strumenti
La ToM è stata valutata tramite la Falsa Credenza di secondo ordine “Say Prediction” (FC) (Sullivan et al., 1994; adatt. it.:
Antonietti, Liverta Sempio, Marchetti, Astington, 1999) e una selezione delle Strange Stories (Happè, 1994; trad. it.:
Mazzola, Camaioni, 2002), costituita da 3 storie mentalistiche avanzate (SS-M) (comprensione di persuasione, ironia ed
emozioni contrastanti) e 3 storie fisiche di controllo. La comprensione delle emozioni è stata valutata con il “Test of Emotion
Comprehension” (TEC) (Pons, Harris, 2000; adatt. it.: Albanese et al., 2006). Il livello di consapevolezza emotiva è stato
misurato con il Levels of Emotional Awareness Scale for Children (LEAS-C) (Bajagar et al., 2005; trad. it. Marchetti,
Castelli, 2006). L’abilità verbale è stata valutata tramite la prova di Vocabolario della WISC-R (Wechsler, 1974); i genitori
hanno compilato un questionario relativo al proprio status socioculturale.
Procedura: I sessione individuale: Vocabolario e Strange Stories; II sessione individuale: FC e TEC; III sessione collettiva:
LEAS-C.
Risultati
La distribuzione delle variabili è normale. L’età non incide sulla prestazione ai test. Il livello di Vocabolario correla solo con
le SS-M (0,461**). Si riscontrano correlazioni positive significative delle SS-M con FC (0,266*), TEC totale (0,410**),
LEAS-C (0,302**); del TEC con LEAS-C (0,349**). In particolare lo stadio 2 del TEC (componenti mentali) correla con le
SS-M (0,432**), lo stadio 3 (componenti riflessive) con il LEAS-C (0,287**). Il livello culturale paterno è associato
positivamente alla comprensione mentalistica nelle SS-M ( ²=5,263*). Nello stadio 2 del TEC i maschi ottengono prestazioni
migliori t(58)=2,107*. Il chi quadro mostra un’associazione positiva tra livello socioculturale paterno e prestazione nelle SSM (7,379*).
E’ stata condotta una regressione lineare con a v. dipendente le SS-M e a v. indipendente Vocabolario, TEC, LEAS-C, FC,
livello culturale paterno; la varianza spiegata dal modello è del 31%: F(5,49)=5,545**.
130
I risultati confermano l’ipotesi della presenza di legami tra le variabili: una buona ToM correla con un’elevata comprensione
delle emozioni e con alti livelli di consapevolezza emotiva. Inoltre, lo studio mostra l’influenza della comprensione e della
consapevolezza emotiva, dell’abilità linguistica e del livello socioculturale paterno sulla comprensione mentalistica avanzata,
aprendo la strada a successive e più approfondite indagini sui rapporti tra tali variabili nell’età dello sviluppo.
[*: p<0,05: **: p<0,01] [Il presente lavoro è stato svolto con Olga Liverta Sempio e Antonella Marchetti]
131
Simposio 21
COMPRENSIONE DEL LINGUAGGIO E FUNZIONI COGNITIVE
Proponente: M. CHIARA LEVORATO
Università degli studi di Padova, Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e dei Processi di
Socializzazione
[email protected]
Discussant: ANTONELLA DEVESCOVI
Università degli Studi di Roma "La Sapienza"
[email protected]
132
Presentazione
Il simposio si propone di approfondire il tema dei rapporti tra la comprensione linguistica e le funzioni cognitive. Tre dei
lavori che vengono presentati sono stati condotti su popolazioni tipiche e coprono un ampio range di età, dalla scuola
materna all’ adolescenza, e si indagano i rapporti tra comprensione del testo orale e scritto e le capacità di rievocare materiale
verbale. In tutti e tre gli studi viene dimostrata una relazione tra abilità di comprensione del testo e memoria intesa sia come
capacità che come uso di conoscenze precedenti (memoria semantica). Vengono inoltre presentate due ricerche condotte su
una popolazione atipica che si caratterizza per un deficit linguistico non accompagnato da ritardi cognitivi: il Disturbo
Specifico di Linguaggio. In questi due studi il disturbo specifico di linguaggio viene analizzato nelle sue relazioni con
funzioni mnestiche ed esecutive.
La continuità tra gli studi sulle popolazioni tipiche e su questa popolazione atipica è evidente testimonianza di un’esigenza
teorica sempre più presente negli studi sul linguaggio che consiste nel considerare le componenti cognitive che sono
coinvolte nell’elaborazione del linguaggio.
CAPACITÀ VERBALI E DI MEMORIA:
CONTRIBUTI ALLA COMPRENSIONE DEL TESTO ORALE TRA I 4 E I 6 ANNI
ELENA FLORIT
Università degli studi di Padova, Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e dei Processi di Socializzazione
[email protected]
Introduzione.
La capacità di comprendere un testo coinvolge numerose abilità e risorse di natura cognitiva e linguistica che interagiscono
nella creazione di una rappresentazione coerente dei contenuti testuali (Kintsch, 1998). Gli studi più recenti sulla
comprensione del testo hanno adottato un approccio multicomponenziale che ha consentito di analizzare i contributi delle
diverse componenti e di identificare i fattori responsabili delle differenze individuali nella comprensione del testo scritto in
età scolare (cfr. Cain & Oakhill, 2007). Il vocabolario recettivo e l’abilità verbale generale (da qui in poi indicate come
capacità verbali), e le abilità di memoria, in particolare la memoria di lavoro verbale, sono state tra le componenti più
esplorate. E’ stato dimostrato che le capacità verbali sono tra i migliori predittori delle differenze individuali nella
comprensione del testo scritto, diversamente il ruolo della memoria è ancora controverso. Cain, Oakhill e Bryant (2004)
hanno sostenuto che la memoria di lavoro verbale fornisce un contributo specifico alla comprensione del testo mentre
Nation, Adams, Bower-Crane e Snowling (1999) hanno affermato che la relazione tra memoria e comprensione del testo è
mediata dalle abilità verbali. Scopo del presente lavoro è stato quello di estendere lo studio delle componenti della
comprensione del testo all’età prescolare. Si è adottato un approccio simile a quello di Cain et al. allo scopo di analizzare i
contributi della memoria e delle capacità verbali nella comprensione del testo orale in bambini tra i 4 e i 6 anni di età. Un
ulteriore obiettivo era quello di analizzare gli specifici contributi della memoria di lavoro e della memoria a breve termine e
di esplorare il pattern di sviluppo della relazione tra abilità verbali e di memoria, da un lato, e comprensione del testo orale
dall’altro, nel range di età considerato.
Metodo.
Hanno partecipato allo studio 84 bambini con sviluppo tipico divisi in due gruppi: 44 bambini di età compresa tra i 4 e i 5
anni (età media 4, 6 anni; DS 4 mesi) e 40 bambini tra i 5 e i 6 anni (età media 5, 4 anni; DS 5 mesi). All’interno di ogni
gruppo circa la metà dei partecipanti erano femmine. I bambini frequentavano scuole materne del Nord e Sud Italia e
provenivano da famiglie di status socio-economico medio – basso. Per tutti i partecipanti è stato richiesto il consenso dei
genitori. Il presente studio è parte di un progetto trasversale sulla comprensione del testo in età prescolare in cui una vasta
batteria di compiti è stata somministrata in 4 sessioni di circa 30 minuti. Le abilità rilevanti ai fini della presente ricerca sono
state valutate nelle prime tre sessioni: la comprensione del testo orale è stata valuta con il TOR 3-8 (Levorato & Roch, 2007),
il vocabolario recettivo con il PPVT-R (standardizzazione italiana di Stella, Pizzoli, & Tressoldi, 2000), le abilità verbali con
i subtest di Vocabolario e Somiglianze della Scala Verbale della WIPPSI (adattamento italiano di Bogani & Corchia, 1973) e
la memoria a breve termine e di lavoro attraverso uno span di parole diretto e uno span di parole inverso rispettivamente.
Risultati.
I risultati ottenuti attraverso analisi di regressione gerarchica indicano che le capacità verbali forniscono il contributo più
consistente alla comprensione del testo orale anche dopo aver controllato per l’effetto dell’età. Le abilità di memoria
spiegano un’ulteriore quota di varianza nella comprensione del testo oltre al contributo delle capacità verbali. Sia la memoria
a breve termine che la memoria di lavoro contribuiscono a spiegare le differenze individuali nella comprensione del testo
orale ma la memoria di lavoro spiega varianza aggiuntiva oltre alla memoria a breve termine. Infine la relazione tra abilità
verbali e di memoria, da un lato e comprensione del testo, dall’altro, è stabile tra i 4-6 anni.
I risultati vengono discussi alla luce dei modelli di comprensione del testo che hanno analizzato i contributi delle diverse
abilità componenti e i rapporti tra processi di tipo linguistico e le funzioni cognitive. Dall’analisi è emerso che fenomeni
133
simili sottostanno alla comprensione del testo orale in età prescolare e alla comprensione del testo scritto in età scolare a
conferma dei dati riportati in letteratura (Diakidoy, Stylianou, Karefillidou, & Papageorgiou, 2005).
MEMORIA DI LAVORO E COMPRENSIONE DEL TESTO ORALE
AUGUSTA FURIA, MICHELA FANZECCO
Università degli Studi di Cagliari, Dipartimento di Psicologia
[email protected]
Introduzione
Questo lavoro presenta la prima parte di una ricerca longitudinale effettuata con bambini di prima elementare al fine di
valutare l’esistenza di una relazione tra memoria di lavoro, lessico recettivo
e abilità comprensione del testo orale. La comprensione del testo è una capacità complessa che si articola in diverse fasi in
cui sono coinvolte diverse componenti e risorse, linguistiche e cognitive, processi inferenziali ed integrativi messi in atto,
questi ultimi, non solo grazie alle conoscenze di tipo linguistico, ma anche da una serie di conoscenze attinenti alla struttura
del testo e al suo contenuto (Boscolo, 1997; Van Den Broek, 1994; Levorato e Nesi, 2001). Catts, Adlof & Weismer, 2006,
hanno messo in evidenza un aspetto ampiamente condiviso in letteratura e cioè che il miglior predittore della comprensione
del testo scritto sia la comprensione del testo orale e questo si verificherebbe per tutto l’arco della scolarizzazione. La
predittività della comprensione orale di un testo narrativo su quella di un testo scritto è emersa in diversi lavori (Sticht e
James, 1984; Catts, et al., 2006), che supportano l’ipotesi del modello del Simple View of Reading (Hoover, Gough, 1990).
Inoltre, i risultati delle ricerche condotte da Carlisle e Felbinger (1991), Cain e Oakhill (2007) hanno messo in evidenza che
le abilità cognitive e i processi sottostanti alla comprensione del testo scritto e orale siano gli stessi. Tuttavia tra le due
modalità esistono delle differenze, che possono incidere sull’economia e sulla dislocazione delle risorse durante
l’elaborazione. La comprensione del testo scritto richiede l’elaborazione dei segni ortografici mentre la comprensione del
testo orale richiede l’elaborazione dei suoni; chi legge può decidere la velocità con cui il processo avviene, e quindi
procedere a seconda delle proprie capacità di elaborazione; l’ascoltatore si deve adeguare al ritmo con cui il testo viene
presentato e, poichè il testo orale svanisce dopo essere stato ascoltato, l’elaborazione avviene durante l’ascolto, non si può
tornare indietro. E’ chiaro quindi che il testo orale, pur non avendo il carico della decodifica, possa richiedere uno sforzo
attentivo e mnemonico superiore rispetto allo scritto; d’altra parte, bisogna considerare che la ricezione del testo orale
avviene nell’ambito di un contesto di interazione diretto, faccia a faccia, che motiva il bambino a partecipare (De Beni e
Pazzaglia, 1995). L’obiettivo generale di questo studio è quello di verificare se le prestazioni dei bambini ai compiti di
ascolto, misurate all’inizio
della prima classe elementare siano predittive delle prestazioni ai compiti di lettura somministrati alla fine dell’anno
scolastico. Qui vengono presentati i risultati iniziali della ricerca. In particolare, l’obiettivo è quello di analizzare in che
misura alcune componenti (memoria di lavoro e lessico recettivo) contribuiscano a determinare differenze individuali nella
comprensione del testo orale.
Metodo
Partecipanti: 50 bambini di scuola elementare, 29 maschi e 21 femmine, età media 6,2 anni
Materiale e procedura Prova di comprensione lessicale TFL1, Test Fono Lessicale (Vicari,
Marotta, 2007)
Test di comprensione del testo orale 3-8 anni TOR 3-8 (Levorato, Roch, 2007)
Prove di Memoria (span cifre e parole: diretto e inverso)
Risultati e conclusione
Con lo scopo di analizzare in che modo la memoria di lavoro (span di parole e cifre in avanti e inverso) e il lessico recettivo
(TFL) contribuiscono a determinare le differenze individuali nella
comprensione del testo orale (TOR ), i dati sono stati sottoposti a una serie di analisi correlazionali e di regressione lineare
gerarchica. I risultati evidenziano una correlazione significativa tra TOR e le
dimensioni valutate dallo Span di cifre e parole inverse e il TFL (p<. 001). I risultati della regressione, con variabile
dipendente il TOR, dimostrano che il TFL, inserito al primo passo, spiega il 22% della varianza (p<.001) nella
compreneisone del testo. Le due prove di memoria – span diretto e inverso-aggiungono ulteriore varianza significativa al
modello (R² =.39, p=.002). Quando invece i due compiti di memoria vengono inseriti al primo passo spiegano il 28% della
varianza nella comprensione del testo orale (p<.001); al netto di questa, il TFL1 aggiunge il 40% (p<.002). Questo risultato
rafforza la conclusione che sia la memoria di lavoro sia il TFL danno un contributo unico e indipendente alla comprensione
del testo orale. Il peso esercitato da entrambe le componenti (lessico e memoria) è pressappoco uguale. Il passo successivo
sarà quello di indagare la predittività della comprensione del testo orale sulla comprensione del testo scritto negli stessi
bambini per le implicazioni psicopedagogiche che l’analisi precoce di eventuali disturbi nella comprensione del testo orale
possono avere.
134
ESPERIENZA FENOMENOLOGICA LEGATA AL RICORDO DI BRANI IN CATTIVI E BUONI
COMPRENSORI
CESARE CORNOLDI, CHIARA MIRANDOLA, FRANCESCO DEL PRETE
Università degli studi di Padova, Dipartimento di Psicologia Generale
[email protected]
I ragazzi con difficoltà di comprensione di un testo scritto presentano delle lacune per quanto riguarda l’elaborazione e il
ricordo degli aspetti semantici/concettuali relativi al contenuto del testo medesimo (ad es. Cain, 2006; Weekes, Hamilton,
Oakhill & Holliday, 2008). Non è chiaro tuttavia se questa ridotta elaborazione incida solo sulla capacità di ricordare o anche
sulla natura e sulla percezione soggettiva del ricordo. Il presente lavoro testa l’ipotesi che anche la natura del ricordo sia
modificata e cioè i ‘cattivi’ lettori non solo siano penalizzati nel ricordo di informazioni semantiche, ma proporzionalmente
presentino meno esperienze di recollection rispetto ai ‘buoni’ lettori, ovvero abbiano una ridotta capacità di rievocare i
dettagli qualitativi di un determinato evento codificato. Nella presente ricerca, in particolare, si è voluta valutare la memoria
di riconoscimento per informazioni contenute in un brano, nonché la percezione fenomenologica soggettiva relativa al
ricordo delle stesse, valutata attraverso la procedura Remember/Know (Tulving, 1985).
In un primo esperimento, 47 cattivi lettori e 46 buoni lettori (di età compresa fra i 15 e i 19 anni) sono stati valutati con una
prova di memoria di brano. La prova consisteva nella lettura ad alta voce del brano da parte dello sperimentatore e nella
conseguente prova di riconoscimento costruita nel seguente modo: 16 frasi target e 16 distrattori; delle 16 frasi target (tutte
tracce verbatim ricavate dal brano), 8 rappresentavano informazioni importanti dal punto di vista del contenuto del racconto e
8 informazioni non importanti; dei 16 distrattori, 8 rappresentavano informazioni semanticamente plausibili (suddivise a loro
volta in parafrasi e inferenze) e 8 rappresentavano informazioni semanticamente non-plausibili (costruite unendo parti
diverse del brano in modo da formare frasi incompatibili con il contenuto del racconto). In aggiunta ad un compito di
riconoscimento sì/no, i partecipanti erano invitati a fare un’introspezione a proposito del proprio ricordo e dire, per ogni frase
riconosciuta come “vecchia”, se la ricordavano chiaramente - e quindi erano in grado di rievocare anche dettagli significativi
relativi a quella frase (ad es. il contesto in cui era inserita oppure ciò a cui stavano pensando nel momento in cui hanno
sentito la frase) -, oppure se era loro familiare – e quindi avevano la sensazione di ricordarla ma non veniva loro in mente
nulla di significativo relativo ad essa (paradigma Remember/Know).
I risultati mostrano in generale che i buoni lettori producono un maggior numero di hits (frasi correttamente riconosciute
come “vecchie”) rispetto ai cattivi lettori; i buoni lettori sono anche migliori nel corretto rifiuto di frasi non presenti nel
brano (cioè i distrattori), indipendentemente dal fatto che siano plausibili o no; tuttavia, per quanto riguarda un’analisi più
approfondita delle correct rejections nei confronti delle informazioni semanticamente plausibili, si evince come sia più facile
rifiutare correttamente un’inferenza rispetto ad una parafrasi, ma questo avviene solo nei buoni lettori. Per quanto riguarda
l’analisi delle fenomenologie interne di memoria “ricordare” ed “essere familiare”, i buoni lettori producono un maggior
numero di risposte corrette (hits) associate al giudizio Ricordo rispetto ai cattivi lettori; in particolare i buoni lettori
producono un maggior numero di giudizi Ricordo associati alle informazioni importanti. Infine, le analisi condotte sui falsi
allarmi mostrano che, indipendentemente dal tipo di giudizio Ricordo o Familiare, i cattivi lettori producono un maggior
numero di falsi allarmi (cioè dichiarano di ricordare frasi che in realtà non erano presenti nel brano).
In un secondo esperimento, gli stessi partecipanti sono stati sottoposti ad un compito di memoria di riconoscimento di parole.
Le parole sono state studiate in due condizioni diverse: codifica superficiale e codifica profonda. Dopo un compito di
riconoscimento sì/no i partecipanti dovevano esprimere giudizi R/F per ogni parola riconosciuta come “vecchia”. Inoltre
veniva richiesto il ricordo di alcune informazioni qualitative relative al contesto iniziale della codifica. Non si sono
riscontrate differenze tra i due gruppi, relativamente al numero di hits, e nemmeno ai giudizi soggettivi R/F. Entrambi i
gruppi hanno dimostrato di saper usare bene i giudizi, dal momento che effettivamente gli elementi contestuali sono stati
maggiormente presenti nel caso di risposta Ricordo.
In conclusione, i dati confermano che i cattivi lettori non solo ricordano meno bene un testo, ma anche non hanno esperienze
‘recollettive’ associate ai ricordi; tuttavia questo effetto è legato alla elaborazione del testo e non dipende da differenti
capacità di memoria o di trattamento dell’ esperienza fenomenologica
LA COMPRENSIONE DEL TESTO ORALE NEI BAMBINI CON DISTURBO SPECIFICO DI LINGUAGGIO:
UNO STUDIO SULLA RELAZIONE TRA PROCESSI COGNITIVI E PROCESSI LINGUISTICI
DANIELA BRIZZOLARA (1) (2), CLAUDIA CANALINI (1), BARBARA CERRI (1), ANNA MARIA CHIOSI (1),
PAOLA CIPRIANI (1), SARA MAZZOTTI (1), FILIPPO GASPERINI (1), RENATA SALVADORINI (1)
(1) Università di Pisa, IRCCS Stella Maris (Calambrone-Pisa)
(2) Università di Pisa, Dipartimento di Medicina della Procreazione e dell'Età Evolutiva
[email protected]
135
In letteratura viene dato ampio spazio alla valutazione della comprensione degli enunciati grammaticali nei bambini con
DSL, in quanto l’analisi di tali prestazioni ne consente la suddivisione diagnostica nelle diverse tipologie.
Attualmente, viceversa, non sono molto rappresentati gli studi che analizzano le modalità con le quali la comprensione
frasale incida nella decodifica di un testo orale, sia per quanto riguarda i bambini con sviluppo tipico, che i bambini con
sviluppo atipico.
Tale carenza è riscontrabile anche in merito alle eventuali correlazioni tra le abilità cognitive dei bambini e la loro capacità di
processare il testo orale.
Lo scopo del presente contributo è quello di indagare le possibili relazioni tra performance cognitive quali, ad esempio,
quelle di working memory e perfomance linguistiche quali, ad esempio, la comprensione grammaticale e la comprensione di
un testo orale.
Viene presentato uno studio su di un piccolo campione di bambini con diagnosi di DSL suddivisi per età cronologica –
variabile tra 3.6 e 8 anni – e tipologia di disturbo.
Il gruppo dei soggetti è stato valutato con un protocollo cognitivo-linguistico opportunamente selezionato e inquadrato
secondo criteri di inclusione/esclusione largamente condivisi dalla letteratura internazionale. In particolare per la
comprensione è stato utilizzato il TOR 3-8 (Levorato & Roch, 2007) e il TCGB (Cipriani e Chilosi, 1995).
Le abilità cognitive non verbali sono state valutate con i test WIPPSI Performance o Leiter e la memoria di lavoro con una
batteria messa punto presso l'IRCCS Stella Maris (Ferretti et al.).
I risultati verranno discussi in riferimento al ruolo che abilità linguistiche e cognitive giocano nella comprensione dei
bambini con DSL, sulla base di dati recenti della letteratura che mettono in discussione la “specificità” del disturbo specifico
del linguaggio.
FUNZIONI ESECUTIVE E DISTURBI SPECIFICI DI LINGUAGGIO IN ETÀ PRESCOLARE
MARA ROELLO, PAOLO STIEVANO, GABRIEL LEVI
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Dipartimento di Scienze Neurologiche Psichiatriche e Riabilitative dell’ Età Evolutiva
[email protected]
Le funzioni esecutive, assieme ad altre funzioni cognitive come il linguaggio, giocano un ruolo cruciale nello sviluppo della
regolazione del comportamento del bambino in età prescolare. Sebbene sia ben nota l'esistenza di una stretta relazione tra
sviluppo delle funzioni esecutive e abilità linguistiche sin dall'età prescolare, tuttavia sono ancora pochi gli studi che hanno
analizzato la relazione fra lo sviluppo delle funzioni esecutive e il deficit linguistico che presentano i bambini con Disturbo
Specifico del Linguaggio (DSL) .
In particolare è stato dimostrato che i bambini con DSL in età scolare presentano deficit nella capacità di inibire il
comportamento sia in presenza di stimoli verbali che non verbali (Bishop e Norbury 2005) e nei processi esecutivi implicati
nell’aggiornamento della memoria di lavoro(Im-Bolter N, Johnson J, Pascual-Leone J 2006). Al momento, non è stato ancora
pubblicato nessun altro studio sulla relazione tra DSL e funzioni esecutive in bambini in età prescolare.
Nel presente lavoro è stato investigata la relazione fra funzioni cognitive e capacità linguistiche, attraverso l’analisi del
livello delle funzioni cognitive in bambini con un accertato deficit del linguaggio, confrontando questi risultati con la
performance di bambini senza deficit linguistico.
Sono stati selezionati un campione principale, composto da 26 bambini con DSL (età media: 61,29 mesi), e un campione di
controllo appaiato per età, formato da 64 bambini con sviluppo tipico (età media: 62 mesi). Ai partecipanti di entrambi i
campioni è stata somministrata una batteria di test standardizzati che misura delle abilità connesse alle funzioni esecutive.
I risultati dei bambini con DSL nelle diverse prove sono sati analizzati e confrontati con i risultati dei bambini con sviluppo
tipico. Il confronto ha mostrato una caduta significativa dei bambini con DSL nelle capacità di inibizione e pianificazione
rispetto al gruppo di controllo. I risultati ottenuti vengono discussi alla luce della relazione tra lo sviluppo linguistico e le
diverse componenti delle funzioni esecutive. Tali risultati si pongono a favore dell’ipotesi di esistenza di un’interazione tra
linguaggio e sviluppo delle funzioni esecutive nei bambini con DSL
136
Sessioni tematiche
137
Sezione tematica 1
ADOLESCENTI, RELAZIONI E QUALITÀ DELLA VITA
Coordina: Franca Tani
Università degli Studi di Firenze
138
LE RELAZIONI CON I GENITORI, GLI AMICI E I PARTNER SENTIMENTALI NELLA TRANSIZIONE
DALL’ADOLESCENZA ALLA VITA ADULTA
SILVIA GUARNIERI
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Firenze
[email protected]
Introduzione
Le relazioni intime che l’individuo stabilisce nell’arco di vita con i propri genitori, amici e partner sentimentali, hanno
importanti implicazioni per il suo generale benessere fisico e psicosociale (Furman, Brown, & Feiring, 1999; Cohen,
Gottlieb, & Underwood, 2000; Noller, Feeney, & Peterson, 2001; Seiffge-Krenke, 2003; Noller, 2006; Noller & Feeney,
2006; Tani & Guarnieri, 2007). Data la fondamentale importanza di questi legami per lo sviluppo cognitivo, sociale e
affettivo di ogni individuo, negli ultimi anni un nuovo filone di studi ha iniziato ad interrogarsi sui rapporti esistenti tra tipi
diversi di relazioni intime al fine di cogliere gli aspetti di continuità e cambiamento che caratterizzano il loro andamento
evolutivo. A questo proposito, alcuni autori (Laursen & Bukowski, 1997; Connolly & Goldberg, 1999; Tani & Fonzi, 2005)
propendono per un modello evolutivo “a catena” secondo cui funzioni prima assolte dalle relazioni con i genitori verrebbero,
durante l’adolescenza, assolte dagli amici e successivamente, nella giovinezza, dal partner sentimentale che da qui in avanti
assume una posizione privilegiata nella vita affettiva dell’individuo. Secondo questa prima ipotesi le relazioni intime non
sarebbero legate da una sequenza di natura lineare, ma al contrario la nascita di un nuovo tipo di relazione andrebbe a
discapito delle relazioni stabilite in precedenza e si assisterebbe quindi ad un trasferimento di funzioni tra questi diversi
rapporti intimi. Altri autori (Bowlby, 1969/1982, 1973; Sullivan, 1953; Furman & Wehner, 1994; Connolly & Johnson,
1996; Seiffge-Krenke, 2003) ipotizzano, invece, una notevole continuità tra i diversi tipi di relazioni intime che l’individuo
stabilisce nel corso del suo sviluppo. In altri termini, le relazioni intime seguirebbero una sequenza evolutiva continua dove
la nascita di un nuovo legame intimo non provocherebbe il declino dei rapporti preesistenti. Secondo questa seconda ipotesi
quindi, i diversi tipi di relazioni intime verrebbero costruite e “modellate”, nel corso del tempo, a partire da esperienze
precedenti il cui contributo continuerebbe a rivestire una notevole rilevanza anche in fasi di sviluppo successive (Bowlby,
1969/1982; Connolly & Johnson, 1996; Furman & Wehner, 1997).
Nonostante questi due filoni di ricerca abbiano offerto un notevole contributo per la comprensione del complesso intreccio
esistente tra relazioni parentali, amicali e sentimentali, al momento attuale resta ancora da verificare se la qualità dei rapporti
che l’individuo stabilisce con la famiglia d’origine, con gli amici e, successivamente, con il partner sentimentale si mantenga
costante, perché in qualche modo riconducibile ad un tratto stabile dell’individuo o sia al contrario discontinua, perché
riconducibile alle caratteristiche specifiche delle singole relazioni. A partire da queste considerazioni, la ricerca che
presentiamo intende: 1) rilevare le dimensioni qualitative che connotano la relazione genitoriale, amicale e sentimentale; 2)
rilevare eventuali differenze nella qualità di queste relazioni intime durante la transizione dall’adolescenza alla giovane vita
adulta; 3) verificare se tali differenze variano significativamente in funzione del genere dei soggetti.
Metodo
Partecipanti. L’indagine si è svolta su un campione di 432 soggetti divisi in due diverse fasce d’età: 246 adolescenti (112
maschi e 134 femmine) d’età compresa tra i 16 e i 19 anni (media= 17.6; d.s.= .78) e 186 giovani adulti (90 maschi e 96
femmine) di età compresa tra i 22 e i 27 anni (media= 24; d.s.= 3.5).
Strumenti. Per misurare le dimensioni qualitative della relazione genitoriale, amicale e sentimentale, è stata utilizzata la
versione già usata in precedenti studi da Tani e Guarnieri (2007) del Network of Relationships Inventory (Furman &
Buhrmester, 1985; 1992). Questo strumento consente di rilevare 15 dimensioni qualitative fondamentali - Compagnia,
Conflitto, Aiuto strumentale, Rivalità, Intimità, Accudimento, Affetto, Ammirazione, Unione, Supporto, Criticismo,
Dominanza, Soddisfazione, Punizione – che costituiscono due fattori di secondo ordine: Supporto sociale e Interazioni
negative.
Risultati
L’analisi dei dati ha permesso di evidenziare che nel passaggio dall’adolescenza alla vita adulta esistono differenze
significative nei rapporti reciproci fra diversi tipi di relazioni intime. Le relazioni che assumono maggiore rilevanza sono
quelle di tipo simmetrico. In particolare: la relazione che presenta caratteristiche più positive è quella con l’amico intimo
mentre la relazione col partner continua, a questo livello d’età, a presentare maggiori caratteristiche di ambivalenza. In tutti i
casi, nelle femmine si registra una qualità complessivamente migliore nelle relazioni intime. Complessivamente i nostri
risultati sembrano quindi confermare l’ipotesi di un modello evolutivo “a catena”.
Keywords
Close relationships, Adolescence, Adulthood
139
IL RAPPORTO FRATERNO NELLA TRANSIZIONE DALL’ADOLESCENZA ALLA VITA ADULTA
FRANCA TANI, SILVIA GUARNIERI
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Firenze
[email protected]
Introduzione
Le relazioni fraterne costituiscono un punto di riferimento centrale per la vita affettiva dell’individuo (Noller, 2005; Noller &
Feeney, 2006) e rappresentano una parte integrante della sua rete sociale (Furman & Buhrmester, 1985). In particolare,
nell’ambito del rapporto fraterno è possibile ricevere supporto emotivo, aiuto e compagnia, condividere importanti
esperienze formative, apprendere e sperimentare le proprie abilità cooperative così come quelle competitive (Noller, 2005).
Fratelli e sorelle rappresentano delle vere e proprie figure di attaccamento, sono compagni di gioco e allo stesso tempo
antagonisti (Davies, 2002). Inoltre la relazione fraterna costituisce un contesto fortemente connotato dal punto di vista
emotivo: per un fratello o una sorella si può infatti provare amore incondizionato e contemporaneamente un forte senso di
ostilità. Del resto, all’interno di questa relazione momenti di profonda conflittualità ed aggressività si alternano
continuamente a momenti di totale spensieratezza e comunanza (Dunn, 1988; Dunn, Deater-Deckard, & Pickering, 1999).
Grazie all’interazione con un fratello è possibile acquisire una molteplicità di capacità sociali e cognitive fondamentali per il
benessere psicosociale dell’individuo (Bedford, Volling, & Avioli, 2000; McHale, Updegraff, Helms-Erickson, & Crouter,
2001). A questo proposito esiste ormai un generale consenso sull’influenza che la relazione fraterna svolge sullo sviluppo
cognitivo, sociale ed emotivo di fratelli e sorelle (Noller, Feeney, & Peterson, 2001; Lecce, 2003; Noller, 2005; Noller &
Feeney, 2006). Tuttavia, gli studi sul tema hanno finora approfondito lo studio del legame fraterno soprattutto in relazione
all’infanzia e all’adolescenza, mentre risultano ancora scarsi gli studi sulla qualità che connota questi legami in fasi evolutive
successive. A partire da queste considerazioni, la presente ricerca esplorativa intende: 1) rilevare eventuali differenze nella
qualità della relazione fraterna di tardo-adolescenti e giovani adulti; 2) verificare se tali differenze variano significativamente
in funzione dell’ordine di genitura, della composizione della diade fraterna ed infine del genere dei soggetti.
Metodo
Partecipanti. L’indagine si è svolta su un campione di 656 soggetti divisi in due diverse fasce d’età: 402 tardo-adolescenti
(200 maschi e 202 femmine) d’età compresa tra i 16 e i 19 anni (media= 17.6; d.s.= .78) e 254 giovani adulti (125 maschi e
129 femmine) di età compresa tra i 22 e i 27 anni (media= 24; d.s.= 3.5).
Strumenti. Per misurare le dimensioni qualitative della relazione fraterna, è stata utilizzata la versione già usata in precedenti
studi da Tani e Guarnieri (2007) del Network of Relationships Inventory (Furman & Buhrmester, 1985; 1992). Questo
strumento misura la percezione che l’individuo ha del legame fraterno in relazione a 15 dimensioni qualitative fondamentali.
Tali dimensioni sono: Compagnia, Conflitto, Aiuto strumentale, Rivalità, Intimità, Accudimento, Affetto, Ammirazione,
Unione, Supporto, Criticismo, Dominanza, Soddisfazione, Punizione e Potere.
Risultati
Per valutare se esistono differenze tra il gruppo di tardo-adolescenti e quello di giovani adulti in relazione alla qualità della
relazione fraterna, abbiamo condotto l’analisi della varianza multivariata (MANOVA) inserendo come variabili dipendenti le
15 dimensioni “qualitative” relative alla qualità del rapporto fraterno e come variabile di disegno l’età, l’ordine di genitura, la
composizione della diade fraterna ed il genere dei soggetti. I nostri risultati evidenziano alcune differenze significative. In
particolare, per quanto riguarda l’età, nella prima vita adulta, in relazione al raggiungimento di una maggiore maturità, si
attenuano alcuni aspetti del legame fraterno legati alla conflittualità, allo squilibrio di potere e alla rivalità e, parallelamente,
acquistano maggiore importanza gli aspetti legati all’aiuto materiale e morale, all’ammirazione e al rispetto reciproco. Anche
l’ordine di genitura influenza la qualità del legame, nel senso che i primogeniti, pur dimostrandosi più protettivi nei confronti
del secondogenito, percepiscono il rapporto con lui come più conflittuale e connotato da maggiore rivalità, mentre i
secondogeniti tendono ad autodisvelare maggiormente i propri sentimenti e segreti al fratello maggiore, che percepiscono
come aiuto e fonte di supporto ma anche come partner dominante e talvolta punitivo. Non emergono differenze significative
in funzione del genere. In ogni caso, le relazioni tra sorelle sono connotate da un maggior coinvolgimento, sia in senso
positivo che negativo, rispetto a quelle tra fratelli e a quelle miste.
Keywords
Sibling relationships, Adolescence, Adulthood
140
PREGIUDIZIO LATENTE E MANIFESTO VERSO GLI AFRICANI .
UN CONFRONTO FRA ADOLESCENTI FREQUENTANTI CONTESTI SCOLASTICI MONO E MULTIETNICI
MARIA ELVIRA DE CAROLI, ROSSELLA FALANGA, ELISABETTA SAGONE
Dipartimento di Processi Formativi, Facoltà di Scienze della Formazione - Università degli Studi di Catania
[email protected]
Introduzione
La letteratura specialistica sul pregiudizio etnico ha evidenziato la differenza tra atteggiamenti negativi, spesso
inconsapevoli, freddi, distaccati e nascosti (il c.d. pregiudizio latente) e atteggiamenti di rifiuto esplicito, incuranti della
desiderabilità sociale (il c.d. pregiudizio manifesto) (Pettigrew e Meertens, 1995), sottolineando il prevalere dei primi
rispetto ai secondi (Arcuri e Boca, 1996; Manganelli Rattazzi e Volpato, 2001; Ferrara et al., 2002).
Tra le variabili che incidono su tale fenomeno, Pettigrew e Meertens (1995) hanno rilevato che l’amicizia con persone di
altre etnie è un fattore interveniente sull’orientamento pregiudiziale, nel senso che i livelli di pregiudizio latente e manifesto
risultano più bassi. Anche il contatto interetnico (Allport, 1954), come emerso dalle ricerche condotte nel nostro contesto,
sembra incidere sugli atteggiamenti pregiudiziali producendo preferenze verso l’outgroup in situazioni di contatto sia diretto
(Sagone, 2003) sia indiretto (De Caroli, 2005). Con la presente ricerca abbiamo inteso esplorare le differenze di orientamento
pregiudiziale (latente e manifesto) in relazione alle dimensioni identitarie del Self, degli Italiani e degli Africani espresse da
adolescenti frequentanti contesti scolastici mono e multietnici.
Metodo
Campione–N.75 adolescenti (38M-37F), tra i 14 ed i 20 anni, divisi in scuole mono (N.37) e multietniche (N.38),
raggruppati in tre classi: I, III e V media superiore.
Strumenti –Scala del pregiudizio latente e manifesto (Pettigrew e Meertens, 1995) tradotta da Arcuri e Boca (1996), nella
versione di Manganelli Rattazzi e Volpato (2001), costituita da 20 items valutabili in una scala a 6 intervalli, di cui 10 per
l’esplorazione del pregiudizio manifesto – articolati sui nuclei concettuali Percezione dell’outgroup come minaccia (MO) e
Rifiuto dell’intimità con i membri dell’outgroup (RI) – e 10 per quello latente – centrati su Difesa dei valori tradizionali
(DVT), Esasperazione delle differenze culturali (EDC) e Soppressione delle emozioni positive nei confronti dell’outgorup
(SEP), riferiti al gruppo degli Africani. N.3 Differenziali Semantici con 34 coppie di aggettivi polari (Osgood, 1957;
Licciardello, 1994) per valutare la rappresentazione del Self, del gruppo de “Gli Italiani” e del gruppo de “Gli Africani”.
Procedure–La somministrazione è avvenuta in setting di piccolo gruppo. Per l’analisi dei dati abbiamo suddiviso il campione
in tre categorie, sulla base della mediana delle due sottoscale (PRL= pregiudizio latente; PRM= pregiudizio manifesto): gli
“egalitari” (soggetti con PRL- e PRM-), i “sottili” (soggetti con PRL+ e PRM- ), i “fanatici” (soggetti con PRL+ e PRM+).
Risultati
Fra gli adolescenti del gruppo mono e quelli del gruppo multietnico emergono differenze significative per il pregiudizio
manifesto (t=2.16, p=.035) e, in misura ridotta (t=1.95, p=.05) per quello latente, nel senso che, in entrambi i casi, i secondi
esprimono livelli di pregiudizio più bassi rispetto ai primi. Per le tre categorie individuate si rileva che nel contesto
multietnico gli adolescenti risultano prevalentemente “egalitari” (20 su 38) mentre in quello monoetnico risultano
prevalentemente “fanatici” (21 su 37); i “sottili”, invece, sono quasi bilanciati in entrambi i contesti (Chi Square=6.06,
p=.04).
Incrociando la tipologia di contesto con la variabile “amici” (adolescenti con amici di altre etnie) emerge che sia il
pregiudizio latente (F=6.53, p=.013) sia quello manifesto (F=8.87, p=.004) risultano più elevati nel contesto monoetnico per
gli adolescenti senza amici di altre etnie.
Dall’analisi dei nuclei concettuali emerge che gli adolescenti del contesto monoetnico mostrano livelli più alti, rispetto a
quelli del multietnico, in RI (3,00 vs 2,36; t=2.39, p=.020) e in EDC (4,62 vs 4,13; t=2.90, p=.005). Inoltre, gli adolescenti
con amici di altre etnie esprimono livelli più bassi in RI (2,35 vs 2,97; t=-2.36, p=.021), in DVT (3,28 vs 3,63; t=-2.00,
p=.049) e, infine, in SEP (3,45 vs 4,08; t=-2.58, p=.012). Non si rilevano differenze nelle dimensioni identitarie in merito al
contesto di appartenenza in quanto tutti gli adolescenti rappresentano se stessi con valori medio-alti e giudicano gli Africani
ed gli Italiani con valori intorno al punto di indifferenza. Si registrano correlazioni negative tra la rappresentazione degli
Africani ed il pregiudizio latente (r=-.454, p<.0001) e manifesto (r=-.531, p<.0001), nel senso che ad una rappresentazione
negativa degli Africani corrisponde un più alto livello di pregiudizio latente e manifesto.
I risultati indicano che il contatto scolastico e le amicizie con soggetti di altre etnie fanno emergere livelli più bassi di
pregiudizio latente e manifesto. Future ricerche, condotte sulla rappresentazione di altri gruppi etnici e approfondendo
l’analisi delle caratteristiche del contatto, potranno contribuire ad una migliore comprensione delle problematiche connesse
all’integrazione etnica.
Keywords
subtle and blatant prejudice, adolescence, hypothesis of contact
141
LA RELAZIONE TRA MONITORING GENITORIALE, COMPORTAMENTI TRASGRESSIVI E SINTOMI
ANSIOSO/DEPRESSIVI IN ADOLESCENZA
MARIA CONCETTA MIRANDA (1), GAETANA AFFUSO (2)
(1)Dipartimento di Psicologia, Seconda Università di Napoli.
(2)Centro Interuniversitario per la Ricerca sulla Genesi e lo Sviluppo delle Motivazioni Prosociali e Antisociali, Università
di Roma “La Sapienza.
[email protected]
Introduzione
Numerosi studi hanno evidenziato il nesso esistente tra problematiche di tipo comportamentale ed affettivo in adolescenza
con le funzioni di monitoring esercitate dai genitori, dimostrando come un adeguato monitoring parentale rappresenti uno dei
principali fattori di protezione familiari dalle diverse forme di rischio psicosociale. Studi cross-sezionali e longitudinali
mostrano che un inadeguato monitoring genitoriale è associato con comportamenti antisociali, delinquenziali, uso di sostanze
illegali, associazione con pari devianti, comportamenti sessuali a rischio, ed anche con problematiche di tipo internalizzante
(Dishon, Capaldi, Spracklen &Li 1995; Sampson & Laub, 1994). Il concetto di monitoring definito da Dishion e McMahon
(1988) come un insieme di comportamenti genitoriali che riguardano l’attenzione e le funzioni guida su dove i figli vanno, le
loro attività, il loro adattamento, è stato oggetto di revisione da parte di Stattin e Kerr (2000) i quali hanno rilevato un bias
nei precedenti studi evidenziando come non sia sufficiente indagare “quanto e cosa i genitori conoscano sulle attività dei
figli” ma piuttosto occorre esaminare attraverso quali modalità essi pervengono a tali conoscenze. Il monitoring parentale è
stato pertanto distinto sulla base di tre fonti di informazione: a) l’apertura filiale (child disclousure); b) la sollecitazione
genitoriale (parental solicitation); c) il controllo genitoriale (parental control). Queste tre modalità rinviano a differenti
modelli di relazione genitori-figli e possono avere effetti diversi sull’adattamento del adolescente. La presente ricerca, a
partire dalla revisione del costrutto operata da Stattin e Kerr, si propone di indagare l’influenza dei diversi percorsi del
monitoring parentale sulla messa in atto di comportamenti trasgressivi e sulla presenza di sintomi depressivi in adolescenza,
considerando eventuali effetti di interazione con l’età e col genere sessuale.
Metodo
Allo studio hanno partecipato 511 soggetti (età media 16,95; d.s. 1,64) dei quali 252 maschi e 259 femmine, iscritti al
secondo e al quinto anno di quattro scuole medie superiori della città di Napoli. Per la valutazione del monitoring genitoriale
è stato utilizzato un adattamento italiano di un questionario sviluppato da Stattin e Kerr costituito da 4 scale (conoscenza
genitoriale di Cronbach: .84, apertura filiale: = .73, controllo genitoriale = .81, sollecitazione genitoriale = .72 ). Per
la misura della frequenza dei comportamenti trasgressivi è stato utilizzato un questionario (Bacchini et.al., 2005) costituito da
una lista di 25 comportamenti riferiti a violazioni di norme morali o convenzionali, sia lievi che gravi ( =: .89). Per la
valutazione della presenza di sintomi ansioso depressivi è stato utilizzato la scala di ansia/depressione ( =: .83) dello Youth
Self Report (Achenbach, 2001).
La somministrazione è avvenuta in classe, durante le ore di lezione, alla presenza di due psicologi esperti.
Risultati
Preliminarmente sono state valutate eventuali differenze in funzione del genere sessuale e della classe frequentata attraverso
una MANOVA 2*2 sulle diverse componenti del monitoring. Effetti principali riguardano sia il genere (Lambda di Wilks=
22.14; p.001) che la classe frequentata (Lambda di Wilks=24.26; p.001). ANOVA post hoc indicano che le femmine
ottengono in media punteggi statisticamente più elevati dei maschi per tutte le fonti d’informazioni del monitoring mentre gli
allievi del 2° anno riferiscono maggiore controllo , sollecitazione e conoscenza parentale.
Al fine di rilevare il contributo delle diverse fonti della conoscenza monitoring sulla trasgressione e sui sintomi ansioso
depressivi in adolescenza sono state condotte due regressioni gerarchiche.
In entrambe al primo step sono state introdotte come variabili di controllo genere ed età, al secondo le scale di informazione
del monitoring parentale e al terzo le interazioni fra il genere e le fonti di informazione. I risultati mostrano che per i
comportamenti trasgressivi la percentuale di varianza spiegata è del 23%. Le sola fonte di informazione del monitoring che
fornisce un contributo statisticamente significativo è l’apertura filiale ( =-.37; .001).
Per quel che riguarda i sintomi ansioso-depressivi la percentuale di varianza spiegata, al terzo step, è del 11%. Le due fonti di
informazione del monitoring che predicono significativamente sono la dimensione del controllo genitoriale ( =.19; .001) e
quella dell’apertura filiale ( =-.18; .001).
Si evince quindi come una buona comunicazione genitori-figli sia un argine rispetto alla messa in atto di comportamenti
trasgressivi mentre un eccessivo controllo si associa a sintomi ansioso-depressivi.
I risultati del presente studio sono congruenti con quelli di Stattin e Kerr (2000). Ulteriori sviluppi della ricerca riguardano il
coinvolgimento dei genitori come fonte di informazione e l’osservazione longitudinale del processo.
Keywords
Adolescence, Parental monitoring, Risk behavior
142
EFFETTI DI FOLLOW UP DI UN INTERVENTO DI LIFE SKILLS IN ITALIA:
ANALISI DEI PROCESSI DI MEDIAZIONE
FABRIZIA GIANNOTTA
Dipartimento di Psicologia, Università di Torino
[email protected]
Introduzione
L’abuso di sostanze psicoattive è tuttora uno dei problemi più rilevanti nella società occidentale. Negli ultimi venti anni,
sono stati fatti alcuni progressi nel campo della prevenzione e qualche intervento si è dimostrato efficace nel prevenire il
consumo di droga in adolescenza (si veda Tobler et al., 2000). In particolare, studi hanno sottolineato che i programmi basati
sul rafforzamento delle competenze individuali, come gli interventi sulle life skills, sembrano mostrare risultati promettenti
nella lotta contro l’abuso di sostanze (Botvin, 2000). Vi sono stati, dunque, alcuni avanzamenti significativi nel campo della
prevenzione dell’uso di sostanze.
Nonostante i progressi nella conoscenza del fenomeno, vi sono ancora numerosi quesiti irrisolti. Innanzitutto, anche laddove
gli interventi dimostrino di essere efficaci, è ancora poco chiaro il perché lo siano. Mancano studi sugli effetti di mediazione
attraverso i quali gli interventi agiscono. Tale conoscenza è di grande rilevanza nella comprensione di quali siano le
componenti migliori dell’intervento e nella conoscenza dei fattori di rischio e di protezione collegati ai comportamenti
problematici. In secondo luogo, la maggior parte degli studi sull’implementazione di interventi di prevenzione sono stati
effettuati in un contesto nord-americano, per lo più statunitense. Sarebbe utile incentivare tali ricerche anche nel contesto
europeo per comprendere se sono coinvolti gli stessi meccanismi o se ci sono invece delle peculiarità legate al differente
contesto. Questo studio ha come obiettivo quello di indagare questi due temi.
L’obiettivo principale è quello di testare la validità di un intervento creato in Germania, basato sul rafforzamento delle life
skills. Il programma in questione è indirizzato al potenziamento di abilità generiche (ad es. auto efficacia, problem solving,
decision making), e di abilità più legate alla prevenzione dell’abuso di sostanze psicoattive (ad es. capacità di resistere alla
pressione dei pari). Il programma è stato implementato in prima media dagli insegnanti che hanno utilizzato strategie di
insegnamento interattive, come il role play e discussioni in piccoli gruppi e che si sono completamente basati sul manuale a
loro consegnato. In questo studio verranno presentati i risultati di tale progetto. In particolare, verranno presi in
considerazione i dati del follow up di un anno dopo l’implementazione del progetto.
Obiettivi
Nnello specifico i miei obiettivi sono:
1) Indagare la qualità dell’implementazione del programma in questione in Italia; 2) valutare l’efficacia nel prevenire l’uso di
alcol e sigarette del programma un anno dopo la sua implementazione; 3) investigare i possibili effetti di mediazione.
Metodo
Nel presente studio è stato adottato un disegno longitudinale con l’utilizzo di un gruppo di intervento e uno di confronto. Gli
studenti coinvolti (gruppo di confronto e gruppo di intervento) nel progetto hanno compilato un questionario tre volte: subito
prima dell’intervento in prima media (T1, pre-test), due mesi dopo la fine dell’intervento (T2, post test), un anno dopo il post
test e due mesi dopo le lezioni di rinforzo (T3, follow up). Inoltre, è stato chiesto agli studenti del gruppo di intervento di
esprimere un giudizio riguardo al programma, sia dopo l’implementazione del manuale base, sia dopo le lezioni di rinforzo.
Il campione totale delle tre rilevazioni è di 159 studenti. Esso è bilanciato per genere (52% femmine) e per condizione (di
intervento, 47% e di confronto, 53%). L’età media è di 11.4 anni (d.s.=.41). Tra gruppo di intervento e gruppo di confronto,
non sono emerse differenze riguardanti il genere, l’età, il numero di componenti della famiglia, l’occupazione di padre e
madre e il loro livello di istruzione.
Per quanto riguarda il primo obiettivo, gli insegnanti del gruppo di intervento hanno compilato un breve report alla fine di
ogni lezione, dove è stata riportata la percentuale di contenuti trasmessi e gli obiettivi raggiunti.
Per quanto riguarda il secondo obiettivo, sono state utilizzate delle anove a misure ripetute, mentre per rispondere al terzo
obiettivo sono stati utilizzati modelli di equazioni strutturali.
Risultati
Nel complesso, non vi sono state particolari difficoltà nell’implementazione del programma da parte degli insegnanti .
L’intervento ha avuto come conseguenza un accresciuto coinvolgimento all’interno nel contesto scolastico da parte del
gruppo di confronto. Inoltre, esso ha promosso anche una diminuzione nell’assunzione di vino. Le analisi di mediazione
hanno mostrato che l’aumento di coinvolgimento nell’ambiente scolastico avvenuto subito dopo la fine dell’intervento media
la riduzione del consumo di vino un anno dopo.
Conclusioni
Questo studio sottolinea l’importanza del contesto scolastico come fattore di protezione rispetto all’abuso di sostanze.
Keywords
adolescence prevention life-skills
143
LA QUALITÀ DELLA VITA IN AMBITO SCOLASTICO: RELAZIONI CON LA PERSONALITÀ CREATIVA E
L’AUTOEFFICACIA NELLE INTELLIGENZE MULTIPLE
MYRIAM SANTILLI, ERNESTO LODI, BARBARA D’AMARIO, VALERIA VERRASTRO, FILIPPO PETRUCCELLI
Università degli Studi di Cassino
[email protected]
Introduzione
La qualità della vita è un costrutto multidimensionale che necessita dell’analisi di diversi aspetti e nei numerosi studi presenti
sull’argomento si sottolinea l’incidenza di fattori sia soggettivi che oggettivi (Nota e Soresi, 2003). Emergono inoltre fattori
di personalità e altri prettamente cognitivi come la percezione di controllo e l’autostima (Cummins e Nistico, 2002). Secondo
Lent e Brown (2006) sebbene molte ricerche abbiano esaminato l’autoefficacia in relazione alla scelta scolastica e
professionale e ai risultati delle performance, si può ipotizzare che queste credenze possano avere importanti implicazioni nel
campo della soddisfazione della qualità della propria vita. Nel modello teorico degli autori, supportato anche da alcune
ricerche (e.g. Lent et al., 2007), sono presenti sette variabili che possono influire sulla soddisfazione tra cui tratti di
personalità e autoefficacia. Altre ricerche hanno confermato che l’autoefficacia è associata con la soddisfazione scolastica
(Lent et al. 2005). L’autoefficacia è stata anche rilevata come un fattore predittivo alla soddisfazione lavorativa nei lavoratori
impiegati (Caprara et al., 2003) e della soddisfazione di vita in generale negli anziani (Collins, 2006). Per quanto riguarda la
creatività, Evans (2007) sostiene che le attività creative promuovono l’armonia e la coerenza nella relazione tra individuo e
contesto, contrastando la noia e la depressione. L’obiettivo del presente studio è valutare la relazione della personalità
creativa e dell’autoefficacia nelle intelligenze multiple con il livello percepito di qualità della vita. Con intelligenze multiple
ci si riferisce alla teoria di Howard Gardner (1999) il quale individua otto tipi di abilità che ipotizza indipendenti l’una
dall’altra e che sono localizzate in determinate aree cerebrali. Inoltre ci proponiamo di valutare la relazione tra personalità
creativa e autoefficacia nelle intelligenze multiple. Ci attendiamo relazioni maggiori tra autoefficacia nelle intelligenze
multiple e soddisfazione rispetto alla personalità creativa in quanto, secondo Nota e Soresi (2003), le autovalutazioni delle
proprie abilità e caratteristiche si dimostrano più predittive di altre rilevazioni spesso utilizzate nel campo dell’orientamento
come quelle di tipo attitudinale o tratti di personalità.
Metodo
I soggetti sono 322 studenti di scuola media superiore (età media: 16,45) equamente distribuiti per genere (154 M; 168 F) e
classe frequentata in differenti tipologie di scuola (Licei, Tecnici e Professionali). Sono stati somministrati tre questionari:
“La mia vita da studente” (Nota e Soresi, 2003), il Test della Personalità Creativa (Williams, 1994), la versione rivisitata
dell’ “Inventario de Autoefficacia para Inteligencias Multiples” (Perez e Medrano, 2007; adattamento italiano a cura di Lodi,
Petruccelli, Di Chiacchio & Perez, in press). Questo test valuta quanto i soggetti si ritengono sicuri di poter svolgere
correttamente attività che presuppongono l’utilizzo delle diverse intelligenze così come formulate da Gardner (1999).
L’inventario nella forma adattata al contesto italiano ha mostrato buona coerenza con i presupposti teorici di base (8 fattori
che rispecchiano le 8 forme di intelligenza: linguistica, logico-matematica, musicale, corporeo-cinestetica, visuo-spaziale,
naturalistica , intrapersonale e interpersonale) e buona coerenza interna delle otto scale (alfa da .85 a .94).
Risultati
Contrariamente alle aspettative non è emersa nessuna correlazione significativa tra personalità creativa e qualità della vita
eccetto che nella dimensione complessità e supporto percepito (r =..194, p<0.001). L’autoefficacia nelle intelligenze multiple
invece si dimostra correlata alla soddisfazione percepita in molti degli ambiti che riguardano la qualità della vita ed in
particolar modo, per quanto riguarda la soddisfazione per i riconoscimenti ricevuti, sono le intelligenze che Gardner (1999)
definisce canoniche ad essere maggiormente correlate alla dimensione suddetta (Linguistica r =.328 e Logico-matematica r
=.377; p<0.001). In linea generale questi primi risultati sembrerebbero confermare la nostra ipotesi principale. Inoltre il
punteggio totale ottenuto sommando tutti i fattori della personalità creativa non correla con le intelligenze canoniche ma con
le intelligenze non canoniche e personali ( naturalistica e interpersonale, r =.293, .228; p<0.001). Come emerso dai risultati il
fatto che i riconoscimenti ricevuti possano essere maggiormente collegati alle abilità “classiche”, permetterebbe di ipotizzare
che soggetti che si sentono maggiormente efficaci riguardo le altre abilità potrebbero non sentirsi riconosciuti nel contesto
scolastico di riferimento e quindi meno soddisfatti della loro esperienza scolastica. Infatti, secondo Lent e Brown (2006)
l’assenza di sostegni o la presenza di ostacoli ambientali, altra variabile presente nel modello teorico degli autori (ed in tal
senso intendiamo ad esempio il non vedersi riconosciuto da un tipo di didattica centrata solo sulle abilità classiche), possono
diminuire i livelli di soddisfazione.
Keywords
Well-Being, Multiple Intelligences Self-Efficacy, Creativity
144
FUNZIONAMENTO INDIVIDUALE E FAMILIARE NELLO SVILUPPO AFFETTIVO-SESSUALE
ROSALBA LARCAN, PATRIZIA OLIVA
Università degli Studi di Messina
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi anni, numerose ricerche sono state effettuate nel tentativo di spiegare quali possano essere i fattori che
influenzano la qualità della vita sessuale e relazionale dell’adolescente. In particolare, alcuni studi hanno sottolineato il ruolo
della famiglia nel determinare le credenze e gli atteggiamenti, più o meno adeguati, dei figli nei confronti della loro attività
sessuale (Schouten et al., 2007). Sembra, infatti, che stili di parenting autoritario ed ipervigilante (Xiaoming et al., 2000;
Huebner et al., 2003) e scarsa comunicazione su argomenti inerenti la sessualità (Lehr et al, 2000; Eisenberg et al., 2006)
possano favorire nel figlio l’acquisizione di informazioni distorte e pattern di comportamento disfunzionali che, con molta
probabilità, influenzeranno la qualità delle sue interazioni affettive e sessuali (Somers et al, 2000). Anche se non è da
escludere l’intervento di altre variabili ambientali rilevanti quali, ad esempio, il contesto socio-culturtale di appartenenza
(Shoveller et al., 2004).
Ulteriori studi hanno, altresì, focalizzato l’attenzione su diversi altri fattori che sembrano condizionare la sessualità e i legami
affettivi degli adolescenti e potrebbero giustificarne in parte la variabilità (Miller et al., 2004). Alcuni autori hanno
sottolineato l’effetto di parametri biologici correlati allo sviluppo psicofisico (Ostovich et al., 2005), altri l’influenza di
determinate caratteristiche individuali e personologiche, quali ad esempio la coscienziosità e il livello di impulsività (Hoyle
et al., 2000). Sembra comunque poco probabile che le enormi differenze che contraddistinguono l’attività sessuale degli
individui possano essere imputabili ad un unico fattore, sia esso individuale o contestuale; si tratterebbe, piuttosto,
dell’azione combinata di più variabili che si correlano al comportamento sessuale e affettivo (Harvey et al., 1995; Florsheim,
2003), ma difficilmente analisi così complesse sono state effettuate.
In tal senso, lo scopo della presente ricerca è quello di analizzare la qualità delle relazioni affettivo-relazionali e sessuali di
coppie di post-adolescenti in un’ottica più ampia possibile, al fine di cogliere eventuali nessi e relazioni tra le variabili
indagate. In particolare, si vuole verificare: a) la correlazione tra variabili contestuali (funzionamento familiare), individuali
(dimensioni di personalità e ansia) e caratteristiche del rapporto sessuale e affettivo; b) le eventuali differenze di genere in
tutti i fattori considerati; c) il livello di accordo tra i partner nelle aree dell’affettività e della sessualità indagate.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 20 coppie di post-adolescenti con età media 20.7 (Ds=2.738), in situazione di coppia da
almeno 6 mesi; il livello socio-culturale della famiglia di appartenenza era medio-basso. Tutti i partecipanti hanno compilato:
una scheda sociologica per la rilevazione delle informazioni riguardanti il contesto familiare e sociale di appartenenza; il
questionario FAD-Family Assessment Device (Epstein et al., 1983) per la valutazione del funzionamento familiare; il
questionario ASQ-Scala d’ansia IPAT (Krug et al., 1979) e il questionario SESAMO (Boccadoro et al., 1996) che fornisce
un profilo sessuale e socio-affettivo. I diversi aspetti di personalità sono stati indagati attraverso i questionari EPQ-R
(Eysenck et al., 2004), BFO (Caprara et al., 1994) ed IVE (Eysenck et al., 2004) che, a differenza degli altri, valuta le
dimensioni dell’impulsività, audacia ed empatia.
Risultati
I risultati, seppur parziali, mostrano corrispondenze significative tra i fattori presi in esame e alcune delle aree di indagine
dell’affettività e della sessualità. In particolare, sembra che, a livello familiare, un peggior funzionamento emotivo
(espressività e coinvolgimento) ed una certa rigidità nei comportamenti di monitoring si associno a insoddisfazione nei
rapporti col partner e ricerca di sessualità extrarelazionale. I dati confermano, inoltre, correlazioni significative tra
determinate caratteristiche di personalità (psicoticismo, coscienziosità, impulsività, audacia, stabilità emotiva) e aspetti
legati alla vita sessuale e di coppia (esperienze sessuali pregresse, ambiti del piacere, interazioni di coppia, masturbazione,
ruoli nella coppia). Dal confronto tra il gruppo dei maschi e delle femmine, si evidenziano notevoli discrepanze
esclusivamente nei livelli di ansia e in alcuni ambiti del profilo sessuo-relazionale. Infine, emerge che, nonostante le evidenti
differenze individuali e le notevoli difficoltà percepite in famiglia, i partner sembrano comunque concordare perfettamente
tra loro, mostrando di possedere una visione analoga dei punti di forza e delle criticità del proprio rapporto. E ciò sembra
contribuire, più di ogni altro aspetto, al buon funzionamento della coppia.
Keywords
Post-adolescence, affective behavior, sexual development
145
Sezione tematica 2
RELAZIONI TRA COETANEI
Coordina: Ersilia Menesini
Università degli Studi di Firenze
146
"FA COSÌ PERCHÈ È GENTILE": ATTRIBUZIONI DI TRATTO, ORIGINE E STABILITÀ DEI
COMPORTAMENTI IN BAMBINI DAI 5 AGLI 8 ANNI
GIANLUCA GINI, TIZIANA POZZOLI, BEATRICE BENELLI
Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione
[email protected]
Introduzione.
Negli ultimi anni la letteratura si è occupata con sempre maggiore interesse della comprensione dei tratti di personalità nei
bambini e della tendenza a ricondurre i comportamenti degli individui a disposizioni interne (es. Gelman, Heyman e Legare,
2007; Kalish e Shiverick, 2004). Tuttavia, le ricerche condotte su questo argomento hanno utilizzato metodologie differenti
che hanno portato talvolta a conclusioni discordanti.
Il presente studio, inserendosi in quest’area di ricerca, si è posto l’obiettivo di indagare quando i bambini iniziano ad
utilizzare termini di tratto per descrivere gli attori di comportamenti aggressivi e prosociali e se l’uso di tali termini è
associato a una maggiore tendenza a motivare i comportamenti presentati utilizzando disposizioni interne e ad attribuire
maggiore stabilità alle condotte. Uno degli elementi di novità di questa ricerca riguarda l’assenza di riferimenti espliciti a
termini di tratto nelle situazioni ipotetiche presentate ai bambini, scelta attuata per indurre i bambini a riproporre quel tipo di
ragionamento che compiono spontaneamente quando osservano altre persone agire determinate condotte. Inoltre, ai bambini
è stato richiesto di operare sia un tipo di inferenza proprietà-proprietà (prevedere il comportamento futuro a partire dalla
conoscenza delle condotte passate), sia un tipo di inferenza proprietà-categoria (operare attribuzioni di tratto a partire da
comportamenti). Tale scelta deriva dall’ipotesi formulata recentemente da alcuni autori (Liu, Gelman e Wellman, 2007) circa
il fatto che le differenze trovate tra i diversi studi in letteratura possano essere riconducibili all’aver confrontato le risposte
dei bambini a domande che presupponevano diversi tipi di inferenza.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 120 bambini, equamente distribuiti per fascia d’età (5½, 6½ e 7½ anni) e per genere. I bambini
sono stati intervistati individualmente. Ogni bambino ha ascoltato quattro brevi storie, due in cui il protagonista mette in atto
condotte aggressive e due in cui il comportamento è di tipo prosociale. Le domande poste ai bambini hanno riguardato la
motivazione del comportamento del protagonista, la stabilità della condotta e l’origine del comportamento. Ai bambini è
stato richiesto anche di valutare il comportamento e di utilizzare una parola per descrivere il protagonista della storia.
Risultati
Dall’analisi log-lineare, è emersa una differenza legata all’età per quanto riguarda i termini utilizzati dai bambini sia per
descrivere i protagonisti delle storie (G²(2)=27.06, p<.001), sia in relazione alla motivazione fornita al comportamento del
protagonista (G²(2)=28.67, p<.001). Il ricorso a caratteristiche valutative (es., “buono”) è risultato maggiore nei bambini di 5
anni (z = 4.35 e z = 4.42), mentre l’utilizzo di tratti di personalità (es., “gentile”, “educato”) è risultato significativamente
maggiore nei bambini di 7 anni (z = 4.45 e z = 4.43).
Per quanto riguarda il confronto tra le due tipologie di comportamento presentate, si sono rilevate differenze relative alla
presunta origine dei due tipi di comportamento. I bambini hanno attribuito maggiormente un’origine acquisita alle condotte
aggressive (M = 0.70, DS =.83), mentre sembrano propendere per l’origine innata dei comportamenti prosociali (M = 1.23,
DS =.82), F(1, 114) = 37.96, p< .001, 2p =.25.
Per quanto riguarda la stabilità percepita delle condotte, mentre i bambini di 6 e 7 anni hanno valutato come
significativamente più stabile il comportamento prosociale rispetto a quello aggressivo, nei giudizi dei bambini di 5 anni non
si riscontra differenza tra il livello di stabilità attribuito nelle due condizioni (F(2, 114) = 4.13, p< .05, 2p =.07). Per quanto
riguarda, in particolare, la condizione prosociale, il punteggio medio di stabilità assegnato dai bambini più piccoli (M = 2.55,
DS = 1.17) risulta significativamente inferiore rispetto a quello dei bambini di 6 anni (M = 3.16, DS = .93, t (78) = 2.59, p<
.01) e di 7 anni (M = 3.27, DS = .80, t (78) = 3.21, p< .01).
Riassumendo, i risultati di questo studio evidenziano che i bambini di 7 anni considerano il comportamento prosociale
innato, stabile e motivato da disposizioni interne all’individuo. Il comportamento aggressivo, invece, viene considerato
acquisito e modificabile, ma anche in questo caso i bambini fanno riferimento caratteristiche specifiche dell’attore. Questo
porta ad ipotizzare che l’uso di termini specifici da parte dei bambini non sia una prova sufficiente per parlare di una loro
effettiva consapevolezza dell’esistenza di una relazione tra comportamenti manifesti e disposizioni interne. I bambini di 5
anni mostrano, al contrario, di non ritenere le condotte descritte stabili e sembrano utilizzare in entrambe le condizioni
termini valutativi generali a puro scopo descrittivo, senza considerarli come caratteristiche stabili e profonde delle persone
che guidano la messa in atto di particolari condotte.
Keywords
social reasoning, trait attribution, aggressive and prosocial behaviour
147
GIUDIZI DI GRAVITÁ SUGLI ATTI DI BULLISMO E STRATEGIE DI DISIMPEGNO MORALE NEI
PREADOLESCENTI
ELISABETTA SAGONE, MARIA ELVIRA DE CAROLI, ROSSELLA FALANGA
Dipartimento di Processi Formativi, Facoltà di Scienze della Formazione – Università degli Studi di Catania
[email protected]
Introduzione
Gli studi più recenti sul bullismo hanno evidenziato il ruolo che le caratteristiche del bullo e della vittima giocano nella
definizione psico-sociale di tale fenomeno (Boulton e Underwood, 1992; Olweus, 1994; Lagerspetz e Björkqvist, 1994;
Sharp e Smith, 1995; Fonzi, 1997; Menesini et al., 1997; Pedditzi, 2005). Ciò che interessa in questa sede è la
rappresentazione sociale che i nostri preadolescenti hanno della ‘vittima’ di prepotenze quando essa appartenga a categorie
socialmente considerate “a rischio”, ad es., gli extracomunitari e i disabili (in riferimento a questi ultimi, cfr. De Caroli e
Sagone, 2006). Per tale ragione, ci siamo chiesti se la tipologia della vittima incide sulla percezione di gravità delle
prepotenze e se il disimpegno morale, inteso come “disattivazione selettiva del controllo della condotta aggressiva” verso un
potenziale capro espiatorio (Bandura, 2000), può risentire della valutazione di gravità delle prepotenze e della direzione degli
atteggiamenti sociali nei confronti delle vittime. Se il disimpegno morale può condurre alla giustificazione di azioni
condannabili sul piano morale mediante l’impiego di strategie socio-cognitive che neutralizzano le conseguenze di una
prepotenza o gli effetti negativi della diffusione della propria responsabilità (Bonino, 1997; Caprara et al., 2006), allora
appare possibile la relazione tra i comportamenti di prepotenza verso una vittima percepita come tale e l’utilizzo di strategie
di disimpegno morale anche in età preadolescenziale.
Nella presente ricerca abbiamo ipotizzato che: 1) i comportamenti ritenuti tipici del bullismo (in forma diretta ed indiretta)
siano valutati più gravemente se commessi a danno di un compagno “disabile” ed “extracomunitario” rispetto ad un generico
“compagno di classe”; 2) le strategie di disimpegno morale vengano attivate in relazione alla minore gravità percepita degli
atti di bullismo.
Metodo
Il campione della ricerca è costituito da 180 preadolescenti tra gli 11 e i 13 anni, divisi in tre sotto-gruppi, bilanciati per sesso
e frequentanti le classi medie inferiori di due Istituti Comprensivi Statali di Catania e provincia.
Gli strumenti di misura – N.27 items per l’analisi dei giudizi di gravità sui comportamenti di bullismo diretto/indiretto
(riconducibili alle indicazioni di Salmivalli et al., 1996; Sutton e Smith, 1999; Menesini e Gini, 2000) secondo una scala a 7
intervalli (da 1=poco grave a 7=molto grave); il Questionario sulle Strategie di Disimpegno Morale (con 32 items valutabili
secondo una scala di accordo/disaccordo a 5 intervalli) di Caprara et al. (2006).
Le procedure - La somministrazione, in setting individuale, è avvenuta dividendo il campione in tre sotto-gruppi: per il Gr-1,
gli items delle scale di misura sono stati riferiti ai generici “compagni di classe”, per il Gr-2, ai “compagni disabili” e, per il
Gr-3, ai “compagni extracomunitari”.
Risultati
Dall’analisi dei dati, mediante il confronto fra i gruppi, emerge che le prepotenze a danno di un “compagno disabile”, in
misura maggiore, e di un “compagno extracomunitario”, in misura minora, vengono valutate dal campione (soprattutto, dalle
femmine) più gravemente delle stesse prepotenze a danno di un generico “compagno di classe”, ciò che conferma l’ipotesi.
Viene giudicato significativamente più grave, nelle forme dirette, prendere l’iniziativa per fare prepotenze agli altri compagni
disabili (X=6,68), aggredire fisicamente un compagno disabile (X=6,93), aiutare il prepotente, afferrando o tenendo fermo il
compagno disabile più debole (X=6,62); nelle forme indirette, non rivolgere la parola al compagno disabile (X=5,77),
escludere un compagno disabile dai giochi e dalle discussioni durante la ricreazione (X=6,27), mettere in giro bugie sul conto
del disabile (X=6,17).
Per il disimpegno morale, i nostri preadolescenti (F(179)=27.22, p<.0001) sembrano impiegare, in misura maggiore, la
distorsione delle conseguenze (X=2,85) e la giustificazione morale (X=2,81) e, in misura minore, il confronto vantaggioso
(X=2,10). Significative relazioni di segno negativo emergono (con maggior rilevanza nel Gr-3) tra le strategie di disimpegno
morale ed i giudizi di gravità delle prepotenze: ciò indica che maggiore è il disimpegno a livello morale, minore è la
percezione di gravità dei comportamenti prepotenti, in particolare, a danno di un compagno “disabile” o “extracomunitario”.
Future ricerche condotte con soggetti in età infantile e centrate sull’analisi dei processi sottesi alla costruzione del
ragionamento morale potranno contribuire a meglio comprendere la complessa struttura di tali processualità per poter
elaborare progetti socio-educativi centrati sulla prevenzione del bullismo.
Keywords
mechanisms of moral disengagement, bullying, preadolescence
148
L’ECCESSO PONDERALE È UN FATTORE DI RISCHIO PER EPISODI DI VITTIMIZZAZIONE DA PARTE
DEI PARI?
CHIARA VERZELETTI, MASSIMO SANTINELLO, ALESSIO VIENO, MICHELA LENZI
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università degli Studi di Padova.
[email protected]
Introduzione
L’eccesso ponderale in età adolescenziale è connesso a numerose problematiche relazionali tra cui bias, esclusione e
vittimizzazione da parte dei pari (Latner & Stunkard, 2003). Solo recentemente è stata approfondita la relazione tra bullismo
e obesità, considerando l’eccesso ponderale come un fattore di rischio per episodi di vittimizzazione subiti (Janssen et al.,
2004). In considerazione delle diverse modalità con cui il fenomeno del bullismo può manifestarsi, non è stata
adeguatamente approfondita la relazione esistente tra tipologia di vittimizzazione ed eccesso ponderale
Obiettivi
Il presente studio si pone due obiettivi principali: valutare le differenze nella frequenza di bullismo subito ed analizzare le
differenze nella tipologia di vittimizzazione (verbale, relazionale, fisica, sessuale e elettronica) in funzione dell’indice di
massa corporea distinguendo tra soggetti normopeso, sovrappeso e obesi.
Metodo
I dati fanno riferimento alla ricerca HBSC Italia (Health Behavior In School-Aged Children), coordinata dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità. Il campione è stato selezionato attraverso una procedura di campionamento a grappolo (Thompson,
2002) ed è composto da 2667 adolescenti (50,1% maschi) di età compresa tra i 13 e i 15 anni (50,1% maschi). L’età media
del campione è di 14,83 anni.
La raccolta dati si è svolta sull’intero territorio nazionale nell’anno 2006 attraverso la somministrazione di un questionario
anonimo.
Strumenti
La frequenza degli episodi di vittimizzazione subiti è stata indagata con un item (Olweus, 1996). Le diverse forme di
bullismo subito sono state indagate con la scala “The revised Olweus Bully/Victim Questionnaire” a nove item proposta da
Olweus (1996). Il grado di coerenza interna calcolato con l’ di Cronbach è risultato pari a .79. Sono state considerate
vittime i soggetti che rispondono di aver subito episodi di bullismo più di 2 o 3 volte negli ultimi due mesi (Olweus, 1996). I
dati riguardanti l’altezza e il peso autoriferiti dai ragazzi sono stati utilizzati per il calcolo del BMI (Goodman, 2000). La
categorizzazione in normopeso, sovrappeso e obesità è stata effettuata utilizzando soglie decisionali internazionali specifiche
per sesso ed età (Cole et al., 2000).
Analisi statistiche
In considerazione della natura dicotomica delle variabili dipendenti oggetto di studio (vittima o non vittima di bullismo) è
stata condotta una regressione logistica con relativo IC al 95% per ciascuno degli obiettivi precedentemente esposti
utilizzando la categoria “normopeso” come variabile di riferimento.
Risultati
I risultati evidenziano un maggior rischio di vittimizzazione da parte dei coetanei per i soggetti obesi (OR = 2,42; p<0.01).
Per quanto riguarda le diverse tipologie di vittimizzazione, controllando l’effetto di genere ed età, i soggetti in eccesso
ponderale presentano un maggior rischio di episodi di vittimizzazione di tipo verbale, relazionale e fisico rispetto ai coetanei
normopeso. Non si evidenziano associazioni tra indice di massa corporea e vittimizzazione di tipo sessuale o elettronico. Il
rischio di vittimizzazione risulta associato al BMI indipendentemente dal genere e dalla fascia d’età dei soggetti, anche se
alcune modalità di vittimizzazione sono più frequenti nel genere maschile e negli adolescenti più giovani. In particolare, i
ragazzi di 15 anni presentano un minor rischio di vittimizzazione associato al BMI per quanto riguarda le modalità: “insulti,
prese in giro o offese” (OR = 0,54) e “insulti e commenti sull’etnia” (OR = 0,57) e “esclusione intenzionale dal gruppo” (OR
= 0,58). Per quanto riguarda il genere, le ragazze presentano un minor rischio di vittimizzazione associato al BMI di tipo
fisico (OR = 0,46) e di tipo relazionale per quanto riguarda l’item “insulti e commenti sull’etnia” (OR = 0,36 ) rispetto ai
ragazzi.
Keywords
Obesity, Body Mass Index, Peer Victimization
149
DISABILITÀ E AMICIZIA.
RAPPRESENTAZIONI GRAFICHE DEL RAPPORTO AMICALE CON UN COMPAGNO DISABILE
GIULIA SAVARESE, LUISA DE FEO
Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Salerno
[email protected]
Introduzione
I pregiudizi e gli stereotipi rinforzano la mentalità dell’assistenzialismo, della compassione, della dipendenza, questo, a
discapito, di una cultura dell’integrazione. Essi generano atteggiamenti di distanza interpersonale e di stigmatizzazione. La
sfida che si deve vincere oggi è quella di saper coniugare uguaglianza e diversità, come ricomposizione delle differenze,
come riconoscimento e valorizzazione di ogni specificità (Arcuri, Cadinu, 1998). Tutto questo riguarda anche e soprattutto la
disabilità. Alcuni pregiudizi sul disabile -quelli che lo vogliono “infelice”, “debole”, “non capace”- spesso derivano dalla
mancanza di conoscenza diretta della persona disabile, ma, altrettanto spesso, dalla nostra difficoltà a rapportarci con i nostri
limiti ed i nostri handicap (Cartelli, 1993). I pregiudizi influenzano anche le relazioni in adolescenza, laddove la possibilità di
fare parte di un gruppo è sempre molto importante per qualsiasi individuo (Bombi, Pinto, 2000), disabile o non, ma risulta
particolarmente preziosa per la persona con disabilità, al fine di evitare vissuti di solitudine ed emarginazione sociale. La
solitudine è spesso un elemento che si affianca alla disabilità, poiché il pregiudizio ci fa vedere l’ “altro” in maniera
totalmente distorta, il che può portare ad atteggiamenti di ostilità e malessere nei suoi confronti (De Caroli, 2005).
Obiettivo
Attraverso lo strumento del disegno, cogliere se sussistano eventuali differenze nelle rappresentazioni grafiche che
preadolescenti danno rispettivamente della propria amicizia con un compagno di classe con sviluppo tipico e con un
compagno di classe disabile.
Partecipanti
68 preadolescenti di età compresa tra gli undici e i tredici anni che frequentavano 5 classi della scuola media di primo grado
di Omignano Scalo (Sa). Nelle loro classi era inserito un allievo disabile.
Lo strumento e la procedura
E’ stato adoperato il test del disegno dell’amicizia di Bombi e Pinto (2000), che consta di 5 cinque scale: Coesione,
Distanziamento, Somiglianza, Valore, Clima emotivo. Sono stati distribuiti fogli lisci A4 con due intestazioni: da una parte
del foglio la consegna era Disegna te stesso con un tuo compagno di classe, dall’altra parte era Disegna te stesso con il tuo
compagno di classe disabile.
Risultati
Relativamente alle scale di Distanziamento e di Somiglianza, il 67% dei soggetti si è disegnato accanto al compagno con
sviluppo tipico ed il 36% accanto al compagno disabile; il 25% ha raffigurato graficamente se stesso mentre svolge un
attività comune con il compagno con sviluppo tipico, nessuno si è disegnato in attività comuni con il compagno disabile.
Per quanto attenga alla scala di Coesione, lo sguardo distolto, l’allontanamento, la separazione e la lontananza tra le due
figure disegnate sono aspetti riscontrati in misura maggiore nel disegno con compagno disabile. In particolare, nei disegni
con compagno con sviluppo tipico la categoria “separazione dello spazio individuale” non è presente, mentre lo è nel 50%
delle rappresentazioni con compagno disabile. Riguardo alla scala del Clima Emotivo, pur non avendo ottenuto disegni dove
fossero evidenti sentimenti di ostilità tra i personaggi disegnati, essa si presenta connotata esclusivamente da
rappresentazioni grafiche di malessere unilaterale o di benessere unilaterale nel disegno con compagno disabile. Il
benessere per entrambe i partner è caratteristica soltanto dei disegni con compagno con sviluppo tipico. La scala di Valore,
infine, attraverso i subtest Spazio occupato e Linea dello sguardo, evidenzia che i soggetti intervistati tendono a disegnarsi in
uno spazio diverso e con una linea dello sguardo non del tutto corrispondente a quella del proprio compagno disabile. Nel
dettaglio, i personaggi del disegno con compagno con sviluppo tipico, nel 75% dei casi, si guardano negli occhi, nel caso del
compagno disabile, ciò avviene solo nel 30% dei casi.
Dunque, i nostri dati evidenziano differenze nella rappresentazione grafica di amicizia con coetanei disabili e con coetanei
con sviluppo tipico. I disegni relativi ai compagni disabili presentano raffigurazioni grafiche di partner amicali con minore
coesione, maggiore distanza interpersonale e clima emotivo sempre al limite tra benessere e malessere. Le figure si guardano
poco in volto, spesso sono di spalle e non svolgono alcuna comune attività.
Keywords
disabilità, amicizia, pregiudizio
150
AMICIZIA ON-LINE E COMPETENZE RELAZIONALI IN ADOLESCENZA
ROBERTO BAIOCCO
Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Facoltà di Psicologia 1, Sapienza Università di Roma
[email protected]
Introduzione
Internet, in particolare in adolescenza, rappresenta uno strumento che permette di comunicare, di entrare in contatto con gli
altri e di instaurare nuove amicizie. La più recente letteratura in questo ambito (Rivoltella, 2006; Valkenburg, Peter e
Schouten, 2006; Willoughby, 2008) si sta maggiormente interessando agli aspetti psicosociali connessi all’utilizzo della rete
e a come i nuovi media condizionino le competenze relazionali del soggetto. Valkenburg e Peter (2007) in una esaustiva
review pongono a confronto due opposte ipotesi esplicative per interpretare la relazione tra comunicazione/socializzazione
on-line e benessere psicologico di preadolescenti e adolescenti: la teoria del disimpegno e quella della stimolazione. La prima
afferma che la comunicazione on-line incida negativamente sul benessere psicologico perché: a) sottrae tempo che potrebbe
essere dedicato alle amicizie già esistenti riducendone la qualità e b) stimolerebbe la tendenza dei ragazzi a intrattenere
relazioni con sconosciuti, di breve durata e non emotivamente significative. La teoria della stimolazione sostiene, al
contrario, che la comunicazione on-line permetta un arricchimento del contesto relazionale del soggetto, favorisca
opportunità di crescita e lo svelamento delle parti più intime di sé. Obiettivi: La ricerca vuole indagare se l’utilizzo di internet
possa essere considerato una risorsa, così come affermato dalla teoria della stimolazione, oppure un vincolo alla costruzione
o al mantenimento della rete sociale e amicale dei giovani.
Metodo
Soggetti: Lo studio è stato effettuato su un campione di adolescenti (N=695) con un’età compresa tra i 16 e i 19 anni.
Strumenti: Sono strati somministrati diversi questionari: la Scala sulle Motivazioni alla Fruizione della Rete (SMFR; Baiocco
et al., 2008), la Scala di Percezione della Comunicazione On-line (POC; Peter e Valkenburg, 2006), la Scala di Svelamento
dell’Intimità On-line (ISD; Schouten, Valkenburg e Peter, 2007), l’Internet Addiction Test (IAT; Young, 1998) e la
Frienship Quality Scale (FQS; Bukowski et al., 1984) nella versione amico on-line ed off-line. Metodologia statistica: Le
relazioni tra gli strumenti sono state indagate grazie al coefficiente di correlazione lineare di Pearson. Per verificare l’ipotesi
che vi siano differenze statisticamente significative ai punteggi medi delle diverse dimensioni, sono state condotte Analisi
della Manova e test t per campioni appaiati.
Risultati
Il campione della ricerca è stato suddiviso in funzione della rete relazionale descritta dai ragazzi. È stato costruito un
indicatore definito come “ricchezza della vita relazionale” attraverso 3 item del questionario biografico: 1) numero dei amici
frequentati nel tempo libero; 2) presenza di un gruppo di riferimento; 3) presenza di un amico del cuore. Per quanto riguarda
la fruizione giornaliera di internet (F1,416=7,03; p<,001) è il gruppo con una maggiore relazionalità a trascorrere più tempo in
rete rispetto al secondo gruppo. Non emergono invece differenze significative ai punteggi medi della scala IAT relativa alla
dipendenza da internet (F1,416=2,87; p=0,91). Sono state evidenziate differenze significative tra i gruppi per la dimensione
“Profondità della comunicazione” (F1,416=4,44; p<,05) e Svelamento dell’Intimità On-line (F1,416=23,96; p<,001): gli
adolescenti con alta relazionalità sono quelli che sentono di poter parlare degli aspetti più intimi di sé, o dei propri segreti,
mentre stanno comunicando in rete. Discorso analogo può essere fatto anche per due delle dimensioni misurate dal
questionario sulle motivazioni all’uso di internet: il fattore “creazione e mantenimento delle relazioni amicali” (F1,416=25,19;
p<,001) e il fattore “divertimento on-line” (F1,416=5,69; p<,001). Sono stati selezionati gli adolescenti che hanno dichiarato di
avere un amico del cuore sia nel contesto reale che virtuale (N=85, 12,4% del campione). Sono state quindi confrontate le
risposte alla Friendship Quality Scale riferite al miglior amico reale e virtuale (frequentato solo su internet da almeno 6
mesi). Le analisi rilevano come l’amico del cuore virtuale fornisca un minor sostegno affettivo (t84=-4,99; p<.01) se
confrontato con quello frequentato nel “mondo off-line” e una più facile espressione del conflitto (t84=3,47; p<.01).
Conclusioni
I risultati confermano quanto sostenuto dalla teoria della stimolazione (Valkenburg e Peter, 2007). La comunicazione on-line
sembra infatti permettere un arricchimento della vita relazionale del soggetto e favorire, probabilmente, un buon adattamento
al contesto (Cheng, Chan, Tongs, 2006). I dati riportati in questo studio evidenziano come internet non incida negativamente
sul benessere psicologico dei ragazzi: non sottrae tempo da dedicare alle amicizie né impedisce la costruzione di legami
amicali forti e psicologicamente significativi.
Keywords
Internet friendships; Online relationships; Net-generation
151
LA SIMILARITÀ VALORIALE TRA AMICI IN ADOLESCENZA
SIMONA DI LULLO, SERENA AQUILAR, DARIO BACCHINI
Dipartimento di Psicologia, Seconda Università degli Studi di Napoli
[email protected]
Introduzione
L’adolescenza è una fase fondamentale per la formazione del sistema valoriale. La constatazione che i valori genitoriali
hanno un’influenza modesta su quelli dei propri figli (Aquilar, Affuso e Miranda, 2007) porta a concentrare l’attenzione su
fonti di influenza esterne alla famiglia, tra cui il gruppo dei pari. Interagendo con i propri amici il ragazzo viene a contatto
con valori nuovi ed originali. Tuttavia, ancora non è chiaro quanto i valori degli amici influenzino quelli dell’adolescente.
Per spiegare la formazione delle amicizie sono state elaborate due ipotesi (Tani, Rossi e Smorti, 2005): in base all’ipotesi
della complementarietà, due persone diventano amiche se i bisogni dell’una sono complementari a quelli dell’altra; secondo
l’ipotesi della similarità o omofilia, si è attratti da chi ha caratteristiche simili alle proprie. Attualmente, numerose evidenze
empiriche sostengono l’ipotesi dell’omofilia (Solomon e Knafo, 2007; Tani, Rossi e Smorti, 2005).
La somiglianza tra amici può essere frutto di due processi: 1. selezione: le persone selezionano come amici coloro che sono
simili a sé (Kandel, 1978); 2. socializzazione: le persone che sono amiche si influenzano reciprocamente (Hallinan e
Williams, 1990). La tesi più plausibile è che entrambi i processi abbiano una propria importanza.
Partendo dall’ipotesi che gli amici siano simili tra loro, è necessario domandarsi di quale similarità si tratti. Se per età, genere
sessuale ed etnia vi è un consenso pressappoco unanime (Aboud e Mendelson, 1996), per quanto riguarda variabili
psicologiche quali atteggiamenti, tratti di personalità o valori, i dati sono molto meno chiari.
L’obiettivo del presente studio è indagare il ruolo che la similarità dei valori svolge nelle amicizie tra adolescenti. Nello
specifico, ipotizziamo che la somiglianza valoriale sia maggiore per le diadi di “amici” rispetto alle diadi di “nemici”.
Metodo
La ricerca è stata realizzata in 4 scuole superiori di Napoli. Ha coinvolto 545 studenti iscritti al II ed al V anno, di cui 267
femmine (M=17,08; ds=1,66) e 278 maschi (M=16,80; ds=1,63).
Per misurare i valori è stato utilizzato il Portrait Value Questionnaire (PVQ) (Schwartz et al., 2001), che consente di rilevare
i 10 valori identificati da Schwartz: universalismo, benevolenza, conformismo, tradizione, sicurezza, potere, successo,
edonismo, stimolazione ed autodirezione.
Per individuare le diadi di “amici” e “nemici” è stato chiesto ai soggetti “Chi reputi veramente amico?” e “Chi sono i
compagni/e che non ti piace frequentare?”. Per ciascuna domanda era possibile indicare fino a quattro compagni di classe.
La somministrazione del questionario è avvenuta in classe, durante le ore di lezione.
Successivamente alla raccolta dei dati, sono state selezionate le diadi di “amici” e “nemici”, utilizzando il criterio della
reciprocità. Il campione finale su cui è stata condotta la ricerca era costituito da 318 diadi, 260 di “amici” (118 diadi maschili
e 142 femminili) e 58 di ”nemici” (24 diadi maschili e 34 femminili).
Risultati
Per valutare se le coppie di amici fossero più simili delle coppie di nemici è stato calcolato un punteggio di discrepanza
valoriale intracoppia: al punteggio ottenuto per ciascun item dal primo membro della diade è stato sottratto il punteggio dato
al medesimo item dal secondo membro. La media di tali differenze (in valore assoluto) costituisce il punteggio di
discrepanza.
Successivamente, è stata effettuata una ANOVA in cui il punteggio di discrepanza è stato inserito come variabile dipendente,
e la tipologia (amico/nemico) e il genere sessuale della diade sono stati inseriti come variabili di disegno. I risultati mostrano
effetti significativi sia della variabile tipologia (F=7,84; df=1; p<.01) che dell’interazione tipologia x genere (F=6,26; df=1;
p<.05), ma nessun effetto significativo della variabile genere (F=.14; df=1; p=.71). Le diadi di amici mostrano una maggiore
similarità rispetto alle diadi di nemici e tale similarità si accentua notevolmente nelle diadi di genere femminile.
In seguito, per comprendere quali valori fossero più importanti nella formazione delle amicizie, è stata effettuata una
MANOVA inserendo la tipologia ed il genere nuovamente come variabili di disegno, e le differenze in valore assoluto fra i
punteggi dei due membri della diade relativi ad ogni singolo valore come variabili dipendenti. Non è risultato significativo
alcun effetto principale, né della tipologia (Wilks'Lambda=.96; F=1,21; df=10,305; p=.28), né del genere
(Wilks'Lambda=.94; F=1,84; df=10,305; p=.05), ma soltanto l’effetto di interazione tipologia x genere (Wilks'Lambda=.94;
F=1,96; df=10,305; p<.05); nello specifico, dalle analisi univariate è emerso che per i valori conformismo e sicurezza le
amiche femmine sono più simili degli amici maschi. Tali risultati portano a supporre che per le femmine sia più importante,
rispetto ai maschi, avere amici che sostengano valori simili ai propri.
Keywords
friendship, values, adolescence
152
QUALITA’ DELLE RELAZIONI INTERPERSONALI, AGGRESSIVITA’, PROBLEMI DI
ESTERNALIZZAZIONE E USO DI VIDEOGIOCHI VIOLENTI:
QUALE RELAZIONE NEI PREADOLESCENTI?
LUCA MILANI (1), FEDERICA FORTE (2)
(1) CRIDEE (Centro Ricerche sulle Dinamiche Evolutive ed Educative) - Università Cattolica di Milano
(2) Università Cattolica di Milano
[email protected]
Introduzione
Il videogioco è un’attività ricreativa tra le preferite dai bambini italiani: due terzi dei giovani tra i 6 e i 14 anni utilizzano
regolarmente videogiochi (ISTAT, 2001), che nella maggior parte dei casi sono connotati da contenuti di natura aggressiva e
violenta. La letteratura internazionale ha da tempo rilevato una associazione tra uso di VG violenti e messa in atto di
comportamenti aggressivi (Carnagey e Anderson, 2005; Krahe e Moller, 2004; Slater et al. 2003). Questi studi sembrano
configurare una correlazione diretta tra uso del videogame violento e messa in atto di comportamenti aggressivi. A nostro
avviso vi è tuttavia la necessità di considerare in modo più approfondito l’interazione tra l’utilizzo del gioco elettronico e
altri aspetti della costellazione di vita dei bambini (ad es. relazioni con i genitori, relazioni interpersonali ed elaborazione
cognitiva delle difficoltà).
Obiettivi
- Approfondire le modalità di utilizzo dei videogiochi in un campione di bambini delle scuole primarie.
- Verificare se l’utilizzo preferenziale di videogiochi a contenuti violenti sia correlato a problemi di condotta aggressiva, di
esternalizzazione, e a problemi nelle strategie di coping.
- Verificare se alcune caratteristiche dell’ambiente di crescita dei bambini (stress genitoriale) siano correlate con l’uso di
videogiochi violenti.
Partecipanti
144 bambini di età compresa tra 11 e 13 anni (M=11.89, DS=0.82), frequentanti una scuola media della provincia di Milano.
Settantotto partecipanti sono maschi (età media=11.84, DS=0.82), 66 femme (età media=11.95, DS=0.83).
Procedura
Ai partecipanti sono stati somministrati i seguenti strumenti: - TRI - Test delle relazioni interpersonali (Bracken, 1993; vers.
it.: Ianes, Erickson, Trento, 1996); - Children’s Coping Strategies Checklist (Ayers e Sandler 1999; Arizona State
University); - Indicatori della capacità di adattamento sociale in età evolutiva - Scala AFV (Caprara et al.; O.S., Firenze,
1992); - Scheda di rilevazione delle abitudini d’uso dei videogiochi
Alle madri dei partecipanti sono stati somministrati i seguenti strumenti:
- CBCL - Child Behavior Checklist (Achenbach, 1991; vers. it.: Frigerio, Istituto Medea, Bosisio Parini, 2001); - PSI Parenting Stress Index – Short Form (Abidin R.R., 1995; vers. it.: Guarino et al., O.S., in press).
Risultati
In base ai dati della scheda di rilevazione delle abitudini d’uso dei videogiochi, i partecipanti sono stati divisi in “utilizzatori
di giochi violenti” (N=64; 44.4%) e “non utilizzatori di giochi violenti” (N=80; 55.6%). I maschi sono risultati i maggiori
utilizzatori di videogiochi violenti rispetto alle femmine (66.7% vs. 18.2%).
Tra le due popolazioni sono emerse le seguenti differenze:
- nel test TRI gli utilizzatori di videogiochi violenti evidenziano relazioni più negative con le madri (M=103.63 vs. 111.26;
t(142)=-2.58, p<.01), e con le coetanee femmine (M=91.80 vs. 107.74; t(142)=-4.71, p<.001) e più positive con i coetanei
maschi (M=106.27 vs. 91.40; t(142)=4.41, p<.001). Per i maschi non vi sono differenze nella qualità delle relazioni
interpersonali in base all’utilizzo di videogiochi violenti, mentre le femmine che usano videogiochi violenti mostrano
peggiori relazioni con le madri.
- gli utilizzatori abituali di videogiochi violenti (sia maschi sia femmine) ottengono punteggi più elevati (M=19.07 vs. 16.02;
t(142)=4.47, p<.001) nel test AFV.
- gli utilizzatori abituali di videogiochi violenti mostrano punteggi più elevati nelle scale comportamento delinquenziale
(M=1.24 vs. 0.67; t(142)=2.70, p<.01), comportamento aggressivo (M=5.68 vs. 4.03; t(142)=2.26, p<.05) ed
esternalizzazione (M=7.00 vs. 4.70; t(142)=2.69, p<.01) della CBCL.
Tra le due sottopopolazioni non emergono differenze significative nei restanti strumenti. Per verificare se le variabili
misurate fossero in grado di predire problemi di natura aggressiva, è stata condotta una serie di regressioni lineari inserendo
come variabili indipendenti: relazioni interpersonali (TRI), stress genitoriale (PSI), strategie di coping, utilizzo del
videogioco violento; e come variabili dipendenti: punteggio di esternalizzazione della CBCL e punteggio al test AFV. Sono
emerse le seguenti relazioni: - stress materno ( =.449, t(142)=5.31, p<.001) e uso di videogiochi violenti ( =.195,
t(142)=2.30, p<.05) risultano predittori del punteggio di esternalizzazione della CBCL; - uso di videogiochi violenti ( =.338,
t(142)=3.79, p<.01) e qualità delle relazioni interpersonali ( =.-188, t(142)=-2.11, p<.05) risultano predittori del punteggio
AFV. Questi risultati confermano la connessione tra utilizzo di videogiochi violenti e problemi di aggressività. Dai dati
emerge inoltre come alcuni aspetti dell’ambiente di vita dei bambini (qualità della relazione con i genitori) siano connessi
con l’uso preferenziale di videogiochi violenti.
Keywords
videogame, aggression, interpersonal relationship
153
Sessione tematica 3
APPRENDIMENTO IN SITUAZIONI DI DIFFICOLTA’
Coordina: Renzo Vianello
Università di Padova
154
TOKEN ECONOMY E ABILITÀ SOCIALI: EFFICACIA PER LA DISABILITÀ VISIVA
CHIARA BONFIGLIUOLI, MARINA PINELLI
Facoltà di Psicologia, Università degli Studi di Parma.
[email protected]
Fra le varie metodologie presenti nell’ambito della psicologia dell’educazione, la Token Economy è sicuramente un sistema
utile per modificare il comportamento dei bambini con disabilità.
I vari benefici, documentati da diversi studi (Pancioni, 1981; Nisi et al., 1986; 1987; Cavalier et al., 1998; Reese at al., 1998;
Leiberman, 2004; Friend e Bursuck, 2005; Seligson Petscher e Bailey, 2006), riguardano la partecipazione dell’alunno con
disabilità all’interno del contesto classe, la comunicazione, le abilità sociali e la possibilità di disporre di un feedback
immediato per rafforzare la motivazione e l’impegno dell’alunno (Jewel, 2007). Nel vasto e diversificato panorama delle
disabilità, i bambini non vedenti e ipovedenti presentano particolari carenze sul piano delle relazioni e delle abilità sociali.
Secondo Celeste (2006), un ambiente ricco di stimolazioni e pronto a fornire feedback al bambino non vedente riguardo ai
suoi comportamenti può migliorare notevolmente le performance sociali nel caso di questa specifica disabilità.
Non essendo disponibili in letteratura particolari riferimenti all’utilizzo di questa tecnica con bambini non vedenti o
ipovedenti, la ricerca si propone l’obiettivo di valutare l’efficacia della Token Economy nel contesto scolastico per
l‘incremento di comportamenti prosociali in un caso di disabilità visiva.
La ricerca ha coinvolto una classe seconda di una scuola secondaria di primo grado, formata da 23 alunni di cui uno con
diagnosi di cecità congenita, il quale presenta notevoli difficoltà ad interagire positivamente con i pari in generale,
privilegiando la compagnia degli adulti e gestendo in modo poco efficace la comunicazione con i compagni.
La ricerca si configura come un disegno a soggetto singolo del tipo ABA (con sospensione del trattamento).
Per l’osservazione sistematica dei comportamenti (effettuata in tutte le fasi per 8 misurazioni ciascuna) è stata utilizzata una
matrice di campionamento per i comportamenti prosociali, per poter distinguere tra comportamenti emessi o ricevuti
dall’alunno non vedente verso/dal compagno di banco. La sessione di osservazione durava 30 minuti.
Durante la fase di training è stata introdotta una Token Economy di classe ed i token venivano assegnati sia all’alunno non
vedente, sia al compagno di banco (diverso per ogni sessione) in base al comportamento tenuto da entrambi in un’ottica di
prosocialità reciproca.
Il tabellone su cui venivano raccolti i punti aveva caratteristiche tattili in modo che anche l’alunno non vedente potesse
valutare i progressi continui e collettivi del gruppo classe verso il premio concordato con l’insegnante.
I dati raccolti sono stati analizzati tramite il test C per serie temporali. Per quanto riguarda i comportamenti prosociali
ricevuti dall’alunno con disabilità visiva, vi è una differenza significativa tra baseline e training (Z=3.590; p < .001) e fra
baseline e follow up (Z=3.175; p < .001). Non sono state riscontrate differenze significative fra la fase di training e quella di
follow up (Z=1.454; p > .05) e ciò conferma il mantenimento del trend evidenziato.
Per i comportamenti prosociali emessi dall’alunno verso i compagni, il confronto fra la baseline ed il training mostra
ugualmente una differenza significativa fra le due serie di dati (Z=3.815; p < .001), così come il confronto fra baseline e
follow up (Z=3.776; p < .001); come per i comportamenti ricevuti non vi è invece differenza significativa fra la fase di
training e quella di follow up (Z=.305; p > .05).
In base a questa esperienza, si conferma l’estrema importanza che il rinforzo positivo e il feedback da parte dei pari
assumono per alunni non vedenti e la TE si rivela una tecnica utile con questa particolare disabilità soprattutto per le sue
caratteristiche di immediatezza e tangibilità.
Keywords
Token Economy, social skills, visual impairments
155
L’ELABORAZIONE DI UN MODELLO PER IL RECUPERO DELLA DISPERSIONE SCOLASTICA E
DELL’INSUCCESSO FORMATIVO: COLLABORAZIONE TRA AZIONE SOCIALE E RICERCA
UNIVERSITARIA
VALENTINA GHIONE
Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione dell'Università "La Sapienza" di Roma
[email protected]
Introduzione: I motivi e il contesto della ricerca
L’insuccesso scolastico e l’abbandono precoce della scuola da parte di giovani rappresenta un problema che riguarda, con
percentuali diverse molti paesi occidentali, nei quali il fenomeno riceve una crescente attenzione. In tale contributo si
presenta una ricerca, durata quattro anni (2003-2008), realizzata all’interno di un progetto socio-educativo innovativo
denominato “Scuola della Seconda Opportunità” e localizzato in un quartiere disagiato della città di Roma . Le Scuole della
Seconda Opportunità (Cresson, 1995) hanno l’obiettivo di reintegrare a scuola adolescenti drop-out esclusi dal sistema
scolastico istituzionale e a rischio di più gravi forme di esclusione sociale .
Obiettivi della ricerca
Analisi del lavoro dei professionisti impegnati nel progetto e supporto alla costruzione “in itinere” di un modello psicopedagogico inclusivo e capace di affrontare l’insuccesso formativo e di reintegrare gli adolescenti drop-out in un percorso
scolastico finalizzato a sostenere l’esame di licenza media.
Principali ipotesi
1. per poter affrontare la dispersione scolastica gli insegnanti devono interrogarsi a proposito del fallimento scolastico, delle
pratiche formative realizzate a scuola e della relazione con gli allievi
2. per sostenere gli adolescenti è necessario sostenere gli adulti (famiglie, insegnanti) responsabili della loro formazione
Metodologia I: cornici teoriche di riferimento
La consapevolezza della molteplicità dei fattori coinvolti nella costruzione dell’innovazione a scuola, in particolare quando si
tratta di affrontare la dispersione scolastica , ha portato a riconoscere la specificità e la parzialità dei singoli approcci teorici e
la necessità di integrare tradizioni diverse e di prendere spunti da prospettive teorico-metodologiche differenti e tra loro
complementari. Il progetto è stato pertanto studiato utilizzando una pluralità di prospettive:
1. l’approccio sistemico-relazionale applicato allo studio dell’adolescenza e delle istituzioni scolastiche (Selvini Palazzoli
1986);
2. l’approccio storico-culturale (Cole, 1996) applicato ai processi di costruzione delle conoscenze nei contesti di vita
quotidiana con particolare riferimento a: a) l’assunzione del carattere socialmente distribuito delle conoscenze (Salomon,
1991) ; b) il costrutto di “comunità di pratiche” (Wenger, 1997) , c) gli studi sull’adolescenza (Perret-Clermont et al. 2004);
3. l’approccio riflessivo applicato alla costruzione della competenza professionale (Schön 1983).
Metodologia II: Partecipanti e metodi
I partecipanti sono stati :
1. i professionisti impegnati nel progetto (insegnanti, psicologi, tutors, dirigenti scolastici)
2. gli adolescenti dispersi (di 15/18 anni) coinvolti nel progetto denominato “Scuola della Seconda opportunità”.
Dal punto di vista delle strategie di ricerca è stato utilizzato un approccio “multimetodo” basato sulla ricerca etnografica e
l’analisi storica del contesto e delle pratiche realizzate in particolare attraverso:
a) l’osservazione e lo “shadowing” dei professionisti
b) l’analisi degli artefatti documentali prodotti nel progetto
c) la conduzione di colloqui in profondità con i professionisti
d) la realizzazione di focus groups
e) la produzione di report scritti sulle pratiche e i risultati emergenti , periodicamente discussi e condivisi con i professionisti.
Sui dati raccolti sono state condotte semplici analisi quantitative e più approfondite analisi qualitative.
Risultati
I. recupero di un crescente numero di adolescenti dispersi ad un percorso formativo (dati quantitativi)
II. progressiva definizione di un modello pedagogico e organizzativo per il recupero di adolescenti drop-out e progressiva
estensione di questo modello in differenti zone della città di Roma (Lucatello, Ghione, Cattolico, 2006)
III. crescente dialogo con il sistema scolastico istituzionale sui temi del fallimento e della dispersione scolastica (Ghione, in
preparazione)
Conclusioni
1. valore euristico di un approccio teorico pluriprospettico per affrontare il fenomeno della dispersione scolastica e sostenere
la costruzione dell’innovazione nei contesti scolastici
2. importanza della collaborazione interprofessionale e del lavoro co-riflessivo nella relazione educativa con gli adolescenti
3. rilevanza dei risultati per le politiche educative e di inclusione sociale.
Keywords
Drop-out, empowerment, school system
156
L’IMPIEGO DI STRATEGIE DI SELF-HANDICAPPING:
UN CONFRONTO TRA DISLESSICI E NORMOLETTORI
MARIANNA ALESI, GAETANO RAPPO, MARIA GERACI, ANNAMARIA PEPI
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Palermo
[email protected]
Introduzione
Le strategie di self-handicapping sono modalità di difesa proattiva davanti ad un potenziale pericolo che vengono
frequentemente impiegate nel sistema scolastico per apparire agli altri abili e meritevoli (Alesi, Rappo e Pepi, 2008;
Midgley, Arunkumar e Urdan, 1996; Urdan, 2004). La costruzione dell’ostacolo e della scusa sposta l’attenzione altrui su
cause esterne, eterocentrate, indipendenti da sé e dalle proprie abilità, giungendo a giustificare l’insuccesso. Le strategie più
frequentemente adottate sono impegnarsi contemporaneamente in un alto numero di attività che distolgono l’attenzione dai
compiti scolastici, scherzare, giocare o uscire fino a tardi la notte prima di una prova, lasciarsi distrarre dai propri pensieri,
dai rumori dell’ambiente o dagli amici, scegliere di competere con compagni più abili o di affrontare prove con basse
probabilità di successo, procrastinare lo studio. La tendenza ad impiegare modalità difensive di autosabotaggio va
interpretata in relazione alle differenze individuali riconducibili allo specifico profilo motivazionale dello studente. Rilevante
è il tal senso il livello di autostima; strategie di autosabotaggio servono a proteggere il proprio sé di fronte ad un potenziale
fallimento (Diener e Milich, 1999). Sebbene vi sia un generale accordo tra gli studiosi nel ritenere che tali strategie, in quanto
cognitivamente elaborate, vengano utilizzate solo a partire dalla prima adolescenza, allorché viene raggiunta una chiara
consapevolezza del rapporto tra abilità e impegno, recenti ricerche rivelano il ricorso a tali modalità di difesa già a partire
dall’età dei sei anni. Questo precoce impiego è particolarmente evidente in condizioni di disagio scolastico e in disturbi,
come ad esempio l’ADHD (Waschbusch, Craig, Pelham e King, 2007).
Il presente studio si propone di indagare sull’impiego di strategie di self-handicapping in un gruppo di bambini dislessici e un
gruppo appaiato di normolettori. Ci si aspetta che una disabilità particolarmente significativa e invalidante in ambito
scolastico, come la dislessia, influenzi un maggiore ricorso a modalità difensive e si associ ad un livello inferiore di
autostima rispetto al gruppo di controllo. Un altro obiettivo è di approfondire l’analisi della relazione tra l’impiego di
strategie di self-handicapping e il livello di autostima scolastica. Ci si aspetta che un maggior ricorso a strategie di
autosabotaggio si associ a livelli più bassi di autostima.
Metodo
Hanno partecipato allo studio 30 bambini di età media 7.9 anni, frequentanti la terza classe della scuola primaria, 15 maschi e
15 femmine. Nello specifico 15 bambini erano dislessici ed erano stati selezionati da un campione iniziale di 520 studenti
con una batteria standard per la valutazione della dislessia. I rimanenti 15 bambini erano normolettori, appaiati ai dislessici
per genere, età e abilità di comprensione della lettura.
Il materiale impiegato comprendeva: 1) la scala del Self-handicapping per bambini di Waschbusch et al. (2007), composta da
9 item (es. “Alcuni bambini rinviano i loro compiti scolastici fino all’ultimo momento così possono dire che questa è la
ragione per cui non hanno fatto bene come speravano. Quanto è vero questo per te?”); 2) La Scala del Successo Scolastico
tratta dal Test di Valutazione dell’Autostima (TMA) di Bruce A. Bracken (1992), composta da 25 item volti ad indagare la
stima di sé in relazione ai successi e agli insuccessi in ambito scolastico (es. “Sono fiero del mio lavoro scolastico”). I due
strumenti venivano presentati secondo un ordine bilanciato, con modalità individuale.
Risultati
Emergono differenze significative nell’impiego di strategie di self-handicapping in relazione alle abilità di lettura [F(1, 29) =
32.425; p=.000]. I bambini dislessici (M=26.4) fanno maggiore ricorso a “scuse” che possano giustificare gli eventuali
insuccessi rispetto ai bambini con abilità di lettura nella norma (M=19.47). Anche il livello di autostima scolastica è
significativamente influenzato dalle abilità di lettura [F(1, 29) = 28.052; p=.000]. I normolettori (M=110.4) hanno una stima
di sé in ambito scolastico significativamente superiore rispetto ai dislessici (M=92.73). Un ulteriore obiettivo dello studio era
individuare possibili relazioni tra il ricorso a modalità difensive e l’autostima scolastica. Tra le due variabili emerge una
significativa correlazione negativa. Al diminuire del livello di autostima scolastica aumenta il bisogno di ricorrere a strategie
di difesa del sé. In linea generale, le indicazioni emerse dallo studio ribadiscono la necessità di approfondire lo studio dei
profili motivazionali in soggetti con disabilità di lettura. Contestualmente i risultati ottenuti relativamente all’impiego di
strategie di difesa del sé in relazione al livello di autostima, sono in linea con i dati degli studi finora condotti
prevalentemente in età adolescenziale.
Keywords
Self-handicapping; self-esteem; dyslexia
157
COSTRUZIONE DI UN SOFTWARE INFORMATIZZATO PER LA RIABILITAZIONE
DEI DISTURBI DI DECODIFICA IN BAMBINI DISLESSICI
GAETANO RAPPO
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Palermo
[email protected]
Introduzione
In questi ultimi anni il tema dei disturbi di decodifica è oggetto di significativi cambiamenti concettuali. Il contrasto tra
vantaggio e svantaggio socio-culturale riporta in primo piano la differenza tra disturbo e difficoltà di lettura. La
presenza/assenza di questo fondamentale parametro influenza una diversa modalità d’intervento, ristabilendo così lo stretto
legame tra valutazione e riabilitazione, in un’ottica più moderna di assessment mirato all’intervento. Il presente lavoro
consiste nella costruzione di uno strumento informatizzato finalizzato alla riabilitazione dei disturbi di lettura, e nella sua
successiva somministrazione a bambini dislessici all’interno di un disegno longitudinale. La presente ricerca si propone due
obiettivi: 1) valutare l’efficacia del Training Multimediale per la Riabilitazione dei Disturbi di Decodifica in Lettura, in
bambini, con disturbi di decodifica; 2) valutare l’influenza della variabile socio-culturale, misurata attraverso l’ubicazione
della scuola in quartiere svantaggiato/non svantaggiato, nelle fasi successive alla presentazione del Training Multimediale
per la Riabilitazione della Difficoltà di Decodifica in Lettura. S’ipotizza che i bambini che prendono parte al trattamento
informatizzato presentino un miglioramento, in termini di correttezza e di rapidità, rispetto ai bambini che non svolgono
alcun trattamento specifico. S’ipotizza inoltre che i bambini frequentanti scuole svantaggiate traggano minore beneficio dalla
partecipazione al training.
Metodo
Fase di campionamento: 346 soggetti, età media 8 anni, frequentanti la III classe della scuola primaria di 3 scuole di
Palermo, due site in quartieri non svantaggiati e una in quartiere svantaggiato. La ricerca ha avuto carattere longitudinale. A
tutti i soggetti sono state somministrate prove tese a rilevare le abilità di comprensione, di decodifica del testo scritto, il
livello cognitivo generale e il livello socioculturale. In base ai risultati ottenuti si è passati alla seconda fase della ricerca. Il
gruppo di bambini individuato era formato da 60 soggetti (30 maschi, 30 femmine), 28 frequentanti una scuola
“svantaggiata” e 32 frequentanti scuole “non svantaggiate”; i soggetti hanno riportato, nelle prove di decodifica in lettura,
punteggi inferiori al criterio. Questo gruppo è stato suddiviso in due sottogruppi, uno sperimentale e l’altro di controllo,
pareggiati per sesso, età, livello cognitivo, numero di errori e velocità di lettura alla prova MT di decodifica, numero di errori
e velocità di lettura alle prove 4-5-7-8 della Batteria di Valutazione della Dislessia e della Disortografia. Il training
multimediale, invece, comprende 356 compiti, a difficoltà crescente e suddivisi in 5 unità. Le unità 1 e 3 includono compiti
fonologici, come fusione, segmentazione, allitterazione e rime. Le unità 2 e 4 includono compiti visivi come ricerca di
lettere, ricerca di digrammi e di trigrammi, ricerca di parole e lettura di parole scritte in formato inconsueto. L’unità 5 include
un cloze test. Il gruppo sperimentale, composto da 30 bambini (15 maschi e 15 femmine), 16 frequentanti scuole “non
svantaggiate” e 14 frequentanti scuole “svantaggiate”, ha svolto per tredici giorni continuativi le prove del training
multimediale. Invece il gruppo di controllo, composto da 30 bambini (15 maschi e 15 femmine) di cui 16 frequentanti scuole
“non svantaggiate” e 14 frequentanti scuole “svantaggiate”, non ha preso parte a nessuna prova specifica e ha continuato a
seguire regolarmente il normale insegnamento scolastico. Tutti i bambini hanno preso parte alle fasi di post-test e di followup.
Risultati
Sono stati considerati la rapidità e la correttezza alle prove MT di decodifica, in tutte le fasi valutative svolte dai soggetti
durante i due anni. Si rileva un notevole trend di miglioramento nel gruppo sperimentale. I risultati si differenziano in
relazione alla variabile socio culturale. Relativamente al livello medio alto, al post test si è rilevata una differenza
significativa negli errori [F(1,30)=5,040; p=.032] ma non nella rapidità di lettura. Il gruppo sperimentale (M= 5.06)
evidenzia un decremento significativo nel numero degli errori rispetto al gruppo di controllo (M= 7.05). Anche al primo
follow-up si è rilevata una differenza significativa negli errori [F(1,27)=5,175; p=.031] ma non nei tempi. Anche in questo
caso il gruppo sperimentale (M= 3.94) evidenzia un decremento significativo nel numero degli errori rispetto al gruppo di
controllo (M= 7). Infine non si rilevano differenze significative al secondo e al terzo follow-up. Relativamente al livello
medio basso, invece, non si rilevano differenze significative né nella correttezza, né nella rapidità in nessuna delle
misurazioni successive alla fase di trattamento. I risultati mostrano come in situazioni di svantaggio, lavorare solo sulla
difficoltà non determina miglioramenti significativi nel bambino in termini di correttezza e rapidità.
Keywords
Dyslexia; sociocultural level; training
158
I CONTESTI EDUCATIVI NELL’OSPEDALIZZAZIONE PEDIATRICA
CONCETTA POLIZZI, GIOVANNA PERTICONE, VALENTINA FONTANA, FRANCESCA ROMANA NUCCIO
Dipartimento di Psicologia - Università degli Studi di Palermo
[email protected]
Introduzione
Lo studio su cui riferisce il presente contributo si colloca all’interno di un programma di ricerca che si pone come scopo
l’individuazione di forme di supporto per il bambino malato e ospedalizzato, all’interno del percorso di sperimentazione di
un Centro Educativo Sperimentale Interistituzionale Pediatrico Universitario Ospedaliero (C.'E.'..S.I...P.U.O’.), promosso
dall’Ateneo di Palermo. In particolare, si fa riferimento ad una direzione della ricerca che ha come obiettivo l’esplorazione
della possibile valenza evolutiva, nell’ospedalizzazione pediatrica, di specifici contesti educativi (laboratori artistici,
laboratori di narrazione/fabulazione, laboratori didattici, centro redazionale…), identificati dalla letteratura del settore come
contesti di sviluppo, nelle situazioni di percorso evolutivo tipico. In tal senso, lo studio ha voluto verificare una possibile
correlazione tra i suddetti contesti educativi e l’attivarsi, nel bambino ospedalizzato, di specifici processi evolutivi
individuati: nell’autoregolazione delle emozioni, nel senso di competenza e di autoefficacia, nel protagonismo, nella
percezione di sé come produttore di cultura, nell’attivazione del pensiero divergente, della motivazione intrinseca e di
processi metacognitivi, nella costruzione di nuovi schemi narrativi sul Sé, così come, nella percezione di un senso di
continuità tra tempi e spazi diversi della propria vita. Il modello della ricerca, quindi, identifica tali contesti con “spazi”
capaci di stimolare nel bambino quel “livello ottimale di stress” (Hendry, Kloep, 2002) per la ricerca di nuove risorse
funzionali ad affrontare il compito evolutivo posto dal life event “malattia e ospedalizzazione”, inteso come integrazione di
una situazione rischiosa e di specifici elementi di vulnerabilità del bambino; il life event può diventare, così, per il bambino
una vera e propria “sfida evolutiva” (ibidem). In tal senso, il modello recupera al suo interno tutte quelle prospettive teoriche
che definiscono le tipologie di intervento indicate come possibili forme di “sostegno allo sviluppo” (Fraiberg, 1999) del
bambino ospedalizzato: dagli spazi artistici, come spazi del “creare” e del “fare” (Robbins, 1987; Luzzatto, 2002), funzionali
al contatto con le proprie parti sane e le proprie risorse, agli spazi del fabulare e del narrare, in cui ridefinire significati e
rappresentazioni relativamente a ciò che accade (Smorti, 1994); e ancora, gli interventi educativo-didattici come vera e
propria relazione di aiuto che garantisce nel bambino un senso di continuità tra i diversi tempi e spazi della propria vita, oltre
che l’acquisizione di nuove competenze (Tessaro, 2003; Borghi; Mariotti, 2003).
Assumendo, dunque, tale quadro teorico e l’obiettivo indicato, il contributo ha focalizzato le attività educative che,
all’interno del funzionamento del centro educativo citato, hanno caratterizzato la specifica Unità di Supporto al bambino
ospedalizzato.
Metodo
La ricerca ha previsto il monitoraggio delle diverse attività indicate, consentendo, in tal senso, se e quanto gli esiti evolutivi
individuati dal modello si attivano durante le attività stesse.
Per quanto attiene ai soggetti della ricerca, si fa riferimento a un gruppo di bambini di età media 10 anni e, nello specifico: 45
bambini partecipanti alle attività del centro redazionale, 22 bambini partecipanti alle attività della scuola, 50 bambini
partecipanti alla biblioteca itinerante e 30 bambini partecipanti ai laboratori artistici. Tra gli strumenti di ricerca, sono stati
utilizzati tecniche di osservazione di tipo descrittivo (check list, schemi di codifica) (D’Odorico, Cassibba, 2001; Tartabini,
1998) e di tipo narrativo (tecnica degli episodi critici) (ibidem).
Risultati
I dati ottenuti sono stati analizzati attraverso l’applicazione del test 2 per la bontà di adattamento, così come dell’indice V di
Kramer e dell’indice di associazione (Del Vecchio, 2000; Ercolani, Areni, Leone, 2002). I risultati mettono in evidenza
come, in una condizione di ospedalizzazione, si presentano in maniera statisticamente significativa, gli esiti evolutivi previsti
dai laboratori artistici rispetto all’attivazione delle risposte attese dei diversi obiettivi, nella misura in cui sembrano poter
attivare nel bambino, in maniera rilevante, la costruzione di nuovi schemi narrativi sul sé, capacità di autoregolazione delle
emozioni, sentimenti di autoefficacia e autostima rispetto alla possibilità di gestire e risolvere il compito; significativa, anche,
la valenza della biblioteca itinerante rispetto allo sviluppo e al potenziamento, nel bambino, di autostima e autoefficacia ( 2
(3 gdl)= 7,81 p<.05). Inoltre, rilevanti appaiono, anche, le attività del centro redazionale che sembrano attivare nel bambino,
in maniera statisticamente significativa, lo sviluppo di una percezione di sé come produttore di cultura, e del potenziamento
del senso di autostima e di autoefficacia, attraverso l’esplicitazione di idee personali e il riconoscimento della valenza del
proprio contributo per la realizzazione del compito.
Keywords
pediatric hospitalization, educational contexts
159
Sezione tematica 4
TEORIA DELLA MENTE, COMPRENSIONE DELLE EMOZIONI
E AUTISMO
Coordina: Camilla Gobbo
Università di Padova
160
HINDSIGHT BIAS, OUTCOME BIAS E TEORIA DELLA MENTE IN ETÀ EVOLUTIVA
ANTONELLA MARCHETTI, ILARIA CASTELLI, DAVIDE MASSARO, LAURA SANVITO
Unità di Ricerca sulla Teoria della Mente, Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
[email protected]
Introduzione
La teoria della mente (da ora ToM) è la capacità di predire e spiegare il comportamento proprio e altrui sulla base di stati
mentali. Il crescente interesse per la ToM in ottica life-span (Paal, Bereczkei , 2007) ha evidenziato come essa, anche in età
adulta, non raggiunga un funzionamento ottimale. In varie circostanze la ToM risentirebbe dell’interferenza di bias di
ragionamento (Apperly et al., 2008). In ambito evolutivo il legame tra ToM e bias cognitivi è ancora poco esplorato.
Recentemente Bernstein e collaboratori (2007) trovano che in un gruppo di bambini in età prescolastica il pensiero ricorsivo
di 1° ordine sia correlato positivamente alla capacità di resistere al bias dell’hindsight, ovvero la tendenza a credere,
erroneamente, che si sarebbe potuto prevedere correttamente un evento, una volta che questo è ormai noto (Fischoff, 1975).
La ricerca muove da tale risultato, occupandosi anche di un’altra tipologia di errore di ragionamento, l’outcome bias (Baron,
Hershey, 1988), la tendenza a valutare la qualità di una decisione in funzione dell’esito al quale quella stessa decisione ha
portato. La scelta di questi oggetti di indagine è motivata da: 1) le due prove sui bias esplorano la capacità di ragionare su
due momenti significativi del processo decisionale, la presa di decisione e la valutazione della decisione presa, che vengono
attuati valutando esclusivamente gli antecedenti, a prescindere dalla conoscenza dell’esito; 2) le due prove sui bias e le prove
di falsa credenza potrebbero mostrare un isomorfismo strutturale rispetto al processo cognitivo impiegato per il superamento
delle prove stesse.
Obiettivi
Il presente lavoro approfondisce, in un gruppo di bambini in età scolastica: - la presenza dell’hindsight bias e dell’outcome
bias; - il legame tra i suddetti bias e ToM.
Metodo e partecipanti
A un gruppo di 36 bambini, 18 per ognuna delle classi considerate (1° elementare: età media in mesi= 80,5, min.=74,
max.=93, d.s.=4,9; 3° elementare: età media in mesi= 105, min.=96, max.=121, d.s.=6,3), equamente distribuiti per genere,
sono state somministrate le seguenti prove (*): 1. Coloured Progressive Matrices (Raven, 1962); 2. un compito di Hindsight
bias – al bambino è chiesto di indicare se un evento altamente improbabile possa secondo lui verificarsi; tale richiesta è posta
prima e dopo che il bambino sia venuto a conoscenza che quell’evento si è verificato; 3. un compito di Outcome bias – al
bambino è chiesto di esprimersi sulla bontà di una decisione dopo essere venuto a conoscenza dell’esito positivo o negativo
di tale decisione; 4. un compito di falsa credenza di 1° ordine (Siegal, Beattie, 1991); 5. un compito di falsa credenza di 2°
ordine (Perner, Wimmer, 1985). Le prove di hindsight bias e outcome bias sono state approntate su modifica,
rispettivamente, delle prove di Bernstein e collaboratori (2007) e di Baron e Hershey (1988). La somministrazione si è svolta
in un’unica sessione; l’ordine delle prove è stato bilanciato.
Risultati
Per formare un gruppo omogeneo sotto il profilo cognitivo sono stati esclusi dalle analisi tre soggetti che alla prova 1) hanno
ottenuto un punteggio inferiore al 5° o superiore al 95° percentile. Le analisi preliminari, condotte controllando la variabile
età, hanno evidenziato quanto segue:
- presenza dell’hindsight bias (Wilcoxon Test Z=-2.997, p<.001) sia per i bambini di 1° (Wilcoxon Test Z=-1.9, p<.057) sia
per quelli di 3° elementare (Wilcoxon Test Z=-2.315, p<.05);
- presenza dell’outcome bias (McNear Test p<.001); il fenomeno è riscontrabile solo nei bambini di 1° (McNear Test
p<.001);
- presenza di un legame significativo tra la prestazione nella prova di hindsight bias e la falsa credenza di 1° ordine nei
bambini di 3° (rho =-.732 p<.01);
- presenza di un legame significativo tra outcome bias (esito negativo) e la falsa credenza di 1° ordine nei bambini di prima
elementare (rho =.475 p<.05).
Non si riscontrano legami tra falsa credenza di 2° ordine e performance alle prove sui bias.
Conclusioni
I risultati mostrano come, analogamente agli adulti, anche i bambini siano vittime dei due bias analizzati, sebbene l’età
sembri un elemento discriminante (a carico dell’outcome bias). La presenza di legami specifici tra i due bias e il pensiero
ricorsivo di 1° ordine, ma non con quello di 2° ordine, avvalora l’ipotesi di un isomorfismo strutturale tra i meccanismi
cognitivi sottostanti. Il pensiero di 1° ordine implica una ricorsività di 1° livello (inibizione della conoscenza posseduta e
assunzione della prospettiva dell’altro sulla realtà), che sembrerebbe essere anche richiesta per resistere ai bias (inibizione
della conoscenza sull’esito, assunzione della prospettiva dell’altro sulla realtà antecedente alla decisione). L’assenza di
legami tra bias e falsa credenza di 2° ordine potrebbe essere dovuta a una scarsa sovrapposizione tra i meccanismi cognitivi
in virtù della maggior complessità necessaria per il pensiero ricorsivo di 2° livello.
Keywords
Theory of Mind; Outcome bias; Hindsight bias
(* Si ringrazia Caterina Carnesecca per la raccolta dei dati)
161
EFFETTI DELLA TEORIA DELLA MENTE SULL’ADATTAMENTO SOCIALE E SCOLASTICO:
UNO STUDIO LONGITUDINALE
MARCELLA CAPUTI (1), SERENA LECCE (1), CLAIRE HUGHES (2), ADRIANO PAGNIN (1)
(1) Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Pavia
(2) Centre for Family Research, Università di Cambridge
[email protected]
Introduzione
La teoria della mente (ToM) è essenziale nelle interazioni sociali quotidiane (Hughes & Leekam, 2004). Tuttavia, gli effetti
longitudinali della capacità di comprendere pensieri ed emozioni altrui hanno ricevuto poca attenzione nella letteratura
scientifica (Badenes, Estevan, & Bacete, 2000; Izard et al., 2001). I pochi studi disponibili sembrano indicare un ruolo della
ToM sulla successiva competenza sociale, ma non hanno valutato in modo rigoroso il ruolo di possibili variabili di
mediazione (es. linguaggio) che sembrano giocare un ruolo primario sulla capacità metacognitive (Milligan, Astington, &
Dack, 2007) e non hanno tenuto sotto controllo la continuità nello sviluppo della ToM e dell’adattamento sociale. In questo
studio ci proponiamo di indagare questa tematica focalizzandoci sul momento della transizione dalla scuola dell’infanzia a
quella primaria. E’ stato scelto questo momento dello sviluppo poiché esso rappresenta una tappa cruciale in età evolutiva
che spinge i bambini ad un adattamento sia sociale che cognitivo (La Paro & Pianta, 2000). Più specificatamente, la presente
ricerca si è posta l’obiettivo di indagare i legami predittivi tra la ToM e il successivo livello di: a) competenza sociale e b)
adattamento scolastico, tenendo sotto controllo la continuità nella competenza sociale e nello sviluppo linguistico. Nel
raggiungere questo obiettivo la presente ricerca ha fatto propria una definizione ampia di ToM, intesa come capacità di
comprendere non solo pensieri, ma anche stati emotivi (Dunn, 1995).
Metodo
Il campione è costituito da 76 bambini italiani reclutati attraverso le scuole dell’infanzia. Tutti i partecipanti sono stati testati
a metà dell’ultimo anno di frequenza della scuola dell’infanzia (T1, M=68.29 mesi, DS=3.44) e, dopo 12 mesi, durante il
primo anno della scuola primaria (T2, M=78.27 mesi, DS=2.82). Sia a T1 che a T2 ai bambini sono state somministrate
prove di: falsa credenza di primo e secondo ordine, comprensione delle emozioni miste e linguaggio, in un’aula vuota messa
a disposizione dalla scuola. Più specificatamente sono state utilizzate: due prove di falsa credenza di primo ordine (una prova
di contenuto inatteso, Bartsch & Wellman, 1989; e una prova di spostamento inatteso, Wimmer & Perner, 1983), due prove
di falsa credenza di secondo ordine (Perner & Wimmer, 1985), due prove di comprensione delle emozioni sulla base della
falsa credenza (Harris, Johnson, Hutton, Andrews, & Cooke, 1989) e una prova di comprensione di emozioni miste (Gordis,
Rosen, & Grand, 1989). Inoltre, il vocabolario è stato misurato tramite la versione italiana del Peabody Picture Vocabulary
Test (Dunn & Dunn, 1981), che valuta la comprensione semantica. Alle insegnanti è stato chiesto di valutare la competenza
sociale dei bambini sia a T1 che a T2 e il loro adattamento scolastico solo a T2, quando è avvenuto il passaggio alla scuola
primaria. Per la competenza sociale sono stati utilizzati lo Strenghts and Difficulties Questionnaire (Goodman, 1997), che
rileva comportamenti prosociali e problematici, e il Social Skills Rating System (Gresham & Elliott, 1990), che misura il
comportamento positivo e adattivo. L’adattamento scolastico è stato indagato attraverso le sottoscale di apprezzamento della
scuola, evitamento della scuola e intimità della relazione con l’insegnante della Teacher Rating Scale of School Adjustment
(Birch & Ladd, 1997), e la scala dell’Esclusione Sociale della Child Behaviour Scale (Ladd & Profilet, 1996), che riflette il
grado in cui il bambino è evitato dai compagni di classe.
Risultati
Analisi preliminari hanno mostrato, sullo sfondo di una stabilità delle differenze individuali (r(76) .23; p<.05),
miglioramenti significativi da T1 a T2 nelle prestazioni ai compiti di vocabolario (t(75)=-11.46, p<.001), comprensione di
emozioni (t(75)=-4.68, p<.001), e di credenze (t(75)=-4.88, p<.001). Rispetto al primo obiettivo (rapporto tra ToM e
competenza sociale), i risultati mostrano che sia a T1 che a T2 la comprensione della falsa credenza correla positivamente
con la competenza sociale (r(76) .22, p<.05). Inoltre, le analisi di regressione hanno indicato che la teoria della mente, in
particolare la falsa credenza, predice il successivo livello di competenza sociale ( R2 =.12, F(2, 72)=5.273, p<.01) e non
viceversa. Rispetto al secondo obiettivo (rapporto tra ToM e adattamento scolastico), i risultati mostrano che la
comprensione delle credenze a T1 è significativamente correlata con il successivo adattamento scolastico (r(76)=.28, p<.05).
Inoltre, analisi di regressione condotte secondo il modello di mediazione di Baron e Kenny (1986) hanno mostrato che la
competenza sociale a T1 media completamente la relazione tra la falsa credenza a T1 e l’adattamento scolastico a T2. Così
che, l’effetto che la comprensione della falsa credenza ha sul successivo adattamento scolastico è completamente dovuto agli
effetti della falsa credenza sulla competenza sociale.
Keywords
theory of mind, social competence e school adjustment
162
LA TEORIA DELLA MENTE NEI BAMBINI ITALIANI E INGLESI: UNO STUDIO CROSS CULTURALE
SERENA LECCE (1), CLAIRE HUGHES (2), MARCELLA CAPUTI (3), ADRIANO PAGNIN (4)
(1,3,4) Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Pavia
(2)Centre for Family Research, University of Cambridge
[email protected]
Introduzione
La teoria della mente (ToM), intesa come abilità di attribuire stati mentali a se stessi e agli altri, costituisce una delle aree più
indagate nella psicologia dello sviluppo degli ultimi trent’anni. Una delle ragioni di questo interesse può essere rintracciata
nella rilevanza che essa riveste in una dimensione evolutiva (Hughes e Leekam, 2004). Tuttavia, la stragrande maggioranza
di queste ricerche è stata condotta su campioni di bambini inglesi e americani e pochi studi hanno adottato una prospettiva
cross-culturale. Questa mancanza risulta sorprendente se si considera l’influenza fondamentale dell’ambiente sulla ToM
(Hughes et al., 2005) e la diversità nella concezione della mente nelle varie culture (Lillard, 1998). Solo recentemente, infatti,
studi condotti su popolazioni provenienti da culture diverse hanno incominciato ad apparire in letteratura (Callaghan, et al.,
2005; Oh & Lewis, 2008). In relazione al presente lavoro è importante sottolineare che le meta-analisi di Wellman (Wellman
et al., 2001) e di Liu (Liu et al, 2008) hanno evidenziato, pur sullo sfondo di un medesimo andamento evolutivo, l’esistenza
di differenze nella performance ai compiti di ToM tra culture occidentali. In particolare, i bambini australiani e canadesi
sembrano riportare punteggi più alti di quelli americani, che a loro volta sembrano essere più competenti di quelli austriaci.
Complessivamente, questi risultati richiamano l’attenzione sulla diversa capacità nella risoluzione di compiti di ToM in
bambini appartenenti a diverse culture occidentali e incoraggiano ulteriore ricerca. Il presente lavoro si pone in continuità
con questa prospettiva indagando somiglianze e differenze nella ToM in bambini italiani e inglesi. Nel porsi questo obiettivo,
gli autori hanno adottato una metodologia rigorosa, consistente nel considerare non solo la comprensione della falsa
credenza, ma anche delle emozioni e, secondariamente, nel tenere sotto controllo le variabili dell’età, del linguaggio ed il
livello di educazione materno.
Metodo
140 bambini, 70 inglesi e 70 italiani hanno partecipato a questo studio. Il gruppo dei bambini inglesi proviene dalla città di
Cambridge ed il gruppo dei bambini italiani da quella di Pavia. I bambini italiani (37 M, 33 F) hanno un’età media pari a
5.67 anni (SD = .3 mesi, range = 5 anni e 0 mesi - 6 anni e 5 mesi). Il livello di istruzione materno risulta così distribuito: 21
hanno la licenza media, 34 hanno un diploma e le restanti 15 hanno una laurea. I bambini inglesi (34 M, 36 F) hanno un’età
media pari a 5.77 anni (SD = .3 mesi, range = 5 anni 0 mesi - 6 anni e 5 mesi). Il livello di istruzione materno risulta così
distribuito: 26 hanno la licenza media, 23 hanno un diploma e le restanti 21 hanno una laurea. I due gruppi non differiscono
per età, t = 1.71, ns, età verbale, t =.20, ns, livello di educazione materno, 2= 3.66, ns, e genere, 2=.26, ns. I partecipanti
sono stati sottoposti a due prove di falsa credenza di primo ordine realizzate con l’utilizzo di pupazzi (una prova di contenuto
inatteso di primo ordine, Bartsch & Wellman, 1989, e una prova di spostamento inatteso, Wimmer & Perner, 1983), due
prove di falsa credenza di secondo ordine realizzate tramite disegni (Perner & Wimmer, 1985), una prova di comprensione di
emozioni miste (Gordis, Rosen, & Grand, 1989) e una prova di vocabolario: il Peabody Picture Vocabulary Test (Dunn &
Dunn, 1981) per i bambini italiani e il British Picture Vocabulary Scale per quelli inglesi (Dunn et al., 1982). I bambini di
entrambi i gruppi sono stati testati a scuola.
Risultati
Le analisi statistiche mostrano, come atteso. che i punteggi riportati alle singole prove di ToM sono significativamente
associati tra loro. Di conseguenza, si è proceduto al calcolo di un unico punteggio aggregato di ToM, dato dalla media dei
punteggi riportati alle singole prove, Alpha Cronbach = .76. Inoltre, il punteggio di ToM è risultato essere significativamente
associato a quello di vocabolario sia nel campione italiano, r(70) = .33, p < .01, che in quello inglese, r(70) = .46, p < .01. In
relazione all’obiettivo principale del presente lavoro, i risultati evidenziano una differenza significativa tra gruppi nella ToM,
t = 2.14, p < .05, nella direzione per cui il gruppo dei bambini inglesi riporta punteggi (M = .14 DS = .89) più alti di quelli
del gruppo dei bambini italiani (M = -.14 DS = .65). Un’analisi più dettagliata mostra una differenza significativa sulla
maggioranza delle prove, considerate singolarmente. I risultati vengono discussi alla luce delle differenze culturali
riscontrabili in quelle attività che hanno un effetto significativo sulla ToM: lettura di libri, lessico psicologico, ed ironia. La
cultura inglese, infatti, attribuisce importanza alla lettura di libri che sono particolarmente ricchi di riferimenti a stati mentali
e ironia (Dyer, Shatz, & Wellman, 2000), aspetti, quest’ultimi, strettamente connessi allo sviluppo della ToM (Taumoepeau
& Ruffman, 2006). Complessivamente il presente studio conferma l’esistenza di differenze cross-culturali nella capacita’ di
bambini di riflettere sulla mente e, pur adottando un approccio descrittivo, contribuisce a stimolare la ricerca in quest’area.
Keywords
teoria della mente, cross-culturale, falsa credenza, comprensione di emozioni
163
FORME DIVERSE DI SINCERITÀ NELLA COMUNICAZIONE DEI BAMBINI DAI 3 AI 6 ANNI
GABRIELLA AIRENTI, ROMINA ANGELERI
Centro di Scienza Cognitiva - Dipartimento di Psicologia - Università degli Studi di Torino
[email protected]
Introduzione
In pragmatica la sincerità viene considerata come un aspetto costitutivo della comunicazione. In realtà la comunicazione
nella vita quotidiana prevede un certo numero di forme di interazione in cui la sincerità può o deve essere sospesa: oltre
all’inganno vi sono il racconto di storie, lo scherzo, l’ironia, le metafore, le formule di cortesia. In tutti questi casi vengono
realizzati atti comunicativi non sinceri, ma i processi mentali da cui questi atti dipendono sono diversi. Non c’è alcun
elemento strutturale che indichi se un enunciato falso sia stato compiuto per errore, per effettuare un inganno, se era inteso
come ironico, etc. In tutti questi casi per la comprensione è necessario un processo di lettura della mente. Si può fare l’ipotesi
che queste diverse situazioni richiedano diversi gradi di sviluppo della teoria della mente. Ci siamo quindi proposte di
studiare gli atti comunicativi di bambini di età diverse in quattro situazioni in cui la sincerità ha un ruolo differente: i)
situazioni standard, ii) fantasia, iii) situazioni di vita reale problematiche, iv) situazioni che richiedono l’applicazione delle
regole conversazionali della cortesia.
Metodo
Il protocollo sperimentale era costituito da 16 brevi storie, equivalenti per lunghezza e difficoltà sintattico-lessicale. Le storie
venivano raccontate oralmente ai bambini dalla sperimentatrice; per limitare le richieste mnesiche, ciascuna storia è stata
illustrata con una sequenza di tre semplici disegni, che veniva mostrata ai bambini durante il racconto. Tutte le storie
mostravano un’interazione comunicativa tra due personaggi; al termine di ciascuna, un personaggio poneva una domanda
all’altro: ai bambini era richiesto di produrre un atto comunicativo di risposta. Le storie appartenevano a 4 tipologie (4 storie
per ciascuna): 1) standard, storie in cui la sincerità era attesa 2) fantasia, in cui era attesa l’adesione alla situazione di finzione
proposta 3) vita reale, in cui il fatto di dire la verità avrebbe comportato conseguenze spiacevoli per il parlante 4) cortesia, in
cui il dire la verità non sarebbe stato adeguato rispetto alle convenzionali norme di cortesia. Il protocollo è stato
somministrato individualmente a 80 bambini, bilanciati per sesso ed equamente suddivisi in 4 fasce di età: 3-3;6 anni; 4-4;6
anni; 5-5;6 anni; 6-6;6 anni. A tutti i bambini è stato inoltre somministrato il Peabody – Test di Vocabolario Recettivo
(Stella, Pizzioli e Tressoldi, 2000), al fine di controllare l’omogeneità delle abilità di comprensione linguistica all’interno dei
gruppi di età considerati.
Risultati
Lo scopo della ricerca era vedere se i bambini facevano un uso diverso della sincerità nei quattro casi proposti. Nel caso
delle storie standard abbiamo considerato corrette le risposte sincere. Nel caso delle storie di fantasia abbiamo considerato
come corretta qualunque risposta che restasse nell’ambito della storia e come scorrette tutte le risposte che si riferivano
all’impossibilità della situazione nella vita reale. Nel caso delle storie di vita reale abbiamo considerato come corrette tutte le
risposte, sia sincere che insincere, che rimanessero nell’ambito del contesto di realtà proposto, aspettandoci un incremento
delle risposte non sincere al crescere dell’età dei soggetti. Nel caso delle situazioni che richiedevano cortesia abbiamo
considerato come corrette le risposte insincere e come scorrette le risposte sincere.
L’analisi quantitativa dei dati ha permesso di confermare che: (a) l’uso della sincerità in contesti standard o di fantasia
ottiene punteggi simili (T Test: t = 5.6; p = .2), soprattutto nel gruppo di bambini più piccoli (b) non ci sono differenze
nell’adesione al contesto proposto nelle storie standard, di fantasia e di vita reale (T Test: 0.8 < t < 1.6; .1 < p < .6) (c) la
sospensione della verità è più facile nelle storie di vita reale rispetto alle storie di cortesia (T Test: t = 6.7; p < .0001) (d) al
crescere dell’età i bambini si mostrano via via più abili nel ricorrere alla sincerità nel modo atteso (Anova: F = 58.78; p <
.0001).
In conclusione, i bambini mostrano capacità di aderire ai contesti comunicativi proposti e di modulare l’uso della sincerità
nella direzione attesa. Un’analisi qualitativa delle risposte ha permesso di individuare alcuni fenomeni interessanti. In
particolare, per quanto riguarda le situazioni che richiedono cortesia alcuni bambini hanno fornito risposte scorrette
nonostante si rendessero conto che l’atto comunicativo prodotto poteva avere effetti spiacevoli sull’interlocutore. Inoltre,
nelle situazioni di vita reale problematiche i bambini hanno risposto utilizzando un ampio ventaglio di possibilità: sincerità,
sincerità con giustificazioni, non sincerità, inganni complessi.
Keywords
Sincerity; Communication; Mindreading
164
COMPRENSIONE E INTEGRAZIONE DI STATI EPISTEMICI, MOTIVAZIONALI ED EMOTIVI NEI
BAMBINI AUTISTICI.
PINA FILIPPELLO, LUANA SORRENTI, TIZIANA DOMINICI
Università di Messina
[email protected]
Introduzione
Alcune ricerche hanno riscontrato che i bambini autistici, pur essendo capaci di comprendere il significato delle azioni
richiestive, di attribuire a se stessi e agli altri stati volizionali e, quindi, di cogliere il collegamento esistente tra desideri ed
emozioni (Baron-Cohen, 1991b; Phillips 1993; Tan e Harris 1991), sembrano incapaci di comprendere la relazione
funzionale tra stati epistemici, motivazionali, emozionali e il comportamento (Baron-Cohen et al., 1993). La complessità dei
rapporti tra diversi stati mentali e il comportamento ha indotto Baron-Cohen (1995) ad elaborare un modello che ipotizza 5
livelli di comprensione degli stati emotivi altrui, gerarchicamente organizzati, che si articolano dalla semplice decodifica
delle emozioni dalle espressioni mimiche facciali alla capacità di dedurre l’emozione provata dal protagonista integrando e
coordinando due stati mentali: desiderio e credenza. Tuttavia, analizzando la struttura di tale prova, emergono alcuni
interrogativi relativamente alle fasi iniziali e a quella finale. Nelle prove di (a) riconoscimento delle espressioni emotive da
fotografie di volti e (b) da disegni schematici, è insito il rischio che i bambini possano apprendere esclusivamente il legame
tra uno stimolo target (es. viso felice) e una risposta (es. felicità) piuttosto che il complesso delle manifestazioni che
accompagnano lo stato emotivo corrispondente. Per quanto riguarda l’ultima fase, che implica l’integrazione e il
coordinamento degli stati mentali di credenza-desiderio ed emozione, ad una attenta e sistematica task analysis si evince che
la gerarchia formulata da Baron-Cohen possa essere ulteriormente scomposta in altre sotto-fasi, che prevedano la
strutturazione del legame tra pensiero ed emozione, preliminare ed indispensabile alla formazione delle complesse relazioni
tra più stati mentali. In riferimento alla letteratura, si ipotizza che, rispetto a bambini normodotati di età prescolare, i soggetti
con sindrome autistica esibiscono prestazioni inferiori in compiti che richiedono l’integrazione e il coordinamento di più stati
mentali. Lo scopo delle ricerca è di strutturare una prova che renda accessibile al soggetto la relazione tra tutte le componenti
sottostanti questa complessa abilità, in modo da favorire lo sviluppo della capacità di stabilire il corretto legame tra le
credenze, i desideri e gli stati emotivi che ne derivano.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 20 bambini autistici ad alto funzionamento, suddivisi in due gruppi, di età compresa tra 6 e 11
anni,selezionati in base al QI (QI medio= 85) e 20 bambini normodotati di età compresa tra 4 e 5 anni. A metà dei bambini è
stato somministrato, individualmente, il test proposto da Baron-Cohen (1995) e all’altra metà del campione, una versione
ampliata del test. Il compito è articolato in 8 fasi di difficoltà crescente, ciascuna rappresentata da 4 prove. Le prime tre fasi
(Pretest) sono state realizzate con la finalità di testare le effettive capacità dei partecipanti di riconoscere gli stati emotivi, non
solo in funzione dell’etichettamento dei volti che esprimono le 4 emozioni fondamentali, ma anche attraverso la
contestualizzazione delle stesse e l’associazione di atti comportamentali che solitamente si accompagnano ad ogni emozione
considerata. Prima di testare la capacità di integrare e coordinare diversi stati mentali, è stata introdotta una fase con
l’obiettivo di rendere esplicito il legame tra pensiero ed emozione, fase non presente nel modello formulato da Baron-Cohen.
Risultati
Per quanto riguarda la capacità di integrare e coordinare stati mentali di credenza, desiderio ed emozione, sia i bambini
autistici sia i normodotati, che hanno eseguito il compito secondo le modalità suggerite da Baron-Cohen mostrano notevoli
difficoltà nel comprendere che le emozioni possono variare in base alle opinioni, e difficoltà ancora maggiori nell’integrare
più stati mentali in rapporto agli eventi e alle emozioni che ne derivano. Tali prestazioni sono significativamente inferiori
rispetto a quelle ottenute dai bambini a cui, invece è stata somministrata la versione modificata del test, i quali hanno
mostrato una significativamente maggiore padronanza nel coordinamento e nell’integrazione di più stati mentali,
indipendentemente dalla presenza o meno della sindrome autistica [t (114)= 14.594; p<.001]. Dall’analisi dei dati si evince,
quindi, che una efficace task analysis del compito, che ripercorra le tappe essenziali di un processo così complesso, produca
effetti di facilitazione tali da favorire lo sviluppo di abilità che, come è noto, sono altamente deficitarie nei soggetti autistici.
Keywords
Theory of Mind, autism, task-analysis
165
RICONOSCIMENTO DELLE ESPRESSIONI FACCIALI DI EMOZIONI “MISTE” IN UN GRUPPO DI
BAMBINI SOPRAVVISSUTI ALL’ATTACCO TERRORISTICO NELLA SCUOLA DI BESLAN
SARA SCRIMIN, UGHETTA MOSCARDINO, FABIA CAPELLO, GIANMARCO ALTOÈ, GIOVANNA AXIA
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi anni diverse ricerche hanno studiato gli effetti del trauma da terrorismo sul funzionamento psicologico di
bambini e adolescenti. I risultati, in queste popolazioni, indicano la presenza di percentuali di DPTS che variano dal 28% al
50% a seconda del grado di esposizione all’attacco terroristico (Pfefferbaum et al., 1999; Susser, Jackson, & Hoven, 2001),
ma anche un’elevata incidenza di problemi comportamentali (Melville & Lykes, 1992) e psichiatrici (es. ansia e depressione;
Hoge & Pavlin, 2002). Tuttavia, non esistono studi che abbiano valutato la capacità dei bambini a riconoscere le emozioni
facciali in seguito a un attacco terroristico. Considerando che l’identificazione delle espressioni emotive è una componente
cruciale nello sviluppo sociale ed affettivo (Philippot & Fledman, 1990; Vicari, et al., 2000), questa lacuna appare
particolarmente rilevante. Le ricerche condotte su bambini vittime di altre tipologie di trauma, quali abuso e trascuratezza,
hanno rilevato una scarsa accuratezza nel riconoscimento delle emozioni negative (Camras, Ribordy, Hill, Martino, Sachs,
Spaccarelli, & Stefani, 1990). In particolare, i bambini vittime di abuso fisico sembrano mostrare una scarsa capacità a
riconoscere la tristezza e il disgusto, ma una notevole abilità nel riconoscimento della rabbia (Pollak, Cicchetti, Hormoh, &
Reeg, 2000; Pollak & Sinha 2002). Tale pattern è stato spiegato nei termini di una necessità, da parte di questi bambini, ad
imparare a riconoscere rapidamente e accuratamente uno stimolo che possa mettere a rischio la loro vita. Poiché non è chiaro
se questo pattern sia generalizzabile anche a bambini che sono sopravvissuti a un evento traumatico quale un attacco
terroristico, questo studio si propone di indagare la possibile relazione tra l’esposizione ad un attacco terroristico e l’abilità di
riconoscere le espressioni facciali delle emozioni.
Metodo
20 mesi dopo l’attacco terroristico alla scuola di Beslan (Ossezia, Federazione Russa), 101 bambini direttamente esposti
all’attacco e 102 bambini non esposti (età media = 11 anni) hanno partecipato alla presente ricerca. In due trial di controllo
abbiamo valutato la capacità di associare correttamente l’espressione facciale di un’emozione pura (stimoli di emozioni
prototipiche) a un’emozione (gioia, tristezza, rabbia, paura), e la capacità di associare un’emozione ad un contesto emotivo.
Nella sessione sperimentale è stata poi valutata la relazione tra l’esposizione all’attacco terroristico e la modalità dei bambini
di etichettare liberamente “emozioni miste” (ossia l’insieme di più emozioni espresse da un volto, stimoli che si avvicinano
maggiormente alle espressioni che si incontrano comunemente nella vita quotidiana) create usando una morfizzazione tra due
espressioni facciali prototipiche (per esempio lungo il continuum gioia-tristezza o rabbia-paura).
Risultati
I risultati delle analisi della varianza confermano che i bambini esposti al terrorismo sono in grado di riconoscere
correttamente le emozioni pure, sia quando si tratta di associare un’etichetta emotiva allo stimolo facciale di un’emozione,
sia quando si tratta di associare l’emozione ad un contesto emotivo (vignetta); tuttavia, i risultati delle analisi log-lineari
indicano che, in risposta alle “emozioni miste”, i bambini sopravvissuti all’attacco terroristico sovrastimano la presenza della
rabbia e hanno una performance più scarsa in risposta ad espressioni di paura e tristezza.
Discussione
I bambini sopravvissuti all’attacco terroristico di Beslan, pur riconoscendo le emozioni pure, sono imprecisi nel
riconoscimento di emozioni negative quali tristezza e paura. Inoltre, similmente ai bambini vittime di abuso e
maltrattamento, tendono a sovrastimare la presenza della rabbia. Questi risultati verranno discussi sulla base della letteratura
esistente.
Keywords
emotion recognition, children, terrorism
166
RUOLI COMUNICATIVI E CONCETTI SOCIALI: LA CAPACITÀ DI GIOCARE RUOLI RECIPROCI E
COMPLEMENTARI E LO SVILUPPO DEI RIFERIMENTI A SE’ E AGLI ALTRI
ASSUNTA MARANO
Università degli Studi di Roma "Sapienza"
[email protected]
Introduzione
Nel secondo e terzo anno di vita i bambini imparano a dare un senso alle loro esperienze di incontro con gli altri; ciò implica
avere un concetto di se stessi, degli “altri“ che interagiscono con loro e delle relazioni interpersonali (Schaffer, 1998). E’
stato osservato che è possibile valutare lo sviluppo della distinzione Sé/altro attraverso le attribuzioni di agentività (ruoli)
negli schemi di gioco simbolico (Bates, 1990;McCune, 1995), che si evolvono dai più semplici, costituiti da singole azioni
rivolte a sé stessi o ad altri (autocentrati e decentrati) ai più complessi (ruoli reciproci e complementari) composti da
sequenze di azioni coordinate e pianificate. McCune-Nicolich, Bretherton, O’Connel, Shore & Bates (1984) propongono una
metodologia di valutazione basata su procedure di modeling (Watson & Fischer, 1977), che consente di misurare una
componente cognitiva (azioni eseguite dai bambini) ed una componente sociale (agentività del “ruolo giocato”). Nella
produzione linguistica “gli aspetti grammaticali più direttamente coinvolti nella distinzione Sé/altro riguardano la deissi di
persona, cioè i modi in cui la lingua distingue i ruoli dei partecipanti all’evento comunicativo (Baumgartner, Devescovi &
D’Amico, 1991) che per l’italiano si realizzano nel sistema pronominale e nel sistema flessivo dei verbi. Bates (1990)
ipotizza “che per padroneggiare la grammatica necessaria per esprimere linguisticamente la complessità dei sistemi di
riferimento, i bambini devono possedere preesistenti nozioni relative a Sé e agli altri: lo studio della acquisizione delle
modalità linguistiche per riferirsi alle persone si configura quindi come una finestra dalla quale guardare allo sviluppo dei
concetti di sé e degli altri” (Baumgartner, Devescovi & D’Amico, 1991, pag.27). In questo lavoro presentiamo una ricerca
esplorativa che ha l’obiettivo di indagare la relazione fra la complessità del “ruolo” e dell’”azione” nel contesto di gioco
simbolico e la complessità linguistica della deissi di persona.
Soggetti e metodo
Hanno partecipato alla ricerca 18 bambini (13 femmine, 5 maschi) di livello socio/culturale medio-alto suddivisi in tre gruppi
di età (26, 30 e 36 mesi), valutati individualmente nell’asilo nido di Roma da loro frequentato. Prove: procedura di
modellamento di gioco simbolico (Bretherton, O’Connel, Shore e Bates, 1984), conversazione semistrutturata e lettura di un
libro illustrato. Le prove verbali sono state interamente audioregistrate e quelle sul gioco videoregistrate e trascritte da tre
giudici indipendenti (K di Cohen=93%). Tutte le espressioni prodotte dai bambini che contenevano riferimenti a sé o agli
altri sono state codificate secondo lo schema proposto da Baumgartner, Devescovi & D’Amico (1991). I parametri
considerati per il linguaggio (forma, funzione, genere, numero, persona, referente e correttezza) sono stati valutati in rapporto
a: variabile di complessità cognitiva del gioco (frequenza/diversità degli schemi di azione), variabile di complessità di
agentività del gioco (azioni riprodotte con livello di agentività inferiore/maggiore rispetto al modelling), variabile età e
variabile di complessità linguistica la L.M.E. (ricavato dal Test di Ripetizione Frasi, Devescovi Caselli, 2001, 2007).
Risultati
I risultati ottenuti dalle prime analisi indicano che le prestazioni dei bambini si differenziano per l’effetto principale della
variabile età, discriminando in modo particolare il livello di gioco simbolico di bambini di 30 mesi da quelli di 36 mesi:
differenze significative si rilevano nella percentuale di azioni eseguite sul numero di azioni proposte nel gioco simbolico e
nel livello di complessità dell’azione simbolica imitata [Wilcoxon,T=1;p<.001]. 1113 sono le espressioni riferite a sé e agli
altri: la maggior parte dei riferimenti è effettuata attraverso la morfologia del verbo (45%) in secondo luogo per mezzo dei
nomi (33%) e infine di pronomi (23%).Per quanto riguarda le persone a cui i bambini fanno riferimento prevalgono i
riferimenti agli altri (67%) seguiti da quelli a se stessi (19%), da quelli all’interlocutore(11%) e infine alla diade (3%).
Applicando il coefficiente Rho di Spearman sono state trovate correlazioni significative tra la misura della LME delle frasi
ripetute, il numero di azioni riprodotte nel gioco simbolico e il livello di agentività rappresentato nel gioco simbolico. Questi
primi risultati supportano l’ipotesi che nelle prime fasi di sviluppo ci sia una relazione tra la complessità linguistica, la
competenza nell’uso del paradigma della referenza di persona e le attribuzioni di agentività nel gioco simbolico.
Keywords
reference,active agency,symbolic play
167
LESSICO PSICOLOGICO E TEORIA DELLA MENTE: UN TRAINING STUDY CON BAMBINI DI 3 E 4 ANNI
VERONICA ORNAGHI
Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, Università degli Studi di Milano-Bicocca.
[email protected]
Introduzione
Il presente lavoro si inserisce all’interno degli studi sul legame fra sviluppo linguistico e acquisizione della teoria della
mente. In particolare, si focalizza sul lessico psicologico, considerato uno dei precursori dello sviluppo della comprensione
degli stati mentali nei bambini (Bartsch, Wellman, 1995; Camaioni, 2003). Esso, infatti, comprende termini di tipo
percettivo, volitivo, emotivo e cognitivo che si riferiscono a stati mentali propri e altrui (Lecce, Pagnin, 2007). L’obiettivo
della ricerca è quello di indagare se, stimolando i bambini ad utilizzare il lessico psicologico tramite uno specifico training,
essi migliorino la loro prestazione in prove legate allo sviluppo della teoria della mente.
Metodo
Partecipanti
Hanno preso parte alla ricerca 70 bambini divisi in due gruppi di età equamente distribuiti rispetto alla variabile genere: 34
bambini di 3 anni (età media: 3 anni e 4 mesi; d.s.: 3,5) e 36 bambini di 4 anni (media: 4 anni e tre mesi; d.s.: 2,9). Ciascuno
dei due gruppi è stato ulteriormente suddiviso in gruppo sperimentale e gruppo di controllo. Nessun partecipante presentava
deficit linguistici o problemi psicologici di natura cognitiva ed emotiva.
Strumenti e procedura
La ricerca si è svolta in tre fasi: test, training e re-test. Durante la prima fase (test), tutti i partecipanti sono stati valutati
tramite le seguenti prove: TVL (Test di Valutazione del Linguaggio; Cianchetti, Sannio Fancello, 1997), TEC (Test of
Emotion Comprehension; Pons, Harris, 2000), MVT (Metacognitive Vocabulary Test, Astington, Pellettier, 2003), una
batteria di prove sulla comprensione della falsa credenza (ovvero due compiti sulla falsa credenza di primo ordine,
spostamento inatteso e scatola ingannevole, e il False Belief Explanation Task, di Peskin e Astingon 2004), un test sulla
pragmatica (Carrow-Woolfork, 1999).
Durante la seconda fase (training), i partecipanti dei gruppi sperimentali di entrambe le età sono stati sottoposti ad un training
della durata di due mesi, durante il quale gruppi di bambini (6/7 ciascuno) sono stati bi-settimanalmente sottoposti ad attività
di gioco linguistico di circa 20 minuti condotte da un ricercatore esperto. Durante queste attività, l’adulto ha letto ai bambini
storie illustrate predisposte dall’unità di ricerca e appositamente arricchite di termini mentalistici (desiderare, arrabbiarsi,
avere paura, ricordare, sapere, pensare, credere, decidere). In seguito, attraverso la tecnica del lancio della parola (Ciceri,
2001), il ricercatore ha attivato giochi linguistici per favorire l’uso del lessico psicologico da parte dei bambini. I componenti
dei gruppi di controllo, invece, sono stati sottoposti al semplice ascolto della storia, seguito da attività di gioco libero.
La terza fase (re-test) è consistita nel sottoporre tutti i partecipanti agli stessi test utilizzati nella prima fase.
Risultati
I dati sono stati analizzati tramite il T-test per campioni appaiati e il T-test per campioni indipendenti. Le analisi mostrano
l’effetto positivo del training sulla comprensione degli stati mentali da parte dei bambini che hanno preso parte alla ricerca.
In particolare, a 3 anni, i bambini del gruppo sperimentale, rispetto a quelli del gruppo di controllo, migliorano in maniera
significativa nella comprensione delle emozioni (t=3,5; p=.005), nella comprensione del vocabolario meta-cognitivo (t=4,5;
p=.001), nella comprensione linguistica (t=2,7; p=.010) e nella prova di pragmatica (t=3,6; p=.002). A 4 anni, i bambini del
gruppo sperimentale migliorano in maniera significativa, rispetto ai bambini del gruppo di controllo, nella comprensione
delle emozioni (t=3,6; p=.002), nella batteria di prove sulla comprensione della falsa credenza (t=2,3; p=.03) e nella
comprensione del vocabolario meta-cognitivo (t=4,3; p=.000).
Non sono emerse differenze statisticamente significative in funzione del genere.
I risultati verranno discussi in riferimento al dibattito sul ruolo del linguaggio nello sviluppo della teoria della mente.
Keywords
mental state talk, theory of mind, training study
168
Sezione tematica 5
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
Coordina: Laura D’Odorico
Università degli Studi di Milano-Bicocca
169
L’EVOLUZIONE DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE NEL CORSO DELLO SVILUPPO
LUCIA DONSÌ, SANTA PARRELLO, LUIGIA SIMONA SICA
Dipartimento di Scienze Relazionali "G. Iacono", Università degli Studi di Napoli "Federico II"
[email protected]
Introduzione
Questo lavoro nasce su uno sfondo teorico vygotskijano e in particolare da una riflessione sull’ affermazione che il
significato delle parole si modifica in modo dinamico nel corso dello sviluppo, variando “secondo i diversi modi di
funzionamento del pensiero” (Vygotskij, 1934; tr. it. 1990, p.333). Ulteriore spunto sono state le osservazioni di PerretClermont sulla comunicazione didattica, che può avvenire solo sul piano di una condivisione di significati che prende l’avvio
da universi referenziali distinti di docente e discenti che devono progressivamente avvicinarsi, perché solo ciò consente la
costruzione della conoscenza (Perret-Clermont, Nicolet, 1991).
A tale riferimenti teorici si ricollega il nostro interesse di verificare l’evoluzione del significato attribuito alle parole nel corso
dello sviluppo, perché, se è notorio che l’assegnazione di significato nell’infanzia è imperniata su criteri funzionali e poi
percettivi (Benelli, Gini, Belacchi, 2006) e quella adulta attinge senz’altro a criteri concettuali, meno definito è il percorso di
sviluppo che porta dall’una all’altra. Ci siamo dunque proposte di compiere un primo passo di chiarimento proponendo a
soggetti appartenenti a varie fasce d’età un compito di definizione libera di alcuni sostantivi relativi a cose e persone
ipotizzando in primo luogo che età e genere potessero essere variabili che differenziassero le risposte in modo specifico.
L’interessante ipotesi che il mondo delle cose e il mondo delle persone vengano concettualizzati attraverso sistemi cognitivi
differenziati (Gelman, Spelke, 1981) ci ha spinto inoltre a ipotizzare che un’ulteriore differenziazione potesse derivare dalle
categorie (persone vs oggetti) proposte per la definizione.
Metodo
Sono stati intervistati 200 soggetti di entrambi i sessi: 50 frequentanti l’ultimo anno della scuola dell’infanzia (e. m.: 5.7), 50
la classe quarta elementare (e. m.: 9.8), 50 la seconda media (e. m.: 12.9) in scuole di Napoli e provincia, e 50 studenti
universitari (e. m. : 20,8) iscritti presso varie Facoltà dell’Università “Federico II” di Napoli. La partecipazione alla ricerca
era volontaria e anonima: i partecipanti sono stati intervistati individualmente in locali messi a disposizione dalle scuole e
dall’università. La prova consisteva in un compito di definizione libera, cioè senza limite di risposte, di 12 parole, quattro per
ciascuna delle seguenti categorie: Persone (maestra,dottore, amico/a, poliziotto), Oggetti sociali (sedia, forbici, lavagna,
semaforo) e Oggetti di uso personale palla, zainetto, libro, televisore). Sei alternative di questionario consentivano di variare
l’ordine di presentazione sia delle categorie che delle singole parole. La consegna era la seguente: “Se tu dovessi spiegare ad
un bambino che non sa cosa è un …X…, cosa gli diresti per farglielo capire?”. Per gli studenti della scuola media e per gli
universitari si diceva, rispettivamente, “ad un altro ragazzo” e “ad un’altra persona” (Benelli, Arcuri, Marchesini, 1989).
Risultati
La classificazione delle risposte tende a evidenziarne gli aspetti di contenuto: a tale scopo ci è sembrato opportuno, dopo la
preliminare categorizzazione di ciascuna definizione, utilizzare un’analisi categoriale del contenuto, effettuata con l’ausilio
del software N-Vivo (Richards e Richards, 1994) per ottenere una sistematizzazione dei risultati ed evidenziare le variabili
significative. Tre giudici indipendenti hanno valutato le singole risposte. La codifica delle unità di testo ha utilizzato delle
macro-categorie interpretative: definizioni funzionali, percettive, categoriali, concettuali.
I primi risultati appaiono indicare che: 1. nelle risposte dei bambini della scuola dell’infanzia si fa riferimento essenzialmente
ad aspetti concreti, dunque a proprietà che potremmo definire funzionali/dinamiche non solo per gli oggetti ma anche per le
persone (“l’amico ti aiuta, il dottore ti cura”); 2. sia in quarta elementare che in seconda media si evidenzia una modalità di
risposta che potremmo definire mista, che oscilla cioè fra indicazioni di aspetti funzionali e anche percettivi e definizioni di
tipo categoriale. Al crescere dell’età, diminuiscono gli aspetti funzionali gradualmente sostituiti da quelli categoriali; 3. tra
gli studenti universitari dominano contenuti più astratti e insieme più convenzionali, organizzati in categorie concettuali, e
dunque in modo gerarchico; 4. nelle risposte non si rileva alcuna differenza di genere significativa; 5. al crescere dell’età si
riscontrano invece alcune differenze significative fra i significati assegnati ai nomi di persona rispetto a quelli delle due
categorie di oggetti, nel senso di una perdurante tendenza anche tra i giovani adulti a utilizzare aspetti dinamici e azioni per
definire le persone.
Keywords
cognitive development; social cognition; words' meaning
170
SVILUPPO SEMANTICO IN ETÀ PRESCOLARE: IL RUOLO DELL’INTERAZIONE GENITORE-BAMBINO
ANGELA SANTESE
Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e di Socializzazione, “ Sapienza” Università di Roma
[email protected]
Introduzione
Gli studi svolti in ambito socio-interazionista hanno mostrato l’importanza degli episodi di attenzione condivisa con l’adulto
rispetto all’acquisizione linguistica, in particolare lessicale, nei primi anni di vita (Tomasello, Todd, 1983). A partire dai 18
mesi i bambini ricercano attivamente, in situazioni di attenzione congiunta, indici di natura sociale per individuare
l’intenzione referenziale dell’interlocutore e usano questa comprensione per acquisire parole nuove (Baldwin, Tomasello,
1998). La condivisione dell’attenzione su referenti comuni può essere anche in parte influenzata da strategie comunicative
dell’adulto, che si rivelano molto efficaci per assistere il bambino nell’acquisizione di nuove parole. Ampiamente
riconosciuto in letteratura è il ruolo di comportamenti interattivi responsivi, centrati sulle iniziative del bambino e, in
particolare, che seguono i suoi interessi piuttosto che dirigerli (Bonifacio, Hvastja Stefani, 2004; Girolametto, Pearce,
Weitzman, 1996; Longobardi, 1992, 2006).
Il presente lavoro è finalizzato ad esplorare la dimensione inter-individuale dello sviluppo semantico in bambini di età
prescolare. Nello specifico il lavoro si propone di indagare, con uno studio di casi singoli, sulle relazioni tra l’esperienza di
condivisione dell’attenzione e del discorso con i genitori e la costruzione delle abilità semantiche.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 5 bambini di età compresa tra 4;4 e 5;4 anni, 3 M e 2 F, e i loro genitori. Ogni bambino è stato
videoregistrato durante 2 sessioni di gioco di finzione, 1 con la madre e 1 con il padre, e nel contesto della routine della cena,
in cui erano presenti tutti i componenti della famiglia. Il gioco si è svolto a casa con materiali forniti dall’osservatore. Le
interazioni sono state trascritte secondo il formato standardizzato previsto dal CHILDES (MacWhinney, 1995). Le abilità
semantiche dei bambini sono state valutate, individualmente a scuola, con una batteria di 4 prove che indagano,
rispettivamente, sull’organizzazione concettuale su base tematica/contestuale e su base tassonomica, sulle relazioni
associative e tassonomiche tra oggetti e parole, sulla competenza nel definire parole (Belacchi et al., 2006; Fanari et al.,
2006; Santese et al., 2006). Le capacità linguistiche e cognitive di ogni bambino sono state accertate. L’analisi
dell’interazione discorsiva ha riguardato: 1) la frequenza con cui il bambino è coinvolto in sequenze interattive caratterizzate
da un alto livello di co-regolazione dell’attenzione e del discorso; 2) la quantità di spiegazioni fornite dal genitore ed anche
prodotte dal bambino. Il Relational Coding System (Fogel, 2000) è stato impiegato per identificare sequenze interattive
altamente co-regolate. Le spiegazioni sono state individuate mediante l’applicazione di un sistema di codifica elaborato per il
presente studio ed ispirato ai lavori di Pontecorvo e coll. (ad es., Fasulo, Pontecorvo, 1999; Orsolini, Pontecorvo, 1992).
Sono state identificate e analizzate le spiegazioni con la funzione di: a) giustificare o motivare una precedente affermazione,
valutazione, disaccordo o chiarire una precedente incomprensione; b) insegnare fatti o parole nuove (funzione segnalata da
espressioni come sai, ti ricordi, hai capito?, da domande retoriche oppure dalla presenza di una parola rara, di un evento raro
o inaspettato).
Risultati
La valutazione del profilo semantico mediante la batteria di prove semantiche ha rilevato che 2 bambini, 1 M e 1 F, hanno
prestazioni più basse degli altri 3 bambini, se confrontati con dati normativi. L’analisi dell’interazione genitore-bambino ha
mostrato che per questi 2 bambini l’esperienza interattiva e discorsiva con i genitori è stata qualitativamente meno ricca.
Hanno avuto, nel contesto del gioco, un meno frequente coinvolgimento in un discorso altamente co-regolato (in particolare
con le madri) e ricevuto/prodotto un più basso numero di spiegazioni.
I dati vengono discussi ipotizzando che l’esperienza di interazione discorsiva abbia una relazione con lo sviluppo semantico
individuale: i bambini che sperimentano una più carente interazione con i genitori sono anche gli unici bambini del piccolo
gruppo osservato a mostrare difficoltà semantiche (seppur in parte differenti per tipo ed entità). Tuttavia, non si può
escludere che lo sviluppo semantico dei bambini possa essere stato influenzato da fattori individuali e/o relazionali che
rimangono da indagare. Quindi piuttosto che stabilire una precisa relazione di causalità tra difficoltà del bambino e
l’esperienza di condivisone dell’attenzione e del discorso con i genitori, si preferisce ipotizzare una reciproca influenza tra
interazione discorsiva bambino-genitori e sviluppo semantico individuale. Vedere il bambino e i genitori in un sistema
permette di pensare che si potrà agire sull’interazione per contribuire a migliorare lo sviluppo semantico del bambino (Kaiser
et al., 1999; Mahoney et. al, 1999).
Keywords
parent-child interaction, semantic development, case study.
171
LA COMUNICAZIONE REFERENZIALE NELLA PROSPETTIVA EVOLUTIVA
AGATA MALTESE*, ANNA FRATANTONIO**, ANNAMARIA PEPI*
* Facoltà di Scienze della Formazione, Dipartimento di Psicologia – Università degli Studi di Palermo.
** Facoltà di Scienze della Formazione, Dipartimento di Pedagogia e Scienze dell’Educazione – Università degli Studi di
Messina.
[email protected]
Introduzione
La comunicazione referenziale è un costrutto complesso determinato da una rete di operazioni significative che coinvolgono
in eguale misura i conduttori dell’interazione comunicativa. In modo più specifico, le competenze che spettano al parlante
riguardano l’individuazione del referente bersaglio rispetto a tutti gli altri referenti possibili, la codifica e la focalizzazione
dei suoi attributi criteriali, la valutazione dell’adeguatezza e della pertinenza comunicativa del messaggio e, qualora l’esito
valutativo fosse negativo, l’eventuale riformulazione del messaggio stesso. Al buon ascoltatore si richiede invece di
analizzare in modo rigoroso gli oggetti costituenti il “campo referenziale” e di operare una precisa comparazione tra le
proprietà degli stimoli e le informazioni contenute nel messaggio. Le ricerche concordano nel ritenere che, già in età
prescolare, il bambino sia in grado di acquisire la lingua materna ma, tuttavia, è solo con la scolarizzazione e l’esposizione ad
adeguati stimoli educativi, che egli sviluppa quelle abilità cognitive e sociali che gli permetteranno di divenire un buon
parlante e un buon ascoltatore. Con l’ingresso a scuola, infatti, il bambino ha il suo primo impatto con un tipo di
comunicazione che, contrariamente a quella sperimentata in ambito familiare, si basa sullo scambio di informazioni verbali e
sulla condivisione di esperienze che non rientrano nel semplice contesto dell’hic et nunc (Bishop e Adams, 1991; Prince,
Haynes e Haak, 2002). Altro fattore critico per lo sviluppo della comunicazione “referenzialmente orientata” è rappresentato
dal contesto sociale e culturale che può contribuire a determinare una situazione di svantaggio. In particolare, ci riferiamo
alla distanza di “lingua-uso” tra l’ambiente familiare e quello scolastico (Verhoeven e Vermeer, 2006). Seguendo tale
prospettiva di indagine, la ricerca presentata si propone di analizzare, in funzione dell’età scolare e del livello socioculturale,
la capacità di comunicazione “referenzialmente orientata”.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 160 soggetti, egualmente suddivisi in due gruppi in funzione del livello socioculturale (medio
alto versus medio basso) e frequentanti la III e la V classe della scuola primaria. Il materiale utilizzato è costituito da una
scheda sociologica e dal PCR (Camaioni, Ercolani e Lloyd, 1996), che mira a valutare l’abilità di comunicazione orale intesa
sia come produzione che come ricezione.
Risultati
I dati ottenuti suggeriscono che la capacità di produrre e comprendere messaggi informativi è influenzata in modo marcato
dalla relazione tra capacità discriminativa, contrastività ed efficacia comunicativa. Tale relazione tende a modificarsi in
funzione dell’età scolare e del livello socio-culturale. I risultati dimostrano che, durante il percorso di alfabetizzazione, i
soggetti esibiscono una maggiore facilità nell’esprimere messaggi che denotano un preciso referente, ovvero messaggi che
hanno un contenuto semantico che non varia al variare del contesto. Sembra infatti che, con la scolarizzazione, i soggetti
tendono ad arricchire il proprio repertorio conoscitivo e tali aumentate conoscenze consentono loro di perfezionare i termini
linguistici e di riferirsi a classi di significato sempre più ampie. In particolare, i soggetti frequentanti la III classe, rispetto a
quelli più grandi tendono a formulare messaggi ridondanti e non adeguati al contesto specifico, rivelando una scarsa
attenzione all’interlocutore. Essi, nella condizione di ascolto di un messaggio ambiguo, presentano una bassa prestazione a
causa di un atteggiamento di indiscussa fiducia nell’autorità dell’interlocutore che invia il messaggio stesso. Si sono inoltre
manifestate delle marcate differenze, nel percorso scolastico, anche per quanto concerne il livello della comprensione dei
messaggi. I bambini frequentanti la III classe, generalmente, tendono a sovrastimare la qualità comunicativa del messaggio
ricevuto e non riescono a cogliere il diverso grado di salienza delle informazioni in esso contenute. Non ci stupisce, dunque,
che tali soggetti qualora ricevano messaggi ambigui, caratterizzati dalla mancanza di connessioni causali, che richiedono un
discreto sforzo di interpretazione, non riescono a valutarne la rilevanza e l’efficacia e preferiscono considerarli non
informativi o illogici. I soggetti più grandi, invece, hanno manifestato una maggiore sensibilità all’incongruenza e una
notevole capacità di discriminare ciò che viene esplicitamente detto da quanto si vuole significare. Altro dato di rilievo è
quello relativo all’influenza esercitata dal livello socioculturale sulla efficacia comunicativa; il successo comunicativo dei
soggetti di livello socioculturale medio alto ci induce a supporre che tali soggetti siano caratterizzati da una buona capacità
di codifica degli attributi criteriali e da una discreta capacità valutativa del grado di pertinenza dei messaggi ricevuti.
Keywords
referential communication; school age; social-cultural level
172
VALUTARE LE ABILITÀ COMUNICATIVE E LINGUISTICHE NEI CONTESTI EDUCATIVI: EDUCATORI E
GENITORI A CONFRONTO
VALENTINA GARELLO
Dipartimento di Scienze Antropologiche, Università di Genova
[email protected]
Introduzione
I disturbi del linguaggio in età prescolare sono molto frequenti e costituiscono una delle principali cause di segnalazione ai
servizi specialistici. L’asilo nido è considerato uno dei contesti privilegiati in cui realizzare programmi di prevenzione delle
possibili difficoltà dei bambini. Per questo motivo la possibilità di disporre di strumenti di facile applicazione per seguirne
l’andamento dello sviluppo linguistico e per identificare eventuali situazioni a rischio rappresenta un obiettivo di prevenzione
importante. Il presente studio ha l’obiettivo di migliorare le modalità di valutazione dello sviluppo del linguaggio in età
prescolare adattando uno strumento indiretto di valutazione all’uso nei contesti educativi. Lo strumento, Il Primo
Vocabolario del Bambino (PVB; Caselli, Casadio, 1995), è un questionario utilizzato ormai da molti anni in Italia, sia in
ambito di ricerca sia nella clinica, per lo studio e la valutazione della comunicazione e del linguaggio nei primi anni di vita in
bambini con sviluppo tipico e atipico. Il questionario è stato pensato per i genitori, ma il suo impiego è ormai diffuso anche
in altre situazioni, tra cui i contesti educativi. In considerazione del fatto che la registrazione del repertorio lessicale è
influenzata dal contesto e dalle condizioni di osservazione, oltre che dal livello di familiarità con il bambino, si è ritenuto
utile realizzare uno studio per la raccolta di dati riferiti alla compilazione da parte degli educatori dello strumento in
questione.
Metodo
E’ stata disposta la valutazione dello sviluppo linguistico di un campione di 160 bambini di età compresa tra i 24 e i 30 mesi
tramite l’impiego del questionario osservativo Il Primo Vocabolario del Bambino, scheda “Parole e Frasi”. Il questionario è
stato compilato dai genitori e contemporaneamente dagli educatori, per lo stesso campione di bambini osservati
rispettivamente a casa e all’asilo nido.
Le informazioni fornite dalle educatrici sono state confrontate con i profili linguistici ottenuti tramite la compilazione del
questionario da parte delle madri (grado di accordo tra osservatori) e con i punteggi ottenuti dalla somministrazione di prove
dirette volte a valutare alcune abilità comunicativo-linguistiche dei bambini (validità concorrente). Le prove dirette
somministrate sono il Test del Primo Linguaggio (TPL; Axia, 1993), e la rilevazione di un campione di linguaggio spontaneo
raccolto tramite due sessioni d’interazione di gioco effettuate con l’educatrice e con la madre.
Risultati preliminari
La raccolta dei dati è tuttora in corso e ad oggi ha coinvolto 81 bambini tra i 24 e i 30 mesi. Si riportano le prime analisi
condotte sulla fascia d’età 30 mesi (N=22).
Dal confronto delle due versioni emerge che i genitori riportano un repertorio lessicale dei bambini significativamente più
ampio di quello riportato dagli educatori, ma in linea con il dato atteso (media parole prodotte stimate dal genitore 469±172
contro le 305±176 riportate dagli educatori e le 446±168 del campione normativo). Inoltre, la composizione del vocabolario
riportata dai genitori del nostro campione non si discosta da quella della popolazione di riferimento. Al contrario, quella
riportata dagli educatori risulta più immatura, caratterizzata da una percentuale superiore di suoni e voci della natura (4%
educatori, 2% dato normativo) a discapito delle componenti più mature del repertorio lessicale (verbi 11% e aggettivi 6%,
rispettivamente 16% e 9% il dato atteso). Il grado di accordo educatori-genitori per le altre variabili è risultato significativo
solo su tre aspetti: uso corretto del plurale dei nomi (kappa ,032), la coniugazione verbale (kappa ,018) e la produzione di
frasi (kappa ,011). Non risulta significativo il grado di accordo per la comprensione e produzione decontestualizzata di parole
(per quest’ultima competenza gli educatori hanno stimato che sia l’86% di bambini ad averla acquisita contro il 95% stimato
dai genitori) e per l’uso di varie forme di uno stesso aggettivo (il 50% dei bambini valutati dagli educatori contro il 77% di
quelli valutati dai genitori).
Discussione
I risultati preliminari identificano importanti differenze nelle valutazioni condotte da genitori e educatrici per quanto riguarda
lo sviluppo linguistico dei bambini. Gli aspetti quantitativi e qualitativi della produzione lessicale rilevata dagli educatori la
rendono assimilabile a quella di bambini più piccoli. In attesa di ulteriori conferme, questo risultato suggerisce la necessità di
definire valori normativi di riferimento per quanto riguarda la compilazione del PVB da parte degli educatori.
Keywords
language assessment, parent and teacher report
173
RAPPORTO TRA COMPETENZE FONOLOGICHE E SVILUPPO LINGUISTICO TRA IL TERZO E IL
QUARTO ANNO DI VITA
MIRELLA ZANOBINI, FRANCESCA SARACENO, PAOLA VITERBORI, ALDA SCOPESI
Dipartimento di Scienze Antropologiche, Università di Genova
[email protected]
Introduzione
Gli studi relativi alle interazioni fra sviluppo fonologico e sviluppo lessicale si sono focalizzati soprattutto sulle fasi precoci
di acquisizione e hanno dimostrato come le caratteristiche fonetiche delle prime parole siano simili a quelle della lallazione.
Oltre le 50 parole, i bambini iniziano a produrre con maggiore frequenza vocaboli che contengono suoni al di fuori del
proprio repertorio, pur con numerosi errori di strutturazione sillabica, di armonia e di sostituzione (Bortolini, 1995). Anche
per i bambini più grandi è dimostrato come l’ampiezza dell’inventario fonologico influenzi l’acquisizione di vocaboli nuovi
(Schwartz, Leonard, 1982). Lo stretto collegamento fra lo sviluppo fonologico e altri aspetti dello sviluppo linguistico è stato
analizzato soprattutto nei parlatori tardivi. Diversi studi hanno descritto profili fonologici differenziati – per numero di
consonanti, quantità e qualità di errori, forme sillabiche prodotte (Pharr et al., 2000; Williams e Elbert, 2003) - in gruppi di
bambini con diversi livelli di competenza linguistica. Bortolini e Leonard (2000) evidenziano come i problemi fonologici
costituiscano un’area di particolare difficoltà in parlatori tardivi inglesi e italiani. In italiano, l’omissione della sillaba non
accentata comporta una più frequente omissione di articoli e clitici e un uso limitato della terza persona plurale dei verbi.
Risultati nella direzione di una influenza dei problemi fonologici sugli aspetti morfo-sintattici vengono replicati in altre
lingue con metodi simili. Tuttavia, i legami evidenziati non escludono una relativa indipendenza tra i due domini.
Da un precedente studio longitudinale (Zanobini e Viterbori, in stampa) emerge come le variabili fonologiche misurate
globalmente a 24-36 mesi (inventario fonologico, percentuale di parole corrette) siano scarsamente predittive dello sviluppo
linguistico a un anno di distanza. Misure più fini sembrano dunque necessarie per comprendere il legame tra lo sviluppo
fonologico e le altre aree dello sviluppo linguistico.
Scopo della ricerca è individuare, in un campione di bambini italiani nel terzo anno di vita all’inizio dello studio,
l’evoluzione di diversi aspetti della produzione fonologica (inventario consonantico, livello di intelligibilità, livello di
semplificazione, quantità e tipologie di errori prodotti) e le correlazioni con la prestazione a un test di linguaggio finalizzato a
misurare diverse capacità (comprensione, denominazione, correttezza fonologica e morfologica, complessità sintattica e stile)
a un anno di distanza.
Obiettivi specifici:
1. descrivere le competenze fonologiche del nostro campione attraverso l’analisi dell’inventario fonologico;
2. individuare possibili predittori fonologici dello sviluppo lessicale, morfologico e sintattico.
3. analizzare la distribuzione degli errori e la loro evoluzione nel tempo
Si ipotizza che i migliori predittori dello sviluppo linguistico siano le parole incomprensibili e il numero di errori commessi,
data la loro importanza nell’identificare i profili dei parlatori tardivi a questo livello d’età.
Metodo
La presente ricerca è parte di uno studio longitudinale più ampio. Il campione è costituito da 20 bambini di età compresa tra
24 e 30 mesi al momento della prima rilevazione e frequentanti l’asilo nido.
Nella prima fase di rilevazione sono state somministrate le Prove per la valutazione Fonologica del Linguaggio Infantile
(PFLI) (Bortolini, 1995).
Nella seconda fase di rilevazione, avvenuta a distanza di un anno dalla precedente, sono state raccolte misure dirette della
comprensione e produzione linguistica valutate con il Test di Valutazione del Linguaggio (TVL) (Cianchetti, Sannio
Fancello, 1997) ed è stata riproposta la somministrazione delle PFLI.
Risultati preliminari
Per quanto riguarda le competenze fonologiche, come atteso, si verifica: un aumento delle consonanti prodotte (da una media
di 12 (d.s.=4) fonemi alla prima valutazione a una media di 17 (d.s.=1) alla seconda); un aumento del livello di intelligibilità
della produzione linguistica; una diminuzione degli indici di semplificazione con, in particolare, un aumento delle parole
corrette rispetto alle semplificate.
Il punteggio totale al TVL (indicativo della competenza linguistica complessiva del bambino) correla con due indici
fonologici relativi alla prima valutazione: l’indice di incomprensibilità (r=-0,67; p<0,01) e il rapporto semplificate/corrette
(r=-0,58; p<0,01) e con un indice di diversità lessicale (r=0,67; p<0,01). Alla seconda valutazione permangono le
correlazioni fra TVL e i due indici fonologici (indice di incomprensibilità (r=-0,77; p<0,001), rapporto semplificate/corrette
(r=-0,59; p<0,01)). L’ampiezza dell’inventario fonologico - alle due valutazioni - non è associata al punteggio totale del
TVL. I bambini che, alla seconda valutazione, compiono un numero di errori fonologici elevato (>75° centile) ottengono un
punteggio inferiore al TVL (p=0.05).
Keywords
phonological development; linguistic competence; three years old children
174
LA COMPRENSIONE DEL NUMERO NELLA MORFOLOGIA GRAMMATICALE IN BAMBINI CON
SVILUPPO TIPICO DEL LINGUAGGIO
MARCO DISPALDRO, BEATRICE BENELLI
Dipartimento di psicologia dello sviluppo e della socializzazione – Università di Padova
[email protected]
Introduzione
Studi sulla comprensione negli articoli e nei verbi (Devescovi et al. 1999, Gelman e Taylor 1984, Karmiloff-Smith, 1979,
Pérez-Pereira, 1991) sono concordi nell’affermare che i bambini di 3 anni hanno difficoltà nell’estrapolare le informazioni
grammaticali dall’elemento morfologico e sono ancora dipendenti da informazioni extra-grammaticali e/o contestuali.
Obiettivo: si intende studiare la comprensione della funzione grammaticale di numero (singolare vs plurale) negli articoli
determinativi e nella terza persona dell’indicativo presente in bambini con sviluppo tipico di linguaggio tra i 3 ed i 4 anni di
età.
Esperimento 1
L’obiettivo dell’esperimento è di indagare, attraverso un compito di discriminazione di figure (singolarità [X] e pluralità
[XX]), se i bambini con sviluppo tipico del linguaggio comprendono la funzione grammaticale di numero negli articoli
determinativi e nella terza persona dell’indicativo presente. Ogni figura rappresenta uno o due oggetti di fantasia (1 pit [X] vs
2 pit [XX]), per quanto riguarda gli articoli, oppure un’azione svolta da uno o due bambini (mangia [X] vs. mangiano [XX])
per quanto riguarda i verbi. L’esaminatore chiede al bambino di toccare la figura target, ad esempio, “tocca dove mangia”
oppure “tocca i pit”. Il bambino può toccare solo una figura.
Partecipano allo studio 45 bambini suddivisi in 2 gruppi di età: età media 3;0 anni ed età media 4;0 anni.
Risultati: a 3;0 anni è presente una differenza nella comprensione del numero: i bambini identificano il referente plurale
meglio del singolare, risultato già ottenuto in altri lavori (Schnoor e Newman, 2001; Soderstrom 2002) ma comunque
inatteso alla luce di quanto avviene in produzione (Dispaldro et al. in stampa).
Esperimento 2
Due sono le ipotesi al riguardo:
- alcuni bambini non comprendono l’informazione grammaticale di numero e per questo scelgono casualmente l’immagine
con più oggetti (sovrastima del plurale);
- alla richiesta del singolare alcuni bambini sceglierebbero la figura plurale pur intendendo solo un oggetto o un personaggio
al suo interno (sottostima del singolare).
L’obiettivo dell’esperimento è di indagare, negli articoli determinativi, la strategia di selezione del target in un compito in cui
si chiede di prendere un oggetto di fantasia (ad esempio, “prendi il pit”: 1 pit dentro un piatto [X] e 2 pit dentro un altro
piatto [XX]). Partecipano allo studio 20 bambini di 3;0 anni e 40 adulti.
Risultati: i risultati confermano l’ipotesi secondo la quale alla richiesta del target singolare, alcuni bambini identificano il
numero ma selezionano un oggetto all’interno del piatto che ne contiene due ([X] [XX]). Al contrario gli adulti scelgono
sempre l’oggetto “singolarità” ([X] [XX]).
Esperimento 3
Due sono le ipotesi sulla causa della scelta del singolare dentro il gruppo “pluralità” [XX]:
- “Maximality view” (Wexler, 2003): la causa risiederebbe nella mancata acquisizione da parte di alcuni bambini di 3 anni
della funzione grammaticale di specificità (influenza grammaticale). Ciò che permette agli adulti di eseguire correttamente il
compito è la funzione di specificità dell’articolo.
- “Implicit domain restriction” (Miller 2005, Munn 2005): alcuni bambini di 3 anni non riconoscono i due sottogruppi come
distinti (“singolarità” [X] e “pluralità” [XX]) ma li percepiscono come un’unica “totalità” [XXX] (influenza pragmatica). Ciò
che permette agli adulti di eseguire correttamente il compito è il riconoscimento dei sottogruppi che contraddistinguono il
singolare [X] ed il plurale [XX].
Replicando l’esperimento precedente con la terza persona dei verbi all’indicativo presente (categoria grammaticale priva di
funzione di specificità), è possibile verificare quale delle due ipotesi sopra esposte è veritiera: in questo caso la diversa
strategia di selezione del target singolare tra bambini ed adulti (come è avvenuto negli articoli) non può essere imputa alla
funzione grammaticale di specificità (in quanto non presente e quindi non può essere acquisita dagli adulti), bensì alla
categorizzazione da parte degli adulti dei due sottogruppi proposti (“singolarità” [X] e “pluralità” [XX]).
Il compito consiste nel far eseguire delle azioni a dei pupazzi (corre, saltano) posti /1/ dentro un piatto [X] e /2/ dentro l’altro
[XX]. Partecipano allo studio 20 bambini di 3;0 anni e 40 adulti.
Risultati: alcuni bambini a 3;0 anni non categorizzano gli X come due sottogruppi ([X] [XX]); a causa del contesto non
accessibile (Crain 1996, Guasti 2002) per questi bambini non è facile comprendere che il singolare deve coincidere con il
sottogruppo “singolarità” [X]. In un compito dove si chiede di indicare una figura, questa influenza pragmantica porterebbe
ad una sottostima delle abilità del bambino.
Keywords
language, grammar, comprehension
175
SVILUPPO DELL’ENUNCIATO COMPLESSO IN DUE BAMBINE PORTATRICI DI IMPIANTO COLCLEARE
DANIELA MARCHIONE (1), SILVIA BALDI (2), MAURIZIA MELLA (3), DAVIDE TUFARELLI (4), ANTONELLA
DEVESCOVI (5)
Università di Milano Bicocca (1), Università "La Sapienza" Roma (1,5)
IRCCS, San Raffaele Pisana Roma (2; 3; 4)
[email protected]
Introduzione
Secondo la letteratura internazionale, i bambini sordi profondi, figli di genitori udenti, non esposti né al linguaggio verbale
né alla lingua dei segni, hanno generalmente un ritardo nell’acquisizione del linguaggio e raramente producono enunciati
composti di due elementi rappresentativi prima dei 4 anni (Volterra et al., 1983, 1990; Goldin-Meadow & Mylander, 1990).
L’impianto cocleare dovrebbe consentire al bambino sordo profondo una qualità della percezione dei suoni linguistici
migliore di quella assicurata dalle protesi acustiche tradizionali e quindi una esposizione al linguaggio verbale più ampia e
proficua. Sono ancora pochi gli studi che hanno indagato lo sviluppo del linguaggio verbale, in particolar modo degli aspetti
sintattici, in bambini portatori di impianto cocleare. Obiettivo di questo lavoro è descrivere lo sviluppo dell’enunciato
complesso di bambini italiani con ipoacusia profonda neuro-sensoriale portatori di impianto cocleare, figli di genitori udenti,
e di confrontarlo con quello di bambini udenti coetanei (Marchione.in stampa).
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 2 bambine sorde profonde che hanno ricevuto l’impianto cocleare in età relativamente precoce
(18 e 24 mesi). Entrambe hanno eseguito una terapia riabilitativa di tipo oralista presso l’IRCCS San Raffaele, Reparto ORL
di Roma. Le bambine sono state osservate con frequenza mensile, per un periodo di tempo compreso tra i 38 e i 44 mesi, in
una situazione di gioco semistrutturato con un’operatore/sperimentatore. La produzione linguistica rilevata durante la seduta
di osservazione è stata audio-registrata e successivamente trascritta e analizzata utilizzando le procedure standardizzate del
sistema internazionale CHILDES per lo Scambio di Dati sul Linguaggio Infantile (MacWhinney, 1991). L’unità di
trascrizione è l’enunciato definito secondo la modalità di Cresti e Moneglia (1993): qualsiasi espressione che può essere
interpretata pragmaticamente, ovvero cui è attribuibile forza illocutiva sulla base del suo pattern intonativo. Il criterio
intonativo è teoricamente fondato, adeguato alle caratteristiche del parlato di bambini di età compresa tra i 2 e i 4 anni e
permette di individuare in modo rigorosamente replicabile l’unità di analisi prescelta.
MISURE. Per valutare la complessità del linguaggio spontaneo sono state utilizzate le seguenti misure:
a) Lunghezza Media dell’Enunciato in parole ortografiche (Caselli, Devescovi, Marchione, Relly, Bates, 2005).
b) Frequenza di enunciati complessi: numero di espressioni senza verbo, di espressioni con il verbo, di proposizioni
incassate(Marchione, in stampa).
c) Capacità di collegare gli enunciati attraverso legami di tipo grammaticale e di tipo semantico-pragamatico: frequenza di
completamenti dell’enunciato precedente attraverso l’uso del connettivo, e frequenza di completamenti dell’enunciato
precedente in modalità implicita, senza l’uso del connettivo Marchione, in stampa; Tomasello, 2003).
Sono state inoltre valutate, per mezzo di prove standardizzate, le abilità cognitive globali (Leiter-r, Roid & Miller,
1995;1997) e le abilità di produzione linguistica grammaticale a 38, 41 e 44 mesi (Test di Ripetizione Frasi, Devescovi e
Caselli, 2001, 2007).
Risultati
Dai risultati emerge che durante il periodo di osservazione entrambe le bambine producono enunciati complessi. Tuttavia il
loro linguaggio è caratterizzato da una frequenza di omissioni di morfemi grammaticali liberi maggiore dei loro coetanei
udenti. Occorre ricordare che i funtori grammaticali non hanno pregnanza né semantica né fonologica. Inoltre, alcune
caratteristiche (i funtori sono brevi e non accentati), rendono la loro identificazione attraverso la lettura labiale molto più
difficoltosa rispetto ad altre parti del parlato. Attraverso l’analisi del linguaggio spontaneo e il confronto con il campione di
controllo emerge che una bambina risulta nella norma per quanto riguarda la capacità di costruire strutture sintattiche
complesse, sia a livello della combinazione di elementi lessicali e grammaticali in un enunciato che a livello di combinazioni
sintattiche e/o pragmatiche tra due enunciati contingui; nell’altra bambina invece la misura della LME non raggiunge il
livello che ci si aspetterebbe per età cronologica ed anche lo sviluppo morfosintattico appare in ritardo. Tale differenza
potrebbe essere essere attribuita alla diversa età in cui è stato effettuato l’impianto e quindi al diverso tempo di esposizione al
linguaggio verbale delle due bambine. Inoltre un fattore che può aver influito sullo sviluppo espressivo potrebbe essere il
diverso contesto familiare in cui sono cresciute le due bambine. I risultati relativi alle prove strutturate e alle loro relazioni
con il linguaggio spontaneo sono in fase di elaborazione.
Keywords
complex syntax, cochlear implant,language development
176
DISTURBO SPECIFICO DEL LINGUAGGIO, DIVERSE TEORIE PER SPIEGARE UN CASO SINGOLO
GIANFRANCO DENES (1), ANDREA ANAHÍ JUNYENT (2), MARIA CHIARA LEVORATO (2)
(1) Dipartimento di Scienze del Linguaggio-Università Ca' Foscari
(2) Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione-Università di Padova
[email protected]
Introduzione
Il Disturbo Specifico del Linguaggio è un deficit che colpisce l’acquisizione della lingua in assenza di deficit cognitivi.
Esistono due gruppi principali di ipotesi sulle cause sottostanti al DSL. Un gruppo propone che limiti di elaborazione
dell’input ostacolano il processo di acquisizione tipico (Tallal, 1976; Tallal e Piercy, 1973a, 1973b, 1974, 1975; e Tallal,
Stark, Kallman e Mellits, 1980, 1981, 1985a, 1985b). Il secondo gruppo, invece, afferma che le difficoltà linguistiche sono
dovute a un deficit nella costruzione di rappresentazioni grammaticali (Gopnik e Goad,1997; Ullman e Gopnik,1994; Eyer e
Leonard, 1995; Clahsen et al, 1997; Clahsen e Hansen, 1993; Rothweiler e Clahsen, 1993; Rice e Wexler 1995; Rice, Wexler
e Cleave; 1995; Ingram e Carr,1994; Morehead e Ingram, 1973; Van der Lely 2005; Van der Lely e Battell, 2001; Van der
Lely e Ullman, 1996).
Viene presentato lo studio di caso singolo osservato con l'obiettivo di individuare quali fenomeni possano essere spiegati
meglio dai due gruppi di teorie.
Partecipante e metodo
Il partecipante è un bambino tra i 5;7 e i 6;4 anni con DSL di tipo espressivo sulla base delle differenze fra le abilità verbali e
non verbali misurate con WPPSI e WISC-R. Sono state somministrati sia test standardizzati che valutano diverse dimensioni
dello sviluppo linguistico sia dei compiti creati ad hoc; inoltre, sono stati raccolti campioni di produzione spontanea in
interazioni di gioco libero e la produzione di una narrativa sulla base di una sequenza di vignette (Bus Story Test).
Complessivamente, sono state misurate le capacità fonologiche, lessicali e morfosintattiche, sia in produzione che in
comprensione.
Risultati
La produzione fonologica è risultata essere compromessa a causa di un significativo ritardo nel repertorio fonologico e uno
sviluppo atipico in relazione all'abbandono di processi fonologici caratteristici dei primi stadi di acquisizione del linguaggio.
Questi dati possono essere spiegati dalle ipotesi che propongono come deficit sottostanti i limiti di elaborazioni dell'input
(Merzenich et al. 1996). Tuttavia, essi possono essere anche interpretati come una conseguenza dell'incapacità di costruire
regole implicite che governino processi morfologici e fonologici, come proposto dalle ipotesi di Gopnik e colleghi (Gopnik e
Goad,1997 e Ullman e Gopnik,1994)
La morfosintassi è caratterizzata da un importante gap fra produzione e comprensione; infatti, la comprensione è entro la
norma, ma la produzione mostra un significativo ritardo (MLU di 2,2).
La produzione grammaticale, inoltre, presenta caratteristiche peculiari che trovano spiegazione in diverse ipotesi sul DSL, fra
quelle che postulano un deficit nella costruzione di rappresentazioni grammaticali.
a) La produzione della flessione nominale presenta un profilo atipico in quanto la formazione del plurale di parole nuove
sembra non basarsi sull’applicazione di una regola, bensì sulla costruzione di un'analogia con elementi del magazzino
lessicale. Questi risultati possono essere spiegati dalle ipotesi di Gopnik e colleghi; la mancanza di una regola grammaticale
sarebbe compensata dall'applicazione di una strategia cognitiva.
b) L'uso degli articoli presenta un evidente ritardo: gli articoli definiti, che dovrebbero essere acquisiti prima dei 2;5 anni
(Pizzuto e Caselli 1992), sono prodotti correttamente solo nel 18% dei casi nei contesti obbligatori. La produzione dell'intero
sistema determinante (articoli definiti e indefiniti) è anche essa scarsa e, in confronto con i dati in letteratura (Bottari et al,
1998), corrisponde più alla performance di altri bambini DSL che non a quella di bambini con sviluppo tipico appaiati per
MLU. Questi risultati possono essere spiegati dalle ipotesi di Leonard e colleghi (Eyer e Leonard, 1995) che affermano che
la grammatica dei bambini DSL contiene categorie lessicali ma non funzionali, come nei bambini con sviluppo tipico negli
stadi iniziali dell'acquisizione del linguaggio. Da altra parte, anche l'ipotesi della mancanza d'accordo grammaticale (Clahsen
et al, 1997; Clahsen e Hansen, 1993; Rothweiler e Clahsen, 1993) può spiegare questi risultati. Per questi autori, il deficit è
dovuto alla difficoltà di stabilire relazioni strutturali fra una head e il suo specifier, in questo caso fra il determinante e il
nome.
c) La produzione della flessione verbale si colloca a livelli di acquisizione primitivi. Nell'uso del tempo presente, la flessione
verbale non è sempre correttamente prodotta e l'ausiliare del passato prossimo è principalmente omesso, se non sostituito.
Anche questi dati trovano spiegazione nelle ipotesi del deficit nell'acquisizione di regole grammaticali di Gopnik e colleghi.
Ma anche le ipotesi di mancanza d’accordo (in questo caso, fra il nome e la flessione) di Clahsen rendono conto dei dati.
Conclusioni
Nell'insieme, i risultati mostrano che ciascun fenomeno può essere spiegato da più teorie, ma nessuna teoria spiega tutti i
fenomeni.
Keywords
Specific Language Impairment, First Language Acquisition
177
LOCATIVI SPAZIALI DELLA LINGUA ITALIANA E COMPETENZE DEFINITORIE
MARIA ASSUNTA ZANETTI, DANIELA MIAZZA, ANNAMARIA RONCORONI
Università degli Studi di Pavia, Dipartimento di Psicologia
[email protected]
Introduzione
Comprendere le relazioni spaziali e il locativo corrispondente costituisce un’acquisizione piuttosto precoce, anche se si
completa alla fine di un lungo processo. Per alcuni studiosi (Johnston,1985; Bowerman, Choi, 2001), grazie all’acquisizione
di determinati prerequisiti concettuali il bambino può essere in grado di comprendere e utilizzare i locativi spaziali.
Resta da indagare se questa ipotesi è valida per tutte le tipologie di locativi, ma anche quali caratteristiche delle relazioni
spaziali accompagnino gli andamenti evolutivi della costruzione della competenza definitoria, come percorso che segna il
passaggio dagli aspetti propriamente concettuali a quelli semantici, per giungere a quelli definitori (Belacchi, Benelli, 2007).
Ipotizziamo che durante la scuola primaria si assista ad una riduzione degli errori nella comprensione e nell’utilizzo dei
locativi. Inoltre, che lo sviluppo della capacità definitoria dei locativi sia caratterizzata (per la seconda classe) da una
rappresentazione di tipo soggettivo ed egocentrico (Livello I e II) e poi, in quarta, si realizzi una rappresentazione sempre più
decentrata di tipo convenzionale.
Per la componente della forma linguistica, ci aspettiamo che le risposte definitorie seguano lo stesso percorso che caratterizza
la comparsa e il progressivo uso del linguaggio verbale: dalla parola singola, alla produzione di strutture frasali (senza
completezza morfosintattica), fino all’utilizzo di vere perifrasi categorizzanti con specificazione.
Infine, tra locativi inseriti in una Storia oppure in una sequenza di Frasi, ci attendiamo minori difficoltà nella prima rispetto
alle seconda e maggiori difficoltà, in questa prova, per le frasi Astratte, Idiomatiche e di Rilevanza Percettiva rispetto a
quelle Concrete.
Ancora, che esista una correlazione positiva tra i punteggi ottenuti dai bambini nelle Matrici Progressive di Raven (SPM) e
nella prova di Competenza Definitoria.
Metodo
Due gruppi di bambini di scuola primaria: 31 di seconda e 29 di quarta.
Si è somministrato il test SPM, per ottenere un indice generale di sviluppo; è stata, poi, proposta una batteria di prove
linguistiche: Prova di valutazione della competenza definitoria (Belacchi, Benelli, 2007, Scala di Contenuto e di Forma, per
indagare il livello di conoscenza e di abilità definitoria dei locativi in modo indipendentemente dal contesto in cui essi sono
inseriti; una Storia e una prova di Frasi (32 frasi, suddivise nelle categorie: Concrete, Astratte, Idiomatiche, di Rilevanza
Percettiva).
Risultati
Nella Storia, l’ANOVA ha mostrato che i bambini di quarta hanno prodotto un maggior numero di risposte corrette, rispetto
a quelli di seconda (p < .001, F = 45.594).
Sono presenti correlazioni significative tra tutti i gruppi SPM e i livelli della scala Sommatoria. Nella prova delle Frasi si
apprezzano correlazioni significative (p = .001) per le categorie Idiomatiche e Astratte (r = .422), Concrete e Astratte (r =
.413), Concrete e Idiomatiche (r = .413), Rilevanza Percettiva e Astratte (r = .345), Rilevanza Percettiva e Concrete (r =
.372). Per queste ultime, si è osservato un parallelismo tra l’andamento dei risultati delle prove di comprensione dei locativi
(Storia e Frasi) e la competenza definitoria dei locativi Concreti (scale Contenuto e Forma): i bambini di quarta sbagliano
meno nelle prove di comprensione dei locativi, ma le percentuali della distribuzione delle definizioni nei diversi livelli (scala
Contenuto) è sensibilmente minore per le risposte classificabili al Livello I e II; all’opposto, aumentano le risposte di Livello
V, cioè enunciati corretti rispetto alle consegne. Anche per la scala Forma si apprezza (livelli I, II, III e V) un miglioramento
della costruzione degli enunciati sia per l’aspetto sintattico che grammaticale. Il test di Mann-Whitney conferma la maggior
padronanza dei bambini di quarta per i locativi Concreti, ma anche per Astratti, Idiomatici, di Rilevanza Percettiva. Sono
state ottenute correlazioni significative (p = .005, r = .274) tra SPM e risposte corrette per le frasi Idiomatiche ( r = .274) e
Concrete (r = .280). Un andamento simile nella competenza definitoria dei locativi Concreti, anche se incompleto, è stato
apprezzato anche per Astratti e Idiomatici. Le produzioni dei bambini della quarta (nel 62%dei casi) si avvicinano
qualitativamente a modelli di definizioni corrette (quelli di seconda, per una percentuale simile, solo nei primi 3 livelli di
riferimento). La presenza di frasi strutturalmente scorrette nei bambini di seconda può essere spiegata ricordando l’iter
evolutivo che porta il bambino alla formazione dei primi significati, più organizzati e stabili, non prima dei 6-7 anni
(Belacchi, Benelli, 2007): i bambini cominciano allora a considerare le proprie risposte come oggetto di pensiero, iniziano a
riflettere sul linguaggio, non considerandolo solo uno strumento per comunicare. Tale riflessione richiede uno sviluppo
cognitivo superiore, che non è concluso in quarta elementare.
Keywords
language, word meaning, definitional skills
178
DOMINARE LO SPAZIO CON IL LINGUAGGIO: UNA RICERCA SUI LOCATIVI SPAZIALI
DANIELA MIAZZA, ANNAMARIA RONCORONI
Università degli Studi di Pavia, Dipartimento di Psicologia
[email protected]
Introduzione
L’acquisizione e padronanza delle strutture locative compare precocemente, in caso di sviluppo normale. Ben presto il
bambino è in grado di individuare le caratteristiche (o categorie) di base degli oggetti (Mandler, 1992) e di coglierne le
relazioni spaziali primarie, già descritte da Piaget e Inhelder (1964). Ciononostante, è tuttavia nel corso degli anni della
scuola primaria che si completa l’acquisizione e la padronanza d’uso dei locativi concreti, riconducibili a dettagli della realtà
che non necessitano di processi logici di astrazione. Johnston (1985), Bowerman & Choi (2001), Cipriani, Chilosi e Pfanner
(1993) condividono l’ipotesi definita come “forte”, in letteratura, ossia che la comprensione e l’utilizzo corretto delle
strutture linguistiche correlate alle relazioni di prossimità siano precedute, nello sviluppo individuale, dall’acquisizione dei
concetti spaziali di base, ossia da processi di tipo cognitivo. Resta pertanto da indagare se questa ipotesi è confermata per
tutte le tipologie di locativi spaziali, oppure solo per quelli concreti; inoltre, verificare se ciò accade in tutte le successive fasi
dello sviluppo, o solo nelle prime tappe, e infine, quali siano le caratteristiche proprie dei rapporti spaziali capaci di attivare
gli aspetti linguistici implicati. In Italia non sono ancora stati presentati studi in tal senso. La presente ricerca, che fa seguito
ad un primo studio pilota, si propone di indagare proprio tali relazioni.
Ipotesi
Seguendo l’impostazione teorica “forte” (Johnston,1985; Bowerman e Choi, 2001): durante la scuola primaria ipotizziamo
che si assista ad una riduzione progressiva di errori nella comprensione e utilizzo dei locativi spaziali (con una maggiore
capacità di argomentarne l’uso), soprattutto per la categoria di tipo concreto; una migliore performance nell’uso dei locativi
inseriti in contesti narrativi (Storia), rispetto alla presentazione in una sequenza di Frasi; infine una correlazione positiva tra i
punteggi ottenuti dai bambini sia nelle prove di ragionamento che linguistiche.
Metodo
Sono stati coinvolti due gruppi di bambini di scuola primaria: 31 di seconda e 29 di quarta.
Si è somministrato il test delle Matrici Progressive di Raven (SPM, tabella 4), al fine di ottenere un indice generale di
sviluppo, successivamente è stata proposta una batteria di prove linguistiche composta da: Prova di valutazione della
competenza definitoria (Belacchi, Benelli, 2007), i cui risultati verranno discussi in un altro contributo, due prove specifiche
di comprensione dei locativi spaziali: un testo (Storia di Lilly), contenente solo locativi spaziali di tipo concreto congruente e
concreto incongruente e una prova di Frasi (32 frasi, suddivise in cinque categorie: Concrete Congruenti e Concrete
Incongruenti, Astratte, Idiomatiche, di Rilevanza Percettiva, di cui metà costruite in modo corretto e metà in modo
sbagliato).
Risultati
Nella prova della Storia, l’ ANOVA ha mostrato che i bambini di quarta hanno prodotto un maggior numero di risposte
corrette, rispetto a quelli di seconda (p < .001, F = 45.594).
Non sono emerse invece correlazioni significative tra i risultati della Storia di Lilly per quanto riguarda la variabile sesso e le
SPM. Nella prova delle Frasi si apprezzano correlazioni significative (p = .001) per le categorie IDIOMATICHE e
ASTRATTE (r = .422), CONCRETE e ASTRATTE (r = .413), CONCRETE e IDIOMATICHE (r = .413), RILEVANZA
PERCETTIVA e ASTRATTE (r = .345), RILEVANZA PERCETTIVA e CONCRETE (r = .372).
Emergono, invece, correlazioni a livello di p = .005 (r = .274) le seguenti correlazioni: tra le frasi IDIOMATICHE e quelle
caratterizzate da RILEVANZA PERCETTIVA e tra i punteggi nelle SPM e le risposte corrette per le frasi IDIOMATICHE (
r = .274) e CONCRETE (r = .280). Si riconferma la correlazione tra la variabile classe e le frasi CONCRETE (r = .403). Per
verificare il progressivo miglioramento delle performance e se l’andamento si riflette su tutte le altre tipologie di locativi
spaziali, si è deciso inoltre di confrontare i risultati ottenuti nelle Frasi comparando le categorie. Il test di Mann-Whitney
conferma la maggior padronanza nei bambini di quarta di comprendere i locativi CONCRETI, risultato già ampiamente
confermato nella Storia, ma anche nelle categorie: FRASI ASTRATTE (costruite in modo sbagliato), IDIOMATICHE e di
RILEVANZA PERCETTIVA (costruite in modo corretto). Questi risultati, anche se provvisori perché riguardano solo due
classi di età, sembrano parzialmente confermare l’ipotesi forte, che indica nello sviluppo cognitivo delle relazioni di
prossimità, l’uso e il riconoscimento corretto del locativo più adatto.
Un caso particolare è rappresentato da alcuni locativi ASTRATTI (Z = .009) e di RILEVANZA PERCETTIVA ( Z = .001)
costruiti in modo sbagliato. In entrambi i casi, la prestazione dei bambini di seconda è stata superiore rispetto a quella dei
bambini di quarta, questo risultato può forse essere interpretato analizzando le motivazioni prodotte dai bambini che
risultano essere fortemente condizionate da aspetti pragmatici o da elaborazioni scarsamente correlate ad un buon livello di
consapevolezza, che invece si evince nelle produzioni dei bambini più grandi che proprio per questo ottengono risultati
peggiori.
Keywords
language, spatial relations, definitional skills
179
Sezione tematica 6
FORMAZIONE DELL’IDENTITÁ
Coordina: Dario Bacchini
Seconda Università degli Studi di Napoli
180
SENTIMENTO DI SOLITUDINE E STATI DI IDENTITÀ IN ADOLESCENZA
PAOLA CORSANO, MARINELLA MAJORANO, ALESSANDRO MUSETTI
Università di Parma
[email protected]
Introduzione
Nel panorama della letteratura la solitudine è considerata un fattore di rischio associato ad esperienze di isolamento e
separazione dagli altri, in particolare famiglia e gruppo dei pari (Goossens e Marcoen, 1999; Bonino, Cattelino e Ciairano,
2003), ma anche uno spazio creativo, un momento di rielaborazione cognitiva dei propri vissuti e delle proprie esperienze
(Corsano, 1999). In tal senso, la solitudine può essere considerata la manifestazione di un bisogno evolutivo presente fin
dalla nascita, coesistente e non contrapposto al bisogno di socialità (Buchholz, 1997).
Il presente lavoro è focalizzato sull’adolescenza e la prima età adulta: in questa fase il conflitto tra spinta verso la
socializzazione/bisogno di spazio per sé è particolarmente cruciale per il processo di separazione-individuazione (Blos,
1962), connesso alla costruzione dell’identità. L’obiettivo del presente studio è quello di indagare la relazione tra il
sentimento di solitudine, in base ad una prospettiva multidimensionale (Corsano, 2003) e il processo di costruzione
dell’identità, in base al modello di riferimento di Marcia (1980). Ci si attende di individuare una valutazione più complessa
dell’esperienza solitaria da parte di coloro che si collocano negli stati di identità “alti”.
Metodo
Partecipano allo studio 322 ragazzi di età compresa tra 17 e 20 anni (età media 18.47 anni): i ragazzi più giovani (età tra i 17
e i 18 anni) frequentano quattro scuole secondarie per un totale di 16 classi coinvolte; i ragazzi più grandi (età tra i 19 e i 20
anni) frequentano tre corsi universitari.
Ai partecipanti sono proposti due diversi questionari. Il primo, l’LLCA (Louvain Loneliness Questionnaire di Marcoen,
Goossens e Caes, 1987), indaga il sentimento di solitudine secondo una prospettiva a più dimensioni, che tenga cioè conto
sia del contesto familiare (Scala L-Part), sia del gruppo dei pari (scala L-Peer) e dei sentimenti di “avversione” (scala A-Neg)
ed “affinità” (scala A-Pos) nei confronti dello stare soli. Tale strumento è stato validato per gli adolescenti italiani (Melotti et
al., 2006). Per quanto riguarda la costruzione dell’identità, si è utilizzato l’EIPQ (Ego Identity Process Questionnaire,
Balestrieri, Busch-Rossnagel e Geisinger, 1995, in fase di validazione in Italia). Tale questionario è basato sul modello
teorico degli stati di identità di Marcia e fornisce una misurazione distinta dei fattori “Esplorazione” ed “Impegno” che
vengono indagati in otto ambiti diversi.
Risultati
Innanzitutto sono confermati i modelli fattoriali degli autori di riferimento per entrambi i questionari, mediante analisi
fattoriale. In seguito sono analizzate le differenze per età e genere per i singoli strumenti mediante un’analisi della varianza a
due fattori (genere ed età) e la relazione tra stati di identità e sentimento di solitudine mediante una serie di analisi della
varianza one-way. Per quanto riguarda l’LLCA, i dati mostrano una differenza significativa nella Scala L-Part tra maschi e
femmine: le femmine, in particolare, percepiscono un maggior sentimento di solitudine nei confronti della famiglia rispetto
ai maschi [F(1, 320) = 5.01; p =.03]. Per quanto riguarda l’età, emerge una differenza significativa nelle sottoscale L-Part e
A-Neg: in particolare i ragazzi più grandi percepiscono maggiormente la solitudine nei confronti dei pari e temono
maggiormente lo stare soli [F(3,318)= 4.62; p =.004; F(3, 318) =8.41; p < .001]. Non emergono effetti di interazione tra
genere ed età. Per quanto riguarda l’EIPQ, i partecipanti che si trovano in uno stato di Acquisizione dell’identità si trovano in
una condizione di gruppo minoritario in tutte le aree considerate, con valori più alti nell’area della Politica e in quella
dell’appartenenza culturale.
Per quanto riguarda la relazione tra stati di identità e sentimento di solitudine, si evidenzia una connessione tra stati di
identità “alti”, in particolare lo stato di Moratoria, e una valutazione più complessa dell’esperienza solitaria. I partecipanti
nello stato di Moratoria sperimentano maggiore affinità nei confronti della solitudine in quattro delle aree identitarie
considerate [Religione: F(3, 318) =3; p < .01; Valori: F(3, 318) =5.64; p < .001; Ruoli sessuali: F(3, 318) =5.09; p < .001;
Relazioni Famigliari: F(3, 318) =2.91; p < .001]; parallelamente mostrano maggior disagio nell’esperienza solitaria nei
confronti della famiglia in tre aree identitarie [Valori F(3, 318) =4.79; p < .001; Relazioni Famigliari F(3, 318) =5.27; p <
.001; Appartenenza Culturale F(3, 318) =4.59; p < .001].
Tali risultati sembrano confermare la relazione tra condizioni di esplorazione di nuove possibilità cognitive, emotive e sociali
nel processo di costruzione dell’identità e la ricerca attiva di momenti di solitudine, non solo temuti, ma, al contrario, ritenuti
necessari per rielaborare individualmente le esperienze vissute all’interno del contesto familiare e sociale.
Keywords
loneliness, identity statuses, adolescence
181
L’IDENTITÀ PROFESSIONALE DEL DOCENTE UNIVERSITARIO: DIMENSIONI RELAZIONALI
MONICA MOLLO, ANTONIO IANNACCONE
Università degli Studi di Salerno
[email protected]
Introduzione
L’antropologia e la psicologia hanno mostrato in molte occasioni come il modo di pensare e le relazioni sociali che
caratterizzano le professioni siano socialmente e culturalmente ancorate rispecchiando le rappresentazioni sociali e la logica
del contesto nel quale tali professioni si svolgono (Jodelet, Ohana, Bessi-Monino et Dannenmuller, 1980; Kleinmann, 1975;
Heller, 1977). Il ruolo della dimensione socio-culturale nella costruzione dell’identità sociale è ampiamente documentato
(Valsiner, Holland, 2001), così come il rapporto tra l’appartenenza a gruppi sociali e l’acquisizione di specifici ruoli
professionali (Watts, 1987). In senso più generale, la dimensione socio-culturale contribuisce a determinare le scelte
lavorative e a modellare il contesto professionale di appartenenza (Gergen, 1995; Salvatore, Freda, Ligorio, Iannaccone,
Rubino, Scotto di Carlo, Bastianoni, Gentile, 2003). Da queste ricerche, emerge chiaramente come la costruzione
dell’identità professionale sia influenzata dalla biografia personale, dall’esperienza professionale e dal contesto culturale e
scolastico. Queste dimensioni agiscono sulle posizioni identitarie e sulle relazioni che il docente stabilisce con la sua
professione (Hermans e Hermans-Jansen, 1995) influenzando la consapevolezza di Sé e del ruolo professionale. Per
Kelchtermans (2005) e Kelchtermans e Ballet (2002) il processo di costruzione dell’identità professionale è una continua
interpretazione e re-interpretazione delle esperienze significative - pratiche, di eventi critici, di fasi e di persone – nel corso
della carriera professionale. La ricerca qui discussa si ispira al costrutto di biografia professionale collocandosi nella più
ampia tradizione della psicologia narrativa (Bruner, 1990; Smorti, 1997; Demetrio, 2003). L’idea è stata quella di ricostruire,
attraverso la narrazione della storia lavorativa, le caratteristiche principali dell’identità professionale dei docenti universitari.
Narrando la propria storia i docenti ricostruiscono e danno senso alla propria all’Identità professionale. L’analisi delle
narrazioni è avvenuta in tre fasi: a) Inizio della professione, individuazione del principio di formazione dell’identità
professionale e rappresentazione iniziale della professione; b) Situazione presente, individuazione del Sé “professionale”
attuale; c) Prospettiva futura della professione attraverso l’individuazione dei Sé possibili.
Metodo
I dati sono stati raccolti utilizzando un’intervista semi-strutturata composta da 11 domande. Questa intervista s’ispira
all’intervista narrativa di Bruner (1992, 1994). Hanno preso parte alla ricerca 21 docenti dell’Università degli Studi di
Salerno, 11 provenienti da discipline umanistiche e 10 da discipline scientifiche, con un’anzianità di servizio compresa tra i
15 e i 30 anni. Tutte le interviste sono state registrate e trascritte. E’ stata condotta un’analisi del contenuto (AdC) (Berelson,
1954 ; Blanchet, 1985). Per l’analisi si è resa necessaria un’attività di accordo intergiudice. Tale procedura ha previsto la
segmentazione del corpus dati in unità semantiche – Temi Principali (TP) – In seguito sono state calcolate le frequenze e le
co-occorenze dei temi ed infine, è stata effettuata un’analisi delle corrispondenze che ha permesso di ottenere una mappa
generale dei posizionamenti dei docenti nei confronti delle varie tematiche. In caso di disaccordo di attribuzione delle
categorie i giudici hanno discusso fino ad arrivare ad un accordo.
Risultati
L’analisi ha permesso di ricostruire, attraverso le varie fasi del percorso professionale, le tracce di quattro differenti (e per
certi aspetti simili) profili identitari di 21 docenti dell’Università di Salerno. L’analisi sembrerebbe evidenziare come
l’identità professionale sia il frutto di una molteplicità di elementi che si legano non solo all’esperienze individuali che i
professori vivono ma, alla qualità e le caratteristiche delle relazioni sociali che essi intrecciano lungo la carriera. L’identità
del docente universitario, in linea con un’ampia letteratura psicosociale, sembrerebbe co-costruita con gli “altri significativi”
i quali possono assumere il ruolo di maestro, collega, studente o collaboratore. Tendenza questa più evidente nei profili dei
docenti di materie scientifiche piuttosto che umanistiche.
Keywords
High Education, Teaching, Identity
182
CARATTERISTICHE DELL’IDENTITÀ, STIMA DI SÈ E MOTIVAZIONE ALLA SCELTA UNIVERSITARIA
UGO PACE, VALERIA SCHIMMENTI E MONICA PELLERONE
Università Kore Enna
[email protected]
Introduzione
Il processo di formazione dell’identità può essere pensato come un percorso complesso, durante il quale l’individuo si trova a
dover realizzare un difficile lavoro di sintesi tra le esperienze infantili ed i progetti futuri, di rielaborazione ed integrazione
delle une con gli altri alla luce della esperienza attuale: un processo di ricerca del difficile equilibro tra continuità e
cambiamento, tra sicurezza riposta nelle relazioni familiari e desiderio di esplorare il mondo, tra risorse personali ed
opportunità fornite dal contesto. Marcia (1980) considera gli impegni come gli indicatori comportamentali di una struttura
sottostante l’identità e si focalizza sul raggiungimento degli impegni in diversi ambiti durante l’adolescenza. La scelta
fondamentale che la maggior parte dei giovani che intendono continuare la propria formazione si trovano a compiere durante
la media adolescenza, scelta importante da cui dipenderà il proprio futuro, è quella inerente il corso di laurea. Marcia ipotizza
l’esistenza di due processi fondamentali, sulla cui base è possibile individuare differenti percorsi di strutturazione della
propria individualità: tali processi vengono definiti crisi (successivamente ridefinita esplorazione, per sottolinearne il
carattere costruttivo) e impegno. L’esplorazione descrive il processo di sperimentazione dell’adolescente sulle questioni
importanti della propria vita. L'impegno descrive le capacità di scelta di una tra le varie possibilità che l’adolescente sente
come disponibili nei domini fondamentali della propria vita. Sulla base dei due processi sopra descritti, l’autore individua
quattro stati dell'identità: acquisizione dell'identità, moratorium, blocco dell'identità e diffusione dell’identità (Marcia, 1980).
Chi si trova nello stato di acquisizione dell’identità ha esplorato le possibili alternative in diversi domini personali e sociali e,
sulla scorta di ciò, ha preso impegni seri, seppur non definitivi. Chi si trova nello stato definito di moratorium sta ancora
esplorando fra le possibili alternative, ma non ha ancora assunto alcun impegno importante negli ambiti fondamentali della
propria vita, come le scelte professionali o ideologiche. Chi si trova nello stato di blocco dell’identità è profondamente
impegnato in uno o diversi domini fondamentali, ma è giunto a ciò senza praticamente nessuna esplorazione delle alternative
possibili. In coloro i quali, infine, si trovano nello stato di diffusione dell’identità non è presente alcun tentativo di
esplorazione, né tantomeno la capacità di impegnarsi seriamente in scelte importanti.
Secondo una recente ricerca condotta da Almalaurea (2006) chi ha iniziato gli studi universitari motivato dal punto di vista
sia culturale che professionale, ha molte probabilità di arrivare più in fretta alla laurea, e soprattutto soddisfatto della propria
esperienza di studi. Chi invece fonda la propria scelta su motivazioni casuali o perchè influenzato da familiari o coetanei non
solo rischia di vedere deluse le proprie aspettative di formazione, ma, spesso, abbandona precocemente il proprio percorso
formativo.
Obiettivi e ipotesi
Obiettivo del presente lavoro è lo studio della possibile influenza che la relazione tra caratteristiche dell’identità e qualità
della percezione di sè possano avere sulla motivazione che precede la scelta del corso di studi. Si ipotizza che caratteristiche
adattive dell’identità e una adeguata stima di sè siano precursori di una scelta basata su motivazioni coerenti con i propri
obiettivi e con il proprio talento.
Metodo
Partecipanti. Hanno partecipato alla ricerca 260 adolescenti di età compresa fra i 18 ed i 20 anni (M=18,7; DS=.9),
equamente distribuiti per genere e provenienti da diversi corsi di laurea di due differenti atenei siciliani, Enna e Palermo.
Strumenti. Allo scopo di valutare lo status dell’identità dei soggetti, è stato utilizzato una versione italiana dell’Ego Identity
Process Questionnaire (EIPQ, Balistreri, Busch-Rossnagel e Geisinger, 1995). Con l’obiettivo di valutare il livello di
autostima è stato utilizzata la versione italiana del Rosenberg Self-Esteem Scale (RSE; Rosenberg 1965). Allo scopo di
valutare la motivazione alla scelta universitaria è stato somministrata la versione italiana dello Student Motivation for
Attending University (SMAU, Cotè & Levine, 1997).
Risultati
I risultati hanno messo in evidenza come gli adolescenti che hanno strutturato livelli più maturi di identità e hanno una buona
stima di sè fondino la propria scelta su motivazioni di tipo intimamente personale, fra cui soprattutto la possibilità di
esprimere le proprie capacità. Chi ha acquisito la propria identità, infatti, evidenzia una scelta effettuata sulla base delle
proprie ambizioni significativamente più alta rispetto ai coetanei che si trovano nello stato di diffusione dell’identità
(F(3,208) = 2,57, p< .05). Questi ultimi, al contrario, tendono ad effettuare scelte definite di default (“per caso”, “perchè
l’hanno fatto gli amici”) in modo significativamente maggiore di chi ha acquisito l’identità (F(3,208) = 2,64, p< .05). Per ciò
che riguarda l’immagine di sè, l’autostima risulta essere predittiva di motivazioni basate sulla volontà di sviluppare le proprie
potenzialità (Beta=.14, p<.003), mentre risulta predire negativamente le scelte di default (Beta=-.49, p<.000).
Keywords
Identity, self-esteem, academic student motivation
183
LO SVILUPPO DEL SENSO DI APPARTENENZA ALL’EUROPA IN BAMBINI E PREADOLESCENTI
ITALIANI
PASQUALE MUSSO, CRISTIANO INGUGLIA
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Palermo
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi anni, i giovani cresciuti nei paesi dell’Ue si sono trovati a fronteggiare la questione della loro appartenenza
europea. Ancor più oggi, dato il continuo processo di allargamento a nuovi Paesi. All’interno della psicologia dello sviluppo,
diventa interessante chiedersi come tali giovani costruiscano l’identità europea e quali siano le interazioni con altre forme
d’identità sociale, come l’identità nazionale, regionale e locale. Partendo dal quadro teorico della Teoria dell’Identità Sociale
(Tajfel, 1981) e della Teoria dell’Auto-Categorizzazione (Turner, 1987), Barrett (2007) definisce l’identità europea come il
sentimento di appartenenza all’Unione europea - comprendente credenze, opinioni, emozioni e atteggiamenti verso l’Europa
- e l’identità nazionale come il senso di appartenenza alla nazione. L’identità regionale è il sentimento di appartenenza alla
propria regione e l’identità locale, infine, si basa sul legame di appartenenza con il luogo di crescita, in specie la città.
Muovendo da tali riferimenti, gli psicologi dello sviluppo si sono prevalentemente focalizzati sull’analisi di tre componenti
di tali forme identitarie: (a) l’auto-categorizzazione o l’atto di definizione del sé come appartenente ad una di queste
categorie sociali; (b) l’importanza soggettiva relativa o l’importanza rivestita dall’appartenenza a tali gruppi all’interno del
concetto di sé; (c) il grado di identificazione ossia quanto l’individuo si sente appartenente ad un particolare gruppo sociale.
Gli studi empirici in questo campo hanno trovato che: (a) dai 6 anni, i bambini iniziano ad utilizzare la categoria nazionale e
quella locale per definire il proprio sé; (b) i riferimenti all’Europa e alla regione cominciano a diventare significativi a partire
dai 10 anni; (c) l’appartenenza nazionale e quella locale rivestono un’importanza significativa tra 6 e 12 anni, mentre
l’identità europea e quella regionale mostrano un incremento nella loro importanza tra 9 e 12 anni, mantenendosi ad un
livello più basso dell’identità nazionale; (d) il grado di identificazione europea e quello regionale tendono a crescere nel
tempo, quello nazionale a rimanere stabile e rilevante, mentre la forza dell’identificazione locale tende a decrescere nel
tempo. Questi risultati indicano come durante lo sviluppo esistano differenze legate alle forme d‘identità considerate e come
queste sembrino diventare simultaneamente più forti verso la preadolescenza. La letteratura, tuttavia, sembra non aver
approfondito quali relazioni sussistano tra le diverse identità considerate (europea, nazionale, regionale e locale) durante lo
sviluppo. Alla luce di ciò, intento del lavoro era quello di esplorare come bambini e preadolescenti sviluppassero la loro
identità europea, analizzandone le relazioni con l’identità nazionale, regionale e locale. Sulla base di precedenti studi ci si
aspettava: (a) che a 6 anni esistessero differenze tra le diverse forme d’identità (riguardo a auto-categorizzazione, importanza
attribuita e grado di identificazione), con quella nazionale e quella locale più forti di quella regionale e di quella europea; (b)
che a 9 anni queste differenze cominciassero a limitarsi solo tra l’identità nazionale, regionale e locale, da una parte, e quella
europea, dall’altra; (c) che a 12 anni le differenze tra le forme di identità considerate fossero minime o non significative.
Metodo
Hanno preso parte alla ricerca 607 bambini e preadolescenti (305 M e 302 F) suddivisi in tre sub-gruppi di età (6, 9 e 12
anni) e altrettanti sub-gruppi relativi allo status socio-economico (alto, medio e basso). Tutti appartenevano a scuole
pubbliche della città di Palermo e sono stati estratti casualmente dal registro di classe. I dati sono stati raccolti durante le ore
scolastiche attraverso un’intervista individuale, messa a punto dal gruppo di ricerca a partire dalla letteratura internazionale
(Barrett, 2007; Inguglia et al., in stampa), che utilizzava le seguenti misure: (a) auto-categorizzazione per selezione
dell’identità europea, nazionale, regionale e locale; (b) importanza soggettiva relativa dell’identità europea, nazionale,
regionale e locale; (3) grado di identificazione europea, nazionale, regionale e locale. Tutte le prove prevedevano la
selezione, l’organizzazione e/o la scelta di parole stampate su cartoncini colorati.
Risultati
Dall’analisi dei risultati ottenuti emerge che, come previsto: (a) a 6 anni ci sono differenze tra le diverse forme d’identità; tali
differenze riguardano, in particolare, l’identità nazionale e quella locale rispetto all’identità regionale ed europea (le prime
due forme d’identità sono più sviluppate rispetto alle altre); (b) a 9 anni la differenza riguarda principalmente l’identità
nazionale, regionale e locale, da una parte, e quella europea, dall’altra (con quest’ultima a livelli inferiori); (c) a 12 anni
continua a sussistere lo stesso pattern di differenza, ma con una tendenza a ridursi significativamente.
Keywords
European identity, European citizenship, identity development
184
STATI DI IDENTITÀ E PATTERN SEQUENZIALI DI SVILUPPO:
RISULTATI DI UNO STUDIO LONGITUDINALE
FIORENZO LAGHI
Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Facoltà di Psicologia 1, Sapienza Università di Roma
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi anni il processo di formazione identitaria è stato il focus di numerose ricerche alcune delle quali si rifanno al
paradigma degli stati d’identità elaborato da Marcia sul modello eriksoniano dello sviluppo dell’identità. L’autore classifica
in stato di “acquisizione” gli adolescenti che hanno esplorato attivamente le alternative identitarie, mentre in “chiusura” gli
adolescenti che pur avendo effettuato precise scelte rispetto alla propria identità non hanno trascorso alcun periodo di attiva
esplorazione; in “moratoria” e “diffusione”, invece, gli adolescenti che non hanno ancora assunto impegni definitivi. Il primo
obiettivo, di tipo esplorativo, è analizzare la classificazione degli adolescenti nei 4 stati di identità proposti da Marcia ed
analizzare le eventuali differenze di genere. Ci proponiamo, inoltre, di verificare il pattern sequenziale dello sviluppo degli
stati di identità. Siamo interessati a verificare se, in accordo con la letteratura internazionale, può essere presente un
progressivo trend di sviluppo da uno stato low profile (diffusione o blocco) e quello high profile (identità acquisita o
moratoria) e se questo passaggio è correlato a maggiori livelli di benessere psicologico.
Metodo
Soggetti: La ricerca, di tipo longitudinale, si è svolta su un campione intenzionale di 700 studenti, 400 maschi (57.14%) e
300 femmine (42.86%), di età compresa tra i 16 ed i 17 anni (età media=16,4; dev.st=1.09). Gli studenti al I step risultavano
iscritti al IV anno di diverse tipologie di scuola secondaria di II grado. Il II step della ricerca è avvenuto dopo un anno; i
soggetti coinvolti sono stati 550; la mortalità del campione è del 21.43%.
Strumenti: Il questionario Extended Objective Measure of Ego Identity Status 2 (EOM-EIS 2; Bennion, Adams, 1986) è stato
utilizzato per classificare i soggetti nei quattro stati d’identità delineati secondo il paradigma di Marcia. Il questionario Basic
Psychological Needs Scale (BPNS; Ryan, Deci, 2001) per misurare la percezione del soddisfacimento dei tre bisogni di
autonomia, competenza e relazionalità. Il test Symptom Check List (SCL-90; Derogatis, et al., 1974) per indagare disturbi
eventualmente sperimentati nel corso degli ultimi 15 giorni. Gli strumenti sono stati somministrati al I e al II step,
bilanciando l’ordine di presentazione.
Risultati
La classificazione degli stati d’identità nel gruppo esaminato rileva una maggioranza di adolescenti classificati nello stato di
moratoria (27.14%) seguiti da adolescenti in stato di acquisizione (25.71%), diffusione (25%) e blocco (22.14%). Riguardo
alla variabile genere non emergono differenze statisticamente significative ( 2(3) = 6.09, p = 0.10). E’ stata condotta
un’analisi della funzione discriminante al fine di determinare le dimensioni che meglio discriminano i 4 gruppi, differenziati
in base allo status di identità raggiunto. Sono emerse tre funzioni statisticamente significative. La prima funzione spiega la
maggior parte della varianza (67.45%) ed è prevalentemente spiegata dalle dimensioni Autonomia, Competenza e
Relazionalità. Le variabili che delineano i correlati di disagio psicologico, le dimensioni del disagio psichico misurate
dall’SCL-90, sembrano caratterizzare maggiormente la funzione 2. La funzione 3 è essenzialmente spiegata dalle dimensioni
Ansia e Somatizzazione. A distanza di un anno solo il 3% di soggetti classificati nello stato di moratoria è classificato in uno
stato di acquisizione; il 25% dei soggetti passa da uno stato di blocco ad uno stato di diffusione e il 15% ad uno stato di
moratoria; il 70% dei soggetti classificati nello stato di diffusione e il 65% nello stato di acquisizione mantiene la stessa
posizione mentre il 30% dei soggetti in diffusione è classificato in uno stato di blocco e il 35% dei soggetti in acquisizione
regredisce ad uno stato di moratoria. Sono stati confrontati, rispetto alle dimensioni del disagio psicologico: 1) soggetti che
dallo stato low profile passano ad uno stato high profile; 2) soggetti che da uno stato high profile sono poi classificati al II
step in uno stato low profile; 3) soggetti che mantengono stabile il proprio status di identità. L’Analisi della Varianza
Multivariata, considerando come variabili dipendenti le dimensioni dell’SCL-90, ha mostrato differenze statisticamente
significative [Lambda di Wilks = .80; F = 3.54; p<.001]. La scomposizione degli effetti univariati e l’analisi dei post-hoc
(Duncan test; p<.05) evidenzia differenze significative in riferimento a diverse dimensioni dell’SCL-90: sono i soggetti che
regrediscono in uno stato di blocco o di diffusione a sperimentare maggiore livelli disagio e ad ottenere punteggi
significativamente più alti dei soggetti in stato di diffusione.
Conclusioni
La ricerca ha verificato la sequenzialità degli stati di identità e la relazione con il disagio psichico.
Keywords
Identity status; Sequential pattern; Marcia’s model
185
IL CAMBIAMENTO DELL’IDENTITÀ NELLA TRANSIZIONE DALLA TARDA ADOLESCENZA
ALL’EMERGING ADULTHOOD: IL RUOLO DEGLI STILI DI IDENTITÀ E DEL SELF-CONSTRUAL
LAURA ALENI SESTITO, LUIGIA SIMONA SICA
Dipartimento di Scienze Relazionali “G. Iacono”, Università degli Studi di Napoli “Federico II”
[email protected]
Inquadramento teorico
Lo studio prende in esame i processi di formazione e cambiamento dell’identità che si configurano come peculiare compito
di sviluppo dei giovani nella transizione dalla tarda adolescenza all’emerging adulthood (Arnett, 2000, 2004). In questo
periodo i giovani sono chiamati a definire un senso unitario, coerente ed integrato del proprio sé (Erikson, 1968) mentre
sperimentano importanti cambiamenti biografici che influenzano a più livelli la loro vita quotidiana (Aleni Sestito, Parrello,
2004). La formazione dell’identità, intesa come processo dinamico d’interazione tra persona e contesto (Bosma & Kunnen,
2001; Kroger, 1996), è stata interpretata alla luce di diversi modelli teorici che ne hanno messo in evidenza differenti
dimensioni. Vengono qui, in particolare, prese in esame le dimensioni processuali (impegno, esplorazione in profondità e
riconsiderazione dell’impegno; Meeus, 2002), gli stili socio-cognitivi (informativo, normativo, diffuso-evitante;
Berzonsky,1990) e gli orientamenti del self-construal (indipendente, interdipendente; Markus & Kitayama, 1991, 1994). Si
ritiene infatti che tali dimensioni possano reciprocamente influenzarsi, influenzando a loro volta il processo del cambiamento
identitario.
Obiettivi ed ipotesi
Il presente studio si propone, pertanto, di approfondire i processi del cambiamento identitario analizzando in particolare: a)
le citate dimensioni processuali dell’identità (Meeus, 2002), che consentono di fare luce sulla dinamica del processo di
ridefinizione del sé , b) gli stili di identità (Berzonsky, 1990), influenti nei processi di esplorazione ed acquisizione di
informazioni rilevanti per il sé, ed infine, c) gli orientamenti del self-construal (Markus & Kitayama, 1991, 1994), che
sembrano fornire specifici elementi di comprensione circa la flessibilità e la relativa plasticità del sé rispetto al contesto e
rispetto alle fonti tramite le quali il soggetto si definisce e valuta se stesso. Tali dimensioni sono indagate focalizzando al
contempo l’ambito inerente sia l’identità relazionale sia l’identità occupazionale.
Attraverso una indagine di tipo cross-sezionale, lo studio intende mettere a fuoco la peculiare configurazione delle
dimensioni esaminate e le associazioni tra le stesse, considerando le differenze legate alla variabile genere oltre che alla
diversa collocazione dei soggetti lungo la traiettoria del percorso di transizione dalla fine della scuola superiore all’emerging
adulthood.
Metodo
A 338 studenti (45% maschi; 55% femmine), di cui 105 dell’ultimo anno di scuola superiore (G1), 123 del I anno di
Università (G2), 110 del II anno di Università (G3), sono stati somministrati i seguenti 3 questionari self-report: UtrechtManagement of Identity Commitments Scale (U-MICS, Meeus, 2001; Crocetti, Rubini, Meeus, 2007); Identity Style
Inventory (ISI, Berzonsky, 1992; Crocetti et al., 2008); Independence/Interdependence Scale (IIS, Kato e Markus, 1994).
Risultati
I risultati dell’ANOVA per genere mostrano significative differenze: le ragazze mostrano punteggi medi superiori in
interdipendenza (F = 5.75, sig. = .017) ed esplorazione in profondità (F = 11.21, sig. = .001).
I risultati dell’ANOVA (post-hoc di Tukey) mostrano l’influenza della diversa collocazione dei soggetti lungo la traiettoria
del percorso di transizione (G1, G2, G3) sulle dimensioni dell’identità considerate: l’impegno relazionale (F= 7.78; Sig. =
.000) e quello scolastico (F= 8.79; Sig. = .000) presentano punteggi medi significativamente più elevati in G1 che in G2;
l’esplorazione in profondità relazionale (F= 8.86; Sig. = .000) e la riconsiderazione dell’impegno scolastico (F= 27.67; Sig. =
.000) punteggi più elevati in G2 e in G3 che in G1A, il self-construal indipendente punteggi più elevati (F= 2.91; Sig. = .035)
in G3 che in G2, lo stile evitante punteggi più elevati (F= 4.33; Sig. = .005) in G2 che in G3, lo stile normativo punteggi più
elevati (F= 12.39; Sig. = .000) in G2 che in G1 e G3.
I pattern correlazionali (r di Pearson) valutati nell’intero campione mettono in luce numerose relazioni significative tra le
differenti dimensioni: in G1, l’impegno sia relazionale che scolastico correla con lo stile informativo (r= .42, Sig.= .000; r=
.25, Sig. =.005) e normativo (r= .21, Sig.= .05; r= .21, Sig. =.005); in G2, l’impegno sia relazionale che scolastico correla
ancora con lo stile normativo (r= .29, Sig.= .005; r= .37, Sig. =.000); l’esplorazione relazionale e scolastica correla con lo
stile informativo (r= .19, Sig.= .005; r= .30, Sig. =.00); la riconsiderazione dell’impegno scolastico correla con
l’interdipendenza (r= .42, Sig.= .000); in G3, la riconsiderazione dell’impegno relazionale correla con lo stile evitante (r=
.25, Sig.= .005) e informativo (r= .31, Sig. =.000). Sono in corso ulteriori approfondimenti volti ad individuare, attraverso
l’analisi dei cluster, la configurazione delle differenti dimensioni prese in esame in ciascun gruppo di età/scolarità.
keywords
identity, emerging adulthood, transition
186
STILI DI ATTACCAMENTO NELLA PREADOLESCENZA:
DIFFERENZE DI GENERE E RUOLO DEGLI ORMONI SESSUALI
MARCO DEL GIUDICE, ROMINA ANGELERI
Centro di Scienza Cognitiva, Dipartimento di Psicologia, Università di Torino. Via Po 14, 10123 Torino.
[email protected]
Introduzione
L’obiettivo del presente lavoro è indagare la relazione tra stili di attaccamento, identità di genere e azione degli androgeni
prenatali in un campione di preadolescenti, sia maschi che femmine. A partire dai 6-7 anni, e in particolare durante la
preadolescenza, gli stili di attaccamento bambino-genitore vanno incontro a una notevole riorganizzazione. In particolare, si
riscontra l’emergere di marcate differenze di genere negli stili di attaccamento insicuro: i maschi manifestano più spesso stili
di attaccamento evitante, mentre le femmine tendono ad adottare uno stile ambivalente. Questi risultati sono stati replicati in
diverse nazioni, suggerendo un fenomeno universale. Recentemente, Del Giudice (in press) ha proposto un modello
evoluzionistico che interpreta l’emergere delle differenze di genere intorno ai 7 anni come parte di un processo di transizione
nello sviluppo delle strategie riproduttive. In questo modello, un importante fattore causale per la riorganizzazione del
comportamento nel passaggio tra “early childhood” e “middle childhood” sarebbe la secrezione di androgeni adrenali
(DHEA e DHEAS) da parte delle ghiandole surrenali, fenomeno conosciuto come “adrenarca”, che avviene in genere tra i 6
e gli 8 anni.
Seguendo questo modello, dovrebbe essere possibile, dai 7 anni in poi, riscontrare delle correlazioni tra indici di azione degli
androgeni e stili di attaccamento. Inoltre, più in generale, si può ipotizzare che gli stili di attaccamento risultino correlati alla
dimensione più generale di mascolinità-femminilità.
Metodo
Il campione (preliminare) è composto da 119 bambini di 9-10 anni (età media: 9;4; 59 maschi, 60 femmine). Gli stili di
attaccamento sono stati valutati con il Coping Styles Questionnaire (CSQ), uno degli strumenti più utilizzati in questa fascia
di età. Per la valutazione dell’identità di genere abbiamo utilizzato il metodo GD (Gender Diagnosticity), basato sull’analisi
discriminante di questionari sulle preferenze per mestieri e attività. E’ stato dimostrato in letteratura che questo metodo
risulta estremamente predittivo dell’identità di genere, superando nettamente gli approcci più tradizionali. L’azione degli
androgeni prenatali è stata valutata tramite misure biometriche della mano destra dei bambini, rilevate con uno scanner
digitale (2D:4D - digit ratio). La digit ratio permette di ricavare un indice indiretto del livello di androgeni durante lo
sviluppo fetale, fase in cui gli ormoni sessuali possono influenzare la differenziazione a livello cerebrale. Tale
differenziazione può in seguito essere “attivata” dalla secrezione di ormoni, come gli androgeni adrenali (nell’adrenarca) e
gonadali (nella pubertà), con effetti in varie aree del comportamento.
Dal momento che le correlazioni attese tra digit ratio e misure dell’attaccamento sono nell’ordine di r =.20, il campione
finale comprenderà almeno 200 bambini in modo da garantire una potenza statistica adeguata. Le analisi dei dati sono state
effettuate con path analysis, controllando statisticamente l’effetto dell’età; due casi (un maschio e una femmina) sono stati
esclusi dalle analisi in quanto outliers.
Risultati
Come ipotizzato, e coerentemente con la letteratura, abbiamo riscontrato marcate differenze di genere sia nell’evitamento
(M: 4.0, F: 1.4; t[115]= 4.47, p<.001) che nell’ambivalenza (M: 6.8, F: 9.7; t[115]= 3.34, p=.001). Le path analyses sono
state condotte separatamente per maschi e femmine. Nei maschi (N = 58), il livello di androgeni prenatali mostra una
relazione positiva con l’evitamento (beta =.21) e negativa con l’ambivalenza (beta= -.17), entrambe non significative. Inoltre,
la mascolinità predice (in modo non significativo) l’evitamento (beta=.22), indipendentemente dagli androgeni. Nelle
femmine, gli androgeni prenatali non predicono nessuna delle altre misure; in contrasto, la mascolinità predice positivamente
l’evitamento (beta =.50, p<.001) e negativamente l’ambivalenza (beta = -.27, p=.054).
I nostri risultati, sebbene ancora preliminari, confermano ulteriormente la presenza di differenze di genere nell’attaccamento
durante la preadolescenza; inoltre, suggeriscono che gli stili di attaccamento in questa fascia di età correlino in modo marcato
con la dimensione dell’identità di genere (specialmente nelle femmine). Anche se la dimensione del campione non permette
ancora valutazioni approfondite, ci sono prime evidenze che, nei maschi, gli androgeni prenatali (legati alla differenziazione
sessuale del cervello durante il primo sviluppo) potrebbero influire sulla successiva organizzazione dell’attaccamento. Questi
risultati sottolineano l’importanza di studiare lo sviluppo degli stili relazionali in una prospettiva integrata, che tenga conto
degli aspetti neurobiologici e del contributo dei modelli evoluzionistici.
Keywords
attachment, gender, hormones
187
Sezione tematica 7
SVILUPPO SOCIOEMOTIVO
Coordina: Tiziana Aureli
Università degli Studi di Chieti - Pescara
188
OBBEDIENZA, TEMPERAMENTO E DIFFICOLTÀ COMPORTAMENTALI IN ETÀ PRESCOLARE
DANIELA BAFUNNO, MARINA CAMODECA
Università degli Studi “ G. d’Annunzio” Chieti, Dipartimento di Scienze Biomediche
[email protected]
Introduzione
In riferimento all’importanza che le abilità di autoregolazione rivestono nell’adattamento all’ambiente familiare e, più
estesamente, al contesto socio-culturale (Kopp, 1982), la presente ricerca intende indagare i comportamenti di obbedienza del
bambino in assenza di sorveglianza. L’obbedienza può essere infatti considerata una protoforma dell’autoregolazione vera e
propria, in quanto richiede la capacità di iniziare, cessare e modificare un comportamento in funzione delle norme di
riferimento (Kochanska, 1994). Ricerche precedenti (Kochanska, et al., 2001; 2002) hanno evidenziato come nei primi 4 anni
di vita del bambino l’obbedienza è sensibile ai diversi contesti (rispetto della richiesta o della proibizione) e all’età del
soggetto. Il presente lavoro si pone in continuità con questa prospettiva, specificando ulteriormente i contesti di obbedienza e
ampliando il range di età dei bambini fino ai sei anni.
Più precisamente, la ricerca intende esplorare le abilità di autoregolazione dei singoli bambini nei differenti contesti di
richiesta, proibizione, giochi impossibili; di indagare la relazione tra l’obbedienza, il temperamento e i problemi
comportamentali. La fascia d’età considerata nella ricerca è quella prescolare, in quanto in questo periodo i bambini
progressivamente imparano a interiorizzare i modelli di comportamento e ad applicarli nella scuola dell’infanzia in cui il
rispetto delle regole è particolarmente sollecitato.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 67 bambini (34 maschi e 33 femmine) di età compresa tra i 3 e i 6 anni frequentanti diverse
scuole materne. Dopo una fase di familiarizzazione, ciascun bambino ha avuto, da parte dello sperimentatore, la richiesta di
fare un’attività spiacevole (pulire degli oggetti), la proibizione di fare un’attività piacevole (usare dei nuovi giochi), la
spiegazione di regole di gioco, il cui rispetto rendeva la vincita impossibile. In quest’ultimo caso si trattava di due giochi
differenti uno più familiare e competitivo (tiro al bersaglio) e uno più semplice (indovinare un oggetto nascosto). Per ogni
contesto, dopo aver dato le disposizioni, lo sperimentatore usciva dalla stanza lasciando il bambino da solo per tre minuti. I
comportamenti dei bambini, messi in atto durante l’assenza dello sperimentatore, sono stati videoregistrati ed esaminati
attraverso uno schema di codifica che ha rilevato comportamenti permessi, non permessi ed autocorrettivi. Inoltre è stato
chiesto ai genitori di compilare una scheda anagrafica e il test Behavioural Style Questionnaire (BSQ) di McDevitt e Carey
(1978; trad it. Attili et al, 1989) per la descrizione del temperamento del bambino valutabile in nove dimensioni. Alle
insegnanti è stato chiesto di compilare lo Strengths e Difficulties Questionnaires (SDQ) di Goodman (1997; trad it.
Marzocchi et al, 2002) per la valutazione di comportamenti iperattivi e disattenti e difficoltà comportamentali.
Risultati
È stata verificata l’equidistribuzione dell’obbedienza nei diversi contesti e il risultato ottenuto (chi-quadro = 43.91 (2), p <
.01) ci indica, come atteso, che vi sono differenze tra i contesti osservati, ovvero l’obbedienza in un contesto non è predittiva
dell’obbedienza in altri contesti. Le situazioni con maggiore disubbidienza sono quelle dei due giochi impossibili, segue la
proibizione e infine la richiesta. Una possibile spiegazione per questo dato può essere legata al fatto che i bambini
“familiarizzano” prima con le richieste e le proibizioni perché, nell’arco di età considerato, potrebbe succedere più spesso ai
genitori di imporre delle richieste o proibizioni piuttosto che imporre delle regole di gioco che restano più tollerabili alla
trasgressione e più personalizzabili dal bambino. Inoltre il contesto della richiesta, che ha una percentuale di trasgressione
minore (9%) rispetto a tutti gli altri contesti, richiede minori abilità cognitive (funzioni esecutive di controllo) rispetto agli
altri. Queste differenze possono essere inoltre dovute a differenze temperamentali nei bambini. È emerso infatti come i
bambini con reazioni meno intense agli eventi (F (2, 65)= 8,86, p < .05), con maggiore lentezza all’adattamento nelle nuove
situazioni (F (2, 65)= 5,24, p < .05) e più timorosi davanti alla novità (F (2, 65) = 4,54, p < .05) sono stati più in grado di
dimostrare obbedienza davanti ad una proibizione. Invece i bambini con maggiore attività a livello motorio sono stati
significativamente più trasgressivi nel contesto del gioco nascosto (F (2, 65) = 3,36, p < .05). Infine hanno mostrato
maggiore difficoltà nel rispettare la regola della proibizione i bambini con punteggi elevati di difficoltà comportamentali (F
(2, 65) = 4,43, p < .05) e con comportamenti iperattivi (F (2, 65) = 3,67, p < .05).
Keywords
Internalization, temperament, conduct problems
189
COMPRENSIONE DELLE EMOZIONI E COMPETENZE PRAGMATICHE IN BAMBINI DAI 4 AI 7 ANNI CON
E SENZA FRATELLI
ELEONORA FARINA
Università degli Studi di Milano Bicocca
[email protected]
Introduzione
La capacità di riconoscere e comprendere le emozioni proprie ed altrui è una componente determinante per essere
emotivamente e socialmente competenti, quindi per promuovere, sostenere e facilitare le interazioni e le relazioni sociali.
Tale abilità è strettamente legata all’uso del linguaggio in maniera appropriata ai diversi contesti, elaborando correttamente le
informazioni derivanti da molteplici fonti, in altre parole, comprensione delle emozioni e competenze comunicative
pragmatiche sono due aspetti fortemente interconnessi (Farina, Albanese e Pons, 2007). E’ proprio la capacità di riconoscere
e comprendere cosa prova l’altro e l’emozione che intende comunicare o dissimulare che permette di selezionare la risposta
più appropriata alla situazione; a loro volta, gli indizi contestuali e le conoscenze pregresse consentono di interpretare
correttamente il messaggio che l’interlocutore intende comunicare. Fratelli e sorelle costituiscono degli interlocutori
privilegiati con i quali sperimentare la propria capacità di comprendere emozioni ed intenzioni: in particolare, uno studio
longitudinale di Youngblade e Dunn (1995) ha rilevato una correlazione positiva fra la pratica del gioco di finzione coi
fratelli a 33 mesi e la comprensione delle emozioni a 40 mesi. Ulteriori ricerche hanno evidenziato il legame fra potere
socializzante di fratelli/sorelle maggiori e competenza emotiva di fratelli/sorelle minori (Sawyer, 1996).
Il primo obiettivo di questo studio è quello di indagare le relazioni fra comprensione delle emozioni e diverse abilità
comunicative della sfera pragmatica, cercando di rilevare i legami più significativi. Considerando questi due aspetti sul
terreno comune dello sviluppo socio-relazionale, il secondo obiettivo di questa ricerca è quello di studiare se ed in che modo
la presenza di importanti agenti di socializzazione primaria – quali i fratelli e le sorelle – possa legarsi a differenze
individuali nella comprensione delle emozioni e nelle competenze comunicative pragmatiche.
Metodo
Ad 80 bambini dai 4 ai 7 anni sono stati somministrati il Test di Comprensione delle Emozioni (Albanese e Molina, 2008,
traduzione italiana del TEC di Pons e Harris, 2000 ), che valuta la comprensione delle emozioni; il Test of Language
Competence (TLC, Wiig & Secord, 1989), sub test 2, “Making Inferencing”, che valuta l’abilità di compiere inferenze sulla
base di relazioni causali in una sequenza di eventi; il Questionario per la valutazione della Pragmatica nella comunicazione
dei bambini (Bishop, 1998; Mariani et al., 2000, traduzione italiana della CCC di Bishop, 1998), composta da cinque sottoscale che valutano iniziativa, coerenza, linguaggio stereotipato, uso del contesto, conversazione e comunicazione non
verbale. I primi due strumenti sono stati somministrati individualmente ai bambini dallo sperimentatore, il terzo è stato
compilato dalle insegnanti.
Risultati
Le correlazioni parziali, controllando l’età, fra la comprensione delle emozioni e la competenza comunicativa pragmatica
indicano che il punteggio totale di comprensione delle emozioni – TEC – correla in maniera significativa con due misure di
competenza pragmatica: capacità di compiere inferenze – TLC – (r=.439; p<.005) e coerenza – CCC – (r=.522; p<.001).
Un’analisi della regressione gerarchica del punteggio totale al TEC sulle due variabili pragmatiche ad esso
significativamente correlate (controllando l’età) ha mostrato che l’effetto più significativo è quello della coerenza ( =.310;
p<.001), seguito dalla capacità di compiere inferenze ( =.222; p<.05). Le stesse analisi di regressione, controllando l’età,
sono state condotte anche per le sotto-dimensioni di comprensione delle emozioni: per la dimensione esterna rimane
significativo solo l’effetto della coerenza ( =.455; p<.001); per la dimensione mentale, non vi sono effetti significativi delle
variabili pragmatiche; per la dimensione riflessiva, l’unico effetto significativo è la capacità di compiere inferenze ( =.477;
p<.001).
E’ stata poi condotta un’ANOVA che ha evidenziato l’effetto significativo della presenza di fratelli/sorelle sulla
comprensione delle emozioni, sia come punteggio globale (F(1,79)=12.13; p<.005), sia per le componenti esterna (F(1,79)=5.00;
p<.05), mentale (F(1,79)=7.75; p<.01) e riflessiva (F(1,79)=3.82; p<.05), e sulla capacità di compiere inferenze (F(1,79)=6.93;
p<.01). Un’analisi dei post hoc (Tukey test) ha evidenziato una differenza significativa a favore di chi ha fratelli/sorelle
minori rispetto a chi non ha fratelli/sorelle, per quanto riguarda la comprensione delle emozioni totale (p<.005), la
componente mentale (p<.005) e la capacità di compiere inferenze (p<.05).
La comprensione delle emozioni risulta legata agli aspetti pragmatici di capacità di compiere inferenze e coerenza del
discorso, e positivamente influenzata dalla presenza di fratelli/sorelle, in particolare minori, che richiedono maggiori capacità
di adattamento comunicativo.
Keywords
emotions, pragmatics, siblings
190
UN CONTRIBUTO ETNOGRAFICO-CONVERSAZIONALE ALLO STUDIO DELLA SOCIALITÀ INFANTILE:
LA STRUTTURA DI PARTECIPAZIONE NELLE INTERAZIONI TRA BAMBINI PICCOLI
CAMILLA MONACO
"Sapienza" Università di Roma, Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione
[email protected]
Introduzione
Il presente lavoro si colloca all’interno di una più ampia ricerca, incentrata sullo sviluppo della socialità infantile al nido,
adottando una prospettiva storico-culturale (Vygotskij, 1934; Cole, 1996), secondo la quale i processi di sviluppo e di
apprendimento hanno un carattere situato (Resnick et al., 1997). In quest’ottica, un servizio socio-educativo come il nido
rappresenta uno dei principali contesti naturali per lo sviluppo e l’educazione (Musatti, 1993): gli scambi e le interazioni che
si costruiscono al suo interno svolgono una funzione primaria rispetto al processo di socializzazione dei “nuovi membri”
(Bruner, 1990) della società.
L’obiettivo generale – inteso nell’accezione di “concetto sensibilizzante” (Blumer, 1954) – è stato quello di indagare lo
sviluppo della socialità di bambini di età compresa tra i 20 e i 40 mesi durante la vita quotidiana all’interno di un nido. Nello
specifico, ci si è proposti di:
a) individuare quali sono, come si sviluppano e come si organizzano le strategie interazionali principalmente usate;
b) osservare e analizzare le modalità di organizzazione della partecipazione all’interno del piccolo gruppo.
Metodo
La ricerca ha coinvolto 18 bambini, di età compresa tra i 20 e i 40 mesi, di un nido umbro e le loro quattro educatrici.
E’ stato utilizzato un impianto metodologico di carattere etnografico: si è trattato di una ricerca sul campo in situazioni di
vita reale (Mantovani G., 2003), basata sull’osservazione semi-partecipante e su diverse tecniche di rilevazione di natura
osservativa. Il corpus dei dati comprende note di campo, fotografie, 2 videotour (visite guidate del nido) e 34 ore di
videoregistrazione relative a diversi momenti della vita educativa.
Rispetto all’analisi del materiale videoregistrato, un nodo metodologico cruciale è stata la costruzione di un sistema di
trascrizione multimodale, che consentisse di cogliere ed integrare il discorso e gli elementi conversazionali da un lato e tutti
gli aspetti co-verbali, gestuali e corporei dall’altro.
L’analisi del materiale osservativo è stata articolata in quattro diversi livelli, alcuni dei quali si sono basati sui principi
fondamentali della Teoria dell’attività (Leontjev, 1977), dell’Analisi della conversazione (Sacks, et al., 1974) e dell’Analisi
del discorso (Edwards, 1997).
Il primo obiettivo è stato indagato attraverso un’analisi articolata in tre differenti livelli: sistemi di attività situata; funzioni
dell’interazione e strategie interazionali. Per quanto riguarda il secondo obiettivo, si è fatto ricorso al costrutto di struttura di
partecipazione (Goffman, 1981), adattato alla fascia di età studiata, e inteso come il complesso intreccio tra le modalità di
organizzazione dei turni (verbali e non-verbali) e le caratteristiche dei ruoli comunicativi assunti dai partecipanti. Il presente
contributo è focalizzato in maniera specifica su quest’ultimo livello interpretativo.
Risultati
Il procedimento analitico ha evidenziato la capacità dei partecipanti di co-costruire strutture di partecipazione complesse,
basate su differenti posizioni interazionali e registri comunicativi. Inoltre, è stato possibile osservare lo sviluppo di diversi
livelli di partecipazione (i.e. partecipante attivo vs marginale) e l’assunzione di molteplici ruoli comunicativi (i.e. iniziatore
vs uptaker), non solo da parte di attori sociali diversi, ma anche da parte di uno stesso attore sociale in momenti diversi
dell’interazione.
In molti casi, i bambini osservati hanno dimostrato di conoscere e padroneggiare le strutture di cui erano promotori,
protagonisti e/o osservatori, ma anche di saper “scivolare” tra modalità interazionali e/o registri comunicativi diversi. Questi
piccoli attori sociali si sono rivelati in grado di raggiungere un implicito accordo intersoggettivo rispetto al “come” costruire
le interazioni e organizzare la partecipazione, manifestando una certa disponibilità anche nei confronti di cambiamenti,
negoziazioni e ri-adattamenti degli scambi in atto.
In diverse occasioni, inoltre, i bambini hanno dimostrato di comprendere le regole basilari di uno scambio conversazionale
(i.e. alternanza dei turni, orientazione visiva e posturale, coppie adiacenti). Pertanto sembra che, parallelamente al processo
di acquisizione e perfezionamento del linguaggio (Camaioni, 2001; Longobardi, Camaioni, 2002), i partecipanti alla ricerca
siano attivi protagonisti anche di un percorso di sviluppo/apprendimento di competenze specificamente conversazionali. Tale
aspetto potrebbe essere approfondito attraverso studi successivi, che confrontino lo sviluppo psico-linguistico con quello
discorsivo-conversazionale in bambini della fascia di età qui considerata.
Keywords
socialità infantile, struttura di partecipazione, etnografia al nido
191
IL RUOLO DEL TEMPERAMENTO NELLO SVILUPPO AFFETTIVO E LINGUISTICO
GERMANA CASTORO (1), GIUSY PIERMATTEI (2), ROSALINDA CASSIBBA (3), ALESSANDRO COSTANTINI(4)
(1), (3), (4)Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Bari
(2)Dipartimento di Scienze Biomediche, Università degli Studi di Chieti-Pescara
[email protected]
Introduzione
Diversi studi hanno dimostrato che lo sviluppo socio-emotivo e cognitivo del bambino possono essere influenzati
dall’interazione di tre fattori principali, quali: le caratteristiche del genitore, il temperamento del bambino e i fattori
contestuali (Belsky, 1999). In particolare le caratteristiche temperamentali del bambino possono influire sulle capacità del
genitore di leggerne i segnali e di rispondervi in maniera adeguata e contingente (Ainsworth et al. 1978). La sensibilità
materna, predittore principale dell’attaccamento infantile (Ainsworth et al. 1978), può essere influenzata dal temperamento
del bambino e determinare la qualità dell’attaccamento (van Ijzendoorn et al. 1995). Alcuni studi hanno rilevato che bambini
con caratteristiche temperamentali positive nel corso delle interazioni con la madre stabiliscono relazioni d’attaccamento
sicuro. Invece bambini descritti con temperamento difficile, ovvero caratterizzati da tonalità dell’umore negativo, irritibilità,
bassa adattabilità e alti livelli di negatività tendono a stabilire relazioni meno sicure con il caregiver (Seifer, 1996).
Il temperamento del bambino sembra essere predittivo anche degli esiti dello sviluppo cognitivo e linguistico (Vaughn et al.
1999). Bambini con scarse capacità di attenzione, di concentrazione, difficoltà di adattamento sociale ed emotività negativa
hanno difficoltà nell’acquisizione dei vocaboli (Rothbart , Bates, 1998). Altri studi hanno dimostrato che bambini con
temperamento difficile tendono ad avere un’ampiezza del vocabolario più ridotta e uno sviluppo grammaticale meno
complesso rispetto ai bambini con temperamento facile (Dixon, Wallace, 2000).
Alla luce della letteratura presentata il presente studio intende realizzare i seguenti obiettivi:
1. verificare l’associazione tra temperamento e attaccamento;
2. verificare l’associazione tra temperamento e linguaggio.
Metodologia
Il campione include 80 diadi madre – bambino, di età compresa tra i 12 e 15 mesi, provenienti da famiglie italiane
biparentali. Tutti i bambini sono di madrelingua italiana e provengono da differenti città italiane del centro-sud Italia (Bari,
Brindisi, Chieti).
La procedura di raccolta dati ha previsto 3 incontri a casa, di circa 3 ore ciascuna, al fine effettuare l’osservazione della
relazione madre-bambino.
Per la valutazione dell’attaccamento infantile è stato utilizzato l’Attachment Q-sort, (AQS; Waters e Deane,1985; versione
italiana, Cassibba e D’Odorico, 2000) che permette di rilevare i comportamenti di attaccamento del bambino nel contesto di
casa. Per la valutazione della comprensione e produzione del linguaggio nel bambino è stato somministrato alle madri il
questionario “Primo Vocabolario del Bambino” nella versione “gesti e parole” (PVB, Caselli, Casadio, 1995).
Per la valutazione del temperamento è stato utilizzato l’Infant Behavior Questionnaire (IBQ, Rothbart, 2003) che consente di
misurare 14 dimensioni temperamentali.
Risultati
E’ stato finora analizzato un campione di 30 diadi madre e bambino. Circa il primo obiettivo, i risultati evidenziano
correlazioni significative positive tra i punteggi dell’AQS e alcune dimensioni del temperamento, quali: perceptual
sensitivity (r=0.36; p<0.05), soothability (r=0.41; p<0.05), rate of recovery (r=0.56; p<0.001), cuddliness (r=0.38; p<0.05) e
low pleasure (r=0.53; p<0.001). Evidenziano anche correlazioni significative negative tra i punteggi dell’AQS e alcune
dimensioni temperamentali quali: activity level (r= -0.48; p<0.001) e distress (r= -0.48; p<0.001). Circa, il secondo obiettivo,
emergono correlazioni significative positive tra duration of orienting e la comprensione di frasi comunemente usate dal
caregiver (r=0.52; p<0.001), la comprensione di parole di contenuto (r=0.39; p<0.05) e la comparsa della comunicazione
intenzionale (r=0.45; p<0.05); mentre la dimensione di high pleasure correla significativamente solo con la comprensione di
frasi comunemente usate dal caregiver (r=0.40; p<0.05) e la comparsa della comunicazione intenzionale (r=0.49; p<0.05); la
dimensione di smile and laughter correla significativamente con la comprensione di frasi comunemente usate dal caregiver
(r=0.39; p<0.05) e la comparsa della comunicazione intenzionale (r=0.43; p<0.05). Infine sono emerse anche correlazioni
significative negative tra le dimensione del temperamento activity level (r= -0.43; p<0.05) e distress to limitations (r= -0.41;
p<0.05) e la comprensione di parole di contenuto; mentre la dimensione sadness correla negativamente con la comprensione
di frasi comunemente usate dal caregiver (r= -0.36; p<0.05) e la comprensione di parole di contenuto (r= - 0.44; p<0.05).
Questi primi risultati corroborano l'ipotesi che i bambini con caratteristiche temperamentali positive hanno maggiori
possibilità di stabilire relazioni d’attaccamento sicure con il caregiver e siano favoriti nell’acquisizione del linguaggio nel
primo anno di vita (van Ijzendoorn et al. 1995; Vaughn et al. 1999).
Keywords
temperamento,attaccamento,linguaggio
192
IL LEGAME DI ATTACCAMENTO NELLA CASA FAMIGLIA: LA PERCEZIONE DELL’OPERATORE
MARIA REGINA MORALES, CONCETTA POLIZZI, VALENTINA FONTANA
Facoltà di Scienze della Formazione, Dipartimento di Psicologia-Università degli Studi di Palermo
[email protected]
Introduzione
Il contributo qui riportato fa riferimento ad un percorso di ricerca finalizzato ad indagare la valenza evolutiva della relazione
tra l’educatore e il bambino nella casa famiglia, intesa nei termini di relazione educativa che promuove, in quest'ultimo, lo
sviluppo di fattori di protezione funzionali all’attraversamento della propria condizione di rischio che il minore
vive(Barbanotti, Iacobino, 2000; Ferrando, 2002; Intrage, 2006).
In particolare, il contributo focalizza la possibile relazione di attaccamento tra l’educatore della casa-famiglia e il bambino
(Molina, Bonino, 2001; Lugaresi, 2001; Pazè, 2002; Colmegna, 2002), offrendo a quest’ultimo, un contesto relazionale
protettivo “alternativo” alla famiglia (ibidem; Di Blasio, 1995; Perricone Briulotta, 2005).
In tal senso, il percorso recupera quelle prospettive teoriche che definiscono la condizione di rischio psicosociale (Rutter,
1987) che il bambino in casa famiglia vive, come l’esito dell’integrazione tra fattori di rischiosità esterna, quali ad es. le
situazioni di abbandono e/o di neglect genitoriale, di allontanamento dal proprio nucleo familiare, … (Lugaresi, op. cit.), e
gli elementi di vulnerabilità del bambino che fanno riferimento, in questo caso, ai vissuti di abbandono e alle
rappresentazioni di sé e dell’altro nei termini di inadeguatezza (Emiliani, 1994; Ghezzi, 1996).
Ancora, le prospettive sui legami di attaccamento con caregivers multipli (Howes, 2002; Lugaresi, op. cit.), che sottolineano
la valenza dell’educatore nella casa famiglia come possibile adulto “altro” ai genitori, con cui poter costruire nuove relazioni
significative (Sarubbi, 2007) che garantiscono al bambino, non solo la possibilità di vivere esperienze di accudimento, ma
anche, di definire nuovi modelli mentali di adulti “positivi” (Ghezzi, Valdilonga 1996).
Alla luce di tali presupposti teorici e di contributi “ideativo-esperienziali” del gruppo di ricerca, il percorso, come primo
momento metodologico, ha previsto la costruzione di un modello di lettura della percezione che l’operatore sviluppa
relativamente alla propria relazione di attaccamento con il bambino nella casa famiglia, definita nei termini di una relazione
fondata sulla responsività, sulla sicurezza e sulla ricerca di contatto con l’altro (Cassibba, D’Odorico, 2000).
In tal senso, l’obiettivo del percorso di ricerca va rintracciato nell’indagare la percezione dell’educatore della casa famiglia,
in riferimento alla configurazione della propria relazione con il bambino. In relazione a tale obiettivo, l'ipotesi è: verificare se
la percezione dell’educatore rispetto alla relazione con il bambino, fa riferimento agli indicatori di un legame di tipo sicuro.
Metodo
Il percorso ha visto il coinvolgimento di un gruppo di ricerca costituito da 19 educatori appartenenti a case famiglia del
territorio siciliano; in relazione agli strumenti di ricerca, sono stati utilizzati un’intervista narrativa (Atkinson, 2000)
appositamente costruita, per indagare la percezione dell’educatore rispetto ai fattori e agli indicatori della relazione di
attaccamento, e l’Attachment QSort (Cassibba, D’Odorico, op. cit.), al fine di indagare la relazione di attaccamento tra
l’educatore e il bambino.
Risultati
I dati relativi all’intervista narrativa sono stati analizzati attraverso l’applicazione di uno schema di codifica definito sulla
base di categorie di contenuto che si riferivano ai fattori e agli indicatori del legame di attaccamento, così come individuati
dal modello di riferimento; successivamente, tali dati sono stati analizzati attraverso l’applicazione del test 2 per la bontà di
adattamento (Del Vecchio, 2000; Ercolani, Areni, Leone, 2002). Per quanto riguarda i dati ottenuti dal Q-Sort, è stato
effettuato il calcolo del test 2 per la bontà di adattamento e l’indice di correlazione r di Pearson, secondo le procedure
definite dallo strumento (Cassibba, D’Odorico, op. cit.).
I risultati mettono in evidenza l’esistenza, in maniera statisticamente significativa, di una relazione tra l’educatore e il
bambino nella casa famiglia che si caratterizza, nella percezione dell’operatore, nei termini di una relazione di attaccamento
fondata, soprattutto, sulla ricerca di “contatto” da parte del bambino ( 2 = 38,2; gdl= 18 con =.05 e 2critico=28,8). Tali
dati vengono confermati anche dall’applicazione del Q-sort che mette in evidenza l’esistenza di un legame di attaccamento di
tipo sicuro ( 2 = 21,7; gdl= 36 con =.05 e 2critico=50,1) fondato sulla responsività, e dunque, sulla capacità dell’operatore
di accogliere e di rispondere in modo adeguato ai bisogni del bambino.
Keywords
family-house, attachment child-educator
193
LA PERCEZIONE DEL DOLORE NEI BAMBINI DI ETÀ SCOLARE: UNO STUDIO PRELIMINARE
CRISTINA CASTELLI, ERIKA PINI, ELENA RIZZI
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
[email protected]
Introduzione
La modalità con cui i bambini fanno fronte al dolore fisico è un area in crescente espansione e di notevole complessità. La
risposta del bambino al dolore dipende da molteplici fattori: età, temperamento, competenze emotive, esperienze passate,
responsività dell’adulto, caratteristiche dell’ambiente. Particolare interesse riveste anche la percezione dell'intensità del
dolore, unitamente al fatto che nel bambino è stata riscontrata un’ampia variabilità di risposta al cosiddetto effetto placebo
(Fernandes et al., 2008).
La letteratura sulle strategie di fronteggiamento del dolore ha elaborato numerosi modelli di coping, ad esempio: McGrath
(1994), Varni e collaboratori (1996), Bonichini e Axia (2000). Un’interessante modello di coping non collegato al tema del
dolore è quello elaborato da Eisenberg e Fabes (Eisenberg et al., 1995). I due autori hanno teorizzato il coping in età
evolutiva come l’insieme di processi di regolazione delle emozioni e della situazione messi in atto dal bambino quando si
trova in una situazione stressante. Tale prospettiva di studio appare molto interessante applicata a situazioni di dolore fisico,
che necessitano di strategie di modificazione dell’intensità degli stati interni, di sforzi per modificare l’ambiente e di ricerca
di supporto sociale.
L’obiettivo di questo studio è indagare, nei bambini di età scolare, le differenze nelle strategie di coping e nelle
rappresentazioni cognitive ad esse collegate, in un situazioni di dolore fisico. Si vuole valutare anche il ruolo dell’età, del
sesso, delle esperienze di ospedalizzazione passate e della responsività materna rispetto alla percezione dell’intensità del
dolore. Un ulteriore obiettivo è proporre uno strumento semi-proiettivo di indagine del dolore, come metodologia alternativa
accanto a questionari e inventari.
Metodo
Il campione è composto da 39 bambini (19 maschi e 20 femmine) tra i 6 e gli 11 anni (m=8,5; ds=1,44) di una scuola
elementare della periferia di Milano e 39 mamme; circa la metà dei bambini (n=16) è stata ricoverata in ospedale per più di
una notte negli ultimi 5 anni.
Ai genitori è stato proposto un questionario sull’atteggiamento di fronte al dolore del figlio (11 item) e sulle pratiche di
intervento in aiuto al bambino (10 item). È stata inserita anche una scheda epidemiologica circa le tipologie di dolore del
figlio, frequenza, durata e intensità delle manifestazioni.
Per i bambini, è stato creato un test semi-proiettivo per misurare, attraverso le risposte a situazioni ipotetiche, le
rappresentazioni cognitive del dolore, l’intensità e le strategie di coping. Il test consiste in quattro prove-vignette che
raffigurano quattro esperienze di dolore: caduta nel parco, malessere a casa, vaccinazione, ricovero in ospedale. Le vignette
sono definite a livello di contesto ma indefinite a livello emotivo. Dopo la descrizione di ogni vignetta, vengono poste al
bambino 4 domande: “Secondo te, cosa prova questo/a bambino/a?” (rappresentazione cognitiva del dolore); “Perché pensi
che questo/a bambino/a provi questo?” (componenti del dolore); “Secondo te quanto male ha? (intensità del dolore - scala da
0 a 5); “Che cosa pensi che faccia, ora, questo/a bambino/a?” (strategia di coping). Infine al bambino è stata proposta una
prova di discriminazione tra parole che riguardano sensazioni fisiche (n=8) e parole che si riferiscono ad emozioni (n=8).
Risultati principali
Nella vignetta dell’ospedale, i bambini che prediligono una strategia di coping basata sulla regolazione dell’emozione
mostrano una rappresentazione del dolore che integra la componente fisica con la componente emotiva; mentre i bambini che
scelgono una strategia di coping basata sulla regolazione della situazione mostrano una rappresentazione del dolore solo
fisica (chi2= 6.98, gdl=1, p=0.008). Nella vignetta del parco, i bambini che hanno vissuto l’esperienza dell’ospedalizzazione
tendono ad avere una rappresentazione del dolore solo fisica, mentre questa differenza non emerge nei bambini che non sono
mai stati ospedalizzati (chi2=6.45, gdl=1, p=0.01). Rispetto alla variabile età, i bambini di 6-8 anni mostrano una percezione
di intensità del dolore più alta rispetto ai bambini di 9-11 anni nelle condizioni della caduta al parco [t(37)=2.52; p=0.016;
d=0.81] e del malessere a casa [t(37)=2.76; p=0.009; d=0.88]. Questa differenza non emerge invece per la condizione del
ricovero in ospedale.
Nel malessere a casa, la percezione dei genitori del dolore dei figli è molto più bassa dell’intensità riferita dai bambini [t-test
per campioni appaiati; t(38)=8.72; p=0.001; d=1.95]. In più, le strategie di intervento materne sembrano influire sull’intensità
del dolore del figlio; in particolar modo la pratica di sgridare il proprio figlio quando si fa male produce nei bambini un
livello di intensità del dolore più alto [t(37)=3.1; p=0.004; d=1].
Keywords
pain, coping strategies, school-aged children
194
ATTACCAMENTO ALL’EDUCATRICE DEL NIDO E SVILUPPO SOCIALE DEL BAMBINO
ROSALINDA CASSIBBA, LUCIA ELIA, EDVIGE ZATTON
Dipartimento di Psicologia – Università di Bari
[email protected]
Introduzione
I piccoli che vengono affidati alle cure di un’educatrice di asilo nido, entrando in relazione con un gruppo sociale più ampio,
sperimentano la possibilità di intraprendere attività che richiedono la coordinazione degli obiettivi personali e delle proprie
abilità con quelle altrui. L’asilo nido, pertanto, si configura come un sistema complesso che influenza il processo di
socializzazione sia come organizzazione in sé, sia attraverso le interazioni e le relazioni che si costituiscono al suo interno
(Wentzel e Looney, 2007).
Nel contesto dell’asilo nido, una grande importanza gioca la funzione di “base sicura” che l’educatrice svolge nei confronti
del bambino, grazie alla quale il piccolo può sentirsi incoraggiato ad esplorare l’ambiente fisico e sociale del nuovo contesto
di relazioni che si accinge a sperimentare (Cassibba, 2003; Pianta, Hamre e Stuhlman, 2003; Cassibba e Gatto, 2004; Elia,
2007). Diversi studi che hanno analizzato l’associazione tra sicurezza dell’attaccamento all’educatrice e abilità sociali del
bambino hanno evidenziato come i piccoli che riescono a stabilire un legame sicuro nei confronti dell’educatrice tendono ad
avere relazioni più positive e meno aggressive coi coetanei, presentano abilità cognitive più avanzate e maggiori capacità di
adattamento nei contesti di vita extra-familiari (Howes, 1999; Cassibba, van IJzendoorn e D’Odorico, 2000; Cassibba, 2003).
Il presente studio si pone un duplice obiettivo: a) verificare l’esistenza di una relazione tra la qualità dell’attaccamento
all’educatrice e alcuni aspetti dello sviluppo sociale del bambino; b) verificare se l’età dell’inserimento al nido risulta
associata agli esiti di sviluppo sociale e alla qualità della relazione instaurata con l’educatrice.
Campione
La ricerca è stata condotta su un campione di 30 bambini (14 femmine), di età compresa tra i 25 e i 41 mesi, frequentanti un
asilo nido comunale della città di Bari. I partecipanti sono stati selezionati, sulla base del loro livello di competenza sociale,
all’interno di due sezioni di divezzi frequentate da bambini dai 18 mesi in su. Più specificamente, sono stati inseriti nel
campione i 15 bambini con livelli di competenza sociale più alti e i 15 bambini con livelli di competenza sociale più bassi.
Hanno preso parte alla ricerca anche le 9 educatrici di riferimento delle due sezioni di bambini.
Strumenti e procedura
Per valutare il livello di competenza sociale del bambino è stato utilizzato il “Questionario per la valutazione del
comportamento sociale” (D’Odorico, Cassibba e Buono, 1999), uno strumento osservativo ideato e validato per la
valutazione della competenza sociale dei bambini a partire dai sedici mesi di età.
Per valutare la qualità dell’attaccamento nella diade educatrice-bambino, è stata utilizzata la versione italiana
dell’Attachment Q-Sort (AQS: Waters e Deane, 1985) adattata e validata per il contesto dell’asilo nido da Cassibba e
D’Odorico (2000).
Per rilevare i comportamenti prosociali manifestati dai bambini negli scambi tra pari, è stata utilizzata una griglia di
osservazione che ha consentito di rilevarne la frequenza di comparsa, durante il normale svolgimento delle attività
quotidiane.
Analisi dei dati e risultati
Per verificare se la qualità dell’attaccamento all’educatrice risulti associata allo sviluppo sociale del bambino è stata
condotta, innanzitutto, un’analisi di correlazione r di Pearson tra i punteggi di sicurezza dell’attaccamento ottenuti tramite
l’AQS, i punteggi di competenza sociale ottenuti dalla compilazione del questionario e la frequenza di comportamenti
prosociali. Dai risultati è emersa una associazione positiva e statisticamente significativa (r= .52; p< .01) tra la competenza
sociale e la sicurezza del legame con l’educatrice. Anche l’analisi di correlazione tra i punteggi di attaccamento
all’educatrice e la frequenza di comparsa dei comportamenti prosociali osservati è risultata positiva e statisticamente
significativa (r= .55; p< .01)
Per verificare se una precoce esposizione all’esperienza del nido risulti associata al livello di sviluppo sociale manifestato dal
bambino e alla qualità del suo legame con l’educatrice, è stata condotta un’analisi di correlazione tra l’età di inserimento al
nido, il livello di competenza sociale e la frequenza dei comportamenti prosociali osservati nell’interazione tra pari. I risultati
hanno evidenziato che la competenza sociale dei bambini risulta associata alla precocità del loro inserimento (r=-.45;
p<=.05).
Relativamente alla correlazione tra età di inserimento al nido e sicurezza dell’attaccamento all’educatrice è emersa, invece,
una correlazione negativa e marginalmente significativa (r= -.36; p<.06): più precoce è l’età dell’inserimento, più sicuro si
rivela l’attaccamento costruito nei confronti dell’educatrice di riferimento.
Keywords
teacher-child attachment, social development, day-care center
195
LA VALUTAZIONE DELLO SVILUPPO SOCIO-EMOTIVO E COMUNICATIVO AL NIDO:
STRUMENTI OSSERVATIVI PER EDUCATRICI E GENITORI
BARBARA ONGARI, FRANCESCA TOMASI, PATRIZIA ORLER, LAURA FRATINI
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università degli Studi di Trento
[email protected]
Introduzione
La possibilità per i bambini nei primi tre anni di vita di sviluppare adeguate e competenti modalità di interazione sociale e
comunicativa è connessa allo sperimentare contesti di relazioni interpersonali in grado di garantire sicurezza emotiva ed
attenzione il più possibile individualizzata. Ma non è facile individuare strumenti di osservazione dello sviluppo infantile e
delle relazioni interpersonali (con i genitori, gli educatori e i coetanei) caratterizzati da validità ecologica ed affidabilità
psicometria (Manetti, 2006; Ongari, Tomasi, Zoccatelli, 2007).
Il presente progetto intende validare una batteria di strumenti, che consentano agli adulti con funzione educativa di
monitorare tramite osservazioni individualizzate il benessere emotivo di ciascun bambino all’interno del gruppo dei pari,
assecondandone l’emergere delle competenze comunicative e sociali. L’obiettivo è quello di analizzare la qualità
dell’adattamento socio-emotivo dei bambini al contesto educativo in rapporto a) all’osservazione diretta delle modalità di
gioco e di interazione sociale, b) alla valutazione del temperamento, c) al livello di competenza comunicativa raggiunto. Si
intende verificare le possibili influenze relative all’età, al genere e al tempo totale di frequenza al Nido, oltre alla validità
concorrente dei diversi strumenti, al fine di ottenere profili individuali attendibili.
Metodo
265 bambini, ambosessi, di età compresa tra 22 e 38 mesi, frequentanti il Nido, sono stati osservati dalle loro educatrici con
il Profilo Socio-Affettivo (PSA; Dumas, LaFrenière, Capuano e Durning, 1997; v. it. a cura di Ongari e Tomasi, in press).
Standardizzato in ambito francese e canadese, permette di valutare le competenze sociali e le difficoltà di adattamento socioaffettivo alla vita comunitaria dei bambini.
A metà del campione sono stati applicati in parallelo i seguenti strumenti.
Un’osservazione diretta individualizzata del bambino all’interno del Nido, realizzata dall’educatrice (videoregistrazione in
modalità continua), a cui è stata applicata da osservatori indipendenti la griglia di codifica Interazioni Sociali al Nido (ISN;
Ongari, Tomasi, Zoccatelli, 2004). Basata sulla Play Observation Scale (POS - Rubin, Maioni, Hornung, 1976), valuta le
modalità interattive di ogni bambino in base ad alcune categorie-tipo di gioco con i compagni (spettatore, parallelo,
cooperativo) e di rapporto con l’educatrice.
L’educatrice ed la madre di ogni bambino hanno compilato i Questionari Italiani del Temperamento (QUIT ; Axia, 2002),
che consentono di valutare il comportamento usuale del bambino in tre diversi ambiti: il bambino con gli altri, il bambino
che gioca e il bambino di fronte alle novità. L’obiettivo è ottenere un controllo esterno rispetto alla tonalità emotiva ed alle
modalità temperamentali osservate nel PSA.
Un’ulteriore verifica riguarda il rapporto tra l’adattamento socio-emotivo al nido e il livello di competenza comunicativa
raggiunto, valutato con il Questionario sulla Comunicazione Sociale Precoce (QCSP; Molina, Bulgarelli, Marsan, Spinelli e
Miceli, 2002) derivato dalla Scala della Comunicazione Sociale Precoce (SCSP; Molina, Ongari e Schadee, 1998).
Compilato rispettivamente dalla madre e dall’educatrice, valuta le abilità di attenzione congiunta, interazione sociale e
regolazione del comportamento.
Infine, data l’importanza delle rappresentazioni che i caregivers hanno delle interazioni concrete con i bambini, abbiamo
proposto alle educatrici e alle madri il Questionario di valutazione delle rappresentazioni del bambino e del proprio ruolo di
accudimento nei caregivers (QZ; Zaouche-Gaudron, Ricaud-Droisy, e Beaumatin, 2002). Consente di rilevare le
rappresentazioni delle relazioni del bambino all’interno del nido e le immagini delle proprie pratiche educative, mettendo a
confronto il punto di vista dell’educatrice con quello materno.
Risultati
I bambini osservati sembrano aver raggiunto mediamente un buon livello di adattamento socio-affettivo al contesto
educativo, sia in termini di risposta emotiva, sia di relazione con i pari e con l’adulto di riferimento (Ongari e Tomasi, 2006).
Dall’analisi congiunta dei dati PSA e ISN risulta un effetto di genere significativo: le bambine mostrano una migliore
capacità di controllo dell’aggressività, associata ad una maggiore frequenza di gioco di tipo solitario/parallelo
(ANOVA=4.370, p=.047), con modalità simboliche più evidenti (ANOVA=7.461, p=.011) sono più autonome
(ANOVA=4.378, p=.047). Inoltre, i bambini che sono al nido da più tempo sono più competenti nel gioco (Coeff.
Pearson=.579, p=.002). In generale l’elevata competenza sociale è associata a maggiori capacità di gioco costruttivo (Coeff.
Pearson=.457, p=.016) e sono i bambini rappresentati dalle educatrici come più aperti/fiduciosi a mostrare modalità di gioco
più cooperativo (Coeff. Pearson=.422, p=.028). Non risultano differenze significative legate all’età.
Attualmente sono in corso ulteriori analisi.
Keywords
socio-emotional development, observation, day-care center
196
PAURE INFANTILI E TEORIA DELL'ATTACCAMENTO:
CONTRIBUTO ALLA STANDARDIZZAZIONE DEL TEST DEI PERCORSI
FRANCESCA GIOVANNA MARIA GASTALDI, ROCCO QUAGLIA, CLAUDIO LONGOBARDI
Università degli Studi di Torino – Dipartimento di Psicologia
[email protected]
Introduzione
E' cosa scientificamente nota che uno stile di attaccamento disorganizzato possa incidere in maniera significativa sul
possibile insorgere di disturbi psicopatologici in età evolutiva. Non altrettanto esplorata è però la possibile connessione tra i
diversi stili di attaccamento e le paure dal bambino sperimentate nel corso della sua crescita.
Metodo
Il presente studio, di carattere esplorativo e facente parte di una prima fase di validazione dello strumento proiettivo "Il test
dei percorsi" (Quaglia et al., 1994), ha coinvolto 107 soggetti, di cui 55 femmine e 52 maschi (range età anagrafica: 4 – 5
anni; età media: 4.5; ds: 0.5). Scopo dell'indagine è stato quello di rilevare la distribuzione delle variabili relative al diverso
stile di attaccamento e al diverso vissuto emotivo sperimentato dai bambini in relazione alle principali paure. La tipologia di
attaccamento è stata operativizzata e considerata in riferimento agli stili sicuro, insicuro evitante, insicuro ambivalente,
disorganizzato; è stata applicata, a tale proposito, l'M-Cast (Manchester Child Attachment Story Task; Green et al., 2000). In
riferimento invece alle diverse tipologie di paure sperimentate dai bambini, le variabili a queste riferite sono state
direttamente ricondotte alle risposte fornite al Test dei Percorsi (Quaglia et al., 1994). In particolar modo, secondo le
intenzioni dell'Autore le alternative proposte (lo strumento si compone di una tavola sulla quale è disegnato un bambino di
spalle: questi ha di fronte cinque percorsi, caratterizzati da diversi tipi di ostacoli, che lo conducono alla propria abitazione)
vanno a indagare, nell'ordine, i vissuti relativi alle paure più ancestrali (percorso nel quale è presente un tunnel), quelli
relativi ai vissuti edipici (p. con un bosco da attraversare), alla sfera della socialità (p. con un gruppo di bambini, alcuni dei
quali caratterizzati da un'aria minacciosa), all'immagine corporea (p. interrotto da un burrone), alla sicurezza del legame
d'attaccamento (p. più lungo, privo di ostacoli ma non completamente visibile: si snoda all'interno di una serie di colline).
Sono state considerate sia le scelte operate, sia i rifiuti avanzati rispetto alle diverse alternative proposte.
Risultati
In riferimento a quanto si può rilevare dalle prime analisi effettuate possiamo sottolineare come il 68,2% dei soggetti
intervistati presentino un attaccamento sicuro, mentre il 14% un attaccamento di tipo insicuro evitante, il 15% i. ambivalente,
l'1,9% infine di tipo disorganizzato. Per quanto riguarda le risposte fornite al Test dei Percorsi, si può rilevare come il 47,7%
dei soggetti intervistati scelgano il percorso caratterizzato dalla presenza del gruppo di ragazzi; il 22,4% sceglie il percorso
nel quale è presente il tunnel; il 18,7% il percorso che si ipotizza riferito alla sicurezza del legame di attaccamento
(caratterizzato dalla presenza di una serie di piccole montagne); il 10,3% sceglie infine il percorso che risulta interrotto dalla
presenza di un burrone. Lo 0,9% (un soggetto) sceglie il percorso per il quale occorre attraversare un bosco.
Conclusioni
A quanto emerge dai primi risultati, la scelta dei diversi percorsi risulterebbe connessa, seppure il lieve misura, al diverso
stile di attaccamento; stiamo a tal proposito verificando tali analisi, valutando anche l'ipotesi di completare l'indagine con
ulteriori strumenti che permettano di esaminare la distribuzione delle variabili in riferimento anche agli altri aspetti che
dovrebbero essere elicitati dalle risposte fornite al test dei percorsi (in particolare, ci riferiamo qui alla sfera della socialità e
ai vissuti relativi all'immagine corporea).
keywords
Attachement Theory , Children Fear, Projective Test
197
L’EMPATIA IN BAMBINI CON SINDROME DI DOWN
GIOVANNI GIULIO VALTOLINA
Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
[email protected]
Introduzione
In alcune forme di disabilità, i deficit di competenza emotiva rivestono un ruolo particolarmente importante in ordine allo
sviluppo e alla strutturazione delle relazioni. In numerosi studi, infatti, è emerso come bambini affetti da ritardo mentale non
siano in grado di provare empatia (Corallini, 2002), essendo sprovvisti della capacità di riconoscere il significato dei
messaggi emotivi che gli altri trasmettono loro attraverso gesti, verbalizzazioni o espressioni del viso.
La scelta di studiare i comportamenti empatici nei bambini Down nasce da una duplice serie di considerazioni. In primo
luogo, i bambini Down, rispetto ad altri bambini con ritardo mentale, risultano essere più attenti alle espressioni del viso
degli altri e si fanno coinvolgere più facilmente in interazioni positive (Freeman, Mundy e Sigman, 1995); ciò potrebbe
renderli più competenti di altri bambini disabili nel comprendere la sofferenza dell’altro e nel cercare di consolarlo o di
fornirgli un aiuto. In secondo luogo, lo sviluppo cognitivo dei bambini Down è faticoso e molto lento, e questo, secondo
alcuni studiosi (Kasari, 2001), potrebbe avere delle conseguenze sulla capacità di riconoscimento delle emozioni. L’obiettivo
del presente studio è dunque quello di analizzare verbalizzazioni e comportamenti prosociali di bambini Down in una
situazione sperimentale in cui un adulto simula di essersi fatto male e a fronte della presentazione di una serie di vignette che
mostrano bambini che manifestano apertamente alcune emozioni.
Metodo
L’indagine, che ricalca la procedura utilizzata nello studio di Kasari, Freeman e Bass (2003), ha coinvolto 3 differenti gruppi
di bambini: 50 bambini Down (28 femmine e 22 maschi), 50 bambini con ritardo mentale (28 femmine e 22 maschi) e 50
bambini normodotati (28 femmine e 22 maschi). L’età media dei primi 2 gruppi era di 10,2 anni, mentre l’età media dei
bambini normodotati era di 4,3 anni. Tutti i tre gruppi presentavano la stessa età mentale e le stesse abilità linguistiche. Per la
valutazione dell’età mentale è stata utilizzata la WISC-III, mentre per la valutazione delle abilità linguistiche sono state
utilizzate le scale proposte da Gabbardi e Ricci (2004); per la valutazione dell’empatia è stata utilizzata la Feshbach and Roe
Empathy Measure (1968), nell’adattamento italiano (Bergamaschi, 2005) della versione proposta da Kasari (2001), che
consiste nella presentazione di una serie di vignette che mostrano bambini che si trovano ad affrontare situazioni che
generano differenti emozioni (paura, felicità, rabbia e tristezza) e nella registrazione dell’emozione espressa dal bambino che
le osserva; infine, per la valutazione della risposta al dolore dell’altro è stata utilizzata la procedura di Zahn-Waxler (1992),
che consiste nella registrazione dei comportamenti e delle emozioni mostrate dal bambino a fronte a un adulto che finge di
essersi fatto male e si lamenta ad alta voce per il dolore.
Risultati
I risultati mostrano che i bambini Down reagiscono alla sofferenza dell’altro mostrando preoccupazione e offrendo conforto,
ma solo nella situazione concreta, mentre a un livello più astratto - le vignette - non sembrano essere in grado di
comprendere appieno la situazione e di manifestare quindi la stessa capacità empatica. I bambini Down, inoltre, offrono
supporto all’adulto che soffre toccandolo, accarezzandolo, ma senza mostrare una personale sofferenza o reazioni
particolarmente emozionali. In questo senso, i bambini Down sembrano agire gli aspetti più interattivi dell’empatia, senza
però manifestarne le componenti emotive. Nel confronto con i dati ottenuti da Kasari et al. (2003) sul campione di bambini
statunitensi, non emergono differenze statisticamente significative.
I bambini con ritardo mentale, invece, sembrano reagire in un modo più emotivamente sofferente, senza però che questo si
accompagni a un contatto diretto con l’adulto: non mettono direttamente in atto, cioè, comportamenti prosociali, ma
esprimono maggiormente la componente emotiva, come avviene per i bambini del campione statunitense, anche se tra i
bambini italiani, ciò si verifica in forma significativamente più marcata.
I bambini normodotati tendono, invece, ad essere empatici mostrando non tanto comportamenti di avvicinamento o di
contatto con l’adulto, come i bambini Down, quanto reazioni emotive e formulando domande dirette finalizzate a
comprendere meglio lo stato emotivo dell’adulto; in questo caso, la reattività emotiva e la quantità di verbalizzazioni
risultano significativamente maggiori nei bambini italiani.
Per quanto riguarda la variabile di genere, a differenza dei bambini normodotati, tra i quali il genere discrimina
significativamente i maschi dalle femmine, nel gruppo dei bambini Down e dei bambini con ritardo mentale il genere non si
associa ad alcuno specifico stile di comportamento empatico, confermando quanto rilevato anche dai ricercatori statunitensi.
Keywords
Down syndrome, mental retardation, empathy.
198
LE ABILITÀ DI INIZIATIVA E RISPOSTA DI ATTENZIONE CONDIVISA A 4 E 6 MESI DI ETÀ
TIZIANA AURELI, MARIA GENCO
Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Chieti-Pescara
[email protected]
Introduzione
L’attenzione condivisa consiste essenzialmente nella capacità di coordinare l’attenzione con un’altra persona su un
oggetto/evento comune e rappresenta un’abilità fondamentale per lo sviluppo psicologico infantile. In particolare, la
coordinazione a scopo dichiarativo – condividere una referenza esterna - sembra predire abilità avanzate quali il linguaggio e
la teoria della mente (Charman, Baron-Cohen, Swettenham, Baird, Cox & Drew, 2000).
L’attenzione condivisa dichiarativa è stata indagata relativamente all’abilità di risposta (Responding to Joint Attention, RJA)
e a quella di iniziativa (Initiating Joint Attention, IJA), trovando segnali di entrambe nei primi mesi di vita. In particolare
RJA, operazionalizzata come comportamento di seguire lo sguardo altrui, è stata osservata all’età di tre e sei mesi
(D’Entremont, Hains& Muir, 1997; Morales, 1998; Corkum & Moore, 1998; D’Entremont, 2000) mentre IJA,
operazionalizzata come alternanza dello sguardo tra l’altra persona e l’oggetto, è stata osservata all’età di sei mesi (Bakeman
& Adamson, 1984). Si è visto inoltre che ciascuna abilità mostra differenze individuali stabili a partire dai nove mesi. Infine,
risultati consistenti in gruppi sia tipici che clinici evidenziano differenze significative tra le due abilità nelle misure sia
comportamentali che neurofisiologiche (per una rassegna, Mundy & Sigman, 2006), suggerendo che esse siano componenti
relativamente indipendenti della medesima capacità.
Il presente studio intende indagare l’attenzione condivisa sia come abilità di iniziativa che di risposta da 4 a 6 mesi d’età. Lo
scopo è duplice: a) replicare e ampliare i dati relativi all’età di emergenza di ciascuna abilità; b) rilevare le possibili
associazioni tra le due abilità in ciascuna età e tra le due età in ciascuna abilità.
Metodo
Sono stati osservati 40 bambini a 4 e 6 mesi d’età. I bambini appartengono a famiglie bi-parentali, di condizione socioeconomica media e residenti nelle zone di Chieti e Pescara. A ciascuna età le prove di attenzione condivisa (Morales, Mundy,
Delgado, Yale, Messinger, Neal & Schwartz 2000) sono state somministrate in una sola sessione con un ordine fisso, e
precisamente la prova IJA prima della prova RJA. Nella prova IJA, lo sperimentatore, dopo avere richiamato l’attenzione del
bambino, aziona un gioco meccanico per circa 6 secondi e poi lo ferma. Questa procedura è ripetuta per tre volte. Nella prova
RJA, l’adulto, dopo avere richiamato l’attenzione del bambino, gira la testa per guardare uno di due oggetti collocati sul
piano orizzontale a 90° rispetto al bambino. Questa procedura è stata randomizzata rispetto alla direzione – destra e sinistra –
dello sguardo ed è stata ripetuta per sei volte (tre volte per oggetto). Per la prova IJA è stata calcolata la percentuale di volte
in cui i soggetti alternano lo sguardo tra l’oggetto e lo sperimentatore; per la prova RJA è stata calcolata la percentuale di
volte in cui i soggetti si girano a guardare nella stessa direzione dello sperimentatore. Ciascuna prova è stata videoregistrata e
le videoregistrazioni sono state successivamente codificate.
Risultati
Circa il primo obiettivo, i soggetti nella prova IJA alternano lo sguardo tra oggetto attivo e sperimentatore nel 24,5% dei casi
a 4 mesi e nel 55,8% dei casi a 6 mesi (t, 39)= -4,540; p=.000); nella prova RJA, i soggetti si girano a guardare nella stessa
direzione dello sperimentatore nel 64% di casi a 4 mesi e nel 55,8% dei casi a 6 mesi (t, 39 = -1,143; p= .260, n.s.). Circa il
secondo obiettivo, l’associazione tra 4 e 6 mesi è risultata significativa per IJA ( =.314; p=.048) ma non per RJA ( =.002;
p=.991); inoltre, non è stata rilevata un’associazione significativa tra IJA e RJA sia a 4 mesi ( =-.041; p=.802) che a 6 mesi
( =-.080; p=.624).
Discussione
I risultati mostrano che i bambini sono capaci di rispondere a un atto di attenzione condivisa e di iniziarlo fino dall’età di 4
mesi. Ciò conferma la letteratura relativamente all’abilità di risposta e consente di retrodatare l’abilità di iniziativa, finora
osservata a partire dall’età di 6 mesi. Inoltre, si è trovato che le due abilità non correlano fra loro né a 4 mesi né a 6 mesi;
pertanto viene supportata l’ipotesi che esse siano relativamente indipendenti. Infine, l’abilità di iniziativa sembra essere una
caratteristica stabile nell’arco di età considerato a differenza dell’abilità di risposta, suggerendo che la prima dipenda più
della seconda da aspetti costituzionali. Dati temperamentali rilevati sui soggetti esaminati verranno analizzati per esplorare
questo aspetto.
Keywords
Joint attention, infancy, longitudinal study
199
TROPPE ORE AL NIDO: SEGNALI DI DISAGIO
DARIO VARIN, CHIARA RIPAMONTI
Università degli Studi di Milano-Bicocca
[email protected]
Introduzione
Una serie di ricerche ha indagato anche in tempi recenti gli effetti di una precoce ed estesa esperienza di asilo nido su diversi
aspetti dello sviluppo relazionale, sociale e cognitivo (NICHD Early Child Care Network, 1997,2000,2001),anche se occore
tener conto che gli effetti di questa esperienza , in una propettiva sistemica ed ecologica, interagiscono con molte variabili di
ordine contestuale e individuale (Varin,2007).
Mentre sono emerse frequentemente le potenzialità positive di nidi di buona qualità permangono per molti studiosi
preoccupazioni relative ad alcuni possibili effetti di una precoce esperienza di nido per molte ore al giorno su disagi di
natura affettivo-relazionale (sicurezzadell’attaccamento) e del comportamento sociale ( aumento di comportamenti
oppositivi e conflittuali ), specie quando la qualità dell’accudimento è precaria (per es,un elevato rapporto educatrici
bambini: Sagi et al.,2002).Tali preoccupazioni sono state accentuate da alcune ricerche che hanno utilizzato la misurazione
del cortisolo (ormone associato allo stress) nei bambini che frequentano il nido al pomeriggio (Watamura et al.,2003).
L’accudimento non- parentale nella prima infanzia (compreso il nido) non sembra avere effetti principali sulla sicurezza
dell’attaccamento, ma l’interazione fra diverse variabili che possono essere associate a tale esperienza (come una minore
sensibilità materna e il troppo tempo passato fuori casa) ha mostrato effetti negativi significativi sia per la sicurezza
dell’attaccamento sia per il comportamento sociale. Ciò vale, in particolare, per troppe passate nel nido (Belsky, 2001).
Obbiettivi e ipotesi
Si intendeva indagare l’impatto della quantità di tempo passata al nido (ore medie al giorno nell’arco di due mesi dopo
l’inserimento) su alcuni comportamenti che possono indicare disagio affettivo e maggiore o minore adattamento . Sulla base
delle precedenti ricerche, ci si attendeva che tempi elevati ( in particolare oltre le otto ore) possano incidere negativamente
su tali comportamenti, anche in nidi di qualità mediamente buona.
Metodo
Partecipanti. Nel piano generale di una ricerca più ampia sono stati coinvolti 110 bambini inseriti in 7 nidi pubblici e le loro
educatrici; la composizione sociale risulta mista;sono stati rilevate le variabili socioculturali relative a professione e livello
di istruzione dei genitori. Nella presente indagine sono stati considerati 82 bambini dai 12 ai 34 mesi. La qualità dei nidi è
stata controllata con la scala SVANI, risultando relativamente costante e sopra alla media nazionale nei 7 nidi.
Strumenti. E’ stato usato un questionario di valutazione dell’adattamento al nido, già sperimentato e validato anche con
osservazioni dirette (Varin, Riva Crugnola, Molina e Ripamonti, 1996), che presenta un alfa di 0.84,ed è composto da 50
item tipo Likert, ed è stato applicato dopo un’osservazione focalizzata da parte dell’educatrice di riferimento durata 3 mesi,
verso la fine dell’anno scolastico. Sono valutati comportamenti dei bambini legati a manifestazioni di benessere o di
disagio, come la qualità della comunicazione con adulti e compagni, il pianto durante la giornata, la frustrabilità, il
comportamento al momento dell’ingresso e del ricongiungimento.
Procedimento. Nella presente indagine sono stati elaborati i dati relativi ai rapporti fra le ore passate al nido ( per i bimbi che
passano almeno sei ore al giorno) e diversi aspetti del comportamento valutati dall’educatrice. Analizzata la distribuzione
della durata media delle ore passate al nido, i dati del questionario sono stati trattati con regressione multipla.
Risultati
Controllando l’età e il livello socioeconomico, la frequenza oraria considerata per i bambini che passano almeno 6 ore al
nido) è associata con manifestazioni di frustrabilità (F= 3.457,p< .05) e maggiore frequenza di comportamenti
evitanti/resistenti nel momento del ricongiungimento con genitori o parenti (F=5.42,p<.05).In particolare, per 21 bambini
che passano al nido più di 8 ore al giorno, la percentuale di coloro che manifestano ricongiungimenti difficili è il doppio di
quelli che passano un tempo minore.
Discussione dei risultati
Viene confermata l’ipotesi che trascorrere troppo ore al nido ( e in particolare più di 8) può comportare disagio ( espresso
nella maggiore frustrabilità e più frequenti difficoltà di ricongiungimento) per alcuni bambini; oltre a ciò, è emerso che
questo può accadere anche in nidi di qualità mediamente buona. Le difficoltà nel ricongiungimento pomeridiano non
segnalano necessariamente una diminuzione significativa della sicurezza dell’attaccamento, ma esprimono il disagio di una
lunga permanenza fuori casa e dell’attesa frustrata del ritorno del genitore.Ferme restando le implicazioni sociali, la ricerca
e la sperimentazione in ambito educativo hanno il compito di approfondire se e come questi problemi possono essere
ridimensionati.
Keywords
Center based care, hours of care, discomfort
200
Sezione tematica 8
MEMORIA, FUNZIONI ESECUTIVE E RAGIONAMENTO
Coordina: Sergio Morra
Università degli studi di Genova
201
LA COMPRENSIONE DEL TESTO NELLA SINDROME DI DOWN È LEGATA A UNA MEMORIA CAPIENTE
O A UNA MEMORIA EFFICIENTE?
MAJA ROCH
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e dei processi di Socializzazione, Università di Padova
[email protected]
Introduzione
L’obiettivo del presente studio era quello di analizzare il ruolo giocato rispettivamente dalla memoria a breve termine
(funzione di immagazzinamento) e dalla memoria di lavoro (funzione di immagazzinamento e di elaborazione) nella
comprensione del testo scritto in un gruppo di persone con sindrome di Down.
La sindrome di Down, oltre ad essere caratterizzata da ritardo cognitivo e da abilità linguistiche deficitarie, è associata ad una
marcata compromissione della memoria verbale (Jarrold & Baddeley, 1997). Le evidenze empiriche testimoniano un deficit
della memoria a breve termine verbale che non può essere spiegato solo dal livello cognitivo raggiunto. Diversi studi
dimostrano una prestazione scarsa delle persone con sindrome di Down in compiti di memoria a breve termine verbale
rispetto ai compiti di memoria a breve termine visuo-spaziale e una prestazione deficitaria ai compiti di memoria a breve
termine verbale rispetto ai bambini con sviluppo tipico di pari livello cognitivo (Laws, 1998; 2004). Oltre al deficit a carico
della memoria a breve termine verbale (misurato solitamente con compiti di span diretto), le persone con sindrome di Down
riportano un deficit anche e soprattutto in compiti di memoria di lavoro complessi, come lo span inverso, che si
caratterizzano per il coinvolgimento di aspetti di mantenimento ma anche di elaborazione dell’informazione linguistica
(Vicari et.al, 1995). Una difficoltà così evidente nella capacità di memorizzare e soprattutto di elaborare materiale linguistico
ha inevitabili conseguenze per lo svolgimento dei compiti inerenti l’apprendimento scolastico, tra cui la comprensione del
testo scritto. Gli studi condotti con bambini con sviluppo tipico dimostrano che la memoria di lavoro è una delle principali
componenti cognitive associata alla comprensione del testo: le differenze individuali nella comprensione del testo sono
associate non tanto alla capacità di mantenimento temporaneo del materiale linguistico, quanto piuttosto all’efficienza della
memoria di lavoro, intesa come capacità di mantenere e parallelamente manipolare il materiale in entrata (Daneman &
Carpenter, 1983). Il presente studio si inserisce all’interno di questo filone di ricerche che hanno esaminato il ruolo
dell’efficienza della memoria di lavoro nella comprensione del testo: questa idea è stata utilizzata come punto di partenza per
verificare tale ipotesi in un gruppo di persone con sindrome di Down.
L’ipotesi dello studio è che, analogamente a quanto avviene nello sviluppo tipico, anche nella sindrome di Down la memoria
di lavoro che implica sia processi di mantenimento che di elaborazione del materiale linguistico sia più predittiva della
comprensione del testo scritto di quanto non lo sia la capacità di semplice mantenimento.
Metodo
Partecipanti: 32 persone con sindrome di Down di età compresa tra 7 anni e 7 mesi e 18 anni e 1 mese e 32 bambini con
sviluppo tipico di prima elementare di età compresa tra 6 anni e 1 mese e 7anni e 3 mesi appaiati ai partecipanti con
sindrome di Down sulla base del punteggio riportato al compito di comprensione del testo scritto.
Materiale
- Prova di comprensione del testo scritto MT (Cornoldi & Colpo, 1998): in seguito alla lettura autonoma di una storia
vengono poste 10 domande di comprensione con risposte a scelta multipla
- Prova di span di parole diretto (funzione di mantenimento): viene chiesto ai partecipanti di ripetere una serie di liste di
parole, di quattro livelli di difficoltà crescente, a seconda del numero di parole contenute nella serie (da 2 a 5) nello stesso
ordine in cui vengono presentate
- Prova di span di parole inverso (funzione di mantenimento + elaborazione): il compito è analogo a quello precedente con la
differenza che le parole devono essere rievocate nell’ordine inverso rispetto alla loro presentazione
Risultati
I punteggi ottenuti alle tre prove sono stati sottoposti ad una serie di analisi corellazionali e di regressione gerarchica per
passi. I risultati evidenziano che, a parità di comprensione del testo scritto, i partecipanti con sindrome di Down riportano
una prestazione inferiore a entrambe i compiti di memoria, rispetto ai bambini con sviluppo tipico. Tuttavia, in entrambe i
gruppi le differenze individuali nella comprensione del testo scritto sono associate all’efficienza della memoria di lavoro: è lo
span inverso, ma non lo span diretto a predire il livello di prestazione al compito di comprensione del testo scritto.
Conclusioni
I partecipanti con sindrome di Down mostrano una ridotta efficienza della memoria di lavoro se confrontati con i bambini
con sviluppo tipico aventi un analogo livello di comprensione del testo; ma nonostante questa differenza, l’influenza
esercitata dall’efficienza della memoria sulla comprensione del testo è molto simile nelle due popolazioni. I risultati vengono
discussi alla luce della loro portata teorica ed applicativa.
Keywords
Down syndrome; working memory; text comprehension
202
COMPRENSIONE DEI NUMERI RAZIONALI E MEMORIA DI LAVORO
CHIARA DELFANTE, SERGIO MORRA
DiSA, Sezione di Psicologia, Università degli studi di Genova
[email protected]
Introduzione
In letteratura molti studi hanno riportato difficoltà dei bambini con le frazioni e suggerito diverse modalità di insegnamento
(ad es., Fuson, 2005). Case (1992; Case & Okamoto, 1996) sostiene che la “struttura concettuale centrale” del numero sia il
fulcro della comprensione concettuale e dell’abilità di ragionamento in matematica e che lo sviluppo della memoria di lavoro
sia, a sua volta, un prerequisito essenziale dello sviluppo di tale struttura concettuale.
Questo studio esamina il ruolo, nella cognizione matematica, della memoria di lavoro come risorsa dominio-generale basata
su processi attentivi (Pascual-Leone, 1987), e di altri fattori quali le funzioni esecutive. Abbiamo adattato per la scuola media
italiana un curriculum per la comprensione del numero razionale (Moss & Case, 1999), focalizzato sulle differenti forme
della rappresentazione numerica e sui diversi significati dei numeri razionali nell’esperienza reale. Il curriculum è stato
inoltre integrato con attività di insegnamento delle proporzioni basate sull’ Apprehending Zone Model (Fuson &
Abrahamson, 2005).
Metodo
Hanno partecipato allo studio due prime e due seconde medie per un totale di 92 bambini. Nella prima fase a tutti i soggetti
sono stati somministrati i seguenti test: MAT-2 di abilità matematica, il Rational Number Test (Moss & Case, 1999), e
diversi test di M capacity e altri aspetti di memoria di lavoro e funzioni esecutive (FIT, Mr. Cucumber, Listening Span, span
di cifre e di parole avanti e indietro, Trail Test). Nella seconda fase è stato svolto nel gruppo sperimentale, composto da una
prima e da una seconda, il curriculum per l’insegnamento del numero razionale, mentre nelle altre classi il programma è stato
svolto nella maniera usuale dai loro insegnanti. Nella terza fase saranno somministrati nuovamente tutti i test, per capire
come il nuovo curriculum possa aiutare i bambini nell’apprendimento del numero razionale e come la M capacity e altri
fattori cognitivi interagiscano col curriculum rispetto all’apprendimento dei concetti matematici nel bambino.
Risultati
I risultati della prima fase mostrano una correlazione positiva tra la M capacity e la performance matematica, specialmente
per quanto riguarda 3 scale: l’intercambiabilità della rappresentazione, che si riferisce alla capacità di muoversi tra diverse
rappresentazioni dei numeri razionali: percentuali, frazioni e numeri decimali (r = .347, p < .01), la capacità di calcolo nonstandard, che riguarda la soluzione di problemi inversi che coinvolgono percentuali e numeri decimali (r = .471, p < .01 e la
capacità di rispondere correttamente pur in presenza di stimoli fuorvianti (r = .435, p < .01).
Keywords
Working Memory, Rational number, math comprehension
203
LO SVILUPPO DELLA CONOSCENZA DELLE FORME GEOMETRICHE DAI 4 AI 6 ANNI
IRENE CRISTINA MAMMARELLA (1), DANIELA LUCANGELI (2)
(1) Dipartimento di Psicologia Generale, Università degli Studi di Padova
(2) Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università degli Studi di Padova
[email protected]
Introduzione
Nel corso degli ultimi decenni la psicologia dell’apprendimento ha avuto il grande pregio di apportare notevoli contributi alla
descrizione dei processi cognitivi implicati nel calcolo e nella soluzione dei problemi. Per quel che riguarda la geometria ciò,
purtroppo, non è avvenuto. Dopo gli studi pionieristici di Piaget, infatti, poco interesse è stato rivolto a questa disciplina.
Secondo Piaget e Inhelder (1948) già a quattro anni i bambini sono in grado di stabilire dei rapporti di tipo topologico mentre
per una corretta rappresentazione dei rapporti spaziali proiettivi ed euclidei bisogna aspettare fino agli 8-9 anni (Piaget,
Inhelder, & Szeminska, 1948; Piaget & Inhelder, 1966). Studi successivi (Lovell, 1959; Page, 1959), tuttavia, hanno messo
in discussione i risultati degli studi di Piaget e Inhelder e negli anni ’80 è stata proposta una teoria alternativa sullo sviluppo
del pensiero geometrico (Van Hiele, 1986), seguita da successivi arrangiamenti (Clements & Battista, 1992).
La presente ricerca si propone di fare chiarezza sulle competenze acquisite dai bambini di 4, 5 e 6 anni riguardo alla
conoscenza delle forme geometriche.
Metodo
Partecipanti: hanno partecipato 240 bambini della scuola dell’infanzia (4 e 5 anni) e del primo anno della scuola primaria (6
anni).
Materiali: la prova, che prevede una somministrazione individuale, comprende diverse attività quali:
·Riconoscimento di figure e nominazione – vengono presentati un quadrato, un rettangolo, un rombo ed un triangolo e viene
chiesto al bambino se conosce le forme presentate ed infine se ne conosce il nome;
·Classificazione – accoppiare più figure (quadrato, rettangolo, triangolo e rombo) che sono identiche, o variano in
dimensione ed orientamento;
·Ricomposizione di figure – riuscire ad individuare, a partire da due forme geometriche, quale figura si viene a formare (al
bambino non viene data la possibilità di manipolare le due forme, ma l’operazione deve essere svolta mentalmente);
·Differenze – esplicitare il perché due figure sono diverse tra loro (es. perché una ha tre lati e un’altra quattro), in base alla
risposta i bambini sono divisi in fasce. Alla fascia 0 se viene riferito che le figure sono uguali, 1 se diverse per un aspetto
percettivo, 2 se diverse per due spetti percettivi ed infine 3 se vengono menzionati concetti geometrici rilevanti, seguendo
l’ultima versione della teoria di Van Hiele (1986; Clements & Battista, 1992);
·Colorazione – colorare tutte le figure di uno stesso tipo (es. quadrati) non colorare tutte le altre figure presenti anche se
simili a livello percettivo.
Risultati
Risultati preliminari permettono di poter effettuare le seguenti conclusioni:
·Riconoscimento di figure – non si sono osservate differenze di età nel riconoscimento del quadrato, metà dei bambini di 4
anni non era in grado di nominare il quadrato, mentre la maggior parte dei bambini di 5 e 6 anni lo denominava
correttamente. Il rettangolo: la maggior parte dei bambini dai 4 ai 6 lo riconoscevano, ma la quasi totalità dei bambini di 4 ed
una grossissima parte dei bambini di 5 non erano in grado di nominarlo; al contrario circa la metà dei bambini di 6 anni era
in grado di farlo. Triangolo: i risultati dei 4 e 5 sono simili a quelli del rettangolo, si discostano invece i bambini di 6 anni tra
i quali la quasi totalità era in grado di nominarlo. Rombo: rappresenta la figura che si differenzia maggiormente dalle altre,
non tanto per il riconoscimento, quanto per il fatto che soltanto una piccolissima parte dei bambini dai 4 ai 6 riusciva ad
individuarne il nome; nonostante questo, però, gli stessi bambini, nella prova di Colora le Figure, erano in grado
d’individuarlo correttamente circa il 90% delle volte; Tali risultati sono coerenti con quelli osservati in ricerche precedenti
(Fuson & Murray, 1978; Klein, et al. 1999; Clements, et al. 1999).
·Classificazione - in tali prove è emersa una differenza tra i bambini di 4 e quelli di 5 e 6 anni in quanto questi ultimi due
gruppi riconoscevano correttamente la gran parte delle figure;
·Ricomposizione di figure – lo sviluppo dell’abilità di ricomporre le figure sembra avere un andamento lineare in media
verso i 4 anni i bambini riescono a ricomporre 1,5 figure su 6, i 5 anni ne ricompongono 3 su 6, ed infine i 6 anni 4,5 su 6;
·Differenze – a 4 anni i bambini non riescono mai a raggiungere la fascia tre che è, invece, raggiunta a 5 e 6 anni;
·Colora le figure – anche in questo caso i dati sembrano indicare che lo sviluppo avvenga in modo lineare (i bambini di 6
anni colorano più figure dei 5 anni che a loro volta colorano più figure dei 4 anni). Per quanto riguarda il tipo le figura
maggiormente colorate sembrano essere quadrato e rombo, il triangolo ed il rettangolo sono le figure colorate meno
correttamente.
Il presente contributo si propone di promuovere la ricerca ed un maggiore interesse verso lo sviluppo della conoscenza delle
forme geometriche e verso lo sviluppo del pensiero geometrico in generale.
Keywords
geometrical thinking, geometric development, visuospatial ability
204
VALUTAZIONE DELLA MEMORIA VISUO-SPAZIALE IN BAMBINI CON SPECIFICHE DIFFICOLTÀ
NELLA SOLUZIONE DEI PROBLEMI
MARIA CHIARA PASSSOLUNGHI (1), IRENE MAMMARELLA (2)
Facoltà di Psicologia, Università di Trieste (1)
Facoltà di Psicologia, Università di Padova (2)
[email protected]
Vari studi ipotizzano la natura multi-componenziale della sistema relativo al taccuino per appunti visuo-spaziale (VSSP) del
modello della memoria di lavoro di Baddeley (1986, 1996), tuttavia manca tuttora un unanime consenso sulla distinzione e
individuazione dei suoi elementi costituitivi (Gathercole & Pickering, 2006; Miles, Morgan, & Milne, 1996; Vecchi &
Richardson, 2001; Vandierendonck, Kemps, Fastame, & Szmalec, 2004; Vandierendonck & Szmalec, 2005). Una delle
differenziazioni generalmente proposte è quella relativa alle componenti visive e spaziali (Logie, 1995; Baddeley &
Lieberman, 1980), ciò nonostante non è stata ancora presa in esame la specifica influenza di tali sotto-sistemi
nell’apprendimento matematico.
L’obiettivo di tale ricerca è analizzare il ruolo delle sotto-componenti visive e spaziali della memoria di lavoro in gruppi di
bambini con difficoltà specifiche nella soluzione dei problemi, messi a confronto con compagni con abilità matematiche
nella norma (appaiati per età, scolarità, genere, abilità di comprensione dei testi, e livello intellettivo).
Ai partecipanti (età compresa fra i 9 e 11 anni), sono stati proposti compiti di memoria di lavoro volti a valutare il circuito
fonologico, l’esecutivo centrale, e le componenti visive e spaziali (cfr. Passolunghi & Cornoldi, 2008). In due studi separati
si è osservato che gli studenti con difficoltà specifiche nella soluzione dei problemi, dimostrano prestazioni peggiori rispetto
al gruppo di controllo, in prove di memoria di lavoro volte a valutare le componenti spaziali della memoria di lavoro, ma non
in prove di tipo visivo e in compiti volti a valutare il circuito fonologico. L’analisi discriminante condotta sui dati raccolti ha
evidenziato che i compiti di memoria di lavoro spaziale e quelli volti a valutare l’esecutivo centrale, sono le variabili che
meglio distinguono l’inclusione nei due gruppi. I risultati dimostrano che l’abilità di soluzione dei problemi è relata
all’abilità di analisi di tipo spaziale, che favorisce la capacità di manipolare, collegare e trasformare le informazioni rilevanti
per la soluzione contenute nel problema, al contrario non si è osservata alcuna relazione positiva fra capacità risolutiva e
abilità di memoria visiva, volta a ricordare dettagli pittorici (cfr. Hegarty and Kozhevnikov, 1999; Kozhevnikov, Hegarty, &
Mayer, 2002). Tali risultati saranno discussi considerando anche modelli alternativi a quello di Alan Baddeley della memoria
di lavoro.
Keywords
working memory, mathematical disability, spatial ability
205
DISEGNO E TRAIETTORIE EDUCATIVE: GLI EFFETTI DI UN PERCORSO DI POTENZIAMENTO SULLE
CAPACITÀ DI CAMBIAMENTO RAPPRESENTAZIONALE IN ETÀ EVOLUTIVA.
DILETTA DE BERNART
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Firenze
[email protected]
[email protected]
Introduzione
L’attività pittorica può essere assimilata ad uno strumento di comunicazione che, al pari di altre forme di espressione,
richiede al bambino di imparare a tradurre determinati significati in significanti riconoscibili e comprensibili (Cox, 2005); il
bambino acquisisce così, nel corso dello sviluppo, una serie di equivalenti pittorici atti a comunicare determinate
informazioni attraverso forme ed immagini (Bombi, Pinto & Cannoni, 2007). L’acquisizione di questo repertorio esecutivo,
come anche la possibilità di una sua variazione flessibile in risposta a precise intenzioni comunicative (Berti & Freeman,
1997), dipendono in parte dal peso esercitato da una buona predisposizione individuale sullo sviluppo di adeguate capacità di
espressione iconica, in parte dal ruolo dell’ambiente - di cui fanno parte le immagini delle quali il bambino può usufruire e
gli specifici percorsi di apprendimento che vengono per lui predisposti - nello stimolare il ricorso a strategie di
rappresentazione grafica sempre più flessibili e adeguate (Trautner e Milbrath, 2008). Il presente contributo si colloca in
questa prospettiva con l’obiettivo di analizzare le possibilità educative connesse all’acquisizione del linguaggio grafopittorico; in particolare intendiamo valutare l’efficacia di un percorso di potenziamento pensato per promuovere
l’elaborazione e la progettazione di soluzioni originali a livello grafico sulla capacità di rispondere in maniera adeguata a un
compito di differenziazione pittorica attraverso l’impiego di strategie flessibili per la realizzazione di due disegni di uno
stesso oggetto, la casa, fatti per due intenti diversi: “informativo” in un caso, “estetico” nell’altro.
Metodo
La ricerca ha coinvolto 76 bambini, 41 maschi e 35 femmine, di età compresa tra i 10 e i 12 anni (età media: 11.10; d.s.:
0.96). I partecipanti sono stati divisi in due gruppi, sperimentale e di controllo, seguendo un disegno test-retest, con una
rilevazione ripetuta in due tempi separati da un periodo di training svolto dal solo gruppo sperimentale. A ciascun bambino è
stato chiesto di eseguire due disegni di casa: 1)“uno fatto in modo da far capire cosa è una casa, come se una persona che non
ha mai visto una casa dovesse capirlo dal vostro disegno”; 2)“uno fatto per fare una casa il più bella possibile, la più bella
che vi riesce”. Nel periodo intercorso tra la prima e la seconda rilevazione, i bambini appartenenti al gruppo sperimentale
hanno seguito un percorso di potenziamento composto da attività pensate per promuovere le capacità di problem solving e di
gestione delle strategie applicate a un compito grafo-pittorico; il gruppo di controllo ha invece continuato la normale attività
didattica relativa all’area di educazione artistica. Al termine di questo periodo, è stata ripetuta la raccolta dei disegni con le
stesse modalità utilizzate nel pre-test. I disegni così raccolti sono stati classificati a un primo livello qualitativo attraverso la
valutazione dell’efficacia con cui ciascun bambino ha risposto al compito propostogli. Un secondo livello di analisi si è
basato sulla classificazione dei disegni attraverso un sistema di valutazione della flessibilità pittorica infantile composto da
sei indici o strategie di differenziazione pittorica che ha permesso di ottenere una misura quantitativa del grado di flessibilità
rappresentazionale introdotto dai bambini nei loro disegni. I dati così ottenuti sono stati trattati allo scopo di confrontare il
livello di efficacia comunicativa e l’utilizzo delle strategie riportati dai due gruppi nel compito di differenziazione pittorica
prima e dopo il percorso di potenziamento (analisi della varianza per misure ripetute con disegno 2X2).
Risultati
Nel gruppo sperimentale risulta sensibilmente aumentato il numero di bambini in grado di differenziare i due disegni in
maniera coerente con il tipo di compito proposto, mentre non si evidenziano incrementi significativi all’interno del gruppo di
controllo. Emergono inoltre importanti differenze tra i due gruppi, prima e dopo il percorso di potenziamento: i bambini
appartenenti al gruppo sperimentale risultano fare un maggior utilizzo delle strategie legate agli aspetti ideativi, sia a livello
di numero di elementi utilizzati che di soluzione rappresentativa adottata, ed esecutivi, attraverso l’impiego di particolari
tecniche realizzative, per differenziare i due disegni. La maggiore capacità di soluzione di compiti grafici attraverso l’uso di
strategie di cambiamento rappresentazionale risulta quindi passare attraverso l’utilizzo mirato di alcune strategie più che di
altre, suggerendo che l’attenzione posta agli aspetti ideativi, oltre che esecutivi, del disegno sia alla base della possibilità di
promuovere le abilità di flessibilità rappresentativa nella misura in cui permette ai bambini di attivare ulteriori risorse nel
momento in cui si accingono a “pensare un disegno diverso”.
Keywords
Cognitive development, drawing, representational change
206
FUNZIONI DELLA MEMORIA DI LAVORO VISUO-SPAZIALE E CAPACITÀ DI DISEGNO IN STUDENTI
ADOLESCENTI: UNO STUDIO ESPLORATIVO
MARIA CHIARA FASTAME *°, PAOLA PALLADINO*, TOMASO VECCHI*
*Dipartimento di Psicologia, Università di Pavia
° Dipartimento di Scienze Umanistiche e dell’Antichità, Università di Sassari
[email protected]
Introduzione
Alcune evidenze sperimentali (es. Bensur e Eliot, 1993; Morra, Moizo e Scopesi, 1988) dimostrano che lo sviluppo della
Memoria di Lavoro (ML) è correlato all’acquisizione della capacità di disegno. In particolare, abbracciando i modelli
neopiagetiani di ML proposti da Case (1985) e Pascual-Leone (1987), Dennis (1987) e Morra e coll. (1988) ritengono che la
ricchezza e la complessità dei disegni dei bambini dipendano dalla loro capacità di mantenere temporaneamente o elaborare
gli schemi figurativi (rappresentazioni mentali semplici e stereotipate di categorie di oggetti) e operativi (rappresentazioni
mentali di tipo procedurale) necessari per rappresentare la scena. Varie evidenze sperimentali suggeriscono l’esistenza di una
dissociazione tra i processi della ML in funzione della natura (es. visiva, spaziale, uditiva) degli stimoli, della modalità di
presentazione (sequenziale o simultanea) del materiale e del livello di risorse cognitive richiesto per mantenere passivamente
o elaborare in modo attivo le informazioni. Pertanto, alla luce del Modello continuo di ML proposto da Cornoldi e Vecchi
(2003), il presente studio è stato condotto al fine di indagare: 1) se il livello di expertise nella produzione grafica acquisito
dagli studenti in funzione del tipo di curriculum scolastico influenza la prestazione nel compito di disegno; 2) se esiste una
relazione tra la natura (visuo-spaziale, spaziale) dei processi della ML e la modalità (visiva versus bendata) in cui il disegno
viene prodotto, ossia se l’efficienza dei primi predice l’accuratezza delle rappresentazioni grafiche.
Metodo
54 adolescenti (età media 17, 08 anni), frequentanti il liceo classico, il liceo scientifico e il liceo artistico di Cosenza e Pavia
hanno preso volontariamente parte all’Esperimento 1. Il tipo di scuola frequentato è stato manipolato al fine di verificare se il
numero di lezioni settimanali dedicate ad attività che richiedono principalmente l’elaborazione di materiale visuo-spaziale
(es. disegno, geometria) influenza la prestazione nel compito di disegno. Per indagare il ruolo svolto dall’esperienza visiva
nella rappresentazione grafica, il disegno di uno stimolo noto (casa o automobile) è stato prodotto in modalità bendata e
visiva. Nella prima condizione, la rappresentazione grafica è stata realizzata impiegando un dispositivo utilizzato dai ciechi
per disegnare, in modo che i segni tracciati apparissero in rilievo. In condizione visiva invece l’oggetto è stato disegnato su
un foglio bianco di formato A4. Le produzione grafiche sono state valutate secondo una serie di criteri oggettivi definiti a
priori, che intendevano offrire tre punteggi relativi al livello di complessità, di qualità formale e del rispetto delle relazioni
spaziali tra gli elementi rappresentati. Quindi sei compiti di ML, distinti per la modalità di presentazione degli stimoli
(simultanea o sequenziale), per la natura dei processi coinvolti (attivi vs. passivi) e per la componente di ML coinvolta
(spaziale vs. visuo-spaziale) sono stati somministrati. I compiti sono stati definiti spaziali quando i partecipanti venivano
bendati e quindi esploravano per via tattile gli stimoli (es. posizioni su una matrice) da mantenere e/o elaborare. Il tipo di
oggetto (automobile vs. casa), la modalità di esecuzione dei disegni (visiva vs. bendata) e l’ordine di presentazione dei
compiti di ML sono stati controbilanciati tra i partecipanti secondo la procedura del quadrato latino. Ogni studente è stato
testato individualmente in un’aula silenziosa dell’istituto scolastico frequentato.
All’esperimento 2 hanno preso parte 54 giovani studenti (età media 18,1) frequentanti i suddetti licei. Il metodo è identico a
quello impiegato nell’esperimento 1 con la sola eccezione che la capacità di elaborazione e il mantenimento passivo di
informazioni visuo-spaziali o spaziali, presentate in modo simultaneo o sequenziale, sono state valutati mediante una batteria
di sei compiti di ML diversi dai precedenti.
Risultati
L’effetto del Tipo di scuola frequentato influenza la prestazione nel compito di disegno eseguito in condizione bendata e
valutato in termini di complessità e rispetto delle relazioni spaziali. In particolare, gli studenti del liceo scientifico hanno
aggiunto più dettagli agli oggetti rispetto agli studenti degli altri licei. Inoltre, il rispetto delle relazioni spaziali tra gli
elementi era maggiore nei disegni degli studenti del liceo scientifico in confronto a quelli dei ragazzi frequentanti il liceo
artistico. Tuttavia, questi ultimi avevano acquisito delle conoscenze metacognitive sul disegno migliori rispetto a quelle degli
altri due gruppi. Infine, le funzioni della ML visuo-spaziale e spaziale sono in grado di predire la prestazione degli studenti
nel disegno, ovvero i processi attivi e passivi della ML non verbale condizionano in modo selettivo l’accuratezza della
rappresentazione grafica, soprattutto quando essa è eseguita senza il supporto dell’esperienza visiva.
Keywords
drawing, visuo-spatial working memory
207
LE FUNZIONI ESECUTIVE IN ETÀ PRESCOLARE:
CONTRIBUTO ALL’INDIVIDUAZIONE DEL COSTRUTTO
M. CARMEN USAI, PAOLA VITERBORI, VALENTINA DE FRANCHIS, LAURA TRAVERSO
Dipartimento di Scienze Antropologiche, Università di Genova
[email protected]
Introduzione
Nel corso dello sviluppo i bambini diventano sempre più abili nel controllo del comportamento e dei propri processi
cognitivi; tale processo è stato associato allo sviluppo delle funzioni esecutive (FE) che possono essere definite come
l’insieme dei processi cognitivi alla base dei comportamenti finalizzati complessi. La natura unitaria o multidimensionale del
costrutto delle FE è oggetto di dibattito. Studi su adulti e bambini in età scolare (Miyake, Friedman, Emerson, Wiztki,
Howerter e Wager, 2000; Lehto, Juujärvi, Kooistra e Pulkkinen, 2003) propongono una tassonomia delle FE basata su tre
componenti indipendenti, ma moderatamente correlate: flessibilità cognitiva (shifting): la funzione che permette il passaggio
da una operazione mentale a un’altra e il controllo dell’effetto di interferenza reciproca tra le due operazioni; b)
aggiornamento della memoria di lavoro (updating): la funzione di aggiornamento e monitoraggio delle informazioni nella
memoria di lavoro; c) inibizione (inhibition): la funzione di soppressione volontaria di risposte automatiche o predominanti
che possono interferire con il comportamento finalizzato.
Meno chiara appare la struttura del costrutto in età prescolare. Klenberg, Korkman, Lahti-Nuuttila (2001), analizzando le
traiettorie di sviluppo delle FE dai 3 ai 12 anni, suggeriscono un modello di sviluppo sequenziale delle FE, in cui l’inibizione
precede la comparsa più tardiva delle funzioni complesse.
L’obiettivo principale del presente studio è contribuire all’identificazione del costrutto delle FE in età prescolare.
Metodo
Il campione è costituito da 200 bambini frequentanti l’ultimo anno della scuola per l’infanzia.
I bambini sono stati sottoposti individualmente a una batteria di prove per la valutazione di: attenzione (Test delle
campanelle), memoria a breve termine (span di cifre avanti e test di Corsi), memoria di lavoro (MdL, span di cifre indietro e
Corsi indietro), pianificazione (Torre di Londra e Figura complessa B di Rey), inibizione (Day-night Stroop test e Circle
drawing test) e flessibilità cognitiva (shifiting, Fluenza categoriale e DCCS di Zelazo, 2006). È stato inoltre valutato il livello
cognitivo generale e il linguaggio recettivo (CPM di Raven e Peabody Picture Vocabulary Test).
Analisi dei dati: correlazioni parziali fra misure delle FE controllando per la modalità coinvolta dal compito, verbale vs
visuospaziale; analisi delle componenti principali e analisi fattoriale confermativa.
Risultati
La raccolta dei dati è ancora in corso, per tale ragione si riportano i risultati di uno studio preliminare condotto su un
campione ridotto (55 bambini).
L’età dei bambini induce a prendere in considerazione l’influenza della modalità verbale o visuospaziale richiesta dal
compito (Denckla, 1996; van der Sluis, De Jong, Van der Leij, 2007). Per tale ragione è stata eseguita un’analisi delle
correlazioni parziali, volta a controllare l’effetto della modalità del compito. La matrice di correlazione che ne risulta
evidenzia coefficienti di correlazione moderati ma significativi fra la torre di Londra e la fluenza categoriale (.34, p<0.05) e
fra la torre di Londra e la prova di Stroop (0.49, p<0.01). In accordo con i risultati presentati anche da Lehto et al. (2003),
quest’ultimo dato suggerisce come il test della Torre di Londra utilizzato in età evolutiva possa evidenziare maggiormente la
componente di inibizione.
Dall’analisi delle componenti principali risulta una soluzione (autovalore>1, 58% di varianza spiegata) che individua due
fattori: il primo fattore (33% di varianza) appare eterogeneo e comprende capacità di memoria, di attenzione sostenuta, di
shifting; il secondo (25% di varianza) sembra isolare la componente di inibizione rappresentata dalla prova di Stroop e dal
test della Torre di Londra. Tale risultato è compatibile con l’ipotesi che in età prescolare non si riscontri un costrutto
multidimensionale delle FE, ma che solo la capacità di inibizione si configuri già come un fattore indipendente nell’emergere
delle FE.
Keywords
executive function, development, preschool children
208
IL RAGIONAMENTO INTUITIVO NEI BAMBINI:
LEGAME CON L’ABILITÀ MATEMATICA E L’ATTEGGIAMENTO VERSO LA FORTUNA
CRISTINA STRAGÀ, SARAH FURLAN, FRANCA AGNOLI
Università degli Studi di Padova
[email protected]
Introduzione
Nell’ambito del ragionamento probabilistico adulto una prova tipica di incongruenza decisionale è rappresentata da una
distorsione sistematica definita ratio bias nel compito delle due urne (Kirkpatrick ed Epstein, 1992). Il bias consiste
nell’ignorare l’equiprobabilità di estrazione di un elemento da un’urna piuttosto che dall’altra lasciandosi influenzare da
informazioni contestuali irrilevanti quali il frame (vincita o perdita). Ad esempio, se un’urna contiene 1 elemento vincente su
10, e l’altra ne contiene 10 su 100, le persone credono che sia più probabile vincere pescando dalla seconda urna (cioè quella
più numerosa).
Macpherson (2001) ha presentato il compito delle due urne a bambini e preadolescenti con scenari di vincita a bassa
probabilità di estrazione, ed è emerso che il fattore rilevante nella decisione è la numerosità assoluta degli elementi contenuti
nelle urne. Babai, Brecher, Stavy e Tirosh (2006) concludono che viene applicata la regola intuitiva "più A – più B", in base
alla quale prevarrebbe la regola "più palline vincenti ci sono, più probabilità si hanno di pescarle”. Inoltre questa ricerca ha
rilevato come, nel caso in cui la risposta corretta sia diversa dalla risposta intuitiva, i partecipanti con maggiori abilità
matematiche svolgano meglio il compito. La prestazione corretta al compito delle due urne correla positivamente anche con
il bisogno di cognizione (Need for Cognition) e negativamente con il grado in cui i soggetti si affidano alla fortuna
(Macpherson, 2001). Questi risultati ottenuti in età evolutiva rappresentano una prima conferma di ciò che molte ricerche
sugli adulti sostengono (Stanovich, 1999; Stanovich & West, 1998), e cioè che le differenze individuali sono un fattore
determinante nei compiti di ragionamento.
Se esiste quindi un’ampia letteratura sulla relazione tra differenze individuali, abilità cognitive e specifici compiti di
ragionamento negli adulti, le ricerche in età evolutiva sono scarse e frammentarie. Il presente studio affronta il possibile
legame tra l’abilità matematica, le concezioni sulla fortuna e la performance nel compito delle due urne in bambini e
preadolescenti.
Si è ipotizzato che nel compito delle due urne il comportamento decisionale dei bambini sia guidato da un bias di quantità,
mentre quello dei preadolescenti sia più simile agli adulti sia come aumento di risposte corrette che come manifestazione del
ratio bias; inoltre ci si aspetta che, per tutti i gruppi di età, a un aumento di risposte corrette nel compito delle due urne
corrisponda una maggiore abilità matematica e un minore livello di affidamento alla fortuna.
Metodo
L’esperimento è stato condotto con 128 partecipanti di cui 72 bambini/e della quarta classe della scuola primaria di primo
grado (M = 9:4, SD = 3:62) e 56 ragazzi/e della seconda classe della scuola secondaria di primo grado (M = 12:5, SD = 4:53)
a Trichiana (Belluno). Ogni partecipante 1) eseguiva due gruppi di problemi riguardanti il compito delle due urne
(probabilità di estrazione uguale e diversa), 2) eseguiva una prova di matematica composta da 9 item e 3) rispondeva alle
domande di un questionario sull’atteggiamento verso la fortuna (8 item tratti dal Thinking Dispositions Questionnaire di
Stanovich, 1999).
Risultati
I risultati al compito delle due urne mostrano che i/le bambini/e più piccoli manifestano il bias di quantità, per cui
preferiscono l’urna con numerosità maggiore di elementi secondo la regola intuitiva “più A – più B”. I/le ragazzi/e più grandi
applicano, invece, la regola normativa ma non vi è sistematicità; questo risultato sottolinea il fatto che la risposta intuitiva
mantiene un forte potere attrattivo, specie nelle urne con uguale probabilità di estrazione. Eseguendo un’analisi della
varianza fattoriale mista, è stata trovata un’interazione significativa tra i fattori “gruppo di età” e “probabilità di estrazione”
(uguale e diversa) con F (1, 126) = 15.88, p < .001, p2 = .11. Ciò significa che non ci sono differenze nella performance tra i
due gruppi di età nei problemi con probabilità diverse, mentre i bambini di 9 anni, rispetto ai preadolescenti, hanno una
performance molto bassa nei problemi delle due urne con uguale probabilità. I bambini più piccoli difficilmente contrastano
il pensiero intuitivo.
Soltanto nei ragazzi più grandi a una miglior prestazione nel compito delle due urne corrisponde una maggior abilità
matematica (r = .30, p < .05) e a una maggior abilità matematica corrisponde un minor grado di affidamento alla fortuna (r =
-.35, p < .05). Infine, a una migliore prestazione nel compito delle due urne corrisponde un minor grado di affidamento alla
fortuna (r = -.22, p < .05).
Questo studio evidenzia quindi come, in età evolutiva, ragionamento intuitivo e ragionamento analitico interagiscono in
compiti decisionali come quello delle due urne, entrambi legati a differenze di tipo individuale.
keywords
ratio-bias, probabilistic reasoning, luck
209
SVILUPPO DELLE FUNZIONI DI “MANTENIMENTO” E DI “MANIPOLAZIONE” DI SEQUENZE DI
OGGETTI NELLA MEMORIA DI LAVORO
FRANCESCA FEDERICO (1,2), ANTONINO RAFFONE (1), MARIA D’ALESSIO (1)
(1) Facoltà di Psicologia 1 Università di Roma "La Sapienza"
(2) Università degli Studi di Siena
[email protected]
La memoria di lavoro rappresenta la capacità di mantenere l’informazione in uno stato di elevata accessibilità (Baddeley,
1986) e migliora considerevolmente nel corso dello sviluppo (Case, 1995;Luna et al., 2004)
La capacità di tenere a mente una certa quantità di informazione è cruciale per alcune abilità cognitive, come ad esempio le
operazioni aritmetiche e il problem solving (Passolunghi e Cornoldi, 2008; Passolunghi e Siegel, 2004; Bayliss et al., 2005;
Swanson, 2004), e sono stati evidenziati grossi cambiamenti evolutivi nella capacità di mantenere l’informazione “on line”,
nei bambini di età scolare (es Cowan, 1997).
In particolare, la funzione dell’esecutivo centrale è legata ai cosiddetti compiti di memoria di lavoro complessi, i quali
includono gli span o capacità di lettura e ascolto di frasi, e la coordinazione dell’elaborazione di informazioni in input con la
ritenzione di frasi (Daneman e Carpenter, 1980).
Tipicamente tale funzione è stata valutata con compiti di span in avanti e all’indietro. Come evidenziato da Siegel (1993) tale
abilità è caratterizzata da un progressivo miglioramento dai 6 ai 15 anni.
In un recente studio di neuroimmagine (risonanza magnetica funzionale), Crone e collaboratori (2006) hanno confrontato la
performance e le attivazioni cerebrali in tre gruppi di età sia in un compito di ritenzione che di manipolazione in memoria di
lavoro. I tre gruppi di età considerati erano 8-12 anni, 13-17 anni e 18-25 anni. Nel compito di ritenzione venivano presentate
delle sequenze di tre oggetti, familiari e facilmente denominabili, con la consegna di indicare la posizione seriale di uno dei
tre oggetti estratto a caso, secondol’ordine di presentazione («in avanti») degli oggetti (ad esempio, premere il tasto 1 se
l’oggetto testato era il primo nella sequenza, e il tasto 3 se l’oggetto testato era il terzo nella sequenza di presentazione).
L’intervallo di ritenzione era di 6 secondi. Nel compito di manipolazione, invece, venivano presentate le stesse sequenze, con
le stesse modalità, ma con la consegna di attribuire una posizione seriale inversa all’oggetto testato (ad esempio, al primo
oggetto nella sequenza presentata veniva attribuito il tasto 3, e al terzo oggetto nella sequenza presentata veniva attribuito il
tasto 1). Chiaramente, nel compito di riconoscimento di posizione seriale invertita («indietro»), occorreva una operazione di
manipolazione dell’informazione ritenuta in memoria per invertirne l’ordine di presentazione. Le prove «in avanti» e
«indietro» si alternavano in modo casuale nei blocchi da eseguire, ed erano contrassegnate da un’etichetta verbale alla fine
della presentazione della sequenza. I soggetti nel gruppo di età 8-12 anni presentavano una performance inferiore in termini
di accuratezza e tempi di risposta rispetto agli altri due gruppi di età, particolarmente pronunciata nel compito di
manipolazione. Tale performance inferiore era correlata a una ridotta attivazione nei soggetti di età più bassa di aree
cerebrali, come la corteccia prefrontale dorsolaterale, associate a funzioni esecutive nel modello processo-specifico. In
contrasto, i soggetti di 8-12 anni non si differenziavano dagli altri gruppi di soggetti per attivazione di aree prefrontali
ventrolaterali, associate a ritenzione dell’informazione in memoria di lavoro. Tale risultato fornisce due importanti evidenze
sperimentali: da una parte un possibile coinvolgimento dell’area prefrontale dorsolaterale, in operazioni complesse di
manipolazione dell’informazione, dall’altra lo sviluppo più tardivo di questa area, rispetto ad altre aree cerebrali limitrofe,
implicate in compiti di ritenzione dell’informazione meno complessi. In un quadro di implicazioni più generali, questo studio
ha anche contribuito a dimostrare come studi neuropsicologici o di neuroimmagine di processi cognitivi in età evolutiva
possono contribuire a mettere in luce aspetti funzionali di grande rilievo in neuroscienza cognitiva. Notando che il gruppo di
soggetti con età 8-12 anni nello studio di Crone e collaboratori (2006) comprendeva una fascia d’ età troppo ampia,
includendo soggetti probabilmente differenziati per funzioni di ritenzione e manipolazione di informazioni in memoria di
lavoro, abbiamo voluto utilizzare lo stesso paradigma sperimentale e gli stessi stimoli usati nello studio di Crone e altri per
confrontare gruppi di soggetti di 6, 8 e 10 anni, con lo stesso paradigma sperimentale. I risultati mostrano l’esistenza di
differenze tra i tre gruppi di età sia per ritenzione che per manipolazione delle informazioni, con una particolare marcatura
delle differenze di performance tra i gruppi nei tempi di risposta nel compito di manipolazione. Questa evidenza
indicherebbe che funzioni di ritenzione e manipolazione in memoria di lavoro, plausibilmente associate a diverse regioni
prefrontali, si sviluppano in modo progressivo nella tarda infanzia e preadolescenza, con indicazioni di maggiori incrementi
per sviluppo di funzioni evolutive.
Keywords
working memory, maintenance, manipulation
210
L’ESECUTIVO CENTRALE IN INDIVIDUI CON SINDROME DI DOWN
SILVIA LANFRANCHI, ELISA DAL PONT, RENZO VIANELLO
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova.
[email protected]
Introduzione
La memoria di lavoro è definita da Baddeley e Hitch (1974) come un sistema a capienza limitata per il mantenimento e la
manipolazione di informazioni durante l’esecuzione di numerosi compiti cognitivi complessi come la comprensione, la
lettura, la scrittura, l’apprendimento ed il ragionamento.
Il modello di Baddeley (1996) ipotizza che la memoria di lavoro sia suddivisa in tre componenti principali: due magazzini, il
loop fonologico ed il taccuino visuo-spaziale, deputati rispettivamente all’immagazzinamento di informazioni di tipo verbale
e visuo-spaziale. Recentemente (Baddeley, 2000) è stata aggiunta una nuova componente l’episodic buffer, che risulta però
ancora poco studiata nei bambini piccoli e nelle popolazioni di individui con sviluppo atipico.
Numerosi studi sono stati condotti sulla memoria di lavoro in individui con sindrome di Down (vedi Baddeley and Jarrold,
2007 per una rassegna), dai quali emerge una compromissione del loop fonologico mentre i funzionamento del taccuino
visuo-spaziale risulta essere relativamente preservato. Poco ancora si sa sul funzionamento dell’esecutivo centrale. In un
lavoro precedente Lanfranchi et al (2004) hanno confrontato un gruppo di individui con sindrome di Down ed un gruppo di
bambini con sviluppo tipico della stessa età mentale in una serie di prove di memoria di lavoro verbale e visuo-spaziale
richiedenti livelli diversi di coinvolgimento dell’esecutivo centrale. Gli autori hanno rilevato che all’aumentare del
coinvolgimento dell’esecutivo centrale, i bambini con sindrome di Down avevano prestazioni inferiori a quelle dei bambini
con sviluppo tipico. Sulla base di questo risultato si potrebbe ipotizzare una compromissione dell’esecutivo centrale in
individui con sindrome di Down.
Per approfondire questa ipotesi abbiamo deciso di condurre uno studio più approfondito sulle caratteristiche dell’esecutivo
centrale in individui con sindrome di Down.
Metodo
Al presente studio hanno partecipato 11 individui con sindrome di Down (EC media 12;6 anni, DS 2;5) e 11 individui con
sviluppo tipico (EC media 4;5, DS 0;8) appaiati per età mentale sulla base del test OL (Vianello e Marin, 1997).
Ad entrambi i gruppi sono state proposte prove per la valutazione del loop fonologico (spen verbale e span verbale selettivo),
del taccuino visuo-spaziale (ricordo di percorsi e ricordo di percorsi selettivo) e di alcune funzioni attribuite all’esecutivo
centrale, come la divisione dell’attenzione (doppio compito verbale e visuo-spaziale), l’inibizione (night and day stroop task)
, il set shifting (MCST test) e lapianificazione (torre di londra).
Risultati
Due MANOVA, condotte rispettivamente sulle prove relative al loop fonologico e al taccuino visuo-spaziale, hanno
confermato quanto già presente in letteratura relativamente al loop fonologico e al taccuino visuo-spaziale, ovvero i bambini
con sindrome di Down hanno prestazioni inferiori a quelle dei bambini con sviluppo tipico nelle prove che coinvolgono il
loop fonologico mentre le prestazioni dei due gruppi sono equiparabili nelle prove che coinvolgono il taccuino visuospaziale. Per quanto riguarda l’esecutivo centrale una serie di ANOVA univariate ha mostrato che gli individui con sindrome
di Down hanno prestazioni inferiori a quelle degli individui con sviluppo tipico nel doppio compito verbale e visuo-spaziale,
nel test MCST, nella torre di londra, ma non nello stroop night and day task.
Conclusioni
Questi risultati fanno ipotizzare una ampia compromissione dell’esecutivo centrale che coinvolge funzioni quali la divisione
dell’attenzione, il set shifting e l’abilità di pianificazione. Tuttavia la funzione dell’inibizione risulta relativamente
preservata. Ovviamente è necessario approfondire ulteriormente questi risultati, sia ampliando il campione che studiando
anche altre funzioni cognitive collegate all’attività dell’esecutivo centrale.
Keywords
Down syndrome, working memory, central executive
211
Sessione tematica 9
APPRENDIMENTO NEL CONTESTO SCOLASTICO
Coordina: Bianca De Bernardi
Università di Verona
212
GLI EFFETTI DELL'AUTOMONITORAGGIO DELLA PERFORMANCE (SMP)
SULLA RISOLUZIONE DI PROBLEMI ARITMETICI IN BAMBINI DELLA SCUOLA PRIMARIA
MARTINA NANI, MARGHERITA BONFATTI SABBIONI
Facoltà di Psicologia, Università degli Studi di Parma
[email protected]
L’automonitoraggio è una tecnica che rende gli studenti direttamente responsabili della valutazione del proprio
comportamento mediante l’auto-osservazione delle proprie performance (attentive o accademiche) e l’auto-registrazione o
rappresentazione grafica delle stesse (DiGangi, Maag, Rutherford, 1991). L’auto-rappresentazione aumenta l’efficacia
dell’automonitoraggio poiché offre un feedback immediato dei progressi (auto-rinforzo) in grado di predire l’andamento
delle successive performance (DiGangi et al., 1991). Inoltre, l’automonitoraggio produce “reactivity”, un cambiamento
risultato dall’osservazione e dalla registrazione del proprio comportamento (Maag, Rutherford, DiGangi, 1993) che permette
ai soggetti di diventare responsabili del proprio processo educativo, promuovendo l’iniziativa e l’indipendenza, in aggiunta
alle conoscenze accademiche di base (Rooney, Hallahan, Lloyd, 2001).
In questo studio si vuole indagare l’efficacia dell’automonitoraggio nell’incrementare la performance scolastica, aumentare il
comportamento attentivo on-task e modificare variabili meta-cognitive come stile attributivo e autostima in alunni della
scuola primaria.
L’intervento ha coinvolto 16 studenti (12 maschi e 4 femmine) del 3° anno della scuola primaria di cui si sono stati valutati:
il livello di risoluzione dei problemi aritmetici sia in termini di accuratezza (numero di problemi aritmetici svolti
correttamente) che di velocità (numero di problemi aritmetici tentati), il comportamento on-task operazionalizzato in “stare
seduti composti, guardare l’insegnante, la lavagna o il quaderno e intervenire in modo appropriato”, lo stile attributivo e
l’autostima.
Il livello di performance di ciascun studente è stato rilevato attraverso un test criteriale di performance composto da tre
problemi aritmetici da svolgere in un tempo massimo di 10 minuti. Il comportamento on-task è stato misurato da due
osservatori indipendenti attraverso sessioni di osservazione di 10 minuti durante le quali sono stati osservati 2 bambini alla
volta, ogni 10 secondi. La percentuale del comportamento on-task è stata calcolata dividendo il numero di “on” con la
somma di “on” più “off” moltiplicato per cento. La concordanza tra gli osservatori è risultata del 95%. Le variabili metacognitive sono stata valutate con il Questionario di attribuzione (Ravazzolo, De Beni, Moé, 2005) per lo stile attributivo e
con il test Cosa penso di me (Pope, trad. it. Di Pietro, 1992) per l’autostima.
L’intervento ha previsto l’automonitoraggio di 30 problemi aritmetici, suddivisi in 15 giornate per una durata complessiva di
5 settimane. Ogni problema assegnato era suddiviso in sei parti. Ogni parte corrispondeva ad un’auto-istruzione per facilitare
lo svolgimento del problema. Le auto-istruzioni sono state eliminate nel corso dell’intervento. Lo svolgimento corretto di
ogni parte del problema consentiva di ottenere un punto. I bambini auto-registravano, in seguito ad una correzione collettiva,
il punteggio ottenuto in ogni problema; successivamente auto-registravano, mediante il grafico, il risultato giornaliero, per
arrivare, al termine della settimana, ad una rappresentazione complessiva dei punteggi ottenuti da tutti i componenti della
classe.
Dall’analisi dei dati ottenuti con il test di Wilcoxon, si evidenzia un netto miglioramento dell’accuratezza nella risoluzione
dei problemi (z = - 2,803; p < .050) e un incremento del numero di problemi tentati e svolti correttamente (z = - 2,554; p <
.050); inoltre vi è una tendenza alla significatività nell’incremento della produttività (z = - 1,890; p = .059). Non si sono
verificati cambiamenti rilevanti nello stile attributivo e nell’autostima, probabilmente perché i bambini possedevano credenze
così strutturate su di sé e sugli avvenimenti da richiedere un intervento meta-cognitivo maggiormente prolungato nel tempo
per poter osservare specifiche modificazioni. Inoltre, bisogna considerare che i valori di attribuzione si collocavano nella
media rispetto ai dati normativi del campione di riferimento (Ravazzolo, De Beni, Moé, 2005). Le modificazioni non
rilevanti nel comportamento on-task, invece, possono essere spiegate dal fatto che la media generale era molto elevata già
prima dell’intervento.
I dati, tuttavia, dimostrano il ruolo determinante dell’automonitoraggio nel migliorare produttività e accuratezza della
performance, anche rispetto a procedure complesse come la risoluzione di problemi aritmetici che presuppongono il
controllo attivo, da parte del soggetto, di tutti i passaggi necessari al completamento del compito. Tutti i bambini poi, hanno
manifestato una maggiore consapevolezza rispetto ai propri risultati scolastici modificando il clima della classe e il loro
approccio allo studio. La facilità di impiego, l’immediatezza dei risultati, la versatilità fanno dell’auto-monitoraggio uno
strumento che può davvero rientrare a far parte della didattica quotidiana delle classi.
Keywords
self-monitoring, second grade children, meta-cognition
213
EFFETTI DELL'AUTO-MONITORAGGIO DELL'ATTENZIONE (SMA)
SU BAMBINI DELLA SCUOLA PRIMARIA
GIOVANNI MICHELINI, MARTINA NANI
Facoltà di Psicologia, Università di Parma
[email protected]
L’auto-monitoraggio (AM) rientra nel più ampio ambito delle strategie di auto-regolazione, competenza trasversale, questa,
che facilita la gestione autonoma del proprio processo di apprendimento (Schunk e Zimmerman, 1998) e che rende
l’individuo capace di “imparare ad imparare”. È una strategia, l’AM, che grazie a un controllo costante sul percorso di
apprendimento, promuove e sviluppa consapevolezza nel soggetto che lo utilizza.
Componenti essenziali dell’auto-monitoraggio sono l’auto-osservazione o auto-valutazione e l’auto-registrazione del
comportamento target. Esistono, oggi, due tipologie di auto-monitoraggio particolarmente utilizzate e sulle quali la ricerca
educativa si sta maggiormente focalizzando: auto-monitoraggio dell’attenzione - SMA (Hallahan e Sapona, 1983) e automonitoraggio della performance - SMP (Reid e Harris, 1989).
Entrambe le procedure mirano ad incrementare nei soggetti la capacità attentiva e la produttività accademica e a diminuire il
comportamento cosiddetto “off-task” (Harris, 1986).
Scopo dell’intervento è dimostrare l’efficacia della procedura SMA nell’incrementare il comportamento on-task, nel
migliorare produttività e accuratezza delle performance di alunni della scuola primaria e di indagare se una metodologia
centrata sull’alunno, come l’auto-monitoraggio, può influenzare anche variabili meta-cognitive come lo stile attributivo,
promuovendo un attribuzione causale centrata sull’impegno personale, ipotesi, quest’ultima supportata da pochi dati in
letteratura.
In una classe seconda della scuola primaria, composta da 7 maschi e 7 femmine, si sono valutati il comportamento on-task
definito operazionalmente nei seguenti comportamenti: seduto composto al proprio banco, occhi rivolti al foglio di
lavoro/all’insegnante/alla lavagna, porre domande appropriate ai compagni/all’insegnante (Shimabukuro, Prater, Jenkins,
Edelen-Smith, 1999), la performance di calcolo (somma, sottrazione, tabelline), intesa sia come accuratezza (numero di
operazioni corrette) che produttività (numero di operazioni totali) e lo stile attributivo.
Il comportamento on-task è stato misurato da due osservatori indipendenti tramite sessioni di osservazione della durata di 10
minuti, durante le quali venivano osservati 2 bambini per volta, ogni 10 secondi, segnando se il bambino era “on” o “off”. La
percentuale del comportamento “on” è stata calcolata dividendo il numero di “on” con la somma di “on” più “off”,
moltiplicando per cento. Al termine della raccolta dei dati, la concordanza tra gli osservatori è risultata del 96%.
L’osservazione è durata 4 giorni. Per valutare la performance sono state utilizzate le prove AC-MT di Cornoldi, Lucangeli e
Bellina (2002) e un test criteriale, di 40 tabelline da eseguire in un minuto. Infine, lo stile attributivo è stato misurato
attraverso la Prova di Attribuzione di De Beni, Moè e Ravazzolo (2005).
L’intervento è stato condotto nelle ore curricolari di matematica per una durata complessiva di 20 giorni, preceduto da una
settimana di preparazione al training in cui i bambini dovevano discriminare il comportamento target tra quelli forniti come
esempio. Ogni giornata del training veniva scandita da 3 sessioni giornaliere, di 10 minuti ciascuna, all’interno delle quali
agli alunni venivano presentati dei prompts acustici, somministrati in media ogni minuto. Ad ogni segnale, ai bambini muniti
di tabelle, era richiesto di inserire una crocetta nella colonna dei “SI”, qualora fossero stati “attenti” o nella colonna dei
“NO”, qualora fossero stati distratti. Alla fine di ogni giornata, i bambini venivano invitati a trasportare i risultati su di un
grafico.
Dall’analisi dei dati eseguita con il Test di Wilcoxon sono risultate differenze significative tra il pre e il post test rispetto al
comportamento on-task (Z=-3, 297; p<.001), la produttività (Z=-3,302; p<.001), l’accuratezza (Z=-3,304; p<.001) e per le
scale dello stile attributivo SI (Z=-3,192; p< .001), ovvero scala dell’impegno riguardo al successo e II (Z=-3,300; p<.001),
cioè scala dell’impegno riguardo l’insuccesso. Tutti gli alunni hanno aumentato il tempo trascorso sul compito, hanno
incrementato la propria performance sia in termini di aumento del numero di esercizi risolti in totale (produttività), che di
quelli eseguiti correttamente (accuratezza). Si evidenzia, inoltre, che SMA ha prodotto un cambiamento nelle stile attributivo
degli alunni che ora vedono nella presenza o assenza dell’impegno personale la causa che può maggiormente incidere su
successi e insuccessi scolastici. In conclusione, l’auto-monitoraggio ha dimostrato di essere una tecnica in grado di incidere
sia su aspetti comportamentali che meta-cognitivi dei giovani alunni, di soddisfare richieste strettamente didattiche
migliorando performance e comportamento in aula ma soprattutto, di costruire negli studenti un rinnovato senso di
padronanza e competenza rispetto a se stessi e il compito richiesto.
Keywords
self-monitoring of attention, first grade children, meta-cognition
214
EFFETTI DELL'AUTOMONITORAGGIO DELLA PERFORMANCE (SMP)
SU BAMBINI DELLA SCUOLA PRIMARIA
MARGHERITA BONFATTI SABBIONI, GIOVANNI MICHELINI, MARINA PINELLI
Facoltà di Psicologia, Università di Parma
[email protected]
Molti autori considerano l’automonitoraggio il principale componente dell’autoregolazione (Harris, 1986; Maag, Reid e Di
Gangi, 1993). L’automonitoraggio è un processo che prevede due passi: innanzitutto il soggetto deve auto-valutare se il
comportamento target si è verificato o meno, e poi auto-registrarne alcune dimensioni (Mace, Belfiore e Hutchinson, 2001).
In letteratura vengono descritte due procedure di automonitoraggio: automonitoraggio dell’attenzione o SMA (Hallahan e
Sapona, 1983) e automonitoraggio della performance o SMP (Harris, Graham, Reid, McElroy e Hamby 1994). Nell’automonitoraggio dell’attenzione, gli studenti auto-valutano se stanno prestando o meno attenzione e auto-registrano il risultato
su una apposita scheda. Nell’auto-monitoraggio della performance, gli studenti auto-valutano alcuni aspetti della
performance accademica e auto-registrano i risultati trasportandoli su una tabella o un grafico. In generale,
l’automonitoraggio non produce nuovi comportamenti, ma promuove il cambiamento esercitando un’influenza su quei
comportamenti che fanno già parte del repertorio dell’individuo, fenomeno questo, definito reattività. In ambito scolastico
l’automonitoraggio viene utilizzato per incrementare l’accuratezza, la produttività e il comportamento on-task.
Lo studio indaga gli effetti di SMP sia sulla prestazione accademica (accuratezza e produttività) che sul comportamento ontask e di valutare se esso produce cambiamenti anche nello stile attributivo, dal momento che non sono presenti in letteratura
molti dati che confermino quest’ultima ipotesi.
In una classe seconda della scuola primaria, composta da dodici alunni di cui 6 maschi e 6 femmine, è stata valutata la
performance di calcolo (somma, sottrazione, tabelline), intesa come accuratezza (numero di operazioni corrette) e
produttività (numero di operazioni totali), il comportamento on-task, definito operazionalmente nei seguenti comportamenti:
seduto composto al proprio banco, occhi rivolti al foglio di lavoro/all’insegnante/alla lavagna, porre domande appropriate ai
compagni/all’insegnante (Shimabukuro, Prater, Jenkins, Edelen-Smith, 1999) e lo stile attributivo.
Per valutare la performance sono state utilizzate le prove AC-MT di Cornoldi, Lucangeli e Bellina (2002) e un test criteriale
di 40 tabelline da eseguire in un minuto. Il comportamento on-task è stato misurato da due osservatori indipendenti tramite
sessioni di osservazione della durata di 10 minuti, durante le quali venivano osservati 2 bambini per volta, ogni 10 secondi,
segnando se il bambino era “on” o “off”. La percentuale del comportamento “on” è stata calcolata dividendo il numero di
“on” con la somma di “on” più “off”, moltiplicando per cento. Al termine della raccolta dei dati è stata calcolata la
concordanza che è risultata del 95%. L’osservazione è durata 4 giorni. Lo stile attributivo è stato misurato attraverso la Prova
di Attribuzione di De Beni, Moè e Ravazzolo (2005).
Il trattamento è stato condotto in aula durante le ore curricolari di matematica per una durata di 21 giorni. Ad ogni studente è
stato chiesto di esercitarsi su appositi fogli di lavoro contenenti operazioni di somma, sottrazione e tabelline e di eseguire
quanti più esercizi possibile all’interno di un’unità di tempo prestabilita (5 minuti). Alla fine di ogni sessione di lavoro, gli
alunni dovevano auto-correggere i risultati contando il numero di esercizi completati in totale (produttività) e il numero di
esercizi sia corretti che sbagliati (accuratezza), e riportare i dati ottenuti su un grafico.
Le analisi sui confronti prima e dopo sono state effettuate tramite il test di Wilcoxon, come richiesto su scala ordinale. In
particolare, sono risultate significative le differenze rispetto alla produttività (numero di esercizi svolti: Z=-3,061; p<.001); il
comportamento on-task (Z=-3,059; p<.01) e lo stile attributivo per le scale dell’impegno riguardo al successo, scala SI (Z=2,870; p<.01) e l’insuccesso, scala II (Z=-2,943; p<.01); mentre il confronto per la correttezza è risultato tendente alla
significatività (proporzione di esercizi corretti rispetto a quelli svolti: Z=-1,826; p=.068). Dai risultati è emerso che grazie a
SMP tutti gli alunni hanno aumentato il tempo trascorso sul compito e migliorato la performance, sia in termini di aumento
di accuratezza che di produttività. Inoltre, si evidenzia come SMP abbia prodotto un cambiamento nelle attribuzioni degli
alunni aumentando il peso esercitato dall’impegno personale nei confronti di successi o insuccessi nel rendimento scolastico,
apportando un elemento di novità ancora poco indagato dalla ricerca. Questo suggerisce che le pratiche educative che
esaltano l’autonomia dell’alunno possono avere effetti positivi non solo su un piano di pura performance, ma possono agire
trasversalmente anche su variabili di tipo meta-cognitivo, indispensabili per restituire all’alunno un ruolo attivo rispetto al
proprio personale percorso di apprendimento.
Keywords
self-monitoring of performance, second grade children, attributional style
215
TEORIA PERSONALE DELL’INTELLIGENZA, RIFLESSIONE METACOGNITIVA SULLE STRATEGIE DI
STUDIO ED ORIENTAMENTO MOTIVAZIONALE: SPERIMENTAZIONE DI UN TRAINING
MICHELLE HERBET , ELISA TROGLIA, STEFANO CACCIAMANI
Università della Valle d’Aosta
[email protected]
Introduzione
Sviluppare un atteggiamento di riflessione metacognitiva sulle strategie può aiutare gli studenti a costruirsi un metodo di
studio efficace, in grado di renderli consapevoli delle proprie competenze acquisite e di padroneggiare in modo corretto le
differenti situazioni di studio (Pazzaglia, Moé, Friso e Rizzato, 2002). Inoltre, le convinzioni che le persone possiedono
rispetto alla propria intelligenza si riflettono sull’apprendimento e sull’orientamento motivazionale, poiché coloro che
credono che l’intelligenza sia modificabile nel tempo tendono ad affrontare gli insuccessi non come sconfitte personali, ma
come un incentivo a migliorarsi, perseverando nello studio (Dweck , 1999; De Ponte, 2003). In ambito scolastico si crea
dunque la necessità di proporre degli interventi di empowerment cognitivo, che agiscano su questi aspetti.
L’obiettivo del presente lavoro è indagare se un training finalizzato a promuovere una visione dell’intelligenza di tipo
incrementale e la capacità di riflettere metacognitivamente sulle proprie strategie di studio favorisce l’effettiva modifica in
senso incrementale della visione della propria intelligenza da parte degli studenti, un atteggiamento consapevole verso le
strategie di studio, un diverso orientamento motivazionale, centrato più verso la padronanza che non verso la prestazione. Più
in particolare, le ipotesi da verificare, riguardano l’esistenza di differenze tra: un training specifico basato su testimoni
appartenenti al contesto scolastico o extrascolastico; un training a struttura di lavoro individuale o collaborativa; la possibile
interazione tra le due variabili.
Metodo
Partecipanti
Hanno preso parte alla ricerca 121 allievi di Seconda Media di 4 scuole della Valle d’Aosta, suddivisi nelle quattro
condizioni del disegno sperimentale: training a struttura collaborativa con testimone scolastico (21), training a struttura
individuale con testimone scolastico (17), training a struttura collaborativa con testimone non scolastico (42), training a
struttura individuale con testimone non scolastico (41).
Materiali
Sono state utilizzate le Prove MT per la comprensione del testo, indicatore di riuscita scolastica (variabile controllata) e un
Questionario tratto dal test Amos (Moè , De Beni , Cornoldi, 2003) per rilevare l’orientamento motivazionale,
l’atteggiamento verso le strategie di studio e la concezione dell’intelligenza.
Procedura
L’attività si è articolata in dieci unità di lavoro comprendenti:
- il pre test,
- un training volto a presentare la teoria incrementale dell’intelligenza ed attività volte a riflettere sull’importanza di
possedere, valutare ed eventualmente modificare le proprie strategie di studio attraverso un approccio metacognitivo;
- il post-test;
Il training variava a seconda della condizione sperimentale prescelta: le attività a struttura individuale prevedevano compiti
svolti singolarmente, per quelle a struttura collaborativa gli stessi compiti venivano svolti in coppia. I materiali per la
condizione "testimone scolastico" erano due filmati contenenti le riflessioni sulla teoria dell’intelligenza, di tipo
incrementale, posseduta da due insegnanti, mentre la condizione “testimone non scolastico” prevedeva un filmato di un’atleta
e un filmato di un farmacista esprimenti idee a favore della teoria incrementale dell’intelligenza.
E’ stata effettuata un’ANCOVA 2x2 per misure ripetute con tipo di training e tipo di testimone come variabili indipendenti,
riuscita scolastica come covariata, teoria dell’intelligenza, atteggiamento verso le strategie di studio e orientamento
motivazionale come variabili dipendenti.
Risultati
I risultati evidenziano che l’utilizzo di un training con testimone non appartenente al mondo scolastico ha un’efficacia
maggiore rispetto a quello con l’utilizzo di attori scolastici, nel favorire un cambiamento in senso incrementale della propria
teoria dell’intelligenza. Non sono emersi risultati statisticamente significativi per quanto riguarda l’atteggiamento verso lo
studio e l’orientamento motivazionale. E’ ipotizzabile che il cambiamento riscontrato a livello di teoria dell’intelligenza sia
dovuto al fatto che la parte di training che si proponeva di agire su questa variabile, costituita dal confronto con testimoni,
possa avere offerto più opportunità di riflessione di quella sulle strategie di studio (senza confronto con testimoni). Inoltre il
successo del trainng con testimone non scolastico rispetto a quello scolastico può essere dovuto al fatto che i testimoni non
scolastici, possono essere stati percepiti dagli studenti come più simili a loro: l’uso di un linguaggio più vicino al loro mondo
e gli esempi di vita quotidiana forniti possono aver avuto maggiore capacità persuasiva.
Keywords
metacognizione, motivazione, teoria incrementale dell'intelligenza
216
APPRENDERE IN ITALIANO E MATEMATICA:
RELAZIONE TRA OBIETTIVI DI RIUSCITA, VARIABILI MOTIVAZIONALI E AFFETTIVE
DANIELA RACCANELLO, BIANCA DE BERNARDI
Dipartimento di Psicologia e Antropologia Culturale, Università degli Studi di Verona
[email protected]
Introduzione
La letteratura sugli obiettivi di riuscita riporta, in riferimento all’apprendimento sia in generale che in specifiche discipline
scolastiche, forme diverse di relazione di questi con una vasta gamma di variabili motivazionali ed affettive (Bouffard,
Boileau e Vezeau, 2001; Bouffard e Couture, 2003; Fortunato e Goldblatt, 2006; Gutman, 2006; Harackiewicz, Barron,
Pintrich, Elliot e Thrash, 2002; Linnenbrink, 2005; Linnenbrink e Pintrich, 2002; Pajares, Britner e Valiante, 2000; Pintrich,
2000; Wolters, Yu e Pintrich, 2004; Zusho, Pintrich e Cortina, 2005).
Tenendo conto di tali contributi, gli scopi principali del presente lavoro erano: (a) identificare possibili differenze nelle
configurazioni di obiettivi (di padronanza, OP; di prestazione focalizzata sull’approccio, OPA; di prestazione focalizzata
sull’evitamento, OPE) in relazione all’italiano e alla matematica; (b) indagare la relazione tra le configurazioni emerse e
alcune dimensioni motivazionali (senso di efficacia, valore del compito) e affettive (ansia legata alle valutazioni,
piacevolezza della materia). Alla luce di quanto indicato dalla letteratura, si è ipotizzato che configurazioni caratterizzate da
elevati OP e OPA sarebbero state associate a maggiori livelli di senso di efficacia, valore del compito e piacevolezza, ma
anche a maggiori livelli di ansia rispetto alle altre possibili configurazioni, per entrambe le discipline.
Metodo
A 435 studenti di quarta elementare, seconda media e terza superiore della provincia di Verona è stato somministrato in
forma collettiva un questionario di 46 item, riferito per metà dei partecipanti alla matematica e per l’altra metà all’italiano.
Gli item erano misurati su scala Likert a 5 livelli e riguardavano obiettivi personali di apprendimento (OP, OPA, OPE), senso
di efficacia, valore del compito, ansia relativa a valutazioni di prove sia scritte che orali, piacevolezza della disciplina,
rendimento scolastico (la maggior parte degli item è stata adattata da Patterns of Adaptive Learning Scales, PALS, Midgley
et al., 2000; Motivated Strategies for Learning Questionnaire, MSLQ, Pintrich, Smith, Garcia e McKeachie, 1991).
Risultati
Una cluster analysis ha permesso di identificare (a) per l’italiano, tre pattern: il primo caratterizzato da elevati OP, OPA e
OPE; il secondo da una diminuzione degli obiettivi di prestazione; il terzo dalla diminuzione anche degli OP; (b) per la
matematica, oltre ai tre pattern già descritti per l’italiano, un quarto pattern, caratterizzato da un ulteriore abbassamento,
rispetto al terzo, negli obiettivi di prestazione. La distribuzione nei pattern variava significativamente in relazione all’età, ma
con andamenti diversi nelle due materie: (a) per l’italiano ( 2(4,201)=38.36, p<.001), la percentuale di studenti che presentava
la prima configurazione era pressoché costante nelle tre età; per il pattern 2, la percentuale diminuiva con il crescere dell’età,
inversamente al pattern 3; (b) per la matematica ( 2(6,234)=69.45, p<.001), con il crescere dell’età la percentuale di studenti
caratterizzata dai pattern 1 e 2 diminuiva, mentre aumentava per i pattern 3 e 4.
Ulteriori analisi (ANCOVE, con pattern come fattore tra i soggetti e rendimento come covariata) hanno evidenziato che, per
entrambe le materie, i primi due pattern erano associati a livelli più elevati di senso di efficacia (italiano: F(2,197)=12.69,
p<.001; matematica: F(3,229)=14.80, p<.001), valore del compito (italiano: F(2,197)=66.20, p<.001; matematica: F(3,229)=40.02,
p<.001) e piacevolezza (italiano: F(2,197)=21.24, p<.001; matematica: F(3,229)=13.93, p<.001). L’ansia era minore per il quarto
pattern, rispetto agli altri, per la matematica (prove scritte: F(3,229)=9.61, p<.001; prove orali: F(3,229)=9.90, p<.001), ed era
maggiore per il secondo pattern rispetto al primo, per l’italiano, solo in relazione alle valutazioni delle prove scritte
(F(2,197)=5.47, p=.005). Infine, per entrambe le discipline il rendimento era correlato positivamente con il senso di efficacia
(italiano: r=.35; p<.001; matematica: r=.39; p<.001) e la piacevolezza (italiano: r=.28; p<.001; matematica: r=.28; p<.001).
In conclusione, i risultati ottenuti mostrano, da una parte, che i pattern di obiettivi legati alle due discipline, pur
differenziandosi lievemente, presentano una relazione simile con le altre variabili motivazionali e affettive considerate,
confermando quanto recentemente indicato dalla letteratura internazionale (es., Wolters et al., 2004). Dall’altra, evidenziano
una diversa evoluzione con l’età dei pattern di obiettivi nelle due discipline, con una maggior persistenza delle
configurazioni considerate più adattive per l’italiano rispetto alla matematica.
Keywords
achievement goals, motivation, affect
217
TCM JUNIOR. TEST DI COMPRENSIONE DI METAFORE. SCUOLA DELL'INFANZIA E SCUOLA
PRIMARIA
MARIA ANTONIETTA PINTO (1), SERGIO MELOGNO (2), PAOLO ILICETO (3)
1) e 2) Facolta' di Psicologia 2 - Universita' di Roma "Sapienza"; 3) Centro di Ricerca www.Laboratoriopsicometrico.It
[email protected]
Introduzione
Verranno presentati la struttura e le caratteristiche psicometriche di uno strumento di valutazione della comprensione di
metafore in bambini dai 4 ai 6 anni, il TCM junior, così denominato in quanto collegato ad uno strumento di analogo
costrutto teorico, pensato per una fascia di età superiore dai 9 ai 14 anni (Pinto, Melogno, Iliceto 2006). Saper esplicitare
verbalmente i fondamenti semantici di una metafora comporta l’analisi dei significati convenzionali delle sue parti, il tenore
(T) e il veicolo (V) alla ricerca di un terreno comune che giustifichi l’accostamento fra i domini eterogenei di T e di V
(Richards 1936). Le abilità corrispondenti sono considerate nella letteratura metalinguistica come metasemantiche e le fasi
iniziali del loro sviluppo sono attestate fin dalle età prescolari (Keil 1986,Gentner 1988, Gombert 1990, Levorato, a cura di
1998, Melogno 2004). Ricerche precedenti la costruzione del test (Melogno, Pinto 1996; Pinto, Melogno, Intaglietta 2000)
hanno evidenziato queste capacità di esplicitazione verbale delle metafore già dai 4 anni con andamento significativamente
crescente fino a 6. Le metafore prescelte sono di tipo “sensoriale”, in cui T e V sono legati su basi percepibili, con lessico
noto ai bambini delle età considerate e vicine a quelle da essi spontaneamente prodotte. Lo strumento può risultare utile a
psicologi e insegnanti per individuare livelli cognitivi e competenze lessicali dei loro alunni, rendere più ludica la
comunicazione didattica e sfruttare la metafora come risorsa esplicativa nella trasmissione di concetti nuovi.
Composizione
Il test si compone di 25 item, distribuiti in 12 frasi metaforiche sciolte e 13 inserite in 4 brevi storielle, selezionati in base a
due criteri: a) natura semantica delle metafore, prevalentemente sensoriali Es.“La luna è una lampadina” o fisicopsicologiche semplici. Es.”Martina era un uccellino”; all’interno di queste tipologie si individua una distinzione fra metafore
prevalentemente statiche in cui T è uguale a V e dinamiche in cui la metaforicità si concentra sull’azione che lega T a V.
b) Modalità di presentazione, distinguendo fra metafore in frasi fuori contesto (M.Fr.) e metafore inserite in storie (M.St.),
pensando a un possibile effetto di facilitazione dato dalla contestualizzazione delle singole metafore.
Modalità di somministrazione e di valutazione
Il test, carta e matita, si somministra individualmente e oralmente. L’item di familiarizzazione è condotto interattivamente
con l’esaminatore preceduto dalla consegna: “Ora ascolterai delle paroline un po’ diverse dal solito e tu mi dirai cosa
vogliono dire secondo te”. In seguito il bambino procede da solo. Le risposte sono registrate su protocollo, iniziando dalle
metafore sciolte e proseguendo con quelle in storie.
La valutazione si basa sull’idea che la metafora sia un conflitto semantico fra T e V, che può essere eluso o ricomposto a
livelli di variabile elaboratezza. Al livello più elementare il confitto può essere eluso in vario modo (risposte “non so”,
centrazioni parziali su T o su V, interpretazioni letterali, “magiche” o metonimiche) con punteggio 0; si attribuisce punteggio
1 a risposte che realizzano una ricomposizione plausibile fra T e V ma di livello semplice, e punteggio 2 a ricomposizioni più
elaborate e coerenti.
Metodo
Campione: è costituito da 600 soggetti, 200 soggetti per ogni fascia di età, di cui 293 bambini e 307 bambine, provenienti da
4 comuni laziali e uno calabrese, di ambiente socioculturale medio.
Strumenti: TCM junior e PM47 (Raven 1984)
Risultati
La struttura fattoriale evidenzia 3 componenti principali, denominate "Metafore dell'essere in storie e frasi" (E-St + Fr),
"Metafore del fare in frasi" (F-Fr) e "Metafore dell'essere in storie"(E-St), che rendono conto rispettivamente del 23,48%;
7,83% e 7,53% della varianza per un totale di 38,8%.
Gli indici di attendibilità, misurati dall'Alpha di Cronbach, sono elevati per tutte le parti del test (E-St+Fr:,743; F-Fr: ,778; ESt: ,760) e per il totale del test (,860).
Le correlazioni con un test d'intelligenza non verbale, le Matrici Progressive di Raven 1947 (Raven 1984)sono significative a
livello di p<.o1 e le correlazioni test-retest sono anch'esse elevate(r - tt): ,848.
Esaminando con un disegno di ANOVA a due fattori il ruolo di genere ed età, si rileva che il genere non è mai significativo
mentre l'età discimina fortemente su tutti i punteggi (E-St+Fr: F: 158,73; F-Fr: F :125,11; E-St: F:136,25; TCM tot: F:
294,16) con differenze sempre significative a livello di p <.000 e con elevata potenza dell'effetto,sempre superiore a ,30.
Elevato anche il grado di accordo fra giudici misurato dal K di Cohen: ,68 per i 4 a. ,73 per i 5 a. e ,74 per i 6 a.
Keywords
Metaphor - comprehension - test
218
IDENTIFICAZIONE E AFFETTO NELL'APPRENDIMENTO DELLE LINGUE STRANIERE
CARMELA ANGELA MIGNEMI (1), PASQUALE RINALDI (1), SABINE PIRCHIO (2), TRAUTE TAESCHNER (1)
(1) Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, “Sapienza” Università di Roma;
(2) Università degli studi di Cagliari.
[email protected]
Introduzione
Il disegno infantile e l’apprendimento di una lingua straniera nella scuola primaria sono legati dal desiderio dei bambini di
comunicare, di raccontare una storia. Autori di prospettive teoriche diverse condividono l’idea che il disegno infantile sia
un’efficace modalità comunicativa da mettere in relazione con altre forme di linguaggio e che consente l’espressione di
esperienze significative. Il bambino deve potersi identificare col tema che sta raffigurando per poter esprimere al meglio ciò
che vuole comunicare con i suoi disegni (Arnheim, 1992; Bombi e Pinto, 1991; 1993; 2000; Lowenfeld e Brittain, 1967;
Pinto e Bombi, 1995; Read, 1962). Questo lavoro si colloca all’interno di un progetto d’insegnamento dell’inglese che ha
come criteri fondamentali l’identificazione del bambino con i personaggi e il coinvolgimento affettivo ed emotivo. Il clima
positivo che si crea in classe durante le attività in inglese spinge i bambini a voler comunicare e quindi apprendere la lingua
dei personaggi, che è la sola utilizzata durante le lezioni. Insegnare l’inglese con i format narrativi (Taeschner, 1993)
comprende numerose attività alle quali il bambino partecipa entrando in un mondo “magico” dove si parla, si canta, si mima,
si leggono storie a fumetti, si guardano i cartoni e infine si disegna, in un contesto immaginario (Taeschner, 2002).
Ipotizziamo che i sentimenti trasmessi dalle storie siano interiorizzati dai bambini e trasferiti nei disegni realizzati in classe.
In questo lavoro si vuole verificare attraverso quali modalità grafiche il bambino esprima il coinvolgimento emotivo con i
personaggi di questo mondo “magico” dimostrando così di aver compreso i sentimenti contenuti nelle storie vissute nella
nuova lingua e verificare, inoltre, eventuali differenze dovute al genere o alla classe frequentata.
Metodo
In questo lavoro non si è tenuto conto delle abilità grafiche dei bambini e delle loro abituali modalità rappresentative di scene
di routine, in quanto i format ambientati in un mondo magico non sono di routine quotidiana in senso stretto, ma solo nelle
ripetizioni delle attività del modello stesso. Sono stati analizzati 720 disegni realizzati da 40 bambini, 20 maschi e 20
femmine per ciascuna delle prime tre classi della scuola primaria per un totale di 120 bambini. La raccolta dei disegni è
avvenuta chiedendo alle maestre di far disegnare ai bambini 5 scene per ciascuno dei primi 3 format. Sono stati analizzati i
primi due disegni realizzati da ogni bambino per ognuno dei tre format per evidenziare le modalità grafiche scelte dai
bambini per trasferire nei disegni il loro coinvolgimento emotivo. In accordo con la letteratura sull’argomento (Abraham,
1977; Arnheim, 1992; Corman, 1970; Fonzi, 1995; Giani Gallino, 1995; Harris, 1991; Lowenfeld e Brittain, 1967; Pinto,
Bombi e Freeman, 1997; Thomas e Silk, 1998) sono state indagate due aree. L’area identificazione con personaggi e storie è
composta da due categorie: personaggio in risalto (posizione centrale e dimensioni maggiori) e presenza dello sfondoambiente che può essere rappresentato in maniera povera o ricca. L’area presenza dell’elemento comunicativo è composta da
due categorie: interazione tra personaggi (vicini e rivolti verso l’altro) e espressione facciale che può essere coerente o non
coerente con l’evento narrato. Per l’analisi dei disegni sono state utilizzate delle griglie di codifica che permettessero di
evidenziare in primo luogo, per ciascuna delle due aree, l’avvenuto utilizzo di entrambe le categorie o di una sola e in
secondo luogo dove previsto, di evidenziare la presenza di entrambi gli indicatori oppure, dove gli indicatori erano
mutualmente escludentesi, di evidenziare quello disegnato dal bambino (ad esempio ambiente povero o ricco). I dati sono
stati analizzati con il test del chi quadrato con < .01.
Risultati
Dai risultati emerge una forte identificazione dei bambini con i personaggi e un intenso coinvolgimento con i sentimenti
contenuti nelle storie. All’interno dell’area identificazione con personaggi e storie i bambini rappresentano il personaggio in
risalto nel 74% dei casi e nel 35% di questi disegni sono stati utilizzati entrambi gli indicatori della categoria; i bambini
hanno disegnato uno sfondo-ambiente nel 94% dei casi e il 67% di questi è un ambiente ricco. Nell’area della presenza
dell’elemento comunicativo, i bambini hanno rappresentato l’interazione tra i personaggi nell’89% dei casi, utilizzando
entrambi gli indicatori della categoria nel 73% dei casi; hanno disegnato l’espressione facciale nel 67% dei casi,
rappresentandola in modo coerente con l’evento narrato nel 75% dei casi. I dati riportati sono risultati essere significativi per
<.01, tutti eccetto il 35%, relativo all’area identificazione con personaggi e storie, in cui appaiono entrambi gli indicatori. I
risultati mostrano che i bambini si sono fortemente identificati con i personaggi e che i sentimenti e le relazioni affettive
contenuti nelle storie presentate sono stati pienamente compresi ed interiorizzati e non sono emerse differenze significative
relative al genere o alla classe frequentata. Questo lavoro conferma l’efficacia del modello glottodidattico del format
narrativo nel trasmettere i sentimenti e le relazioni affettive delle storie ai bambini. I bambini, oltre a raccontare graficamente
gli eventi delle storie vissute in lingua inglese, mostrano di relazionano ai format e al modello stesso in modo positivo.
Keywords
Drawing foreign language learning
219
LE CONCEZIONI SULL’APPRENDIMENTO PREDICONO IL PROFITTO ACCADEMICO?
UNO STUDIO SU STUDENTI UNIVERSITARI
CLAUDIO VEZZANI
Dipartimento di Psicologia, Università di Firenze
[email protected];
[email protected]
Introduzione
Negli ultimi decenni si è compreso come gli scopi dell’istruzione formalizzata non possano limitarsi alla trasmissione di
contenuti ed al colmare lacune conoscitive. In tale prospettiva rientrano le ricerche sulle concezioni generali
sull’apprendimento, che rimandano alle capacità metacognitive dell’individuo di riflettere sui processi mentali legati
all’apprendere, consentendo l’opportuna pianificazione di strategie e azioni da intraprendere (Vermunt & Verloop, 1999;
Vermunt & Vermetten, 2004). Si è constatato inoltre come concezioni più evolute dell’apprendimento si dimostrino
associate, indipendentemente dallo specifico dominio conoscitivo, ad un livello di motivazione maggiormente elevato
rispetto a quelle che considerano l’apprendimento come passiva acquisizione di conoscenza (Klatter, Lodewijks & Arnoutse,
2001; Boscolo, 2007).
Alcuni ricercatori, in passato, hanno verificato che le concezioni generali dell’apprendimento possano avere delle ricadute
sugli apprendimenti accademici e sul successo scolastico (Marton & Säljö, 1976; van Rossum & Schenk, 1984). McLean ha
condotto recentemente una ricerca i cui risultati suggeriscono che gli studenti che possiedono concezioni che considerano
l’apprendimento come interpretazione critica della realtà (concezioni di tipo trasformativo) sono anche coloro che riescono
ad ottenere i migliori risultati accademici (McLean, 2001).
Su un livello diverso si colloca la ricerca di Reid e collaboratori, che hanno indagato il rapporto fra concezioni dominiospecifiche e “risultati attesi” nell’apprendimento della matematica (Reid, Wood, Smith & Petocz, 2005). Coloro che
vedevano la matematica come un insieme di tecniche leggevano come risultato atteso il passare un esame, l’ottenere un buon
lavoro. Chi invece si interessa alla materia per comprendere le leggi che ne regolano la struttura interna, si pone quale
obiettivo il comprenderne la teoria, la pratica, le possibili applicazioni. Infine, chi concepisce la matematica come uno spazio
di vita, vuole conseguire una modalità di pensiero che nutra quale fine ultimo la propria soddisfazione e curiosità scientifica
(Reid et al., 2005). Lo studio di Reid e colleghi, seppur riferito ad un settore disciplinare specifico, conferma quanto già
ottenuto da McLean (2001) su concezioni dell’apprendimento più generali.
Obiettivo del presente studio è quello di fornire un contributo alle ricerche che si sono occupate di verificare le potenzialità
predittive delle concezioni generali sul processo di apprendimento rispetto al rendimento accademico di studenti universitari.
Metodo
La ricerca è stata condotta su un campione di 110 studenti universitari dell’Ateneo fiorentino, frequentanti il primo anno
della Laurea Specialistica in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione (età media 23.97± 2.83 anni). La raccolta dei dati è
stata eseguita durante le ore di lezione del corso di Psicologia dell’Educazione, disciplina fondante il Corso di Laurea. Il
Questionario di Liverta Sempio e Marchetti (2001) è stato somministrato in gruppo, richiedendo per la compilazione
mediamente 10-15 minuti. Si è poi rilevato il voto di maturità quale misura del rendimento scolastico pregresso, nonché la
votazione alla Laurea Triennale ed il voto all’esame in Psicologia dell’Educazione quali indicatori dell’attuale profitto
accademico. La struttura fattoriale che si è scelto di adottare per la codifica delle risposte al questionario è quella proposta
recentemente da Vezzani, costituita da 8 componenti (Vezzani, 2008), in quanto sottoposta a verifica sia mediante analisi
fattoriali esplorative (EFA) e confermative (CFA).
Risultati
Dalle regressioni multiple di tipo step-wise è risultato che il voto alla Laurea Triennale in Psicologia risulta predetto
mediante proporzionalità diretta dal voto conseguito alla maturità [t (107)=2.43, p=.017] e dal fattore “Opportunità e senso
di autoefficacia” [t (107)=2.20, p=.030], mentre il voto all’esame di Psicologia dell’Educazione si associa inversamente al
costrutto “Riduzione di carenze” [t (108)=-2.42, p=.017], indipendentemente dalla votazione conseguita alla maturità.
Conclusioni
Le concezioni sull’apprendimento si associano positivamente al rendimento accademico per quanto concerne il considerare
l’apprendere come una risorsa per sé stessi e per la propria self-efficacy, mentre il ritenerlo come mera riduzione di carenze
conoscitive correli inversamente al profitto in Psicologia dell’Educazione, disciplina che focalizza i suoi obiettivi formativi
sul “learning-to-learn”. Tali esiti di ricerca sostanziano quanto già emerso dai principali studi internazionali sul tema
(McLean, 2001; Reid et al., 2005), evidenziando come è soprattutto l’associare l’apprendimento a sentimenti e vissuti di
autoefficacia personale, e soprattutto ad un modo per mostrare il proprio valore a sé e agli altri (“Opportunità e senso di
autoefficacia”) che risulta essere in grado di prevedere poi la riuscita accademica.
Keywords
Learning Conceptions; Higher Education; Academic Progress
220
LO STAGE COME TRANSFER DI APPRENDIMENTO TRA DENTRO E FUORI LA SCUOLA
CLAUDIA DI MARCO
Facoltà di Psicologia 2, Università di Roma La Sapienza
[email protected]
Inquadramento teorico
Il superamento della separazione tra scuola e società (Engestrom, 1991) permette di affrontare il problema di rispondere alla
pluralità dei bisogni formativi di una realtà sociale in costante e rapido mutamento (Miettinen, 1999). In tal senso, il costrutto
di transfer è stato considerato un problema di profonda rilevanza, nei paesi industrializzati, nell’ambito dell’istruzione
professionale e nel training fin dall’avvio dell’istruzione di massa (Guile, Young, 2003). Il focus sul transfer, in questa sede,
permette di comprendere il processo di trasferimento e acquisizione di conoscenze e competenze dal contesto scolastico a
quello lavorativo che nel caso dello stage risulta un problema rilevante. Il costrutto teorico di transfer è stato considerato e
dibattuto da diverse prospettive teoriche muovendo da un interesse di studio relativo ai processi cognitivi, nell’ambito della
psicologia dell’apprendimento. Nei primi anni novanta si assiste ad una teorizzazione del transfer come disposizione che
risente dell’influenza dell’approccio socio-culturale. Secondo questa prospettiva il transfer non è un fatto strettamente
individuale, ma si verifica nell’interazione dell’individuo con la nuova situazione. Nell’ambito della teoria dell’attività viene
definito come transfer di sviluppo (Y. Engestrom, 1998) che considera il sistema di attività il luogo dove si operano le
trasformazioni o espansioni attraverso azioni collettive.
Obiettivi
Lo scopo dello studio è quello di rilevare in che modo l’acquisizione di conoscenza cambia tramite le “transizioni” tra
scuola e forme di attività collettive fuori dalla scuola come ad esempio lo stage. In particolare, gli obiettivi della ricerca sono
quelli di indagare gli indicatori dell’apprendimento realizzato fuori dal contesto scolastico e di individuarne le specificità e le
diversità rispetto a ciò che avviene a scuola. In tal senso, il transfer può essere utilizzato come uno strumento di analisi dei
processi di apprendimento significativi.
Il contesto di ricerca è il Liceo Ariosto di Ferrara, un liceo sperimentale con quattro indirizzi: classico, linguistico,
scientifico-tecnologico e scienze sociali. Il liceo ha una lunga tradizione, ormai ventennale, relativa alla realizzazione dello
stage formativo (Marchetti, 2001) che è diventato parte integrante del curricolo.
Articolazione metodologica della ricerca
Il presente lavoro utilizza un impianto metodologico di carattere etnografico, basato sull’osservazione semi-partecipante e su
diverse tecniche di rilevazione di natura osservativa. La complessità del fenomeno studiato ha reso necessario l’utilizzo di
una varietà di strumenti: osservazioni, interviste etnografiche, diario di campo, questionari e videoregistrazioni, oltre a ciò è
stata raccolta la documentazione fotografica e scritta relativa agli stage presi in esame, con lo scopo di integrare le
informazioni ricavate dalle interviste e dalle osservazioni.
Le interviste sono così articolate: 16 studenti, 8 docenti, 4 tutor/responsabili degli enti ospitanti e il dirigente scolastico. Le
videoregistrazioni sono state condotte con una videocamera mobile, gestita dalla ricercatrice, che ha filmato alcuni momenti
dei ragazzi in situazione di stage. I questionari sono stati somministrati alle classi quarte di tutti gli indirizzi ad un mese dal
termine dello stage. Sono state condotte 6 osservazioni in una settimana di scuola in momenti di attività svolte dagli studenti
negli spazi comuni.
Risultati
Le analisi effettuate mostrano che l’esperienza di stage rappresenta un apprendere complesso e fornisce risposte diversificate
ai bisogni dei ragazzi. Sia dalle interviste che dalle videoregistrazioni emergono caratteristiche tipiche dell’imparare nei
contesti di vita reale che si connettono con ciò che i ragazzi imparano a scuola ma che vengono però trasformate, attraverso
un’esperienza di cambiamento come lo stage, in apprendimenti relativi a:
- capacità negoziali per stabilire contatti con gli enti e/o aziende;
- capacità di dar conto e motivare le diverse azioni realizzate durante lo stage;
- forme di partecipazione e collaborazione tra i ragazzi che riconduce all’idea di un apprendimento sociale e distribuito e non
individuale e lineare;
- apprendimento diversificato in quanto nello stage concorrono una pluralità di discipline;
- trasformazione delle singole conoscenze in sapere orientativo;
- apprendimento comunicativo differenziato ed adeguato alla situazione.
Gli stage rappresentano un modo efficace di apprendere fuori dalla scuola perchè i ragazzi sono inseriti in un sistema di
attività che incoraggia la collaborazione, la discussione e alcune forme di “sfide”. Tali esperienze, connesse con
l’apprendimento a scuola, facilitano processi di apprendimento significativi conseguiti attraverso attività collettive. Lo stage
può rappresentare un esempio significativo di transfer dell’apprendimento proprio perchè si verifica attraverso l’interazione
tra sistemi di attività.
Keywords
transfer, school and work, expansive learning
221
VALUTARE LA RELAZIONE INSEGNANTE-ALLIEVO DAL PUNTO DI VISTA DELL’ALUNNO:
VERSO LA VALIDAZIONE DEL TEST GRAFICO “IL DISEGNO DELLA CLASSE”
ROCCO QUAGLIA, TIZIANA PASTA, CLAUDIO LONGOBARDI
Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Psicologia
[email protected]
Introduzione
Nel contesto scolastico, ambiente fondamentale e particolare nello sviluppo cognitivo, sociale, comportamentale, emotivo e
morale di un bambino (Fonzi, 2002), è necessario che la figura deputata a seguire il percorso di crescita dell’allievo conosca
la percezione che quest’ultimo ha del proprio vissuto scolastico, tanto nelle forme di benessere quanto di malessere.
Il Disegno della classe (Quaglia, Saglione, 1990) si configura quale strumento di comunicazione e conoscenza del mondo
scolastico con cui il bambino quotidianamente si confronta, con riferimento particolare alle risorse affettive che l’alunno
investe e alle difficoltà ad essa legate. Tale strumento opera una lettura a livello di contenuto (valutando la cura con cui
vengono rappresentati gli elementi, le dimensioni, la posizione, la ricchezza di particolari) dei principali aspetti della classe
con cui l’allievo dovrebbe instaurare un rapporto di fiducia, ovvero gli insegnanti, i compagni, l’aula quale spazio affettivo e
di apprendimento, se stesso.
Il presente lavoro riporta i primi risultati condotti, in termini esplorativi, nell’ambito di uno studio volto a verificare la forza
del Disegno della classe sotto il profilo psicometrico. In particolare, con riferimento ai disegni sinora codificati, si affrontano
le analisi introduttive alla dimostrazione della validità di contenuto, attraverso gruppi di confronto, e concorrente, dello
strumento.
Metodo
Le analisi sono state avviate considerando 401 Disegni della classe eseguiti da alunni dai 5,10 ai 14 anni (M=8,93;
d.s.=2,449), in leggera prevalenza di sesso maschile (52,1%), appartenenti a scuole di differente grado (104 allievi di scuola
dell’infanzia, 200 studenti della primaria, 97 frequentanti la scuola superiore di primo grado).
Al fine di affrontare i primi studi concorrenti di validità, con riferimento ai singoli elementi del Disegno della classe e tenuto
conto dei limiti di età di somministrazione, sono stati analizzati i dati ricavati dall’impiego di più strumenti. La qualità della
relazione insegnante-allievo è stata rilevata mediante questionari indirizzati agli insegnanti (Student-Teacher Relationship
Scale, Fraire, Longobardi, Sclavo, 2006), agli studenti (Student-Teacher Relationship Questionnaire, Tonci, 2005; Test delle
relazioni interpersonali, Bracken, 1996) ed attraverso una scheda di valutazione compilata da un osservatore esterno; il
livello di socializzazione è risultato dal Sociometrico di Moreno, dalla Friendship Qualities Scale (Fonzi, Tani, Schneider,
1996), dalla versione autovalutativa del questionario Indicatori della Capacità di adattamento sociale in età evolutiva
(Caprara et al., 1992) e nuovamente dal TRI; la percezione di sé è emersa dal Test di Valutazione del disagio della
dispersione scolastica (Mancini, Gabrielli, 1998) e dal Test di valutazione multidimensionale dell’autostima (Bracken, 1993);
gli aspetti motivazionali, legati all’interesse ed al successo scolastico sono stati ricondotti unicamente alle valutazioni del
rendimento scolastico riportate dai docenti.
Risultati
Oltre la metà degli studenti (indipendentemente dal sesso) raffigura se stesso, i compagni e l’insegnante all’interno di
un’aula. Sono gli alunni che non raggiungono un alto rendimento scolastico a svalutare maggiormente le figure della classe
(Sé: ²(df4)=23,283; p<.01; Insegnante: ²(df4)=27,831; p<.01; Compagni: ²(df4)=24,533; p<.01) non riportandole o
disegnando solamente un particolare che le ricordi (ad esempio la cattedra per l’insegnante, i banchi per i compagni).
Circa i primi risultati sulla validità concorrente, emergono associazioni significative principalmente tra la modalità di
riportare l’insegnante nel disegno ed il livello di vicinanza instaurato nella relazione tra questi e l’allievo, come da punteggi
riportati nelle valutazioni della qualità relazionale effettuate dalla figura educativa (F(df1)=12,288; p<.01), dai bambini
(F(df1)=8,330; p<.01) ed anche da un osservatore esterno (F(df1)=9,112; p<.01).
La raffigurazione dei pari, più frequentemente omessa nella scuola dell’infanzia mentre quasi sempre presente nei disegni
degli alunni di scuola media ( ²(df4)=37,917; p<.01), non risulta legata alla percezione che l’allievo ha delle proprie capacità
di adattamento sociale e della qualità delle relazioni amicali instaurate, si evidenzia invece associata lievemente allo status
sociale attribuito dai compagni e, per gli alunni più grandi, al livello di disagio scolastico esperito ( ²(df4)=10,710; p<.05).
Più spesso l’alunno che ha una buona relazione con l’insegnante rappresenta se stesso graficamente e arricchisce
maggiormente l’aula di particolari (sé: F(df4)=10,099; p<.05; aula: F(df2)=8,626; p<.01) e riporta punteggi inferiori nel
TVD (sé: ²(df4)=10,099; p<.05; aula: F(df2)=3,983; p<.05 ).
Keywords
drawing (validity), school adjustment, student’s perpectives
222
SCALA DI AUTOEFFICACIA PERCEPITA NELLO STUDIO DELLA MUSICA
MASSIMO INGRASSIA, LOREDANA BENEDETTO
Sezione di Psicologia, Dip. di Pedagogia e Scienze dell'Educazione, Università degli Studi di Messina
[email protected]
Nel contesto dell’educazione musicale scolastica non sembrano esserci in letteratura scale di valutazione del senso di
autoefficacia sviluppate per studenti molto giovani che apprendono l’uso di uno strumento. Alcune eccezioni (ad es.
McPherson e McCornick, 2006) hanno riguardato giovani musicisti esperti ed hanno confermato come il senso di
autoefficacia sia altamente correlato alle prestazioni effettivamente svolte dai musicisti nel corso delle loro esecuzioni. Scopo
della presente ricerca è indagare il ruolo delle credenze d’autoefficacia nello studio della musica attraverso una scala
dominio-specifica (Bandura, 2001) appositamente concepita per allievi delle scuole secondarie di primo grado. In particolare,
obiettivi dello studio sono valutare: 1) le relazioni tra autoefficacia musicale e altre dimensioni legate al successo negli studi,
quali l’emotività, l’adattamento scolastico e sociale, le relazioni familiari; 2) eventuali differenze di genere e in funzione
degli anni di studio; 3) se le misure di autoefficacia siano predittive delle intenzioni sulle scelte future.
Metodo. Hanno preso parte alla ricerca 154 ragazzi (età media 11.88 anni) e 119 ragazze (età media 11.72 anni) della scuola
secondaria di I grado (range d’età 11-14 anni). I soggetti frequentavano tutti le classi (prima, seconda e terza) delle sezioni ad
indirizzo musicale.
Gli strumenti utilizzati sono: a) la Scala di autoefficacia percepita nello studio della musica, un test composto da 14 item con
risposte di tipo Likert a 5 punti (da 1 = per nulla capace a 5 = del tutto capace): le asserzioni si riferiscono ad abilità musicali
generali (come leggere uno spartito a prima vista) e a specifiche tecniche di studio (come memorizzare un brano). Gli item
erano stati generati intervistando cinque musicisti esperti in didattica della musica e testati in uno studio precedente
(Ingrassia e Benedetto, 2004); b) il test ACESS di Vermigli et al. (2002) sugli indicatori cognitivo-emozionali del successo
scolastico; c) un’intervista semistrutturata per esplorare le motivazioni, personali e familiari, per lo studio di uno strumento e
l’intenzione a proseguire gli studi musicali dopo il triennio secondario; d) una giudizio di rendimento degli insegnanti di
educazione musicale (1 = non sufficiente, 2 = sufficiente, 3 = buono, 4 = distinto, 5 = ottimo). In una prima rilevazione sono
stati proposti ai partecipanti in forma collettiva la Scala di autoefficacia e il test ACESS; in un secondo momento è stata
proposta in forma individuale l’intervista semistrutturata e, soltanto ad alcuni, una seconda somministrazione della scala di
autoefficacia. Gli insegnanti compilavano i loro giudizi alla fine del quadrimestre.
Risultati e discussione. a) Misure di attendibilità della Scala di autoefficacia: l’alfa di Cronbach è risultata pari a .89; il
coefficiente r di Pearson per le fasi test-retest (n = 76) è risultato pari a .82, p<.01. Positivi i risultati delle correlazioni tra le
medie di item e il totale di scala, tutte significative per p<.01.
b) Correlazione con le valutazioni degli insegnanti: significativamente positiva (r = .52, p<.001) la correlazione tra i totali di
scala e le valutazioni degli insegnanti.
c) Le correlazioni tra i punteggi di autoefficacia e altre dimensioni dell’adattamento scolastico valutate con l’ACESS
(adattamento scolastico generale, emotività, relazioni familiari e totale ACESS) sono risultate significativamente positive
(p<.01).
d) Disegno 2 (genere: maschi vs. femmine) x 3 (classi: I, II e III): un’analisi della varianza univariata 2 x 3 ha evidenziato un
valore di F significativo (p<.001) per la variabile classi, con differenze di medie significative per le classi I e II vs. le III, e
nessun valore significativo di F per la variabile genere e per l’interazione genere*classi.
e) Intenzioni future degli allievi: gli allievi sono stati suddivisi in due gruppi con bassa e alta autoefficacia, includendovi
coloro che, in riferimento alla media generale, ottenevano punteggi rispettivamente più bassi o più alti di una deviazione
standard. È risultata sensibilmente più alta la percentuale di chi intende proseguire gli studi tra coloro con alto senso di
autoefficacia; questi ultimi, inoltre, hanno riportano con maggiore frequenza fattori motivazionali di tipo intrinseco per
giustificare le proprie scelte di studio.
In conclusione riteniamo che la Scala possa essere un utile strumento in ambito orientativo e un valido ausilio per
individuare, alla fine di un primo anno di studi, quegli allievi che richiedono un maggiore aiuto nell’affinamento delle
tecniche strumentali e con strategie di studio più efficaci.
Keywords
self-efficacy scale, musical education, junior high school
223
Sezione tematica 10
COSTRUZIONE DEL MONDO SOCIALE: CREDENZE,
RAPPRESENTAZIONI, ATTEGGIAMENTI
Coordina: Anna Emilia Berti
Università degli Studi di Padova
224
ADOLESCENTI E VIDEOGIOCHI: COMPORTAMENTI DEI FIGLI E CREDENZE DEI GENITORI
ANTONIO LO PERFIDO, BARBARA MUZZATTI
Azienda per i Servizi Sanitari n.6 “Friuli Occidentale”,
[email protected]
Introduzione
L’elevata disponibilità, il facile accesso, l’ampia diffusione e, perché no, il loro essere accattivanti, inducono a considerare i
videogiochi non solo come un oggetto “di uso”, ma anche come un possibile oggetto di abuso o di dipendenza. La
preoccupazione si focalizza sui possibili risvolti sociali (isolamento, ritiro…) e cognitivi (disattenzione, stanchezza,
distorsioni percettive…) di un loro utilizzo inappropriato (Gross, 2004; Gross et al., 2002; McKenna & Bargh, 2000;
Subrahmanyam et al., 2001). Con la presente ricerca, si è inteso indagare l’utilizzo dei videogiochi da parte di un campione
di adolescenti; inoltre, si sono confrontate le risposte dei ragazzi con le credenze dei genitori, in modo da cogliere eventuali
“incongruenze” tra quanto dichiarano i primi e quello che credono i secondi.
Metodologia
Il campione è costituito da 188 studenti (48% maschi e 52% femmine) delle scuole medie di primo (40%) e secondo (60%)
grado (età mediana = 14 anni; range: 12-17) e da 151 genitori (76% madri e 24% padri; età mediana = 45 anni; range: 3154), residenti nella stessa area cittadina del nord-est di Italia. Lo strumento impiegato è un questionario self-report, costruito
per l’indagine e declinato in due versioni sostanzialmente sovrapponibili: una versione per i ragazzi (36 item) e una per i
genitori (30 item) in cui si invitava il compilatore a rispondere riferendosi al figlio adolescente. L’arruolamento dei
partecipanti è avvenuto per gruppi classe: i ragazzi compilavano, in forma anonima, il questionario in aula, i genitori a casa,
riconsegnandolo poi all’istituzione scolastica frequentata dal figlio/a. In base alla natura dei diversi dati raccolti, si sono usate
analisi statistiche di tipo non parametrico e parametrico.
Risultati e conclusioni
I risultati indicano che circa 8 studenti su 10 usano videogiochi, tra questi quelli più impiegati sono quelli su PC, consolle e
telefonino; la frequenza d’uso è di 2-3 volte alla settimana. In una lista di 12 attività di tempo libero, i videogiochi si
collocano, per gli studenti coinvolti nella presente ricerca, al settimo posto, compresi tra attività predilette più socializzanti
(quali uscire con gli amici, fare sport) e i meno desiderati lettura ed ozio. I maschi, rispetto alle femmine, dichiarano in
misura maggiore di utilizzare i videogiochi; utilizzano maggiormente videogiochi per consolle o con hardware dedicato, ma
non quelli su PC o telefonino; prediligono di più impiegare il proprio tempo libero dedicandosi ad essi; riportano in misura
maggiore distorsioni della percezione temporale, modificazione della propria routine, vissuti positivi dei videogiochi e
ricerca/bisogno di utilizzarli. Analogamente, gli studenti della scuola media di primo grado, rispetto agli studenti della scuola
media di secondo grado, in misura maggiore dichiarano di utilizzarli e di prediligerli come attività di tempo libero, nonché
riferiscono maggiori distorsioni nella percezione temporale. Le percezioni dei genitori, circa la frequenza e le modalità d’uso
dei videogiochi da parte dei propri figli, non si discostano sostanzialmente da quanto riportato dai ragazzi stessi. Tuttavia, va
evidenziato come i ragazzi, rispetto ai genitori, riportino in misura maggiore sequele fisiche dell’utilizzo di videogiochi e la
loro percezione in chiave positiva, ma non distorsioni della percezione temporale, modificazione della routine e
bisogno/ricerca di utilizzare videogiochi. Se pure non priva di intrinseche limitazioni, la presente indagine esplorativa offre
spunti applicativi e di ricerca degni di considerazione.
keywords
Adolescents, parents, videogames
225
IL CONCETTO DI LAVORO IN BAMBINI DI SCUOLA ELEMENTARE E MEDIA
LEA FERRARI, LAURA NOTA, SALVATORE SORESI, TERESA MARIA SGARAMELLA
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
[email protected]
Introduzione
Per conoscere lo sviluppo dell’identità professionale, secondo la psicologia che si occupa dello sviluppo professionale, è
fondamentale prendere in esame il concetto di lavoro e gli atteggiamenti che le persone hanno verso di esso (Blustein, 2006;
Super, 1990). Alcuni lavori hanno messo in evidenza che le idee sul lavoro e i pensieri circa il futuro influenzano la
motivazione a darsi da fare in attività associate allo sviluppo professionale, l’impegno scolastico, l’esplorazione
professionale, la raccolta di informazioni, la pianificazione dei propri obiettivi, la scelta professionale, e sembrano essere
influenzati da fattori quali il prestigio, l’età e il genere (Auger, Blackhurst, & Wahl, 2005; Lent, Brown, & Hackett, 1994).
A proposito del concetto di lavoro, uno studio effettuato con adolescenti italiani in procinto di scegliere la facoltà alla quale
iscriversi non ha individuato differenze associate al livello socioeconomico, ma soprattutto al rendimento scolastico e a
maggiori capacità di affrontare la vita scolastica. Sono emerse definizioni poco chiare, idee di lavoro simili fra soggetti con
percorsi formativi differenti, un concetto di lavoro in generale poco articolato, ‘povero’, e centrato soprattutto sulla ricerca di
vantaggi economici (Ferrari, Nota, Soresi, Blustein, Murphy, & Keanna, in press). Risultati analoghi sono emersi anche in
uno studio che ha coinvolto soggetti di scuola media (Ferrari, Nota, & Soresi, 2007). Per quanto riguarda in specifico l’età
evolutiva un recente lavoro di Schultheiss, Palma e Manzi (2005), ha messo in evidenza che i bambini hanno delle idee sul
lavoro centrate sull’importanza dei vantaggi economici che permette di ottenere per sé e per la propria famiglia e per il
supporto che permette di dare agli altri.
Data la complessità del mondo del lavoro attuale appare come particolarmente importante conoscere le idee e gli
atteggiamenti dei bambini nei confronti del lavoro al fine di supportare lo sviluppo delle loro conoscenze professionali e
mettere a punto degli interventi di orientamento maggiormente personalizzati e preventivi. Più in specifico in questo lavoro
si è ipotizzato di trovare delle differenze associate al genere, in particolare che i maschi prediligessero lavori per l’area
realistica e investigativa e le femmine per l’area artistica e sociale e che vi fossero differenze associate all’età tenendo conto
del fatto che nel passaggio dalle scuole elementari alle scuole medie sembra esservi una diminuzione nella gamma degli
interessi professionali (Tracey, 2002). Ci si attendeva inoltre che venisse confermata la valenza economica del lavoro come
evidenziato in letteratura.
Metodo
Partecipanti: sono stati coinvolti nello studio 120 bambini italiani tra gli 8 e gli 11 anni di cui 60 maschi e 60 femmine.
Strumenti : è stato chiesto loro di rispondere ad una serie di domande aperte formulate sulla base di quanto suggerito nel
lavoro di Schultheiss et al. (2005). Sono state analizzate in particolare le risposte relative alle domande: “Quale lavoro
vorresti fare da grande più di tutto?”; “Qual’ è la tua definizione di lavoro?”; “Le cose che sai sul lavoro come le hai
imparate?”
Procedura: la somministrazione è stata effettuata da uno psicologo esperto di orientamento in contesto di piccolo gruppo
durante l’orario scolastico. Le risposte alla prima domanda sono state classificate facendo riferimento al modello di Holland
e al Dictionary of Holland Occupational Code (Gottfredson & Holland, 1996). Le risposte alla seconda e alla terza domanda
sono state classificate facendo riferimento a quanto suggerito da Chaves et al. (2004) e alla griglia di codifica sviluppata da
Soresi, Nota e Ferrari (2007).
Analisi: allo scopo di verificare se i bambini si caratterizzavano diversamente in termini di categorie identificate sulla base
del genere e dell’età, sono state realizzate delle analisi dei Chi quadrato. Successivamente è stato applicato il modello loglineare basato sul modello saturo (Goodman & Kruskal, 1979).
Risultati
Le analisi condotte hanno confermato l’ipotesi che esistano delle differenze di genere ( 2(5) = 38.886, p = .001). I maschi
preferiscono le attività realistiche e le femmine attività artistiche. Contrariamente a quanto ipotizzato non sono emerse
differenze associate all’età. Come atteso viene confermata la rilevanza del significato economico del lavoro, citato dal 44.2%
dei bambini (Schultheiss et al., 2005) che hanno anche menzionato sia caratteristiche positive (26%) che negative del lavoro
847.5%). Ciò permette di sostenere che i bambini di quest’età iniziano a comprendere che il lavoro può essere sia qualcosa di
interessante sia qualcosa che richiede sforzo e sacrificio. Infine i bambini affermano di aver appreso ciò che sanno del lavoro
soprattutto da modelli adulti (79.2%), osservandoli e ascoltandoli e ciò pone in primo piano il ruolo che le figure significative
possono avere sullo sviluppo professionale.
Keywords
Conceptions of Working; Children; Career Development
226
CONTESTI EDUCATIVI E PUNTI DI INTERSEZIONE: GLI INCONTRI SCUOLA-FAMIGLIA
GIUSEPPINA MARSICO, ANTONIO IANNACCONE
Università di Salerno
[email protected]
Introduzione
Il presente studio ha lo scopo di descrivere quanto avviene in una serie di eventi “critici” nel corso dei quali genitori con figli
preadolescenti prendono parte alla “cerimonia” della consegna dei giudizi scolastici.
Da un punto di vista sistemico e culturale (Bronfenbrenner, 1979;Bruner, 1990, 1996) potremmo dire che l’evento “consegna
dei giudizi” rappresenta l’occasione in cui il microsistema famiglia e il microsistema scuola si incontrano/scontrano
sollecitando le connessioni mesosistemiche (sia quelle riuscite e proficue che quelle mancate o improduttive) tra due contesti
di vita decisivi per la crescita di una persona. Si tratta di uno spazio sociale in cui entrano in contatto due “mondi" connotati
da specifici sistemi di credenze, proprie modalità organizzative, particolari “climi sociali” e punti di vista (talune volte anche
molto distanti) sui processi formativi, la crescita del figlio/alunno e le modalità di gestione della relazione adulto/ragazzo.
Negli incontri scuola-famiglia gli attori sociali mettono in scena tutta la complessità delle dinamiche interpersonali in un
contesto istituzionale. Del resto, tali eventi sono anche incontri di voci diverse che raccontano punti di vista differenti,
modulate da particolari prospettive sociali e culturali che appartengono alle esperienze che i partecipanti hanno vissuto.
L’obiettivo della ricerca è stato quello di individuare alcune modalità attraverso le quali “la cultura scolastica” entra in
contatto con quella “familiare” in una dinamica di delimitazione di competenze intorno al problema centrale dell’educazione
dei minori. In particolare è stata posta attenzione ai discorsi che scuola e famiglia costruiscono durante l’evento “consegna
dei giudizi”, giustapposizione di due tipi di “percezioni” degli esiti di una pratica educativa. Come avviene in ogni spazio
sociale questo confronto induce una regolazione fra i partecipanti che giungeranno a convergere o dissentire nella
valutazione del preadolescente; le culture scolastica e familiare, nella situazione di incontro determinata dalla esplicitazione
della valutazione, dovranno necessariamente entrare in contatto in uno spazio microsistemico. Se nella vita quotidiana
famiglia e scuola si incontrano quasi sempre in una dimensione mediata dal figlio/allievo, in questo caso l’incontro diventa
un faccia a faccia dove le rispettive rappresentazioni di figlio/allievo entrano in contatto diretto in uno spazio
conversazionale che può obbligare i partecipati ad una sorta di disvelamento identitario.
Metodo
Hanno preso parte alla ricerca ventidue famiglie di studenti di una Scuola Media della provincia di Salerno. In una prima fase
sono stati audio-registrati gli incontri scuola/famiglia e, in una seconda fase, è stata condotta un’intervista semi-strutturata
alle famiglie immediatamente dopo la consegna della scheda di valutazione. L’intervista, integralmente filmata, ha
interessato le seguenti aree: a) opinioni sulla valutazione scolastica, b) opinioni sulla scuola c) stili educativi dei genitori d)
adolescenza e relazioni familiari.
L’intero corpus dei dati è stato trascritto secondo la notazione jeffersoniana semplificata. E’ stata poi condotta un’analisi del
contenuto delle interviste ai nuclei familiari.
Risultati
Le registrazioni degli incontri e le analisi delle interviste hanno delineato un quadro intrigante dell’incontro “scuolafamiglia”. Quando “la famiglia va a scuola” per informarsi sui giudizi scolastici dei figli la situazione diviene, in quasi tutti i
casi, un “affare di adulti”. Ai ragazzi, che dovrebbero essere i protagonisti a tutti gli effetti di quanto sta accadendo, viene
riservato uno spazio conversazionale davvero minimo. Nel corso dell’incontro della famiglia con il docente predomina, di
fatto, la necessità del confronto fra le due culture educative.
Il successo o l’insuccesso del ragazzo assume in molti casi il significato di una vera e propria “posta in gioco” che vede
misurarsi le diverse concezioni educative della famiglia e della scuola. Al tempo stesso i discorsi intorno ai giudizi
divengono la cartina di tornasole delle difficoltà della scuola (ed in parte della famiglia) di gestire un cambiamento sociale
che l’ha parzialmente svuotata di quella dimensione di autorevolezza che ha intriso buona parte della sua storia istituzionale.
Le analisi condotte hanno permesso di individuare una serie di temi principali e di temi specifici che fanno luce sui processi
di attribuzione che i genitori mettono in atto per spiegare il successo o l’insuccesso scolastico consentono, altresì, di
descrivere la dinamiche di negoziazione fra le rappresentazioni che gli insegnanti e le famiglie posseggono dei figli/allievi.
Il valore scientifico della ricerca è sostanzialmente riconducibile all’originalità del tema indagato (l’intersezione dei contesti)
e alla combinazione di tecniche qualitative.
Keywords
school, family, meetings
227
DIMENSIONI PSICOLOGICHE ED EDUCATIVE DEI COMPORTAMENTI VIDEOLUDICI:
GENITORI E FIGLI A CONFRONTO
ANGELICA ARACE, CRISTIANO OCCELLI, LAURA ELVIRA PRINO
Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Psicologia
[email protected]
Introduzione
Recenti rapporti di ricerca sulla condizione dei bambini e degli adolescenti in Italia e sulle loro abitudini ludiche stimano
intorno all’88% la percentuale di coloro che utilizzano più di una console di gioco, dedicando al videogiocare da una a tre ore
dell’attività ludica giornaliera, e questo a partire da età sempre più precoci: tra i media utilizzati i videogiochi rappresentano
rispettivamente il 26,5%, 64,7% e 74,5% nelle fasce di età 3-5, 6-10 e 11-13 anni (Aesvi, 2005; Istat, 2007). Nonostante
l’ampia diffusione dei media elettronici, ancora poco numerose sono le ricerche in ambito nazionale sulle implicazioni
psicologiche ed educative dell’uso dei videogiochi, intesi in termini di artefatti culturali storicamente collocati (Di Blasio,
2004), di strumenti di socializzazione cognitiva e ambienti di apprendimento che influiscono sullo sviluppo cognitivo,
affettivo e della personalità (Marchetti, 1997; Bartolomeo, 2004; Vaca, Serrano, 2007). Partendo da questa prospettiva, la
ricerca presentata ha inteso approfondire rischi e potenzialità dell’attività videoludica, focalizzando l’attenzione sul confronto
tra genitori e figli riguardo ad alcuni temi quali frequenza e durata giornaliera dell’uso dei videogiochi, preferenze
videoludiche dei ragazzi, strategie educative utilizzate dai genitori per regolamentare l’uso dei videogiochi e influenza delle
attività videoludiche sullo sviluppo cognitivo, metacognitivo, affettivo e sociale dei ragazzi.
Metodo
Lo strumento utilizzato è un questionario a risposte chiuse, costruito ad hoc, e somministrato ad un campione di 150 bambini
e ragazzi di età compresa fra 6 e 14 anni (m=10,17), di cui il 58,7% maschi e il 41,3% femmine, frequentanti la scuola
primaria per il 58,4% e la scuola secondaria inferiore per il 41,6%. Un questionario con domande analoghe è stato
somministrato a 300 genitori, equamente distribuiti fra padri e madri, di età compresa fra 26 e 54 anni (m=40,02). I due
campioni sono stati trattati come indipendenti, dal momento che non è stato possibile procedere all’appaiamento dei
questionari.
Principali risultati
Le analisi preliminari hanno evidenziato che le maggiori differenze significative rispetto ai comportamenti videoludici sono
da ricondursi al genere dei soggetti più che all’età. Data l’ampiezza dei dati raccolti, però, in questa sede saranno esposti solo
i principali risultati riguardanti il confronto genitori-figli. Nel complesso è emerso che i genitori sottostimano l’utilizzo dei
videogiochi da parte dei ragazzi: i figli infatti dichiarano di giocare più volte al giorno e per più tempo di quanto riportano gli
adulti ( 2=24.683, df=3, p<.001; 2=16.139, df=3, p<.001). Accanto alla carenza di monitoraggio, l’analisi dei dati ha
evidenziato una scarsa partecipazione dei genitori all’attività videoludica dei figli: essi risultano poco consapevoli del
desiderio dei figli di condividere con loro la passione per i videogiochi ( 2=26.151, df=1, p<.001) e si dichiarano più
interessati ai giochi ( 2=28.362, df=1, p<.001) e disponibili a discuterne i contenuti rispetto a quanto affermato dai figli ( 2
=21.107, df=1, p<.001). Il gap generazionale è confermato anche dalla discrepanza emersa riguardo alla percezione delle
regole e delle strategie educative utilizzate dai genitori per regolamentare l’uso dei videogiochi: nel complesso i figli
valutano i genitori più permissivi di quanto facciano i genitori stessi, che invece affermano di disciplinare maggiormente i
tempi dell’attività videoludica ( 2=4.623, df=1, p<.05).
In merito alle influenze sui processi di sviluppo, i genitori enfatizzano, rispetto ai figli, i rischi correlati all’uso dei
videogiochi, in termini, ad esempio, di problematiche di dipendenza dai giochi elettronici, i cui contenuti vengono
considerati intrusivi per le attività cognitive della veglia ( 2 =56.036, df=2, p<.001) e disturbanti il sonno ( 2=10.541, df=3,
p<.05).
Sono state inoltre rilevate differenze significative riguardo alla percezione della dimensione socio-relazionale dell’uso dei
prodotti videoludici: i genitori considerano il gioco elettronico una modalità sostanzialmente individuale e solipsistica di
divertimento, mentre i figli dichiarano di prediligerne la dimensione sociale con i coetanei ( 2=20.818, df=1, p<.001).
Per quanto riguarda le potenzialità in termini di sviluppo cognitivo e metacognitivo, i ragazzi riportano di utilizzare nei
contesti di vita quotidiana strategie di problem solving acquisite durante il gioco in misura maggiore rispetto a quanto
indicato dai genitori, che invece sembrano sottovalutare le possibilità di apprendimento tramite processi di generalizzazione e
di trasferimento delle conoscenze acquisite ad altri ambiti esperienziali didattici e non ( 2=8.549, df=1, p<.01).
Al fine di ampliare le riflessioni sopra esposte, sono in corso ulteriori analisi per approfondire eventuali specificità di genere
e generazionali nel confronto tra le rappresentazioni di genitori e figli.
Keywords
Videogame playing; Parents' and Children's Perceptions; Cognitive and Social Development
228
RITUALI DI APPROPRIAZIONE E PRATICHE DI ATTRIBUZIONE NEI CONTESTI DI VITA QUOTIDIANA
DEL BAMBINO
RAFFAELLA ROSCIANO
Université de Neuchâtel & Università degli Studi di Salerno
[email protected]
Introduzione
Il presente lavoro partecipa di un progetto di ricerca condotto nel quadro di un dottorato di ricerca italo-svizzero, di cui
l’obiettivo generale è lo studio dei processi di costruzione del senso di proprietà nei bambini tra i 18 e i 48 mesi.
Tale ricerca si situa in una cornice di studi in psicologia sociale dello sviluppo che trova nelle interazioni la matrice dei
processi di costruzione del pensiero, del comportamento e dell’identità. Diversamente dalle ricerche condotte in questo
ambito secondo un approccio cognitivista (Berti & Bombi, 1981) e clinico (Winnicott, 1971) che descrivono il processo di
costruzione dell’idea di proprietà e del sentimento d’appartenenza in chiave intra-individuale, il nostro lavoro intende
indagare e descrivere tali processi a partire dalle pratiche educative e dalle relazioni che il bambino vive.
L’ipotesi da cui muove questo lavoro consiste nel considerare che i processi di definizione della proprietà da parte del
bambino siano piuttosto di natura inter-individuale: il bambino definisce ció che gli appartiene insieme agli altri,
socialmente.
Questo lavoro analizza in particolare le modalità e le strategie di presa di possesso da parte del bambino e la loro cocostruzione a partire dalla descrizione delle situazioni quotidiane, relazionali ed educative, nelle quali esse emergono.
Metodologia
Per descrivere come il bambino impari ad impossessarsi di alcuni oggetti del suo quotidiano ci si è avvalsi di piú strumenti di
rilevazione, basati su una metodologia di tipo etnografico. Sono state osservate le pratiche e le relazioni di un centinaio di
bambini con adulti (genitori e educatori) e tra coetanei, nei loro ambienti di vita quotidiana (in famiglia e al nido). Tre anni di
osservazione semi-partecipante sono state annotate su un diario di campo. Sono state altresí videoregistrate le attività infantili
al nido, nel corso di 15 giorni interi.
L’analisi, di tipo qualitativo, è stata condotta selezionando sistematicamente, nel corpus ottenuto dalle osservazioni e dai
video delle 15 giornate al nido, tutti gli episodi di conflitto verificatisi tra i bambini per la condivisione difficoltosa degli
oggetti presenti. Per ciascuno di tali conflitti è stata ricostruita la micro-genesi (antecedenti, cause immediate, condotte
durante la disputa, risoluzione adottate). Partendo da una prospettiva bruneriana, i conflitti sono stati descritti ed interpretati
come momenti di rottura nelle pratiche e regole condivise, riguardanti la gestione e circolazione degli oggetti in tali contesti.
Le modalità di risoluzione dei conflitti sono state interpretate come dei tentativi di ridefinizione intersoggettiva di pratiche e
regole comuni, e del connesso modo di intendere l’associazione di oggetti a persone.
Rifacendosi ai modelli analitici proposti dai Teorici dell’Attività, sono inoltre stati individuati e classificati gli oggetti di
volta in volta contesi, identificati gli scopi sociali e individuali di cui risultavano lo strumento, all’interno delle pratiche in
vigore nelle piccole comunità prese in esame.
Risultati
L’analisi delle pratiche quotidiane e dei conflitti per la gestione e circolazione degli oggetti in famiglia e nelle strutture per
l’infanzia, effettuato sulla base dei modelli bruneriani e della Teoria dell’Attività, ha consentito di mettere in evidenza il
ruolo importante giocato dalle pratiche educative nel processo di definizione e ridefinizione dei rapporti di proprietà che
legano soggetti ed oggetti. Dallo studio condotto emerge che:
-Gli adulti pre-definiscono il sistema di vita e lo modulano nel corso delle interazioni con i bambini sulla base di pratiche di
attribuzione regolare e stabile di oggetti a bambini, con lo scopo di individualizzare e personalizzare la loro cura fisica e
psicologica.
-Accanto ai processi di attribuzione operati dagli adulti, i bambini mettono in scena dei rituali di presa di possesso (che
consistono nell’avvicinamento progressivo e continuo, fisico e simbolico, dell’oggetto alla propria persona) che permettono
loro di scegliere attivamente ció di cui vogliono impossessarsi. Tali rituali, consentono al bambino realizzare le stesse finalità
sociali e identitarie indicate dagli adulti
-Gli oggetti personali vengono indicati dagli adulti ed assunti dai bambini quali strumenti privilegiati atti a favorire i
processi di definizione identitaria. Essi aiutano in particolare i bambini a costruire un’immagine di Sé come individui
“separati” e contemporaneamente in relazione con gli altri.
-Le attribuzioni operate dagli adulti cosí come le prese di possesso operate dai bambini tramite la messa in scena di rituali
sono costantemente negoziate e condivise con i vari partners relazionali, nel corso delle interazioni quotidiane piuttosto che
elaborate individualmente.
Keywords
ownership, children, educational practices
229
ATTEGGIAMENTI DEI BAMBINI VERSO GLI SPOT PUBBLICITARI E CONFORMISMO DEI GENITORI
MARIA D’ALESSIO, FIORENZO LAGHI, ROBERTO BAIOCCO, GRAZIA GURRIERI
Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Facoltà di Psicologia 1, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
[email protected]
Introduzione
Una comprensione consapevole e matura della pubblicità è un processo complesso per un bambino e comporta l'acquisizione
di due abilità principali. La prima si riferisce alla possibilità di discriminare a livello percettivo tra messaggio pubblicitario e
programma televisivo. La seconda si riferisce alla capacità del bambino di comprendere l'intento persuasivo dello spot
televisivo e di confrontare ciò che vede con le sue pregresse conoscenze del mondo. Queste due abilità si sviluppano con
l'età, sono in funzione della crescita cognitiva del bambino e solo in parte sono influenzate dalla quantità di esperienze o di
visione della televisione. La letteratura è concorde nell'affermare che tra i 7 e gli 8 anni il bambino inizia a essere in grado di
comprendere l'intento persuasivo della pubblicità. Nella letteratura internazionale sono presenti pochi strumenti che valutino
gli atteggiamenti dei bambini riguardo alla pubblicità e le uniche dimensioni indagate sono la credibilità e il gradimento degli
spot. Tali strumenti spesso presentano alcune lacune sia rispetto alla validità di contenuto che agli indicatori analizzati. Quasi
tutte le ricerche si sono focalizzate su fasce di età molto ampie senza considerare le fasi di sviluppo del bambino e senza
tener conto delle influenze che i genitori possono esercitare sui figli. Lo scopo del presente contributo è verificare: a) le
qualità psicometriche della scala CAAS (D’Alessio, Laghi e Baiocco,2008) con bambini dai 7 agli 11 anni; la relazione tra
atteggiamenti nei confronti degli spot (Credibilità, Gradimento e Fiducia/Propensione all’acquisto) e numero di marche
indossate dai bambini; il grado di concordanza tra le valutazioni espresse dai bambini e quelle dei propri genitori; l’influenza
che il conformismo dei genitori può esercitare sugli atteggiamenti dei bambini riguardo alla pubblicità.
Metodo
Soggetti: La ricerca è stata effettuata su un campione intenzionale di 500 soggetti di età compresa tra i 7 e gli 11 anni (50.8%
M e 49.2% F) e i rispettivi genitori. Strumenti. Ai bambini sono stati somministrati: la scala CAAS (D’Alessio, Laghi e
Baiocco, 2008) che misura la Credibilità, il Gradimento e la Fiducia e Propensione all’acquisto; il test grafico Le mie marche
(D’Alessio e Laghi, 2006), in cui si chiede al bambino di disegnare su una sagoma (maschile o femminile) tutti gli oggetti di
marca indossati; ai genitori sono stati somministrati: la scala CAAS nella forma eterovalutativa, un questionario informativo
che raccoglie dati relativi alla fruizione televisiva del bambino; la scala Iova-Netherlands Comparison Orientation Measure
(INCOM: Gibbons e Buunk, 1999) per la valutazione del conformismo.
Risultati
La struttura fattoriale della CAAS è stata sottoposta a verifica con un’analisi fattoriale confirmatoria utilizzando il software
LISREL 8.30 per Windows. A tale scopo, per ogni scala sono stati creati indicatori secondo il suggerimento di Bollen, al fine
di ottenere una maggiore stabilità dei parametri, un controllo sull’idiosincrasia degli item e una semplificazione del modello
interpretativo. Per ognuno sono stati creati due indicatori sommando, in maniera randomizzata, da 2 a 3 item. La struttura
fattoriale è stata confermata: gli indici di fit, infatti, mostrano dei valori accettabili (bambini: RMSEA= 0,058 e AGFI=
0,941; genitori: RMSEA= 0,059 and AGFI = 0,933). I risultati della MANOVA fattoriale 2X5, considerando come variabili
indipendenti il genere e l’età (7,8,9,10,11 anni) e come variabili dipendenti i punteggi dei bambini alle dimensioni della
CAAS, rileva solo un effetto principale legato all’età (Wilks’s Lambda=0.80; F12,1291= 9.68; p<.001) e non al genere
(Wilks’s Lambda=0.99; F3,488= 1.64; n.s.). La scomposizione degli effetti univariati ha evidenziato che i bambini di 7 anni
ottengono punteggi medi più elevati dei bambini di 8,9 e dei bambini di 10 e 11 anni che non si differenziano tra loro;
rispetto alle dimensioni Gradimento e Fiducia e Propensione all’acquisto sono i bambini di 7 anni ad ottenere punteggi medi
più alti; i bambini dagli 8 agli 11 anni non si differenziano tra loro. C’è una correlazione positiva significativa tra il numero
di marche indossate dai bambini e la Propensione all’acquisto (r= .58; p<.05). Rispetto al confronto tra le risposte fornite dai
genitori e quelle dei bambini è emerso che i genitori ritengono che i propri bambini credano (t=-22.31; p<.001) e gradiscano
di più gli spot (t= -10.29; p<.005); sottostimano il potere che i figli esercitano sull’acquisto dei prodotti visti in TV (t=15.88;
p<.005). I genitori più conformisti hanno bambini che ricordano un maggior numero di brands indossati e usati (r=.30;
p<.01).
Conclusioni
In sintesi i dati suggeriscono la necessità di indagare il fenomeno oggetto di studio non solo in riferimento alle variabili
evolutive inerenti il bambino ma soprattutto ponendo particolare attenzione alle variabili legate al contesto relazionale e
familiare.
Keywords
Advertising and children, Parental influence, Conformism
230
IL CLOWN NELLE RAPPRESENTAZIONI DEI BAMBINI
CATERINA CARRERI (1) , ALESSANDRA FARNETI (2), ALESSIA CADAMURO (3)
(1) Clown di corsia Laureata in Scienze della Formazione - Studentessa ´di Pedagogia
(2) Libera Università di Bolzano
(3) Università di Modena e Reggio Emilia
[email protected]
Premessa
La rinnovata popolarità del clown fa sì che egli entri in molti contesti, con finalità diverse che vanno dall’animazione alla
formazione, alla cosiddetta terapia del sorriso. Esistono, tuttavia, solo poche verifiche sperimentali e rigorose sugli effetti
psicologici del lavoro del clown in ospedale (Vagnoli, 2006; Fioranti, Spina, 1999, 2006), mentre non sono mai state fatte
ricerche su come bambini e adulti si rappresentino questo personaggio che ha radici storiche antichissime e che, nei secoli, ha
assunto compiti sociali anche molto scomodi, come dimostrano i suoi antenati più prossimi, i giullari. Si dà per scontato che
il pagliaccio susciti simpatia e che il suo principale compito sia quello di sollecitare il riso negli spettatori, anche in ambienti
in cui talvolta potrebbe essere non solo fuori luogo ma persino offensivo.
Si parla, a nostro avviso con molta superficialità, di comico-terapia o di terapia del sorriso, come se l’arte del clown fosse
rivolta solo a divertire. Alcuni autori, invece, ne hanno analizzato gli aspetti più profondi, indicandolo come una metafora
dell’Es, in un’accezione freudiana o dell’ombra, in una prospettiva junghiana (Fellini, 1970; 1999; Starobinski, 1984; Fo,
1987; Galante Garrone, 1980; Moretti, 1998; Farneti; 2004). In questo caso gli si restituisce il compito di risvegliare nello
spettatore le sue parti bambine e “briccone”, proprio per questo spesso inquietanti e difficili da riconoscere. Non è
assolutamente vero che il pagliaccio sia un innocuo giocherellone che piace ad adulti e bambini. Molti lo considerano odioso
e fastidioso e fanno molta fatica ad accettarlo nelle corsie degli ospedali o nei luoghi di sofferenza.
Le potenzialità del clowning sono, tuttavia, a nostro avviso, molto interessanti e potrebbero offrire, se ben indirizzate, una
nuova strategia di intervento psicologico.
E’ necessario, quindi, svolgere indagini sperimentali accurate per definirne bene i percorsi e gli effetti, partendo dalle
rappresentazioni spontanee di soggetti di età diverse.
Per tradizione il clown si rivolge soprattutto ai bambini che, per effetto della specularità, dovrebbero riconoscerlo subito
come la rappresentazione di un Sé trasgressivo. Per questo siamo partiti con un’indagine rivolta ai bambini di età scolare, per
verificare empiricamente cosa pensano del clown, se e come ne colgono il messaggio dissacrante del mondo adulto.
Metodologia e campione
Gli strumenti usati sono stati: un questionario a risposte chiuse, disegni ed elaborati scritti sul clown, un differenziale
semantico, costituito da 34 aggettivi, con cui si chiedeva di descrivere un clown, il papà e la mamma, gli insegnanti. La
ricerca è stata svolta in due scuole della provincia di Modena, nelle classi 3°, 4° e 5° elementare.
Il campione totale è costituito da 319 soggetti: (155 m. e 164 f. di età compresa fra i 7 e gli 11 anni). Sono state analizzate le
risposte di 307 soggetti (38 m. e 41 f. di 7/8 anni; 53 m. e 47 f. di 9 anni; 66 m. e 62 f. di 10/11 anni) al questionario e al
differenziale semantico, in quanto 13 soggetti non hanno risposto in modo attendibile.
Risultati
Le risposte alle domande del questionario hanno confermato che i bambini, in maggioranza, amano il clown e se lo
rappresentano in modo stereotipato: si veste in modo strano, è sciocco, buffo, colorato, si trucca la faccia, ha il naso rosso, è
spesso giocoliere, fa magie ecc…; fa cose strane e stupide, talvolta poco educate come le pernacchie, vuole esibirsi in numeri
difficili ma sbaglia sempre per far ridere; ama molto i bambini ai quali dedica i suoi numeri. I temi e i disegni confermano
quanto sopra.
Sui punteggi attribuiti dai bambini ai diversi aggettivi del differenziale semantico è stata effettuata un’analisi della varianza
per comparare i quattro personaggi descritti (clown, padre, madre, insegnante). Le variabili considerate sono età e sesso dei
soggetti. Riporteremo qui, per brevità, solo alcuni dei principali risultati statisticamente significativi.
In generale si sono trovate differenze significative sia per sesso (p = 0.000001) che per età (p = 0.000026) sia nell’interazione
fra i due fattori (p =. 0.000563).
Analizzando, poi, alcune coppie di aggettivi, risultano significativamente diversi
il padre e il clown, la madre e il clown, l’insegnante e il clown, agli aggettivi: strano – normale (p = 0.0001); intelligente –
stupido (p = 0.0001); educato- maleducato (p = 0.000002); bravo – somaro (p = 0.0001); profumato – puzzolente (p =
0.0001); ubbidiente – disubbidiente (p = 0.0001).
Conclusioni
I risultati confermano, quindi, con molta chiarezza che il clown Augusto è visto dai bambini come l’opposto dei genitori e
degli insegnanti; un personaggio trasgressivo che incarna tutti gli aspetti irrazionali e infantili che costituiscono i punti chiave
del processo di socializzazione e di interiorizzazione delle norme sociali.
Keywords
children clown representation
231
INTERNET E LE NUOVE TECNOLOGIE:
UN’INDAGINE TRA GLI ADOLESCENTI SULLE RAPPRESENTAZIONI ETICHE
BARBARA BRUSCHI (1), MICHELA FRAIRE (2), ALBERTO PAROLA (1), LAURA ELVIRA PRINO (2), ROCCO
QUAGLIA (2), ERICA SCLAVO (2)
(1) Dipartimento di Scienze dell’Educazione e della Formazione - Università degli Studi di Torino
(2) Dipartimento di Psicologia - Università degli Studi di Torino
[email protected]
I dati del recente rapporto Istat (2007) presentano una popolazione italiana tendenzialmente orientata alla tecnologia,
soprattutto per quanto riguarda la sua componente più giovane. Anche la letteratura di settore conferma tale tendenza e
Prensky (2001) definisce la nuova generazione di adolescenti come “nativi digitali”, evidenziandone la familiarità con le
tecnologie digitali Tale familiarità avrebbe portato ad alcune trasformazioni importanti sul piano dei processi cognitivi e
metacognitivi (Marchetti, 1997; Young, 2008), ma anche sul piano sociale (Van Oostendorp,2002; Lankshear,2003). In
campo nazionale ed internazionale diverse ricerche (Rivoltella, 2006; Bevort, Bréda, 2001) non fanno che confermare questa
tendenza verso il digitale.
Il presente lavoro si inserisce in un progetto più ampio (progetto PRIN 2006 “Internet e scuola: problematiche di
accessibilità, politiche delle uguaglianze e gestione dell’informazione”) volto a indagare le rappresentazioni
(Moscovici,1961) delle nuove tecnologie possedute da ragazzi adolescenti e insegnanti e a valutare la competenza digitale
dei ragazzi.
Nello specifico, la ricerca si focalizza sulle rappresentazioni mentali delle tecnologie, soprattutto di internet, possedute dagli
adolescenti (14-16 anni), con particolare attenzione alla dimensione etica, (aspetti connessi a legalità, sicurezza personale,
riconoscimento dei valori). A tal fine è stato costruito il questionario “ETeRe – Ethical Technology Representation” il cui
obiettivo è indagare tali rappresentazioni attraverso differenziali semantici e scale di atteggiamento. Sono indagate le finalità
con cui i ragazzi utilizzano le tecnologie e i comportamenti ritenuti più o meno corretti; inoltre, per poter disporre di un
quadro più completo e di informazioni di carattere qualitativo, il questionario prevede domande relative ai siti internet
preferiti, all’utilizzo del cellulare e vignette proiettive sull’uso di computer e cellulare. Si ipotizza che gli adolescenti italiani,
pur essendo sempre più orientati verso le tecnologie, non ne posseggano ancora una rappresentazione condivisa.
Quest’ultima, infatti, potrebbe variare sensibilmente secondo la tipologia di tecnologie a propria disposizione, l’esperienza e
la frequenza di utilizzo, il contesto socio-culturale familiare e scolastico, il sesso e l’età.
Al momento della stesura dell’abstract, la ricerca è in corso; si presentano, pertanto, i dati riferiti alla fase di pre-test,
prendendo in considerazione i questionari compilati da 60 studenti della scuola secondaria superiore. Hanno partecipato 31
maschi e 29 femmine, di età compresa fra i 14 e i 19 anni (M = 16,6), frequentanti l’istituto tecnico (n = 34) o il liceo
scientifico (n = 26). La maggior parte dei ragazzi (n = 52) afferma di navigare in internet: in particolare 27 lo utilizzano tutti i
giorni e 15 quasi tutti i giorni. I due terzi dei soggetti hanno a disposizione una connessione a banda larga presso la propria
abitazione, mentre 12 non dispongono di un accesso personale e si connettono alla rete da scuola o da casa di amici.
In linea generale, i partecipanti ritengono che internet sia utilizzato soprattutto per Chattare e comunicare, Scaricare musica e
film, Divertirsi, svagarsi e passare il tempo, Conoscere persone nuove, Vedere immagini e video. Rispetto all’utilizzo
personale, compaiono le medesime tipologie d’uso pur attestandosi su livelli più bassi; l’unica eccezione riguarda l’item
Conoscere persone nuove il cui valore mediano decresce sensibilmente: 46 ragazzi (utilizzo generale) contro 27 (utilizzo
personale) si dichiarano d’accordo o molto d’accordo (Z di Wilcoxon = -4,317, p<0,001).
Con riferimento alla dimensione della legalità, i ragazzi si dichiarano in forte disaccordo con gli item che indagano se sia
corretto pubblicare in internet fotografie all’insaputa del diretto interessato, mentre non prendono chiaramente posizione di
fronte ad item che pongono l’attenzione sulla proprietà e l’appartenenza delle informazioni pubblicate in rete.
I ragazzi considerano l’utilizzo di internet abbastanza rischioso (differenziale semantico rischioso=1/sicuro=7): tale giudizio
è correlato con alcuni item relativi alla tutela della sicurezza personale, ma non con quelli riferiti alla trasparenza della rete.
Infatti, anche se i ragazzi ritengono che sia facile essere truffati in internet e che le informazioni reperite non sempre siano
veritiere, non si riscontrano correlazioni con la valutazione del rischio; le correlazioni significative, invece, riguardano nello
specifico l’utilizzo delle chat in item quali “In chat, è facile incontrare dei malintenzionati” ( = -,401; p <0,01), “In chat è
sicuro fornire il proprio cognome” ( = ,368; p <0,01), “In chat, è facile farsi illudere dalla gente” ( = -,325; p <0,05).
Si sono, inoltre, rilevate differenze con riferimento al sesso, all’età, al tipo di scuola frequentata e alla familiarità con la rete
(frequenza settimanale di utilizzo e anni di utilizzo).
keywords
Internet and new media, ethical technology representation, students
232
Sessione tematica 11
COMPRENSIONE DEL TESTO E NARRAZIONE
Coordina: Maria Chiara Levorato
Università di Padova
233
IL PROCESSO DI COMPRENSIONE DEL TESTO: VALUTAZIONE DI 10 COMPONENTI SPECIFICHE IN
STUDENTI DALLA TERZA ELEMENTARE ALLA PRIMA MEDIA
MONICA VIRGINIE SCURATTI
Università di Padova
[email protected]
Il presente lavoro è nato dalla volontà di esaminare un argomento attualmente rilevante nell’ambito della psicopatologia
dell’apprendimento, ovvero il processo di comprensione del testo scritto, nella sua idea di multicomponenzialità. La
comprensione del testo scritto consiste infatti in un’attività costruttiva, interattiva, attiva che richiede l’integrazione di
informazioni nuove, contenute nel testo, all’interno delle strutture di conoscenza già possedute dal lettore e, poiché coinvolge
specifiche abilità mentali riferibili a fattori diversi, indipendenti gli uni dagli altri, non può essere considerata un’operazione
mentale unitaria.
Lo scopo principale del presente lavoro riguardava la valutazione delle dieci abilità specifiche indagate dalle prove criteriali
contenute all’interno di Nuova guida alla comprensione del testo di De Beni et al. (2003) in studenti dalla terza elementare
alla prima media. Nello specifico si è voluto indagare quali tra le dieci prove impiegate meglio evidenziassero la differenza
di prestazione tra i cattivi e i buoni lettori e quali abilità, tra le dieci specifiche sottocomponenti della comprensione, indagate
sull’intero campione, costituissero i migliori predittori della generale abilità di comprensione del testo.
I partecipanti alla ricerca sono stati 165 alunni, di cui 86 maschi e 79 femmine, frequentanti un Istituto Comprensivo della
provincia di Milano e suddivisi in quattro gruppi in base alla fascia scolare, dalla terza elementare alla prima media. Ad essi
sono state somministrate le prove di comprensione tratte dalle Prove MT di Cornoldi e Colpo (1995, 1998), la prova
strumentale di lettura “Elefante” tratta dalla batteria Prove di prerequisito per la diagnosi delle difficoltà di lettura e scrittura
PRCR-2 di Cornoldi, Miato, Molin, S. Poli (1992) e le dieci prove criteriali contenute in Nuova guida alla comprensione del
testo di De Beni et al. (2003).
La ricerca ha impiegato un disegno misto in cui la variabile dipendente era costituita dai dieci livelli in cui viene ripartita
l’abilità di comprensione e la variabile indipendente era data dalla classe di appartenenza dei partecipanti. Con i dati ottenuti
dalla somministrazione delle prove sono stati eseguiti un’analisi della varianza a misure ripetute ANOVA (utilizzando la
statistica F di Fisher e le statistiche descrittive di media e deviazione standard) e una serie di confronti multipli per indagare
eventuali differenze in una stessa prova tra le quattro diverse fasce di scolarizzazione (impiegando il test HSD di Tukey). Per
valutare invece quali delle dieci prove criteriali predicessero maggiormente la generale abilità di comprensione, è stata
condotta un’analisi di regressione a due fattori, l’uno rappresentato dagli aspetti basilari della comprensione e l’altro da
quelli complessi o metacognitivi; la variabile dipendente in questo caso era costituita dalla media delle due prove di
comprensione MT mentre le dieci prove criteriali costituivano la variabile indipendente come predittori della generale
comprensione del testo.
I risultati hanno evidenziato che alcune delle dieci abilità di comprensione sono maggiormente padroneggiate di altre dagli
alunni di classi differenti: in particolare la prova riguardante la costruzione della struttura sintattica della frase mostra un
andamento costante dalla terza elementare alla prima media mentre per tutte le altre prove si assiste ad un marcato
miglioramento delle classi superiori rispetto a quelle inferiori.
In merito allo scopo volto ad individuare eventuali differenze di prestazione tra i buoni e i cattivi lettori si evince che coloro
che comprendono poco manifestino delle generali difficoltà di comprensione del testo, evidenziabili in tutte e dieci le
sottocomponenti valutate.
Tra le dieci abilità indagate sull’intero campione, tramite un’analisi di regressione a due fattori, sia gli aspetti di base (in
particolar modo le prime tre prove), che quelli complessi (con minor significatività ottenuta per l’ottava prova) sono risultati
predittivi della generale abilità di comprensione, con una maggiore varianza spiegata dal blocco delle prove di base.
L’aver colto le differenze e le peculiarità delle dieci componenti dell’abilità di comprensione costituisce un risvolto
applicativo importante all’interno dell’ambito di ricerca più generale in cui tale lavoro è inserito, non solo per una
valutazione approfondita ma anche per l’indicazione del tipo di trattamento da attuare per il potenziamento delle varie abilità.
Le ricerche attuali infatti stanno indagando quali prove risultino più significative per poterne impiegare un numero limitato
durante la fase di diagnosi al fine di effettuare una valutazione adeguata e allo stesso tempo approfondita.
Allo stesso modo anche sul piano dell’intervento è importante poter scegliere di lavorare solo su alcune delle dieci abilità per
andare a promuovere quelle in cui il singolo soggetto sia risultato carente durante la valutazione.
Keywords
multicomponential text comprehension
234
LA RELAZIONE TRA LA COMPRENSIONE DI ESPRESSIONI IDIOMATICHE
E LA COMPRENSIONE DI TESTI NELLA SINDROME DI DOWN
MARIA CHIARA LEVORATO, GIANMARCO ALTOÈ, MAJA ROCH
Dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione, Università di Padova
[email protected]
Introduzione
Recenti studi condotti nell’ambito dell’acquisizione del linguaggio figurato hanno dimostrato una stretta relazione tra la
comprensione di espressioni idiomatiche e la comprensione di testi in età scolare (Cain, Oakhill & Lemmon, 2005). Questo
risultato può essere interpretato alla luce del Modello di Elaborazione Globale (GEM, Levorato & Cacciari, 1995). Uno dei
principali assunti di questo modello è che un’espressione idiomatica, per essere compresa, deve essere integrata all’interno di
una rappresentazione semantica coerente relativa al testo in cui l’espressione è inserita. Pertanto, nonostante le espressioni
idiomatiche siano delle frasi, la loro comprensione è in buona parte determinata dalla capacità di comprendere un testo
piuttosto che da abilità linguistiche di base, come, appunto, la comprensione di frasi (Levorato, Roch & Nesi, 2007).
L’obiettivo del presente studio era quello di verificare l’esistenza della relazione tra la comprensione di testi e di espressioni
idiomatiche nella sindrome di Down. Le persone con sindrome di Down sono caratterizzate da ritardo mentale e da un
marcato deficit delle abilità linguistiche, in particolar modo per quanto riguarda l’elaborazione degli indici morfosintattici e,
dunque, di comprensione di frasi (cf. Chapman, Hesketh & Kistler, 2002). La comprensione di testi e l’elaborazione del
contesto, d’altro canto, sono relativamente preservate in quanto la capacità di compiere semplici inferenze e di utilizzare
conoscenze precedenti sono in linea con lo sviluppo cognitivo (Roch & Levorato, 2007). Considerato il profilo cognitivo e
linguistico peculiare delle persone con sindrome di Down, è particolarmente interessante analizzare su quali abilità poggia la
comprensione di espressioni idiomatiche.
Lo scopo del presente studio è quello di verificare se anche nella sindrome di Down, come nello sviluppo tipico, la
comprensione di espressioni idiomatiche sia legata più alla capacità di comprendere testi che alla comprensione di frasi.
L’esistenza di una relazione tra la comprensione di testi e di espressioni idiomatiche in una popolazione con capacità di
comprensione di frasi deficitaria, qualora confermata, fornirebbe un supporto empirico al modello teorico di riferimento
(GEM).
Metodo
Partecipanti: 20 persone con sindrome di Down - di età compresa tra 9; 9 anni e 18; 1 anni - e 20 bambini con sviluppo
tipico di prima elementare - di età compresa tra 6; 3 anni e 7,3 anni appaiati uno ad uno ai partecipanti con sindrome di
Down sulla base del punteggio ottenuto al compito di comprensione del testo scritto.
Materiale:
- Prova di comprensione del testo scritto MT (Cornoldi & Colpo, 1998): in seguito alla lettura autonoma di una storia
vengono poste 10 domande di comprensione con risposte a scelta multipla
- Prova di comprensione di frasi (Rustioni, 1994): viene chiesto ai partecipanti di individuare tra quattro figure, quella che
corrisponde alla frase pronunciata dallo sperimentatore.
- Prova di comprensione di espressioni idiomatiche (cf. Levorato, Nesi & Cacciari, 2004): il compito consiste
nell’individuare il significato dell’espressione idiomatica inserita alla fine di una breve storia a partire da 3 possibili
alternative: risposta idiomatica (significato corretto), risposta letterale (parafrasi dell’espressione) e risposta associata
(significato contestualmente plausibile).
Risultati
Ai punteggi ottenuti alle tre prove è stata applicata un’analisi della regressione logistica multinomiale. Sono stati inseriti nel
modello come variabile dipendente il tipo di risposta (idiomatica, letterale e associata) e come variabili indipendenti il
Gruppo (sindrome di Down e sviluppo tipico), il punteggio di comprensione del testo e il punteggio di comprensione di frasi.
I risultati mostrano che la probabilità di individuare il significato corretto dell’espressione idiomatica incrementa
all’aumentare della capacità di comprendere il testo. D’altro canto, la probabilità di scegliere le due risposte scorrette
(letterale e associata) aumenta al decrescere delle capacità di comprensione del testo scritto. Non emerge alcun effetto della
comprensione di frasi sulla capacità di comprendere espressioni idiomatiche. Il risultato più interessante riguarda il fatto che
non viene riportata alcuna differenza tra i due gruppi di partecipanti: lo stesso profilo viene evidenziato per i partecipanti con
sindrome di Down e i bambini con sviluppo tipico.
Conclusioni
I risultati suggeriscono che nella comprensione di espressioni idiomatiche siano coinvolti gli stessi processi nella sindrome di
Down e nello sviluppo tipico. Il fatto che il principale fattore che spiega le differenze individuali nella capacità di interpretare
espressioni idiomatiche sia la comprensione di testi piuttosto che di frasi anche in una popolazione con marcato deficit
linguistico, costituisce un importante supporto empirico al Modello di Elaborazione Globale.
Keywords
Idiom comprehension; text comprehension; Down syndrome
235
COSTRUZIONE E VALIDAZIONE DI UN TEST DI PAIRED ASSOCIATE LEARNING (PAL)
PER BAMBINI ITALIANI DI TERZA PRIMARIA
MARTA DESIMONI (1), TERESA GLORIA SCALISI (2), STEFANIA PASQUI (3)
(1)Dipartento di Psicologia Dinamica e Clinica -"Sapienza" Università di Roma. Via degli Apuli 1, 00185 Roma.
(2) Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione - "Sapienza" Università di Roma. Via dei Marsi
78, 00185 Roma.
[email protected]
Introduzione
Il test è stato ideato come parte integrante della batteria PAC-SP3 (Desimoni & Scalisi, in preparazione), finalizzata alla
valutazione dei correlati cognitivi della lettura e della scrittura nei bambini italiani di III primaria. La scelta della costruzione
del test è stata motivata dai risultati di recenti studi internazionali (ad es. Hulme, Goetz, Gooch, Adams & Snowling, 2007),
che evidenziano la relazione tra la prestazione a prove di PAL e acquisizione della lingua scritta. Nel test da noi costruito gli
stimoli verbali sono costituiti da 4 non parole, abbinate in modo casuale a 4 figure, rappresentanti animali inventati. Dopo
una fase di addestramento, l’esaminatore mostra al bambino uno stimolo visivo alla volta e gli chiede di denominare la
figura, fornendo un feedback sulla risposta data (fase di Apprendimento). La presentazione dei 4 stimoli visivi è ripetuta in
ordine causale fino a quando il bambino non dice correttamente tutti i nomi delle figure in due sequenze consecutive
(massimo 10 sequenze). Rispetto alle prove standard di PAL utilizzate in letteratura, è presente una fase di Denominazione,
finalizzata alla valutazione della velocità e dell’accuratezza con cui il bambino recupera le associazioni precedentemente
apprese. In questa fase, svolta dopo 40 minuti circa dalla precedente, al bambino è richiesto di denominare il più velocemente
e correttamente possibile una matrice 4*5 formata dagli stimoli visivi. Dalle due fasi del test si ottengono 4 punteggi: un
punteggio di accuratezza ed un punteggio di apprendimento nella prima fase (rispettivamente basati sulle risposte corrette e
sul numero di ripetizioni necessarie al bambino per apprendere le associazioni); un punteggio di accuratezza (totale risposte
corrette) ed un punteggio di velocità (stimoli denominati al minuto) nella seconda fase. La validità del test è stata valutata
esaminandone le relazioni con prove che misurano abilità di base generali (CPM) abilità relative a specifiche aree cognitive
(Consapevolezza Fonologica, MBT e Denominazione) livello di prestazione in Lettura e Scrittura (Comprensione,
Correttezza e Rapidità di Lettura, Dettato) ed efficienza della via lessicale lettura (Frasi Omofone e Parole Omofone).
Metodo
Partecipanti. Il campione è composto da 216 bambini (105 maschi, 111 femmine, età media 105,8 mesi) di madrelingua
italiana.
Materiali. Prove PAC-SP3 (Desimoni, Scalisi, in preparazione): Fusione di fonemi, Spoonerism, Span di cifre avanti, Span di
cifre indietro, RAN numeri, Denominazione di oggetti a bassa familiarità e PAL; Prove Frasi Omofone e Parole Omofone di
Sartori, Job & Tressoldi (1995); Prova di Lettura di Parole e non Parole (Zoccolotti, De Luca, De Filippo, Judica e Spinelli,
2005); Prova di comprensione nella lettura MT-2 (Cornoldi & Colpo, 1998); Prova di Dettato di un brano (Tressoldi &
Cornoldi, 2000) e CPM (Raven, 1947).
Procedura: i bambini sono stati esaminati nell’ultimo trimestre del III anno di scuola primaria.
Risultati
Medie, deviazioni standard, asimmetria e curtosi dei diversi punteggi previsti nelle fasi di Apprendimento e Denominazione
del test calcolati sull’intero campione indicano una buona adeguatezza della prova all’età dei bambini esaminati e l’assenza
di punteggi estremi (outliers). Ai fini della valutazione della validità del test sono stati estratti dal campione complessivo 4
gruppi di bambini le cui prestazioni ricadevano nel 25% inferiore della distribuzione solo nella fase di apprendimento (APPDEN+), solo nella fase di Denominazione (APP+DEN-) o in entrambe le fasi (APP-DEN-). Ognuno dei tre gruppi è stato
confrontato mediante analisi discriminante stepwise con un gruppo di controllo formato da bambini le cui prestazioni
ricadevano nel 25% superiore in entrambe le fasi del test (APP+DEN+). In tutte le analisi i punteggi delle altre prove
somministrate costituivano le variabili indipendenti. I 4 gruppi sono stati inoltre confrontati mediante una MANOVA su
errori e tempi di lettura delle liste di Parole e Non Parole.
Il gruppo APP-DEN- è quello che presenta prestazioni più basse rispetto al gruppo di controllo per un più elevato numero di
prove, sia nell’area delle abilità di base che dell'apprendimento scolastico, con un profilo caratterizzato da una prestazione di
poco inferiore all'altro gruppo per le CPM, tempi di lettura più lunghi, difficoltà nella discriminazione di frasi omofone,
basse prestazioni allo Spoonerism e difficoltà nel recupero veloce dalla MLT di numeri e nomi di oggetti poco familiari;
inoltre è caratterizzato da assenza di interazione stimoli x lunghezza nei tempi di Lettura di Parole e Non Parole. Il gruppo
APP+DEN- mostra una caduta specifica nella prova di Frasi Omofone, mentre il gruppo APP-DEN+ nello Span Avanti.
I risultati del lavoro evidenziano la capacità del test PAL di cogliere le più importanti relazioni tra abilità di base e
apprendimento della lingua scritta emerse dalla recente letteratura sull’argomento.
Keywords
Paired Associate Learning, Test Validity, Reading Ability
236
COME CAMBIA LA NARRAZIONE DI EVENTI NEGATIVI DI TIPO FISICO
A SECONDA DELLA FONTE DI INFORMAZIONE
CAMILLA GOBBO (1), DANIELA RACCANELLO (2)
(1) Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova.
(2) Dipartimento di Psicologia e Antropologia Culturale, Università di Verona
[email protected]
Introduzione
Di recente, l’interesse di studiosi si è rivolto a indagare se la modalità di narrare eventi personali cambi con il tipo di evento
raccontato, rilevando che la presenza di causalità psicologica e lessico psicologico variava con la valenza emotiva e il livello
di gravità degli eventi (Byrne, Hyman e Scott, 2001; Fivush et al., 2003; Gobbo e Raccanello, 2007). Mancano tuttavia studi
su differenze nel racconto di eventi a seconda della fonte da cui hanno origine, per esempio se si tratti di eventi realmente
vissuti, raccontati o frutto della propria immaginazione, anche se è stato evidenziato il ruolo della fonte in merito ad
accuratezza e suggestionabilità della memoria, indicando che confondere le fonti d’informazione porta alla creazione di false
memorie a tutte le età, e più marcatamente nei bambini (Roberts, 2000).
E’ molto importante dal punto di vista teorico conoscere come i bambini narrano un evento direttamente esperito rispetto a
uno solo immaginato, per meglio comprendere differenze nell’elaborazione di informazioni con diversa fonte. Una rilevanza
primaria assumono anche i risvolti applicativi: il racconto, infatti, è la modalità “principe” di ottenere dal bambino
informazioni sulla sua esperienza, sul suo modo di percepire gli eventi, sui suoi vissuti personali, utili a educatori, psicologi
clinici, e nell’ambito della psicologia forense.
Lo scopo della presente ricerca, quindi, è stato indagare la variazione di alcune caratteristiche della narrazione di eventi fisici
negativi in bambini di diversa età, investigando il ruolo dell’aver avuto o meno esperienza diretta di un evento sul racconto
dell’evento stesso. L’evento critico riguardava l’essere stati portati al pronto soccorso in seguito all’essersi fatti male: sono
stati individuati due gruppi con diversa fonte dell’evento, uno formato da bambini che avevano vissuto personalmente
l’evento e l’altro da quelli che, non avendone avuto esperienza diretta, potevano soltanto immaginarlo. Per controllare
l’influenza di variabili legate alle abilità narrative, è stato chiesto ai bambini di narrare anche un altro evento, esperito da
tutti, in cui si erano fatti male (senza che ciò avesse comportato rivolgersi al pronto soccorso). Si ipotizzava che la
complessità narrativa, ovvero lunghezza delle parti strutturali e uso di lessico psicologico, sarebbe stata maggiore (a) nella
condizione di esperienza diretta rispetto a immaginata per l’evento pronto soccorso, ma non per l’evento farsi male, e (b) con
l’aumentare dell’età.
Metodo
In totale 145 bambini di 5, 7, 9 e 11 anni. Il disegno sperimentale includeva tre fattori tra i soggetti, condizione della fonte
(esperienza del pronto soccorso diretta, immaginata), età (5, 7, 9, 11 anni), genere; un fattore entro i soggetti, etichetta
(pronto soccorso, farsi male).
Ai bambini è stato chiesto individualmente di narrare due eventi fisici negativi, elicitati dalle etichette (1) farsi male e andare
al pronto soccorso, e (2) farsi male, attraverso domande aperte seguite da sollecitazioni generali. In merito al pronto
soccorso, ai bambini che non ne avevano avuto esperienza diretta veniva chiesto con il supporto di disegni di pensare a un
bambino che si è fatto male e deve andare al pronto soccorso (per motivi etici non è stato chiesto di immaginare l’evento
riferito a se). Tutti i bambini hanno narrato infine un evento positivo.
Per ogni evento (audioregistrato e trascritto) è stata identificata la porzione di testo relativa al racconto spontaneo,
codificando (a) lunghezza (numero di proposizioni) dell’evento; (b) lunghezza di alcune parti strutturali: cause, descrizione
fisica dell’evento, cura fisica immediata, conseguenze; (c) numero e tipo di termini di lessico psicologico. Il 30% dei
protocolli è stato codificato da un secondo giudice (accordo medio: 90%).
Risultati
Da ANOVA a misure ripetute (p < .05), complessivamente sono state identificate differenze nella modalità di raccontare
eventi fisici negativi a seconda della fonte. In particolare, i racconti di eventi realmente vissuti rispetto a immaginati a tutte le
età presentavano una maggiore lunghezza dell’evento, una struttura più complessa, con un maggior numero di proposizioni,
soprattutto in merito alle procedure messe in atto per far fronte al trauma subito e alle conseguenze, e una maggiore ricchezza
nel riferire stati interni. Inoltre, i bambini più grandi hanno fornito più elementi in tutte le parti strutturali della narrazione ed
evidenziato un uso maggiore di lessico psicologico. A conferma dell’omogeneità delle capacità narrative dei bambini
appartenenti ai due gruppi con diversa fonte, non sono invece emerse analoghe differenze per i racconti di controllo riferiti a
farsi male. A fronte della rilevanza di poter distinguere resoconti frutto di immaginazione da resoconti derivati da esperienza
diretta, quanto emerso sollecita ulteriori approfondimenti, al fine di individuare altri elementi narrativi discriminanti.
Keywords
narratives, negative events, source of information
237
“VI RACCONTO DI QUELLA VOLTA CHE HO FATTO DI TESTA MIA”.
NARRAZIONE DI SÉ E DELLE ESPERIENZE DI AUTONOMIA IN ADOLESCENZA
MARIA DOMENICA COZZOLINO
Dipartimento di Scienze Relazionali “G. Iacono”, Università Federico II di Napoli
[email protected]
Introduzione
E’ durante l’adolescenza che gli aspetti legati al processo di separazione-individuazione sembrano assumere un’importanza
centrale nella relazione genitori-figli. Le funzioni svolte dall’autonomia consentono di soddisfare importanti obiettivi nel
corso dello sviluppo in adolescenza in quanto in questa fase ad una maggiore autonomia sembra corrispondere anche la
capacità di individuarsi e di compiere scelte autonome (Collins et al.,1997; Gossens, 2006; Grolnick, 2003; Grotevant &
Cooper, 1986). Numerosi contributi in letteratura hanno, pertanto, approfondito il tema delle molteplici funzioni svolte
dall’autonomia (Noom et al.,2001; Ryan et al, 1995; Sessa & Steinberg 1991; Steinberg & Silverberg,1986;) e ne hanno
messo a fuoco numerosi e differenti aspetti relativi alla sfera emotiva, funzionale e attitudinale. In particolare, all’interno del
quadro teorico che considera il processo di formazione dell'identità in una prospettiva psicosociale ed evolutiva (Coté,
Levine, 1983; Erikson, 1968; Marcia, 1980,1993), i percorsi di autonomia in adolescenza vengono considerati come un
processo dinamico che, a partire da una relazione di connessione intima con i genitori, evolve nella direzione di una relazione
in cui vi sia un bilanciamento tra connessione ed agency o self-governance (Grotevant & Cooper, 1998). L’obiettivo del
presente contributo è quello di indagare, attraverso lo strumento della narrazione autobiografica (Bruner, 2002; McAdams,
1996) i percorsi di graduale acquisizione dell’autonomia in tarda adolescenza , con particolare riguardo alla dinamica tra
autonomia e connessione in relazione agli altri significativi.
Metodo
Materiale e partecipanti- In accordo con i presupposti teorici che fanno riferimento alla costruzione narrativa del sé, è stata
privilegiata una metodologia qualitativa di tipo narrativo (Flick, 1998; Gobbo, 1998; Marshall & Rossmann, 1995; Mazzara,
2002; Silverman, 1993). Lo strumento scelto è la narrazione di un evento autobiografico, che permette di accedere ai processi
di costruzione ed attribuzione di significato alle esperienze personali, all’interno di specifici contesti culturali (Bruner, 2002).
A tal fine, a N 127 studenti di entrambi i sessi dell’ultimo e penultimo anno di scuola superiore è stato chiesto di rispondere
per iscritto ad uno stimolo narrativo relativo alle scelte compiute in autonomia: “Vi racconto di quella volta che ho fatto di
testa mia…”
Analisi dei dati: Le narrazioni prodotte sono state trascritte integralmente e considerate come un unico corpus testuale
analizzabile. Tale corpus è stato sottoposto ad analisi lessicale del contenuto, mediante il software ALCESTE (Matteucci &
Tommasetto, 2002; Reinert, 1986, 1993). In un primo momento, è stata effettuata un’analisi dei cluster (classificazione
discendente gerarchica) delle occorrenze (lemmi), per determinare i mondi lessicali soggiacenti al testo (composti dalle
parole significativamente più presenti negli enunciati della classe rispetto a tutto il resto del corpus); in un secondo momento,
tramite proiezione fattoriale dei cluster, sono stati evidenziati i fattori interpretativi (Tomasetto & Selleri, 2004; Reinert,
1986).
Risultati
Nel corpus testuale sono state individuate 289 unità di contesto elementari (u.c.e.), delle quali 241 (83.39%) sono risultate
stabili. La matrice iniziale dei dati ha individuato co-occorrenze tra unità di contesto e forme, in maniera tale da ripartire gli
enunciati dell’intero corpus in 4 classi o cluster omogenee al loro interno. La prima classe presenta 59 u.c.e e una percentuale
di stabilità pari al 24.98% e sembra focalizzare in particolare esperienze di trasgressione o di opposizione nei confronti degli
adulti di riferimento (per lo più i genitori); la seconda classe presenta 35 u.c.e. e una percentuale di stabilità pari al 14.52% e
focalizza esperienze di autonomia inerenti le relazioni di coppia ; la terza classe presenta 27 u.c.e. e una percentuale di
stabilità pari al 11.20% e rimanda invece alle conseguenze delle scelte compiute senza l’appoggio degli adulti e ad una
dimensione relativa all’esperienza gruppale (fa riferimento per lo più ad amici e compagni di classe); la quarta classe
presenta 120 u.c.e. e una percentuale di stabilità pari al 49.79% e sembra caratterizzata da una mancanza totale di autonomia
oppure da richieste di consigli, appoggio e sostegno da parte dei genitori per le decisioni ritenute importanti. L’analisi
fattoriale delle corrispondenze ha evidenziato due fattori che spiegano rispettivamente il 46.53% e il 29.23 % dell’inerzia
totale. Sono in corso ulteriori elaborazioni ed interpretazioni dei dati emersi dal corpus testuale.
Keywords
Adolescence, autonomy, connectedness
238
IL RUOLO DEL GESTO NELLO SVILUPPO DELLE ABILITÀ NARRATIVE
IN BAMBINI PRESCOLARI E SCOLARI
VALERIO DE ANGELIS (1), PAMELA BERNARDO (2), CARLA CRISTILLI (2), OLGA CAPIRCI (1).
(1) ISTC – CNR, Roma.
(2) Università degli Studi di Napoli "L'Orientale",
[email protected]
Introduzione
Per la sua alta frequenza nella vita del bambino e la sua natura interattiva, la narrazione costituisce una misura eccellente di
valutazione del linguaggio spontaneo del bambino (Reilly, Losh, Bellugi, & Wulfeck, 2004). Nel raccontare, i bambini
producono spontaneamente gesti. McNeill (1992, 2005) ha messo in luce come, nel processo di elaborazione psicologicocognitiva del referente, l’elemento figurativo e quello linguistico siano connessi da una relazione dialettica e complementare.
Studi precedenti mostrano inoltre che il tipo di discorso del parlante ha un effetto sul gesto co-verbale (Contento, 1998 ; Kita,
2000; Alibali, Kita e Young, 2000; Colletta, 2004). Pochi sono gli studi che indagano il ruolo dei gesti nella narrazione
durante lo sviluppo. Uno studio di Capirci et al. (2007) ha evidenziato che la natura della rappresentazione gestuale prodotta
durante la narrazione cambia nel corso dello sviluppo: l’utilizzo di strategie di rappresentazione più “flessibili” e simbolicoastratte cresce con l’età. Kita (2008), inoltre, mostra che il corpo come medium rappresentativo diventa via via più flessibile
e che lo spazio del gesto diventa sempre più “virtuale” e indipendente da quello fisico. In questa cornice teorica è nato il
progetto interlinguistico (ANR Multimodality Project), nell’ambito del quale è stato elaborato un protocollo di trascrizione e
codifica di produzioni narrative di cui la presente ricerca costituisce una prima applicazione con un campione di bambini
italiani.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 20 bambini con sviluppo tipico (10 di 5-6 anni e 10 di 9-10 anni) tutti appartenenti a famiglie
omogenee per livello socio-culturale (medio) residenti a Napoli, di madrelingua italiana. La prova è stata proposta nel
contesto scolastico. La prova utilizzata per la valutazione della narrazione è un cartone animato della serie “Tom e Jerry”. La
sua somministrazione prevede che il bambino veda per due volte il filmato e lo racconti poi, senza limite di tempo, ad un
adulto mentre è videoregistrato. Le trascrizioni sono state effettuate tramite ELAN (Eudico Linguistic Annotator), un
programma informatico per l’analisi del parlato, del gesto e della lingua dei segni che consente di creare, modificare e
visualizzare annotazioni riguardanti dati video ed audio. L’analisi è stata focalizzata su tre aspetti: linguistici (tipi di clausole;
indice di complessità sintattica e di coesione del discorso: connettivi e anafore), narrativi (macro e micro unità della storia;
indici di coerenza; atti pragmatici; livello narrativo) e gestuali (tipi di gesti; relazione semantica e temporale con il parlato
co-referenziale).
Risultati
Dall’analisi dei fenomeni linguistici è emerso che i bambini di 9 anni rivelano un livello di complessità sintattica superiore
ed utilizzano gli strumenti linguistici di coesione in maniera più corretta rispetto a quelli di 5. L’analisi degli aspetti narrativi
e pragmatici ha rivelato che il gruppo di 9 anni produce narrazioni strutturalmente più complete e coerenti, ed inoltre produce
più inferenze o interpretazioni riguardo la situazione o le intenzioni dei personaggi della storia rispetto a quello di 5.
L’analisi della gestualità ha messo in luce che i bambini di 9 anni producono più gesti rispetto a quelli di 5. I gesti
rappresentativi sono i più utilizzati da entrambi i gruppi, mentre quelli deittici compaiono in numero maggiore nei bambini di
5 anni. Questi, infatti, identificano lo spazio della storia con quello fisico e, nei loro gesti, assumono la prospettiva del
protagonista, facendo così molti più riferimenti all’ambiente fisico che li circonda. I gesti discorsivi appaiono invece in
maggior numero nelle narrazioni del gruppo di 9 anni: tali gesti, che marcano strutture o unità linguistiche, compaiono
quando i bambini possiedono una struttura sintattica più complessa e una maggiore consapevolezza meta-linguistica e metatestuale. Per quanto riguarda la relazione semantica del gesto con l’elemento vocale co-referenziale, i bambini di 5 anni, data
la loro difficoltà nell’esprimere verbalmente i contenuti più complessi, utilizzano maggiormente il gesto per aggiungere
informazione o sostituire il parlato, mentre quelli di 9, con una modalità più vicina a quella dell’adulto, producono una
maggiore quantità di gesti con funzione integrativa, cioè che forniscono informazioni più precise su un referente già
designato verbalmente. Infine, entrambi i gruppi producono la maggior parte dei gesti in modo sincrono rispetto al parlato.
Tuttavia, nei bambini di 5 anni si riscontra una tendenza ad anteporre il gesto all’unità vocale co-referenziale nei momenti di
difficoltà nel recupero lessicale. In conclusione, i risultati mostrano chiaramente come il gesto contribuisca alla narrazione in
molteplici modi ed a molteplici livelli e quindi lo sviluppo della competenza narrativa non può essere adeguatamente
compreso ignorando il ruolo assolto dall’espressione gestuale.
Keywords
narrative, gesture, multimodal
239
LETTURA VS MANIPOLAZIONE DI UN LIBRO DI FIGURE:
COME I BAMBINI RICORDANO E RACCONTANO DIVERSI TIPI DI LIBRI
DOLORES ROLLO (1), MARCO PASQUALI (2)
(1)Dipartimento di Psicologia, Università di Cagliari
(2)Dipartimento di Psicologia, Università di Parma
[email protected]
Introduzione
Alcune recenti revisioni critiche dei lavori sulla lettura condivisa di libri di figure (Fletcher, Reese, 2005; van Kleeck, Stahl,
Bauer, 2003) supportano l’idea vygotskijana secondo la quale in ogni interazione di lettura ci sono tre componenti: un adulto,
un bambino e un libro. Ogni componente influisce sull’altra per stabilire l’interazione sociale e definirne la qualità, intesa nei
termini degli effetti sulla produzione narrativa di entrambi i partecipanti (Pellegrini, Galda, 2003). Nel panorama attuale della
ricerca, però, se sono numerosi i lavori che prendono in considerazione i fattori attribuiti all’adulto (ad esempio: lo stile di
lettura o le strategie di richiamo dell’attenzione), le caratteristiche del bambino (ad esempio: lo stile di attaccamento
all’adulto o il livello di sviluppo linguistico raggiunto) e l’esistenza di una relazione causale tra misure del lessico usato
dall’adulto ed una varietà di misure connesse con lo sviluppo del bambino, dallo sviluppo del linguaggio a quello della teoria
della mente, sono poche le ricerche che esaminano la relazione tra la natura del testo e la qualità dell’interazione di lettura. A
questo proposito, Girolametto e colleghi (2000), ritengono che i libri manipolativi, che presentano cioè opportunità di
manipolazione consistenti nel sollevamento di lembi e nell’apertura delle illustrazioni, possano rendere la lettura più simile al
gioco e, di conseguenza, ridurre la difficoltà del linguaggio prodotto dall’adulto. Anche Kaderavek e Justice (2005) hanno
ottenuto risultati a favore di un libro con componenti manipolative, confrontato con un libro illustrato, in un’indagine pilota
volta a verificare se il genere narrativo possa influenzare la produzione linguistica di bambini tra i 49 e i 67 mesi con deficit
del linguaggio.
Poiché la letteratura ci suggerisce che la lettura condivisa adulto-bambino e, perciò, gli effetti sul bambino mediati dalle
strategie dell’adulto, siano influenzati anche dal tipo di libro, viste le importanti implicazioni applicative, il presente studio
intende esplorare le funzionalità del libro manipolativo con bambini a sviluppo tipico di età prescolare: se, come pensiamo, il
libro illustrato manipolabile viene ricordato meglio e dà luogo a racconti linguisticamente più complessi e coerenti, avremo
utili indicazioni sul tipo di testo narrativo utilizzabile per promuovere l’acquisizione del vocabolario e la riabilitazione
linguistica di bambini con sviluppo atipico.
Metodo
Hanno preso parte allo studio 19 bambini di madrelingua italiana, 8 femmine e 11 maschi (età media: 4 anni e 4 mesi). Con
tutti i partecipanti sono stati “letti” individualmente dallo stesso adulto tre libri di figure costruiti ad hoc, con storie che,
seppur diverse, hanno lo stesso protagonista, la stessa lunghezza e la stessa sequenza di eventi. L’unica differenza sostanziale
riguarda la tipologia dei tre libri: una storia presenta solo immagini, una immagini e brevi testi, una immagini manipolabili
mediante il sollevamento di finestrelle. Nonostante i bambini non sappiano leggere, si è scelto di utilizzare anche un tipo di
libro con testi perché corrisponde a quello usato più frequentemente dagli adulti.
L’ordine di presentazione delle storie è stato bilanciato nel corso di incontri successivi distanziati di una settimana. Alla fine
di ogni lettura, ai bambini venivano poste domande volte a valutare il ricordo e la competenza linguistico-narrativa
relativamente ai personaggi e al contenuto delle storie. In particolare, l’ultima domanda (“Mi vuoi raccontare la storia che
abbiamo appena letto insieme?”) elicitava da parte del bambino il ri-racconto della storia letta insieme con il ricercatore.
Preliminarmente alla lettura dei libri di figure si è provveduto a controllare le capacità mnemoniche dei bambini con una
prova di memory span e lo sviluppo linguistico con il TVL/Test di valutazione del linguaggio.
Risultati
In accordo con gli studi citati, anche in questo lavoro è stato verificato che le prestazioni dei bambini sono migliori durante
l’interazione con il libro manipolativo, ma non sempre. In particolare, per quanto riguarda il ricordo, al t test per campioni
appaiati non risultano differenze significative tra il numero degli elementi ricordati per la storia con immagini e quella con
immagini più testo, mentre la differenza è significativa tra la storia solo immagini e la storia manipolativa. Sulle trascrizioni
delle narrazioni prodotte è stata calcolata la lunghezza media dell’enunciato e la bontà della storia, codificata a partire dalla
complessità strutturale della storia narrata dal bambino, da “Non storia” a “Storia completa” (Accorti Gamannossi, 2001).
Anche in questo caso i bambini si dimostrano più competenti con la storia manipolativa per la quale producono narrative più
lunghe e con una bontà più elevata anche se in maniera significativa solo nel confronto tra la storia con immagini e la storia
manipolativa.
Keywords
book genre, manipulative book, joint book reading
240
“VI DICO UN LIBRO”. INTERAZIONE SOCIALE E COMPETENZA NARRATIVA
NELLE ATTIVITÀ DI LETTURA DEI PRELETTORI
FRANCA ROSSI (1), RAIMONDA MORANI (2), CLOTILDE PONTECORVO (3)
(1) Università di Perugia. (2) IRRE Lazio. (3) Università “Sapienza” Roma
[email protected]
La competenza narrativa, che i bambini costruiscono precocemente interagendo con i libri e con le storie scritte sui libri,
rappresenta tappa importante nello sviluppo del linguaggio infantile (Karmiloff Smith 2001). Inoltre la lettura delle storie ai
bambini permette loro di costruire conoscenze sui testi scritti, incidendo posivitamente sul loro processo di alfabetizzazione
(Ferreiro 2001, Nemirosky 1998, Sulzby 1991, Teale & Martinez 1991, Teberosky 2002). Se la lettura dell’adulto è rivolta
ad un gruppo di bambini la narrazione attiva anche interazioni sociale e verbali tra chi ascolta. Se il lettore è un pari cosa
cambia? Il lavoro presentato, si collega al filone di ricerca sulla lettura dei prelettori con bambini di scuola dell’Infanzia
avviato da Pascucci (2001).
Lo scopo del lavoro è stato quello di comprendere l’intreccio tra la competenza narrativa del “dicitore” del libro e la natura
dell’interazione discorsiva che si produce all’interno del piccolo gruppo di pari coinvolto nell’attività. Nelle cosegne è stato
utilizzato il verbo “dire” perchè sono bambini che non sanno leggere come gli adulti, pertanto chiedergli di “leggere”
avrebbe potuto rendere ambigua la richiesta.
Il campione della ricerca è rappresentato da 24 bambini, di età compresa tra i quattro e i cinque anni, che hanno “detto” un
libro non conosciuto ai loro compagni. Le sessioni di lettura sono state realizzate nel contesto del piccolo gruppo e sono state
integralmete videoregistrate. Il corpus di dati è rappresentato dalle interazione prodotte all’interno di ogni gruppo. Tutte le 24
interazioni, sono state interamente trascritte utilizzando il sistema di trascrizione jeffersoniano (Sacks, Schegloff and
Jefferson, 1974).
La prima variabile analizzata è stata la natura dei libri utilizzati dai bambini, in particolare il contenuto testuale e l’intreccio
narrativo rappresentato nelle illustrazioni.
La seconda variabile presa in esame ha riguardato i testi narrati da ciascun “dicitore”, in particolare la coerenza interna
(struttura narrativa del testo) e la coerenza esterna (corrispondenza con il contenuto delle immagini). Infine, la terza variabile
analizzata è stata l’interazione prodotta all’interno di ogni gruppo.
Per quanto riguarda la variabile “libri” abbiamo trovato una correlazione positiva tra numerosità e complessità degli eventi
narrati e livelli dei testi prodotti dai dicitori.
I risultati delle analisi evidenziano una relazione tra la competenza narrativa del “dicitore” e il livello di interazione durante
l’attività. In particolare nelle sessioni nelle quali il dicitore ha un’alta competenza narrativa il gruppo ha un basso livello di
interazione, mentre nelle sessioni nelle quali il dicitore ha una bassa competenza narrativa il livello di interazione del gruppo
è più alto.
Si evidenzia quindi che la funzione principale dell’interazione è quella di sostenere il dicitore nella produzione del suo testo,
infatti la frequenza delle sequenze interattive con funzione narrativa (completamenti, opposizioni, problematizzazioni,
commenti) risulta avere una frequenza maggiore rispetto alle sequenze con una funzione “organizzativa” (richiami del
dicitore per ottenere l’ascolto del gruppo, richieste del gruppo per avere accesso visivo alle illustrazioni del libro ecc.) in tutti
i gruppi presi in esame.
Keywords
peer interaction, literacy, narratives
241
ANALISI DELLE TESTIMONIANZE DEI BAMBINI IN UN PRESUNTO CASO DI REATO DI
MALTRATTAMENTI IN UNA SCUOLA DELL’INFANZIA: L’UTILIZZO DELLO SPAD-T
CAROLINA MEGA
DPG, Università di Padova
[email protected]
Introduzione
In ambito processuale gli aspetti più critici che emergono quando vengono raccolte le testimonianze dei minori risultano
principalmente due: la capacità del bambino di ricordare e riferire eventi del passato e la correttezza dei modi che vengono
usati per ricavare da lui le informazioni. Qualunque sia la sede in cui il bambino è interrogato, viene spesso sottoposto a
domande che oltrepassano la sua competenza evolutiva: si usano parole che sono estranee al suo vocabolario e si strutturano
le domande in frasi complesse o che presuppongono competenze di ragionamento avanzate. Il bambino, confuso, spesso non
risponde o se pressato finisce per dare risposte compiacenti o per scegliere a caso tra le possibili alternative.
Un minore, nei limiti delle sue capacità, è capace di rendere una testimonianza attendibile solo se viene interrogato in modo
corretto. Se un bambino si confonde, se fraintende o racconta cose non vere, il più delle volte può dipendere dal modo in cui
viene “aiutato” a ricordare.
Nell’ambiente giudiziario italiano non è mai stata elevata la sensibilità verso quelle ricerche che hanno mostrato come diversi
fattori sociali, individuali e contestuali influenzino l’accuratezza del ricordo dei bambini e la loro sensibilità alle false
suggestioni. E’ quindi merito di recenti lavori (vedi Mazzoni, 2000, 2003; Caffo, Camerini, e Florit, 2002; Forza, Michielin,
e Sergio, 2001; De Cataldo Neuburger, L., 2005; De Leo e Patrizi, 2002; De Leo, Scali, e Caso, 2005) l’aver messo in luce
quanto l’attendibilità di un minore come testimone dipenda principalmente dal modo in cui gli vengono poste le domande
durante il colloquio.
All’interno di tali problematiche, questo lavoro intende presentare un caso giudiziario
in cui la direttrice/insegnante di una scuola dell’infanzia di un piccolo paese viene accusata da un’insegnante di
maltrattamenti a danno dei bambini.
L’analisi di questo caso si pone due scopi principali. Da una parte vuole mettere in luce l’importanza di adottare modalità
non suggestive di intervista al fine da permettere che bambini in età prescolare siano in grado di ricordare e riferire in modo
accurato eventi di cui sono stati testimoni. Dall’altra vuole mostrare come sia necessario applicare adeguati metodi di analisi
di trascrizione dei colloqui allo scopo di poter valutare in maniera oggettiva quanto riportato dai bambini.
Metodo
Il caso ha visto coinvolto un numero elevato e diversificato di soggetti: insegnanti, bambini, genitori e fratelli dei bambini.
Attorno alla vicenda si è creato un notevole interesse: tutti ne hanno parlato, hanno espresso la loro opinione, hanno dato il
loro giudizio.
53 bambini di età compresa tra i 3 e i 6 anni, che frequentano o hanno frequentato la scuola dell’infanzia, sono stati
interrogati dal Consulente Tecnico del Pubblico Ministero alla presenza del Consulente dei Difensori. In considerazione del
numero di minori da ascoltare e della loro età è stata scelta come metodo di analisi investigativa l’intervista semistrutturata. I
colloqui, avvenuti in tre mesi, sono stati videoripresi e trascritti, per un totale di 2145 pagine di trascrizione.
Dato l’elevato numero di minori interrogati, le interviste sono state analizzate tramite il software SPAD_T. L’obiettivo è
stato quello di indagare nei resoconti dei bambini con che frequenza e in quale contesto compaiono le parole utilizzate (o
parole equivalenti) dall’insegnante accusatrice per descrivere i comportamenti che sarebbero stati commessi dalla direttrice a
danno dei minori.
Risultati
La metodologia utilizzata di analisi delle trascrizioni dei colloqui si è dimostrata molto utile per valutare in maniera oggettiva
quanto riportato dai bambini e per ricercare in modo sistematico quegli aspetti fondamentali e critici ai fini dell’indagine.
Questo caso mostra quanto i bambini in età prescolare siano in grado di ricordare e riferire in modo accurato eventi di cui
sono stati testimoni, a patto che vengano adottate modalità non suggestive di intervista e si applichino adeguati metodi di
analisi dei colloqui.
In conclusione tale lavoro mette in luce l’opportunità, soprattutto nei casi in cui è elevato il numero di minori interrogati, di
adottare adeguate metodologie di analisi delle trascrizioni dei colloqui allo scopo di poter stabilire in modo oggettivo
l’attendibilità e la veridicità di quanto raccontato dai bambini.
Keywords
Child witness, event memory, suggestibility
242
Sessione tematica 12
PARENTING E RELAZIONI FAMILIARI
Coordina: Linda Cassibba
Università di Bari
243
RISCHIO, PROPENSIONE AGLI INCIDENTI E PROBLEMI DI ADATTAMENTO
ELISA STAGNI BRENCA
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
[email protected]
Introduzione.
Gli studi sulla tendenza di bambini e preadolescenti ad assumere comportamenti rischiosi e, in particolare, ad incorrere in
incidenti hanno evidenziato l’influenza dell’età (con un incremento a partire dall’età scolare, Hiller e Morrongiello, 1998),
delle differenze di genere (con percentuali più elevate nei maschi, Morrongiello e Dawber, 2004) e della propensione
individuale alla ricerca di sensazioni (Morrongiello, 2006).
I problemi di adattamento, a cui gli studi hanno assegnato un ruolo importante per il loro effetto diretto sullo sviluppo e
sull’adattamento psicologico dei bambini (Achenbach e Edelbrock, 1981; Matheny, 1987; Bijur et al., 1988; Farmer e
Peterson, 1995; Plumert e Schwebel, 1997; Wazana, 1997; Bijttebier et al., 2003), non sono stati, invece, ancora messi in
relazione alla propensione ad incorrere in incidenti e farsi male e alla ricerca di sensazioni. Lo scopo di questa ricerca,
dunque, è di analizzare quali specifiche dimensioni dei problemi di adattamento (internalizzazione e/o esternalizzazione)
siano connesse ai comportamenti a rischio e alla ricerca di sensazioni nei bambini. Si ipotizza, in particolare, che i bambini
che manifestano comportamenti di esternalizzazione incorrano in un numero maggiore di comportamenti a rischio di
incidenti, siano più propensi a correre rischi fisici e abbiano una maggiore predisposizione alla ricerca di sensazioni.
Metodo
Il campione si compone di 272 bambini d’età compresa fra 8 e 12 anni (M 9.9 a., DS 1.4), di cui 132 maschi (M 9.9 a., DS
1.4) e 140 femmine (M 9.9 a., DS 1.4), e i loro genitori (272 padri: M 44.4 a., DS 5.4; 272 madri: M 41.8 a., DS 4.7).
Gli strumenti utilizzati sono:
- “Injury Behavior Checklist” (IBC. Speltz et al 1990, vers. it. Di Blasio e Stagni Brenca, 2007) è uno strumento che fornisce
la misura del livello di assunzione di rischio nel bambino negli ultimi sei mesi. I bambini valutano quanto spesso essi
incorrono in 21 comportamenti a rischio di farsi male su una scala Likert a cinque punti (da 0 = mai a 4 = molto spesso): i
punteggi più alti indicano una maggiore propensione ad incorrere in comportamenti rischiosi.
- “Risk Taking Task” (RTT. Morrongiello e Dawber, 2004, vers. it. Di Blasio e Stagni Brenca) misura l’intenzione del
bambino di assumere dei rischi in sei situazioni di gioco; in ogni situazione è rappresentato un bambino che si trova in un
punto del disegno e deve raggiungerne un altro, decidendo quale percorso intraprendere: un percorso a basso rischio, senza
nessun pericolo evidente, ma più lungo (punt. 1), un percorso a rischio moderato, con pochi pericoli e di lunghezza media
(punt. 2), un percorso ad alto rischio, con un numero considerevole di pericoli, ma più corto (punt. 3): i punteggi più alti
indicano una maggiore intenzione di correre dei rischi.
- “Sensation Seeking Scale” (SSS. DiLillo, Potts e Himes, 1998) misura la ricerca o l’evitamento di sensazioni: il bambino
non dà una reale stima dei comportamenti rischiosi che intraprenderebbe, ma riporta la percezione soggettiva di voler provare
emozioni forti. La scala prevede la visione di dieci coppie di disegni raffiguranti condizioni di gioco e di vita quotidiana;
ogni coppia contiene una situazione di ricerca (punt. 1) e una di evitamento (punt. 0) di sensazioni: i punteggi più alti
indicano una maggiore ricerca di sensazioni da parte del bambino.
- “Child Behavior Checklist / 4-18” (CBCL. Achenbach, 2001), invece, misura la presenza di problemi di adattamento nei
bambini negli ultimi 6 mesi, attraverso le risposte dei genitori a 113 item, su una scala a tre livelli (da 0 = non vero a 2 =
molto vero). Gli item confluiscono in 8 sottoscale sindromiche: I ritiro, II lamentele somatiche, III ansia/depressione
(Problemi di Internalizzazione), IV problemi sociali, V problemi del pensiero, VI problemi attentivi (Altri problemi), VII
comportamento delinquenziale e VIII comportamento aggressivo (Problemi di Esternalizzazione).
IBC, RTT e SSS sono stati somministrati ai bambini, mentre la CBCL è stata compilata dai genitori congiuntamente.
Risultati
I principali risultati emersi dall’analisi della regressione lineare stepwise con variabile dipendente i punteggi alla IBC
evidenziano che la predisposizione ad incorrere in incidenti e farsi male risente in primo luogo del sesso del bambino (R2
change = .095 p = 0.0001), in secondo luogo della ricerca di sensazioni (R2 change = .051 p = 0.0001) e in ultimo dei
problemi di esternalizzazione (R2 change = .032 p = 0.001) (F1, 268 = 19.401 p = .0001). Età e intenzione di assumere dei
rischi (RTT), invece, non sono significativi per la propensione agli incidenti.
Keywords
Rischio, incidenti, esternalizzazione
244
TRASMISSIONE INTERGENERAZIONALE DELL’ATTACCAMENTO IN CONDIZIONI DI DISAGIO
SOCIALE
ELISABETTA COSTANTINO, MARIA TERESA COLAVITTO, LEONARDA VALENTINA VERGATTI
Università degli Studi di Bari
[email protected]
Introduzione
Le evidenze empiriche sulla trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento (van IJzendoorn, 1995; 1997) mostrano come,
in condizioni “normali”, le esperienze vissute dai genitori durante la propria infanzia influenzino le modalità attraverso le
quali si manifesta il comportamento di accudimento. Esse, a loro volta, predicono la qualità della relazione di attaccamento
che il bambino stabilisce con il genitore (Benoit e Parker, 1994; van den Boom, 1994). Difficoltà di natura sociale o
ambientale, tuttavia, possono ostacolare la capacità materna di essere emotivamente disponibile ai bisogni del piccolo e
creare una sorta di interruzione nelle previsioni della teoria dell’attaccamento (Belsky, 1999; National Institute of Child
Health, 2000; Tarabulsy et al., 2005). Studi longitudinali dimostrano che, nelle famiglie a rischio sociale, non sempre le
previsioni della teoria dell’attaccamento vengono confermate, mentre viene rilevata una maggiore tendenza all’insicurezza e
alla disorganizzazione (Weinfield, Whaley e Egeland, 2004; George e Solomon, 1999). Diversi autori (DeWolff e van
IJzendoorn, 1997; George e Solomon, 1999; Weinfield, Whaley e Egeland, 2004) hanno dimostrato, a tal proposito, che le
variabili legate alla relazione madre-bambino sono particolarmente sensibili all’influenza ambientale e al clima familiare;
pochi studi, invece, si sono soffermati sui percorsi specifici che, nelle popolazioni a rischio sociale, causano l’interruzione
della continuità prevista dalla teoria dell’attaccamento.
Alla luce della letteratura esaminata sulle previsioni della teoria dell’attaccamento e sui fattori che possono alterare la
trasmissione intergenerazionale della qualità del legame di attaccamento, ci si è proposti di verificare il contributo dei fattori
di natura ambientale sulla trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento.
Più specificamente, si intende indagare, confrontando un gruppo di diadi che vive in condizioni socio-economiche
svantaggiate e un gruppo di controllo:
a. la stabilità nel tempo dell’attaccamento materno;
b. la corrispondenza fra lo stile di attaccamento materno rilevato al primo e al quattordicesimo mese di vita dei bambini e lo
stile di attaccamento infantile;
c. la trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento in condizioni di disagio sociale e in condizioni socio-economiche
medio-alte.
Metodo
Sono state selezionate 44 madri, di cui 25 “a rischio”, che presentano un reddito inferiore o uguale ai criteri di povertà Istat e
una scolarità inferiore al diploma di scuola superiore e 19 “di controllo”, con un reddito superiore ai criteri di povertà Istat e
una scolarità superiore o uguale al diploma di scuola superiore. Al momento delle rilevazioni demografiche effettuate in
ospedale, durante la gravidanza o al momento del parto, è stato somministrato un questionario per valutare il supporto sociale
percepito dalle madri (Mspss, Zimet et al., 1988). Le diadi sono state seguite longitudinalmente dal primo mese di vita al
compimento dei 14 mesi dei bambini.
Al primo e al quattordicesimo mese di vita dei bambini sono state valutate le rappresentazioni mentali delle madri rispetto
all’attaccamento con l’intervista semistrutturata Adult Attachment Interview (George, Kaplan e Main, 1984). Al sesto e al
quattordicesimo mese di vita dei bambini è stata valutata la sensibilità materna attraverso le Emotional Availability Scales
(Biringen, 2000). Al quattordicesimo mese di vita dei bambini sono state raccolte informazioni sul temperamento attraverso
il Questionario Italiano sul Temperamento (Axia, 2001) ed è stato valutato l’attaccamento infantile con la procedura
osservativa Strange Situation (Ainsworth et al., 1978).
Analisi dei dati e risultati
Le tavole di contingenza calcolate per la verifica del primo obiettivo mostrano una elevata stabilità nel tempo
dell’attaccamento materno sia nel gruppo a rischio, sia nel gruppo di controllo. Le tavole di contingenza calcolate per la
verifica del secondo obiettivo mostrano che lo stile di attaccamento materno misurato nei due momenti differenti risulta
concorde all’attaccamento infantile misurato con la SSP ai 14 mesi dei bambini in entrambi i gruppi. Per la verifica del terzo
obiettivo, le relazioni fra le variabili sono state valutate attraverso un modello di path analysis che conferma le ipotesi di
partenza sulla trasmissione intergenerazionale e ne dimostra l’indipendenza dalle variabili distali (scolarità e supporto sociale
materni) e dal temperamento infantile.
I risultati mostrano che la trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento risulta confermata (DeWolff e van IJzendoorn,
1997; van IJzendoorn, 1995) ed indipendente da aspetti socio-economici e temperamentali.
Keywords
rischio sociale, attaccamento, trasmissione intergereazionale
245
CONFLITTO GENITORIALE E ADATTAMENTO DEI FIGLI:
QUALI FATTORI MEDIANO TALE RELAZIONE?
ELENA CAMISASCA, LINDA SERAFINI
Centro di Ricerca sulle dinamiche evolutive ed educative, CRiDEE, Università Cattolica di Milano
[email protected]
Introduzione
Il modello cognitivo-contestuale (Grych & Fincham, 1990) e l’ipotesi della sicurezza emotiva (Davies & Cummings, 1994)
sono i modelli che, da tempo, spiegano la relazione tra conflitto genitoriale e disadattamento dei figli, teorizzando il ruolo di
mediazione svolto dalle valutazioni cognitive ed emotive. In particolare, Grych & Fincham (2000; 2003) Grych et al. (2006)
hanno validato l’idea che le valutazioni di minaccia ed autobiasimo costituiscano importanti fattori di mediazione nella
relazione tra conflitto genitoriale e adattamento nel bambino. Diversamente, Davies & Cummings (1998; 2005) Davies et al.
(2006) hanno confermato l’ipotesi che l’insicurezza emotiva sia un importante mediatore di tale relazione. Esiste, invece, un
unico studio (Davies et al. 2004) che ha analizzato il ruolo di mediazione svolto simultaneamente dalle variabili appartenenti
ai due modelli, evidenziando il primato della insicurezza emotiva nella relazione tra conflitto e adattamento. Il presente
lavoro si propone l’obiettivo di verificare, in un unico modello di analisi, lo specifico peso predittivo delle valutazioni
cognitive e della sicurezza emotiva nella relazione tra percezione del conflitto e adattamento. In particolare, si ipotizza che le
valutazioni cognitive (minaccia percepita e autobiasimo) esercitino un peso decisivo nel mediare la relazione tra conflitto e
internalizzazione e che l’insicurezza emotiva e le valutazioni cognitive medino la relazione tra conflitto e esternalizzazione.
Metodo
Campione:
Il campione è composto da 96 bambini (46 maschi e 50 femmine) di 7 (n= 43) e 9 anni (n= 53) e dai rispettivi genitori (96
madri e 96 padri; età media madre = 39.2 DS =4,6; età media padri = 41,1; DS 4,7).
Strumenti:
Ai bambini sono stati somministrati: il Children’s Perception of Interparental scale (CPIC; Grych et al., 1992) per valutare le
percezioni dei bambini relativamente a tre scale: caratteristiche del conflitto (frequenza, intensità, risoluzione); livello di
minaccia percepita e livello di autobiasimo percepito;
il Security in the Interparental Subsystem scale (SIS; Davies et al., 2002) per valutare l’insicurezza emotiva rilevabile in base
a tre scale: reattività emotiva (arousal emotivo e disregolazione comportamentale), regolazione dell’esposizione al conflitto
(coinvolgimento ed evitamento) rappresentazioni interne della famiglia (rappresentazioni costruttive e rappresentazioni
distruttive). Entrambi i genitori hanno compilato la Child Behavior Checklist (CBCL/4-18, Achenbach, 1991) per valutare i
comportamenti di internalizzazione/esternalizzazione nei figli.
Risultati
Le variabili investigate nello studio sono state concettualizzate nei termini di: predittore (percezione delle caratteristiche
strutturali del conflitto), variabili di mediazione (valutazioni cognitive di minaccia e autobiasimo e insicurezza emotiva, nelle
sue specifiche sottodimensioni) e variabili di outcome (comportamenti di internalizzazione/esternalizzazione).
Le analisi correlazionali evidenziano la presenza di associazioni significative tra predittore e outcome
(conflitto/internalizzazione: r=.31**; conflitto/esternalizzazione r=.20*); tra predittore e mediatori (conflitto/autobiasimo
r=.39**; conflitto/minaccia r=.38**; conflitto/incirezza emotiva intesa come reattività emotiva r=.41**);
conflitto/disregolazione comportamentale r=.32**; conflitto/rappresentazioni famiglia r=-.27**) e infine tra mediatori e
outcome (autobiasimo/internalizzazione r=.31**; autobiasimo/esternalizzazione r=.28*; minaccia/internalizzazione r=.28**;
insicurezza emotiva intesa come: disregolazione comportamentale/esternalizzazione r=.23**; rappresentazioni della famiglia
/esternalizzazione: -.28**).
Dalla successiva analisi volta a verificare se le valutazioni cognitive di minaccia e autobiasimo e l’insicurezza emotiva
costituiscano mediatori tra la percezione del conflitto e i comportamenti di internalizzazione/esternalizzazione emerge che
l’autobiaismo media tra conflitto e internalizzazione (R=.38; R2= .14; autobiasimo =.25*), mentre l’autobiasimo associato
all’insicurezza emotiva media tra conflitto e esternalizzazione (R= .37; R2 = .14; autobiasimo =.24* ;insicurezza emotiva
= -.24*).
In sintesi i dati, che saranno oggetto di attenta discussione nella versione completa del poster, confermano solo in parte le
ipotesi poiché, diversamente dalle aspettative, la percezione del conflitto come minaccioso non appare un predittore
significativo dei comportamenti di internalizzazione/esternalizzazione.
Keywords
Marital conflict; Adjustment; Mediational processes
246
LE TEMATICHE DEL POST-ADOZIONE:
DIMENSIONI SIMBOLICO-RAPPRESENTATIVE DELLE COPPIE ADOTTANTI
MICHELE CESARO, NADIA PECORARO
Università degli Studi di Salerno-Dipartimento di Scienze dell'Educazione.
[email protected]
Introduzione
L'adozione è un fenomeno culturale complesso e delicato che coinvolge il minore, la coppia, la famiglia, la comunità e gli
operatori dei servizi in dinamiche psicologiche, relazionali e sociali eterogenee e articolate. Molteplici sono le motivazioni
che spingono le coppie ad adottare; oltre alla scelta altruistica, l'adozione diviene spesso un’opportunità per realizzare il
desiderio di genitorialità (Dell'Antonio, 1986) e colmare il "vuoto" dell'impossibilità di procreare. L'arrivo di un bambino in
famiglia non è semplice, sia che si tratti adozione nazionale, sia internazionale; differenti storie di vita, stili, abitudini,
sofferenze, aspettative, progetti, tempi (D'Andrea, 2000) si incontrano. I passaggi che questo nucleo deve affrontare per
creare un nuovo spazio mentale e fisico familiare (Baldascini, 2008) coinvolgono la coppia e i figli sia separatamente che
congiuntamente: dal riconoscimento e accettazione di una "doppia mancanza"(Abignente, 2002), alla generazione di uno
spazio di accoglienza (Lombardi e Valvo, 1999; Paradiso, 2004), dalla valorizzazione delle differenze (Greco, Rosati, 1998)
alla costruzione di somiglianze e vicinanza (Cigoli, 2002), fino alla creazione di modalità di reciproco adattamento funzionali
al processo di riorganizzazione e trasformazione richiesto dalla fase di transizione (Minuchin, 1976). In questa fase del ciclo
vitale della famiglia si rileva importante la presenza e la costruzione di una rete familiare, sociale ed istituzionale, quale
fattore di protezione e di sostegno (De Rienzo, Saccoccio, Ionizzo, Viarengo, 2005). La famiglia allargata, attraverso il
supporto materiale e psicologico, deve permettere al nuovo nucleo di trovare uno "spazio relazionale tranquillo"(Andolfi,
2003; Boszormenyi-Nagi e Spark 1973; Scabini, Cigoli, 2000) per porsi in una condizione integrativa e di continuità storica
dei suoi membri (Cigoli, 2005). La presenza di realtà esterne, quali la comunità, le agenzie formative, e la presenza costante
e adeguata dei servizi che si occupano dell'adozione rappresentano dei fattori di protezione per la riuscita del percorso postadottivo (Fatigati, 2005; Galli, Viero, 2005; Oliverio Ferraris, 2002).
Questa ricerca nasce con l'obiettivo di conoscere, esplorare ed approfondire le dimensioni rappresentativo-simboliche,
processuali e trasformative dell'esperienza post-adottiva e dei suoi protagonisti, considerando il punto di vista delle coppie, in
questo delicato momento di "transizione".
Metodo
Il campione è rappresentato da 40 coppie adottive (15% della popolazione dei nove Ambiti Territoriali) afferenti al Tribunale
per i Minorenni di Salerno. Sono stati somministrati una intervista semi-strutturata audioregistrata sull’esperienza postadottiva e il test grafico-simbolico della “Doppia Luna” (Greco, 1999) per indagare e confrontare le rappresentazioni dei
confini e delle appartenenze familiari nella transizione dal pre-adozione (versione “prima-passato”) al post-adozione
(versione“dopo-ora”). Le interviste sono state sottoposte ad Analisi del Contenuto mediante il software TLab5.5 (Lancia,
2004); per l’analisi dei disegni si è tenuto della lettura degli Indicatori Grafici (Greco, 2006) sottoponendo le categorie
ottenute ad analisi fattoriale con il programma Spad-V5.
Risultati
I risultati ottenuti dalle interviste attraverso l’Analisi delle Corrispondenze Multiple (ACM) evidenzierebbero la costruzione
di una rappresentazione simbolica dell'adozione che si dispone lungo due dimensioni significanti. La prima riguarda il
processo post-adottivo inteso in termini di "prassi", dal "cosa si fa" al "come si svolgono i fatti", secondo una polarità che
pone da un lato l'adozione quale procedura istituzionale, con i suoi attori, e dall'altro l'esperienza soggettiva dell'adozione
legata alle procedure che una coppia deve realizzare dal momento dell'incontro alle fasi successive che riguardano la gestione
della quotidianità. La seconda dimensione, invece, ricondurrebbe a contenuti e processi riguardanti l'esperienza dell'adozione
e dell'adottato, in cui è riscontrabile da un lato l'attenzione alla gestione istituzionale delle problematiche da un punto di vista
pratico, e dall'altro la gestione familiare quotidiana attraverso la quale si costruisce una dimensione relazionale e simbolica
della genitorialità e della filiazione.
Queste coordinate diventano il campo psicologico in cui si organizzano i cinque profili di risposta, ottenuti dall’analisi dei
disegni, considerati come modalità della variabile illustrativa “disegno” e sottoposti all’ACM all’interno dell’analisi delle
interviste. Questi sono stati definiti: "integrati"(19%), "inclusivi"(64%), "assenti-disimpegnati" (5%), "indifferenziati" (9%),
"deleganti"(4%).
Keywords
Adoption, representation, adoptive parents
247
LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO IN SITUAZIONI DI DISAGIO FAMILIARE
SARAH MIRAGOLI
Centro di Ricerca sulle Dinamiche Evolutive ed Educative (C.R.I.d.e.e.), Unità di Ricerca sulla Psicologia del Trauma,
Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.
[email protected]
Introduzione
L’ambito in cui s’inserisce questo lavoro di ricerca è la tutela all’infanzia, all’interno della quale risulta centrale
l’individuazione delle situazioni a rischio e la creazione di condizioni di prevenzione e riparazione del danno. La concezione
attuale di rischio fa riferimento alla prospettiva per meccanismi e processi (Cummings, Davies, & Campbell, 2000), secondo
la quale i fattori di rischio distali determinano una condizione di vulnerabilità, che può essere amplificata da fattori
prossimali di stress oppure ridotta da fattori protettivi. In base a questo approccio è stato elaborato un protocollo su fattori di
rischio e fattori protettivi (Di Blasio, 2005), ispirato nelle sue linee generali ai lavori sul rischio psico-sociale, sulla violenza
e l’abuso all’infanzia (Cirillo & Di Blasio, 1989; Di Blasio, 1997, 2000). Nel protocollo l’attenzione ai fattori di rischio e di
protezione permette di comprendere come l’esito di un adattamento (o di un maladattamento) sia influenzato dall’interazione
di molteplici elementi individuali e contestuali, che acquisiscono significato in funzione della dinamica processuale e delle
interconnessioni che vengono a determinarsi tra i diversi elementi. Obiettivo principale di questo lavoro è il perfezionamento
di tale protocollo, attraverso la valutazione delle sue potenzialità nel discriminare tra famiglie con bassi/alti indici di rischio.
Tali indici di rischio sono valutati in base al tipo di intervento attuato dai servizi sociali nel corso dei 2 mesi successivi alla
segnalazione di una situazione di pregiudizio riguardante un minore. In particolare, allontanamento e inserimento del minore
in comunità fanno riferimento a situazioni giudicate ad alto rischio; interventi di monitoraggio e sostegno delle capacità
genitoriali a situazioni giudicate di basso rischio.
Metodo
Campione: il campione è composto da 400 nuclei familiari (età media madre: 36 anni, ds: 7anni; età media padre: 41 anni,
ds: 9 anni) segnalati ai servizi sociali per situazioni di pregiudizio nei confronti di un figlio (età media: 9 anni, ds: 4 anni), le
cui cartelle psico-sociali, previa autorizzazione dei responsabili in ottemperanza delle norme sulla privacy, sono state
esaminate per valutare la presenza-assenza dei fattori di rischio e di protezione, oltre ad altre variabili sociali e familiari.
Strumenti: la scheda utilizzata sui fattori di rischio e di protezione è stata creata ad hoc a partire dal protocollo sopra citato ed
è costituita da 32 fattori, suddivisi in tre gruppi: 9 fattori di rischio distali (p.e. basso livello di istruzione, carente supporto
sociale), 13 fattori prossimali di rischio (p.e. devianza sociale, abuso di sostanze), 10 fattori prossimali protettivi (p.e.
empatia, buona autostima). La valutazione è avvenuta per 8 fattori in base alla loro presenza/assenza, per i restanti 24 fattori
su una scala a tre livelli (assente, mediamente presente, presente). Ciascun fattore è stato valutato separatamente per la figura
materna e per la figura paterna.
Risultati preliminari
Le preliminari analisi Chi2 rilevano associazioni significative tra alcuni fattori distali e la valutazione di situazioni ad alto
rischio (p.e. basso livello di istruzione, madre: Chi2=40,050; gdl=2; p<.001; padre: Chi2=23,663; gdl=2; p<.001; carente
supporto sociale, madre: Chi2=33,001; gdl=2; p<.001; padre: Chi2=20,036; gdl=2; p<.001), considerate pericolose e che
prevedono l’attuazione di serie misure di tutela (allontanamento del minore dalla residenza familiare ed inserimento in
comunità). Analogamente ulteriori fattori di rischio prossimali, relativi sia a madri sia a padri (p.e. devianza sociale, madre:
Chi2=14,666; gdl=1; p<.001; padre: Chi2=21,615; gdl=1; p<.001; assunzione di sostanze, madre: Chi2=20,384; gdl=1;
p<.001; padre: Chi2=13,874; gdl=1; p<.001), rappresentano aspetti particolarmente preoccupanti, cui frequentemente gli
operatori rispondono con interventi di allontanamento del minore segnalato. Infine, per quanto concerne i fattori di
protezione (p.e. empatia, madre: Chi2=14,666; gdl=2; p<.001; padre: Chi2=16,440; gdl=2; p<.001; buona autostima, madre:
Chi2=41,913; gdl=2; p<.001; padre: Chi2=51,230; gdl=2; p<.001), dai nostri dati emerge come risultino decisamente carenti
in situazioni familiari giudicate ad alto rischio e particolarmente presenti in situazioni valutate a basso rischio (i cui interventi
si traducono in visite domiciliari, colloqui periodici con gli utenti e supporto psicologico ai genitori). Questi risultati
preliminari confermano la capacità dello strumento di discriminare tra famiglie giudicate con bassi/alti indici di rischio, e la
possibilità di un suo utilizzo come integrazione delle abituali valutazioni effettuate dagli operatori, soprattutto in relazione a
quelle condizioni di disagio familiare in cui sussiste il dubbio se proteggere il minore attraverso la segnalazione all’Autorità
Giudiziaria o sostenere le competenze genitoriali, favorendo i meccanismi di resilienza.
Keywords
child abuse; risk factors; protective factors
248
CORRELATI E PREDITTORI DELLA QUALITÀ DEL PARENTING
FRANCESCA LIGA, ROSANNA DI MAGGIO
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Palermo
[email protected]
Introduzione
Nell’ambito della psicologia dello sviluppo, numerose ricerche hanno rilevato come le pratiche educative genitoriali
esercitino un ruolo di particolare rilievo nel funzionamento socio-emotivo e cognitivo del bambino e possano modulare
l’esito adattivo o disadattivo del percorso di sviluppo (Baumrind, 1967; Grusec & Goodnow, 1994). Nel contempo, studi
recenti hanno sempre più sottolineato come i comportamenti di parenting siano orientati e guidati dal complesso di processi e
fattori legati al contesto relazionale e sociale in cui il nucleo familiare vive (Belsky, 1984; Burger & Milardo, 1995; Cochran
& Niego, 2002; Widmer et al., 2006).
Nello specifico, è emerso come le pratiche educative adottate dai genitori siano influenzate dal supporto sociale percepito,
così come dalla qualità della relazione coniugale, e come il funzionamento generale dell’intero nucleo familiare sia
condizionato dall’intensità di stress e pressioni che le difficoltà quotidiane legate alla cura e all’accudimento di bambini
piccoli possono generare (Klein et al., 2000; Kotchick & Forehand,. 2002; Rodgers, 1993).
Obiettivi
Sulla base di tali considerazioni, la presente ricerca si pone l’obiettivo generale di esaminare il ruolo che alcune variabili
contestuali giocano nell’adozione dei comportamenti di parenting. In particolare, si intende indagare le relazioni concorrenti
e predittive tra supporto sociale, funzionamento familiare, qualità della relazione coniugale, stress legato alle difficoltà
giornaliere e pratiche educative adottate dai genitori.
Metodo
Partecipanti
Alla prima fase (T1) della ricerca, di tipo longitudinale, hanno partecipato 104 madri con figli di 24 mesi. Dopo un periodo
di due anni, 40 di esse hanno nuovamente preso parte alla seconda fase della ricerca (T2).
Misure e procedura
A tutto il gruppo di madri, in entrambe le fasi, sono stati somministrati individualmente i seguenti strumenti: il Social
Networks (Rubin et al., 1992) per valutare il supporto sociale percepito; il Child Rearing Practices Report (CRPR; Block,
1965) per misurare le pratiche educative, come la restrizione e la punizione; il McMaster Family Assessment Device (FAD;
Epstein et al., 1983) per indagare il funzionamento/disfunzionamento generale del sistema familiare e alcune dimensioni
specifiche di tale funzionamento, quali la comunicazione, la responsività affettiva, il problem solving, i ruoli, il
coinvolgimento affettivo e il controllo del comportamento; il Parenting Daily Hassles (Crnic & Greenberg, 1990) per rilevare
sia il livello di stress legato ad episodi giornalieri che possono verificarsi nella famiglie con bambini piccoli (Intensità) sia la
frequenza con cui tali episodi avvengono (Frequenza); la Dyadic Adjustment Scale (Spanier, 1976) per valutare la qualità
della relazione coniugale.
Risultati
Dall’analisi dei dati emerge come a T1 l’impegno e i compiti legati alle difficoltà giornaliere predicano la mancanza di
espressioni affettive, la tendenza alla restrizione e il rifiuto nella relazione madre-bambino. A T1, inoltre, la qualità della
relazione coniugale è legata alle pratiche educative adottate: più le madri si sentono soddisfatte del loro rapporto con il
marito, meno si mostrano restrittive nei confronti dei figli.
Per quanto riguarda i dati longitudinali, i risultati mostrano come un contesto familiare contraddistinto da responsività
affettiva sia associato, due anni dopo, ad un minore utilizzo di pratiche restrittive e punitive da parte delle madri e come
l’abilità familiare a risolvere i problemi a T1 risulti predittiva dell’orientamento materno ad adottare a T2 pratiche educative
che incoraggiano l’indipendenza del bambino. Un dato sorprendente è la relazione predittiva tra un buon funzionamento
familiare generale a T1 e la tendenza da parte delle madri ad essere punitive a T2. In accordo con precedenti ricerche (Lo
Coco et al., 2007), sembra essere confermato il significato contraddittorio che l’orientamento alla punizione può acquisire nel
contesto meridionale dell’Italia.
Keywords
parenting behaviour, family environment, daily hassles
249
LA QUALITÀ DELL’INTERAZIONE AFFETTIVA NELLA DIADE MADRE-BAMBINO: UN’ANALISI
LONGITUDINALE SUGLI EFFETTI NELLO SVILUPPO LINGUISTICO IN BAMBINI PREMATURI E NATI A
TERMINE
ALESSANDRO COSTANTINI, ROSALINDA CASSIBBA
Dipartimento di Psicologia , Università degli Studi di Bari
[email protected]
Introduzione
Numerosi studi hanno indagato il ruolo della qualità dell’interazione affettiva tra madre e bambino nel processo di
acquisizione del linguaggio del bambino. Ad esempio, l’ampiezza del vocabolario a 24 mesi è predetto dalla sensibilità
materna a un anno (Beckwith e Cohen, 1989). Similmente, la congruenza della risposta emotiva materna nel primo anno
predice lo sviluppo delle abilità linguistiche del bambino nel secondo anno (Tamis-LeMonda et al., 1998).
Nonostante questi studi contribuiscano alla comprensione del ruolo che la qualità dell’interazione gioca nello sviluppo
linguistico del bambino, essi presentano alcuni limiti. In primo luogo, il focus dell’analisi è stato tipicamente rivolto al
contributo materno, mentre non risulta indagato quello giocato dal comportamento interattivo del bambino nello sviluppo
linguistico. Esiste un limite nell’impiego di misure indirette per valutare il livello di sviluppo linguistico del bambino: nella
compilazione dei questionari, le madri più sensibili potrebbero essere quelle più capaci di valutare le abilità dei propri figli
(D’Odorico, 2005). Inoltre, esiste una grande variabilità sia rispetto alla definizione e alla misurazione del comportamento
materno che all’età di rilevazione e al tipo di competenze linguistiche del bambino considerate.
Infine, l’associazione tra la qualità dell’interazione diadica e lo sviluppo linguistico del bambino risulta scarsamente indagata
in condizioni di nascita prematura che può essere un fattore di rischio per la qualità dell’interazione diadica e per lo sviluppo
affettivo del bambino (Goldberg e DiVitto, 1995).
Alla luce di quanto detto, il presente studio indaga, sia in condizione di nascita prematura che di nascita a termine, le
associazioni tra misure relative alla qualità dell’interazione affettiva nella diade e misure relative alle abilità linguistiche del
bambino nei primi 3 anni di vita. Allo scopo di ovviare ai limiti esposti, l’approccio è longitudinale, con rilevazioni multiple
e si avvale di metodi di misurazione sia di tipo indiretto che di tipo osservativo. Più specificamente, sarà verificato se il
comportamento interattivo della madre e del bambino contribuiscano in modo concorrente e predittivo alle abilità
linguistiche del bambino.
Metodo
Il campione complessivo include 40 diadi madre – bambino (17 maschi e 23 femmine), provenienti da famiglie italiane
biparentali ed è suddiviso in due sottocampioni: 20 diadi con bambino nato a termine e 20 con prematuro (criteri di
selezione: peso alla nascita tra 750 e 1600 gr., assenza di anomalie congenite e di danni neurologici gravi). Attraverso
rilevazioni longitudinali, sono state raccolte videoregistrazioni dell’interazione madre-bambino ai 14, 24, 30 e 36 mesi del
bambino (età corretta per i prematuri). Queste sono state codificate attraverso le Emotional Availability Scales (EAS,
Biringen, Robinson, Emde, 2000) che consentono di valutare la qualità del comportamento interattivo sia materno
(sensibilità, strutturazione, non intrusività e non ostilità) che infantile (coinvolgimento e responsività al genitore). Le
videoregistrazioni ai 24, 30 e ai 36 mesi sono state codificate per valutare le abilità linguistiche del bambino: tutti gli
enunciati prodotti dal bambino sono stati trascritti, codificati e analizzati adottando le procedure standardizzate del sistema
CHILDES (Mac Winney, 1997). Le categorie appartenenti alla produzione linguistica del bambino in questa analisi condotta
sono state: Numero di enunciati verbali, Lunghezza media dell’enunciato, LMU Word (rapporto tra numero di parole e
numero di enunciati), Numero di radici (numero di parole diverse ma che condividono la stessa radice), Numero di Tipi
(numero di parole morfologicamente diverse), Numero di Tokens (numero totale di parole). Per le misure indirette del
vocabolario ai 24 e ai 30 mesi, ci si è avvalsi del Primo Vocabolario del Bambino (PVB, Caselli e Casadio, 1995) mentre ai
36 mesi del Peadoby Vocabulary Test (PPVT, Dunn & Dunn, 1997).
Risultati
I risultati preliminari evidenziano che, solo in condizione di nascita prematura, la capacità del bambino di coinvolgere la
madre nell’interazione ai 14 mesi predice significativamente il numero di tipi ( =.52, p<.05) e il numero di radici ( =.51,
p<.05) ai 24 mesi. La sensibilità materna ai 24 mesi predice, solo nei nati a termine, il numero di tipi ( =.59, p<.01) e il
numero di radici ( =.51, p<.05) alla medesima età. La non-ostilità materna ai 24 mesi predice il numero di tipi prodotto dal
bambino a 24 mesi, in entrambi i due sottocampioni (prematuri =.53, p<.05; nati a termine: =.49, p<.05), e il numero di
tokens alla medesima età, solo tra i prematuri ( =.49, p<.05). Questi risultati preliminari suggeriscono che la condizione di
nascita modera l’associazione tra la qualità affettiva dell’interazione diadica e lo sviluppo linguistico: in particolare la
precoce capacità dei bambini prematuri di coinvolgere il genitore nell’interazione è predittivo di esiti migliori, mentre per i
nati a termine la qualità affettiva del comportamento materno sembra giocare un ruolo più determinate.
Keywords
linguistic development, quality of mother-child interaction, prematurity
250
COPPIA E GENITORIALITA’: INFLUENZE E CAMBIAMENTI
MARA BIGHIN, ERIKA PETECH, RUBINA ROAN, SABRINA GAMBARO, JODY PELIZZA, ELENA POLETTO
Dipartimento di psicologia dello sviluppo e della socializzazione. Università di padova.
[email protected]
Introduzione
Il presente studio riguarda il funzionamento della coppia nella transizione alla genitorialità, con riferimento al modello
processuale proposto da belsky (1984). Nello specifico verranno considerati la storia affettivo - relazionale del genitore,
analizzata in termini di legame di attaccamento alla famiglia d’origine e la relazione di coppia considerata la fonte di
supporto più importante per i coniugi nell’assunzione del ruolo genitoriale. L’idea è che i modelli relazionali (modelli
operativi interni) sperimentati precocemente nella famiglia d’origine tendano ad essere estesi nelle interazioni adulte, in
particolare nelle relazioni amorose, e influenzino: la decisione di assumere o meno il ruolo genitoriale (easterbrooks, emde,
1988; cohn, silver, cowan, cowan, pearson, 1991; van ijzendoorn, 1992), la qualità della successiva relazione del bambino
con il genitore e, infine, la qualità del legame con il partner (hazan, shaver, 1987; feeney, noller, 1990; simpson, 1990;
mikulincer, erev, 1991). Inoltre per alcuni autori (fivaz-depeursinge, corboz-warnery, 2002) anche lo stile comunicativo di
coppia, ovvero le caratteristiche verbali e non verbali che accompagnano la comunicazione tra i partner, sembrerebbe
costituire un fattore in grado di predire la modalità di assunzione del futuro ruolo genitoriale. In linea con tali posizioni la
ricerca si è proposta di indagare:
- l’andamento dell’adattamento di coppia dalla gravidanza al primo anno di vita del bambino in base al genere e alla durata
del rapporto;
- le connessioni esistenti tra lo stile comunicativo di coppia, il grado di adattamento di coppia in gravidanza e la qualità
dell’attaccamento alla famiglia d’origine;
- il modo in cui la qualità dell’attaccamento alla famiglia d’origine al momento della gravidanza possa essere in relazione
con la percezione dell’adattamento di coppia di entrambi i partner.
Metodo
I partecipanti: alla ricerca hanno partecipato volontariamente 30 coppie in attesa del primo figlio, reclutate presso i corsi di
psicoprofilassi al parto.
Metodi e tempi di raccolta dei dati: 7° mese di gravidanza: colloquio annuncio (fivaz-depeursinge, 2002) relativo allo stile
comunicativo di coppia, adult attachment interview (george, kaplan e main, 1985) per la valutazione della qualità
dell’attaccamento alla famiglia d’origine e dyadic adjustment scale (spanier, 1976) per la valutazione dell’adattamento di
coppia (somministrazione ripetuta al 4°, 9° e 12°mese post natale).
Risultati
I dati raccolti hanno evidenziato i seguenti risultati:
- declino progressivo nel tempo (f(3,87) = 11,516; p < 0,01) nell’adattamento di coppia in seguito alla nascita del primo
figlio, indipendentemente dal genere (f(1,29) = 0,736; p = 0,398) e dalla durata del rapporto (f(1,29) = 2,611; p = 0,117);
- per quanto riguarda lo stile comunicativo della coppia, gli aspetti verbali dell’interazione sono in relazione solo con i vissuti
infantili delle donne relativamente alla scala della trascuratezza o inversione di ruolo da parte della madre (r = 0,550; p <
0,01)
- la qualità dell’adattamento di coppia nella transizione alla genitorialità correla in modo statisticamente significativo solo
con alcuni aspetti relativi alle relazioni di attaccamento ai genitori nell’infanzia: nello specifico per quanto riguarda le donne
si osserva una correlazione significativa negativa tra i punteggi della scala della trascuratezza (aai) esperita nella relazione
con la propria madre e la qualità della relazione di coppia (das) al 9° mese (r = - 0,428; p < 0,05); relativamente agli uomini
si rileva una correlazione significativa negativa tra i punteggi relativi alla scala della spinta al successo (aai) vissuta
relativamente alla figura paterna e la percezione della soddisfazione coniugale al 7° mese di gravidanza (r = - 0,387; p <
0,05) e al 12° mese post partum (r = - 0,452; p < 0,05); e tra i punteggi della scala del rifiuto (aai) nella relazione con il padre
e la qualità della relazione di coppia al 12° mese di vita del bambino (r = - 0,369; p < 0,05).
Keywords
Transition to parenthood, interactions, marital satisfaction.
251
IL BAMBINO COMPETENTE: CAPACITA’ INTERATTIVE TRIADICHE E TRAIETTORIE DI SVILUPPO
FRANCESCA DE PALO**, MARILENA MORETTI*, ROSA MINIACI*, SILVIA VIANELLO*, MARTA BALLABIO*,
ALESSIA DOMINIQUE SALA*
**Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Milano, Bicocca.
*Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo, Università degli studi di Padova.
[email protected]
Introduzione
La prospettiva di Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery (1999) propone un modello secondo cui la qualità del contesto
interattivo triadico madre-padre-bambino costituisce fin dai primi mesi di vita il sistema evolutivo di base dell’individuo
entro il quale il bambino struttura le proprie competenze affettivo-relazionali.
Attualmente numerosi studi (Stern, 1995; Beebe, Lachmann, 2002; Sander, 1975, 2002, 2007) mostrano una nuova visione
del bambino come interlocutore in grado di relazionarsi fin dalla nascita con le figure di riferimento, risultando quindi attivo
e competente, capace di co-costruire l’interazione con gli adulti che si prendono cura di lui e di determinarne la qualità
attraverso il proprio contributo.
Secondo tali prospettive il bambino al 2° mese di vita è già in possesso di competenze cognitive, percettive, motorie ed
affettive che costituiscono i presupposti per interagire con il proprio ambiente di sviluppo (Fogel, 1993; Tronick, 1978);
queste, in continua evoluzione, si affineranno al 4° mese come capacità di interagire con almeno due persone
contemporaneamente, entro una triade (Fivaz-Depeursinge, 2000).
In riferimento ai presupposti teorici illustrati, la ricerca si è proposta di indagare la relazione tra la qualità delle interazioni
madre-padre-bambino ed alcune delle principali competenze interattive del bambino al 4°mese. In particolare gli obiettivi del
lavoro sono stati quelli di:
a) valutare la qualità delle competenze interattive famigliari in questa tappa di sviluppo del bambino;
b) analizzare le competenze evolutive del bambino al 4° mese di vita, così come emergono dall’interazione triadica, indagate
in riferimento a specifiche aree di sviluppo: motoria, linguistica (espressione e ricezione), sociale, ludica ed emotiva;
c) indagare la relazione tra le capacità interattive triadiche del sistema famigliare le competenze evolutive del bambino.
Metodo
Alla ricerca hanno partecipato 66 famiglie con bambini di 4 mesi alle quali è stato somministrato il Lausanne Trilogue Play
(LTP, Fivaz-Depeursinge et al., 1999). La procedura è stata codificata tramite il sistema FAAS (Family Alliance Assessment
Scale) (Lavanchy, Cuennet, Favez, 2006), che prevede una valutazione della qualità dell’interazione, secondo dieci
dimensioni, ognuna graduata su scala Likert a 5 punti (range 1-5). Ogni parte dell’LTP viene codificata in base delle 10
variabili. Alla fine, si ottiene un punteggio per ogni singola parte, uno per ognuna delle 10 dimensioni ed, infine, un
punteggio totale. Inoltre alle video registrazioni dell’LTP è stata applicata una griglia di osservazione delle competenze del
bambino (Ballabio, De Palo, Sala, Roan, 2008) sui piani motorio, linguistico, sociale, ludico ed emotivo, composta di 18
variabili graduate su scala Likert a 3 punti (range 0-2) che portano ad un punteggio complessivo per ognuna delle cinque aree
di osservazione.
Risultati
Le analisi preliminari hanno evidenziato una buona affidabilità ( =.954) del sistema di codifica FAAS (Lavanchy et al.
2006). Dall’analisi fattoriale sulle dieci dimensioni previste dalla codifica emerge un unico fattore che spiega il 82,29% della
varianza complessiva. Relativamente al primo obiettivo: i risultati indicano un decremento delle competenze interattive
triadiche nel corso delle quattro parti della procedura LTP(F(1.902,123.612)=40.410; p<.001), che evidenzia la complessità
della strutturazione del sistema triadico in questa tappa precoce dello sviluppo del bambino e delle competenza genitoriali.
Sono attualmente in corso le analisi relative agli altri obietti della ricerca.
Keywords
triadic interactions, affective-relational development, family relationships
252
LA CO-REGOLAZIONE MADRE-BAMBINO NELL’INTERAZIONE FACCIA-A-FACCIA E CON OGGETTI
MARIA CONCETTA GARITO, VITTORIA CALARDO
Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Chieti-Pescara
[email protected]
Introduzione
Lo studio della co-regolazione interpersonale ha evidenziato le caratteristiche diadiche delle prime interazioni. Intendendo la
comunicazione come processo continuo e dinamico, Fogel e collaboratori hanno analizzato la qualità del coinvolgimento
interattivo tra madre e bambino, individuando stati diversi di co-regolazione (Fogel, 1993; Fogel & Lyra 1997), in particolare
quello unilaterale, in cui la madre è socialmente attiva mentre il bambino è disimpegnato, quella asimmetrica dove la madre è
attiva e il bambino osserva senza partecipare e quella simmetrica dove sia il bambino che la madre sono mutuamente
coinvolti nello scambio. Si è visto che il pattern unilaterale risulta essere prevalente rispetto agli altri due nei primi 6 mesi di
vita (Hui-Chin e Fogel, 2003); in particolare che quello unilaterale e asimmetrico sono esclusivi nel primo mese e mezzo di
vita e che il pattern simmetrico aumenta a partire dal 2° mese (Lavelli, 2005; Lavelli, e Fogel, 2002).
In tali studi, la co-regolazione è stata indagata esclusivamente nell’interazione faccia-a-faccia, ritenuto il contesto privilegiato
per sollecitare la partecipazione del bambino piccolo allo scambio sociale. Ricerche recenti sottolineano tuttavia che il
bambino è in grado di spostare lo sguardo tra l’oggetto e l’altro anche in questo periodo di età. E’ pertanto possibile che
l’inserimento di un oggetto solleciti forme di co-regolazione diverse da quelle osservate nel contesto diadico. Il presente
studio analizza la co-regolazione interpersonale nella diade madre-bambino a 4, 6 e 9 mesi di età sia nell’interazione facciaa-faccia che con oggetti con il duplice obiettivo di 1) trovare possibili differenze nella co-regolazione tra le due situazioni e
2) tracciare l’andamento di ciascuna di esse in un periodo cruciale per il passaggio dall’interazione diadica a quella triadica.
Metodo
20 diadi madre-bambino sono state osservate longitudinalmente in laboratorio a 4, 6 e 9 mesi di vita del bambino mentre
interagivano tra loro. Nelle sessioni a 4 e 6 mesi, ciascuna diade è stata osservata in due condizioni: nell’interazione faccia-afaccia (4 minuti) e con oggetti (6 minuti). A 9 mesi è stata osservata al tavolo mentre interagiva utilizzando un set di giochi
(10 minuti). In entrambi i casi i giochi erano offerti dal laboratorio. Tutte le sessioni sono state videoregistrate e le
videoregistrazioni sono state successivamente codificate (Fogel, de Koeyer, Secrist, Sipherd, Hafen & Fricke, 2003)
utilizzando per l’operazione il software Interact 8 (Mangold, 2007). Inoltre, in considerazione dell’applicazione dello
strumento in un periodo esteso di età, sono state apportate modifiche a tale versione adatte a facilitare la comparazione dei
dati tra le età. Le misure utilizzate consistono nella durata proporzionale di ciascuna categoria; le categorie con valori di
durata inferiori al 5% sono state escluse dalla presente analisi.
Risultati
Sono stati finora esaminate le osservazioni condotte a 4 mesi di età. Risulta che: 1) la co-regolazione Unilaterale è prevalente
sia su quella Asimmetrica che Simmetrica nella condizione faccia-a-faccia [t, 19= 6.2, p < .001; t, 19= 2.1, p <.06,
rispettivamente]; la co-regolazione Asimmetrica e Simmetrica prevalgono su quella Unilaterale nella condizione con oggetti
[t, 19 = 2.9, p < .01 e t, 19 = 3.6, p < .005, rispettivamente]; 2) circa la co-regolazione Unilaterale, la sottocategoria MadreInizia prevale su Madre-Segue nella condizione faccia-a-faccia [t,19 =4.36, p< .001] mentre non ci sono differenze nella
condizione con oggetti; 3) circa la co-regolazione Asimmetrica, è presente soltanto la sottocategoria Dimostrazione, che è
maggiore nella condizione con oggetti rispetto alla condizione faccia-a-faccia [t,19=4.57, p< .001]; 3)circa la co-regolazione
Simmetrica, la sottocategoria Bambino-Innova è maggiore nella condizione faccia-a-faccia che in quella con oggetti
[t,19=3.1, p< .01], mentre la categoria Bambino-Segue è presente soltanto nella condizione con oggetti.
Discussione
La ricerca conferma che la co-regolazione unilaterale è prevalente nell’interazione faccia-a-faccia; in particolare le madri
tendono a proporre qualcosa al bambino più che a seguire la sua proposta. La co-regolazione simmetrica è presente in
percentuale minore di quella unilaterale nella condizione faccia-a-faccia mentre prevale su quella unilaterale nella condizione
con oggetto; tuttavia, nel primo caso la simmetria consiste nello scambio reciproco di segnali, dove il bambino raccoglie la
proposta materna e risponde innovando; mentre nel secondo caso consiste nella semplice accettazione da parte del bambino
della proposta materna, ad esempio afferrando l’oggetto offerto. In considerazione di tali risultati, si può concludere che sia il
contesto interattivo che le capacità infantili che la disponibilità materna influenzano la qualità della co-regolazione
interpersonale nei primi mesi di vita.
Keywords
mother-infant co-regulation; early infancy; longitudinal study.
253
LA CURA DELL’INFANZIA NELLA COMUNITA’ FILIPPINA DI PADOVA.
CONTINUITÀ, FRATTURE E RIADATTAMENTI NELLA MIGRAZIONE
CLAUDIA CASPANI
Università di Padova
[email protected]
Introduzione
La presenza sul nostro territorio di un crescente numero di bambini stranieri diventa un’importante occasione per interrogarsi
sia sulle modalità di parenting adottate dalle famiglie straniere nei confronti dei loro figli, sia sui processi di acculturazione
che si verificano in queste modalità in seguito al contatto più o meno prolungato con un’altra cultura (Berry, 1997, 2001).
Recenti ricerche sul parenting nelle famiglie migranti hanno messo in luce come le idee, le aspettative e le pratiche relative al
parenting siano particolarmente resistenti ai processi di acculturazione, poichè il loro mantenimento favorisce lo sviluppo
dell’identità culturale, rassicura la madre e crea un legame tra le generazioni (Bornstein, Cote, 2004; Moscardino et al.,
2006). L’obiettivo del presente lavoro è analizzare i modelli culturali relativi alla gravidanza, al parto e all’allevamento dei
figli in un gruppo di madri filippine evidenziando i cambiamenti avvenuti in seguito alla migrazione.
Questa ricerca, di tipo qualitativo, è stata guidata dai seguenti quesiti:
1. Quali sono le credenze e le pratiche culturali di un gruppo di madri filippine immigrate in Italia relative alla gravidanza,
alla nascita e alle modalità di cura e allevamento dei loro figli?
2. In seguito all’esperienza migratoria e al conseguente incontro e confronto con la cultura ospitante è possibile osservare un
cambiamento nelle credenze e nei modelli parentali, ossia ha avuto luogo un processo di acculturazione?
3. Esistono delle variazioni intragruppo nei modelli culturali sul parenting descritti dalle madri durante i focus group?
Metodo
Partecipanti. 10 madri filippine residenti a Padova (età media = 42.8 anni, DS = 11.14). Tutte le madri provenivano
dall’Isola di Luzon e risiedevano in Italia da un minimo di 7 anni fino a un massimo di 30 (M = 16.7, DS = 6.46).
Procedura. Le madri hanno partecipato a tre focus group e hanno compilato un questionario socio-demografico. Una donna
filippina ha assunto il ruolo di osservatrice e di traduttrice. Tutti i focus group sono stati audioregistrati e trascritti verbatim
per le analisi successive.
Strumenti e codifica. Sulla base della letteratura esistente sono state costruite tre griglie di discussione contenenti una serie di
quesiti relativi ai tre temi indagati. Successivamente è stato sviluppato uno schema di codifica sulla base di un’analisi
tematica del contenuto (Boyatzis, 1998). Le narrative sono state quindi codificate in categorie, subcategorie e temi.
L’accordo medio tra due giudici indipendenti, calcolato sul 50% delle codifiche, variava tra il 70% e il 100% (M = 95.5%).
Risultati
1. Le credenze e le pratiche tradizionali hanno l’obiettivo di garantire la protezione della diade madre-bambino. Nella cultura
filippina esistono numerose pratiche che vengono messe in atto principalmente nel corso della gravidanza e durante il
puerperio per salvaguardare la salute della donna. Le pratiche tradizionali, le credenze e i rituali che riguardano il bambino
possono essere suddivisi in riti di separazione, aggregazione e protezione.
2. I cambiamenti principali in seguito alla migrazione riguardano la struttura familiare, la diminuzione del numero delle
nascite, la trasformazione del ruolo femminile, la mancanza del sostegno familiare, e l’abbandono di alcune pratiche
tradizionali.
3. Le differenze intragruppo nei modelli di parenting possono essere ricondotte all’età delle madri e alle esperienze
precedenti di maternità: le madri filippine più anziane e quelle che hanno avuto esperienze di maternità solo nelle Filippine o
in entrambi i paesi hanno maggiori conoscenze sulle credenze e sulle pratiche tradizionali, mentre le madri più giovani o
quelle che hanno avuto esperienze di maternità solo in Italia sembrano avere minori conoscenze sulle credenze e pratiche
tradizionali e quindi essere più soggette ai processi di acculturazione.
Discussione
I dati raccolti nel corso dei tre focus group hanno evidenziato l’importante ruolo della famiglia allargata nel sostenere le
donne immigrate durante la gravidanza e la maternità. La società filippina è largamente fondata sulla famiglia, che
comprende cugini, nipoti e parenti e fornisce ai suoi membri sostegno e protezione sociale (Reyes, 1998). La cultura filippina
può quindi essere ascritta tra le culture collettiviste, tipiche delle società asiatiche, in cui l’identità della persona viene
definita dalle appartenenze gruppali, dai legami e dagli obblighi sociali e/o familiari (Triandis, 1995). Per descrivere le
pratiche di accudimento di queste madri si può far riferimento al “modello del contatto prossimale”, caratterizzato da uno
stretto ed intenso rapporto fisico tra madre e bambino (LeVine et al., 1994; Venuti, Giusti, 1996).
Infine, sebbene in seguito all’evento migratorio sembrano essersi verificati dei processi di acculturazione, alcune credenze e
pratiche culturali relative alla cura dei bambini sono risultate particolarmente resistenti al cambiamento.
Keywords
Immigrant mothers, parenting, cultural beliefs
254
Sessione tematica 13
LO SVILUPPO DELLE COMPETENZE PRECOCI
Coordina: Francesca Simion
Università di Padova
255
LA PERCEZIONE DI STIMOLI MOONEY FACES ALLA NASCITA
IRENE LEO (1), FRANCESCA SIMION (2), BEATRICE DALLA BARBA (3)
(1, 2) Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università degli Studi di Padova, Italia
(3) Dipartimento di Pediatria, Università degli Studi di Padova, Italia
[email protected]
Introduzione
I volti costituiscono una fonte ricca di informazioni sulle quali si basa la loro discriminazione e il loro riconoscimento
(Diamond e Carey, 1997). In letteratura c’è un sostanziale accordo tra gli autori che studiano il riconoscimento visivo nel
ritenere che negli adulti l’elaborazione dei volti implica la messa in atto di una strategia di tipo configurale (configural
processing), ossia un tipo di elaborazione che si basa non solo sulla forma delle singole caratteristiche (featural information),
ma anche sulle relazioni spaziali tra queste caratteristiche (configural information) (e.g., Rhodes et al., 1993). Una
distinzione classica per definire le relazioni delle caratteristiche del volto è quella tra le relazioni di I e di II ordine (Diamond
e Carey, 1986). Le prime indicano le informazioni relative alle relazioni spaziali comuni tra le caratteristiche presenti nel
volto definite come la posizione degli occhi sopra il naso che a sua volta è posizionato sopra la bocca, mentre il secondo
termine viene impiegato per specificare le distanze spaziali tra queste caratteristiche, per esempio la distanza tra gli occhi in
riferimento ad un volto prototipico. Molte ricerche hanno dimostrato che gli adulti elaborano il volto utilizzando entrambe le
informazioni relazionali di I ordine e di II ordine (e.g., Maurer, LeGrand e Mondloch, 2002), evidenziando che poiché i volti
condividono la stessa organizzazione di base, ossia le stesse relazioni di I ordine, la capacità di detezione del volto negli
adulti risulta facilitata (e.g., Moscovitch, Winocur e Behrmann, 1997). Un compito di detezione del volto implica la capacità
di decidere se uno stimolo è un volto o non è un volto. Nel classico modello cognitivo di Bruce e Young (1986), questo
aspetto nello studio dell’abilità di elaborazione dei volti è considerata la prima forma di elaborazione visiva (codifica
strutturale), nel quale l’immagine che appare viene sottoposta a quei processi che permettono di discriminare uno stimolo
come appartenente o meno alla categoria volti. Gli adulti rilevano velocemente un volto anche in assenza delle normali
caratteristiche facciali, come nel caso di stimoli volti costituiti da macchie bianche e nere (Mooney faces; e.g., Kanwisher,
Tong e Nakayama, 1998) o quando la disposizione della frutta e/o delle verdure formano un volto (Arcimbaldo; e.g.,
Moscovitch, Winocur e Behrmann, 1997). Sebbene numerosi studi hanno dimostrato che già i neonati sono in grado di
emettere risposte differenziate e di preferenza verso i volti rispetto ad altri stimoli visivi (Johnson e Morton, 1991; Simion,
Valenza e Umiltà, 1998), nessuno studio ha mai verificato se i neonati sono in grado di codificare e discriminare un volto in
assenza delle normali caratteristiche facciali, basandosi esclusivamente sulle relazioni di I ordine. Lo scopo del presente
lavoro è: 1) indagare se alla nascita è presente la capacità di discriminare le informazioni relazionali di I ordine anche quando
non sono visibili le normali caratteristiche del volto; 2) stabilire la natura dell’elaborazione che avviene su un volto. In
specifico, verranno utilizzati stimoli Mooney faces, gli stessi impiegati in studi con soggetti adulti (e.g., Mondloch, Le Grand
e Maurer, 2003). Le Mooney faces sono caratterizzate per la presenza esclusiva delle relazioni di I ordine del volto, in quanto
sono volti costituiti da macchie di luce intensa e ombra, nelle quali la percezione delle informazioni locali relative alla forma
delle singole caratteristiche viene degradata trasformando i valori della luminosità in bianco e nero. Queste immagini
presentate nel loro orientamento canonico sono facilmente percepite come volti, poiché condividono la stessa organizzazione
di base dei volti (relazioni di I ordine).
Metodo
Attraverso la tecnica della preferenza visiva con procedura controllata dal bambino è stato condotto un esperimento
utilizzando stimoli Mooney faces. Sono state presentate 2 coppie di stimoli, ciascuna costituita da una Mooney face
nell’orientamento dritto e la stessa immagine ruotata di 180° (Mooney face inversa). Il campione è costituito da neonati sani
e nati a termine di poche ore di vita (n = 14).
Risultati
I risultati dimostrano che i neonati manifestano una preferenza per la Mooney face rispetto alla Mooney face inversa. Le
analisi hanno anche evidenziato che i tempi totali della fissazione più lunga verso lo stimolo Mooney face differiscono
significativamente da quelli per la Mooney face inversa. Complessivamente questi dati indicano che i neonati sono in grado
di codificare e discriminare le informazioni relazionali di I ordine di uno stimolo Mooney face, anche in assenza dei singoli
dettagli sulle caratteristiche facciali. Questo dato avvalora l’ipotesi secondo cui il sistema visuo-percettivo alla nascita
sembra essere organizzato in modo tale da consentire al neonato di elaborare e discriminare un’ampia gamma di
informazioni percettive, indipendentemente dal fatto che esse rappresentino in modo dettagliato o meno dei volti.
Keywords
face processing - newborns - Mooney faces
256
COMPORTAMENTI REGOLATORI NEL PARADIGMA FACE TO FACE-STILL FACE:
LA PROSPETTIVA DELL’ATTACCAMENTO
GABRIELLE COPPOLA, TIZIANA AURELI, ANNALISA GRAZIA, SILVIA PONZETTI, MARIA CONCETTA
GARITO
Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Chieti-Pescara
[email protected]
Introduzione
Il paradigma Face to Face Still Face (FFSF; per una rassegna storica, cfr. Adamson & Frick, 2003) consente di valutare le
emergenti capacità regolatorie del bambino a partire dalla fine del primo trimestre di vita. Il paradigma prevede infatti una
momentanea perturbazione del flusso interattivo, causata da una fase in cui l’adulto assume un viso immobile (Still Face, SF)
e risulta temporaneamente inaccessibile da un punto di vista espressivo, vocale e gestuale. Dato lo scopo del paradigma,
l’analisi dei suoi effetti si è tradizionalmente focalizzata sulla fase SF e su quella della riunione, nella quale l’adulto ripristina
l’interazione col bambino. Risulta pertanto scarsamente indagato il cambiamento nel comportamento sia materno che
infantile, dalla fase precedente alla SF a quella successiva ad essa (Tronick, Messinger, Weinberg, Lester et al., 2005).
La valutazione delle precoci capacità regolatorie del bambino risulta particolarmente saliente dalla prospettiva teorica
dell’attaccamento, secondo cui le diverse organizzazioni dell’attaccamento riflettono differenze individuali nelle strategie di
regolazione diadica delle emozioni (Cassidy, 1995). Infatti, è stato dimostrato che le reazioni precoci del bambino durante il
paradigma FFSF predicono la qualità dell’attaccamento infantile a un anno (Kogan & Carter, 1996; Braungart-Rieker,
Garwood, Powers & Wang, 2001). Tuttavia non sono disponibili contributi empirici sul possibile effetto dell’organizzazione
dell’attaccamento materno sui comportamenti materni e infantili durante il paradigma FFSF, sebbene la sicurezza nei modelli
di attaccamento della madre sia il principale antecedente della qualità dell’attaccamento infantile (van IJzendoorn, 1995).
Inoltre, mentre è stato dimostrato che la sensibilità materna, valutata in maniera concorrente nella fase iniziale della
procedura, risulta associata ai comportamenti infantili durante la fase SF (Kogan & Carter, 1996; Braungart-Rieker,
Garwood, Notaro & Powers, 1998; Braungart-Rieker et al., 2001), nessuno studio ha indagato la possibile associazione
predittiva tra le due variabili.
Sulla base di tali considerazioni, lo studio intende: 1) indagare l’effetto della condizione osservativa (prima vs. dopo SF) e
dell’organizzazione dell’attaccamento materno (sicuro vs. insicuro) sui comportamenti materni e infantili durante la
procedura; 2) verificare, da una prospettiva longitudinale, se la sensibilità materna predice i comportamenti materni e
infantili durante il paradigma FFSF e 3) verificare se i comportamenti materni e infantili durante la procedura predicono la
qualità dell’attaccamento infantile.
Metodo
Il campione include 20 diadi madre-bambino (10 maschi e 10 femmine, nati sani e a termine,11 primogeniti). L’età media
delle madri è 35.15 (DS=4.61) e la media degli anni di scolarizzazione è pari a 14.15 (DS=2.75). A 3 mesi è stata
somministrata l’Adult Attachment Interview alle madri per valutare il modello di attaccamento e sono state realizzate
videoregistrazioni dell’interazione madre-bambino, valutate con la scala della sensibilità materna tratta dalle Emotional
Availability Scales (Biringen, Robinson, Emde, 2000). A 4 mesi, le diadi hanno partecipato al paradigma FFSF e le
videoregistrazioni sono state codificate con una versione ampliata del sistema di codifica Infant and Caregiver Engagement
Phases (ICEP; Tronick et al., 2005; Riva Crugnola, Caprin & Spinelli, 2008), che valuta la qualità del comportamento
interattivo dei due partner. A 16 mesi le diadi hanno partecipato alla Strange Situation Procedure per valutare la qualità
dell’attaccamento infantile.
Risultati
I risultati preliminari, disponibili su 13 diadi, evidenziano un effetto principale della condizione osservativa: le madri
manifestano in fase post-SF meno coinvolgimento sociale positivo con vocalizzazioni positive [Mpre=.25 (DS=.15);
Mpost=.13 (DS.12), F(1,11)=16.63, p<.01], meno coinvolgimento sociale totale [Mpre=.37 (DS=.17); Mpost=.21 (DS=.19),
F(1,11)=12.38, p<.01] e più comportamenti di consolazione/accudimento [Mpre=.06 (DS=.06); Mpost=.16 (DS.15),
F(1,11)=7.26, p<.05], rispetto alla fase pre-SF. E’ emerso un effetto di interazione tra attaccamento materno e condizione
osservativa [F(1,11)=4.34, p<.05]: madri sicure, solo prima ma non dopo la SF, manifestano più comportamenti di
monitoraggio sociale con vocalizzazioni positive in confronto alle insicure [Sicure: Mpre=.23 (DS=.13); Mpost=.14
(DS=.09). Insicure: Mpre=.13 (DS=.08); Mpost=.20 (DS=.17)]. Infine, la sensibilità a 3 mesi predice il comportamento
materno di monitoraggio sociale pre-SF (F = 6.67, p<.05; Adj. R2= .32; =.61, p<.05).
Lo studio evidenzia il ruolo chiave del comportamento materno di monitoraggio sociale per identificare le differenze
individuali rilevanti dalla prospettiva dell’attaccamento: tale comportamento, infatti, è assimilabile alla funzione di base
sicura, attraverso cui il caregiver monitora e accompagna adeguatamente l’attività esploratoria del bambino.
Keywords
Still Face, attachment, sensitivity
257
LA RAPPRESENTAZIONE DEL VOLTO ALLA NASCITA E A TRE MESI DI VITA
ELISA DI GIORGIO, IRENE LEO, FRANCESCA SIMION
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università degli Studi di Padova, Italia
[email protected]
Introduzione
Alcune evidenze empiriche supportano l’idea che alla nascita sia già presente una rappresentazione del volto umano, come
gli studi che hanno dimostrato nei neonati una preferenza per i volti attrattivi (Slater et al., 1998). Tuttavia, altri autori
sostengono che è l’esperienza con un volto che consente la creazione di una rappresentazione di tale stimolo (e.g., Nelson,
2001). Nonostante numerosi studi hanno dimostrato che i neonati manifestano una preferenza visiva spontanea per stimoli
che rappresentano il volto umano (e.g., Johnson & Morton, 1991, Valenza et al., 1996) e per gli occhi contenuti in essi
(Farroni et al., 2002; Johnson et al., 2005), dati recenti indicano che tale preferenza non implica l’esistenza di meccanismi
specifici per il volto, ma può essere attribuita alla presenza di alcune proprietà percettive non specifiche che il volto
condivide con altri stimoli visivi (asimmetria alto/basso, congruenza) (Simion et al., 2001; 2007). Sebbene non sia ancora
chiara quale sia la natura della rappresentazione del volto alla nascita, alcuni studi supportano l’idea che l’esperienza con il
volto umano nei primi mesi di vita giochi un ruolo importante. Uno studio recente ha osservato che i bambini di 3 mesi
preferiscono un volto e che, diversamente dai neonati, sono sensibili alla sua geometria, dimostrando che a questa età è già
presente una rappresentazione del volto in cui la corretta disposizione degli elementi è rilevante per indurre una preferenza
(Turati et al., 2005). In linea con questo dato, studi che hanno indagato nei primi mesi di vita la percezione di volti della
propria etnia (Kelly et al., 2005), la percezione e preferenza per il volto di genere femminile che appartiene solitamente al
primo caregiver (Quinn et al., 2002) e la capacità di discriminazione tra volti della propria specie e di altre (Pascalis et al.,
2002), dimostrano come sia importante l’effetto dell’esperienza visiva con il volto nei primi mesi di via. Tutti questi dati
sembrano supportare l’idea di un graduale processo di specializzazione del sistema percettivo verso il volto umano e un
effetto dell’esperienza nella creazione di un prototipo di volto sempre più specifico, tuttavia nessuno studio fino ad ora ha
indagato in modo specifico quale sia la natura della rappresentazione del volto alla nascita e a 3 mesi e quali elementi interni
siano in grado di attrarre maggiormente l’attenzione sia dei neonati sia dei bambini più grandi. Lo scopo degli esperimenti è
stato quello di indagare se l’orientamento e la posizione degli occhi, considerati la parte più saliente all’interno di un volto
(Baron-Cohen, 1994), rivestono un ruolo importante nell’indurre una preferenza per il volto umano alla nascita e a 3 mesi di
vita.
Metodo
Attraverso la tecnica della preferenza visiva sono stati condotti tre esperimenti utilizzando fotografie di volti reali. Sono state
utilizzate 4 coppie di stimoli. Nell’ Esperimento 1, è stato presentato un volto insieme allo stesso volto con gli elementi
interni ruotati di 180°, ma in cui gli occhi posizionati nella parte inferiore dello stimolo mantengono l’orientamento corretto.
Negli Esperimenti 2 e 3, le coppie di volti erano costituite da un volto e dallo stesso volto in cui gli occhi erano ruotati di
180°. Nell’esperimento 1 e 2 sono stati testati neonati sani e nati a termine, di poche ore di vita (N = 24). Nell’esperimento 3
sono stati registrati i movimenti oculari di bambini di 3 mesi di vita (N = 12).
Risultati e Conclusioni
I risultati dimostrano che alla nascita i neonati manifestano una preferenza per il volto rispetto al volto in cui gli elementi
interni sono invertiti e gli occhi si trovano nella parte inferiore dello stimolo nell’orientamento dritto (Esperimento 1).
Contrariamente, i neonati non manifestano alcuna preferenza visiva tra il volto e il volto con gli occhi ruotati di 180°
(Esperimento 2). Tuttavia, a differenza di quanto accade nei neonati (Esperimento 2), a 3 mesi, emerge una preferenza per il
volto rispetto al volto con gli occhi ruotati di 180° (Esperimento 3). Complessivamente, i dati sembrano in linea con l’idea
che una rappresentazione del volto umano dettagliata non sia presente dalla nascita, ma lo diventi grazie all’esperienza che
viene fatta con questo stimolo visivo nei primi mesi di vita.
Keywords
face preference; cognitive specialization; infants
258
LA DISCRIMINAZIONE DI SERIE ORDINATE NEI BAMBINI DI 4 MESI
MARTA PICOZZI(1), MARIA DOLORES DE HEVIA (2), LUISA GIRELLI (1), VIOLA MACCHI CASSIA (1)
(1) Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca
(2) Laboratory for Developmental Studies, Harvard University
[email protected]
Introduzione
La capacità di cogliere la relazione ordinale tra quantità rimanda all’abilità di distinguere relazioni comparative del tipo
maggiore di e minore di, e costituisce uno degli aspetti fondamentali della conoscenza numerica. L’obiettivo del presente
studio è quello di indagare lo sviluppo di tale abilità nella prima infanzia. L’unico studio sull’argomento esistente in
letteratura (Brannon, 2002) suggerisce che la capacità di codificare le relazioni ordinali tra quantità continue, come la
dimensione, è presente ad una età più precoce della capacità di discriminare sequenze ordinate di numerosità. I risultati di
tale studio hanno dimostrato che, a 9 mesi, i bambini sanno discriminare sequenze ordinali crescenti composte da elementi
che variano per dimensione da sequenze di ordine inverso, mentre la stessa abilità è presente solo a 11 mesi nel caso di serie
ordinate di elementi che variano in numerosità. Questi dati hanno portato a ipotizzare che la capacità di codificare e
discriminare le relazioni ordinali tra quantità continue costituisca il precursore ontogenetico della capacità di discriminare
relazioni ordinali tra quantità discrete.
L’obiettivo del presente studio è quello di tracciare l'emergere della capacità di codificare e rappresentare le relazioni ordinali
tra quantità continue, verificando se i bambini di 4 mesi sono in grado di discriminare sequenze ordinali crescenti e
decrescenti composte da 3 elementi di grandezza diversa.
Metodo
Un campione composto da 20 bambini di 4 mesi è stato sottoposto a un compito di discriminazione attraverso la tecnica
dell’abituazione visiva. I bambini sono stati abituati a sequenze crescenti o decrescenti, composte da 3 elementi di grandezza
diversa, costituiti da quadrati colorati presentati al centro dello schermo. Le dimensioni dei 3 elementi della serie variavano
secondo un rapporto 1:2 (6-12-24; 9-18-36; 12-24-48). Al termine della fase di abituazione, sono stati presentati 6 trial di
test, costituiti da sequenze crescenti e decrescenti di 3 elementi di grandezza diversa, presentate in ordine alternato (8-16-24;
24-16-8).
Risultati
Complessivamente, i risultati dimostrano che, nella fase test, i bambini fissano più a lungo le sequenze caratterizzate
dall’ordinalità inversa rispetto a quella familiare, Tuttavia, questa preferenza per la novità è significativa solo per il gruppo di
bambini abituati alla sequenza crescente, i quali sembrano essere facilitati nella codifica dell’informazione ordinale presente
nella sequenza.
I risultati ottenuti consentono di estendere le evidenze disponibili in letteratura (Brannon, 2002), dimostrando che la capacità
di discriminare sequenze ordinate di quantità continue è presente sicuramente a partire dai 4 mesi di vita.
Keywords
infancy, ordinality, magnitude
259
LA MODULAZIONE AFFETTIVA DELLA RISPOSTA DI STARTLE: UN PARADIGMA SPERIMENTALE PER
L’INDAGINE DELLE ESPRESSIONI FACCIALI DI EMOZIONE NELLA PRIMA INFANZIA
LAURA FRANCHIN, SERGIO AGNOLI, MARCO DONDI
Università di Ferrara
[email protected]
Introduzione
Lo studio della risposta di startle ha offerto importanti contributi nell’indagine del comportamento emozionale infantile
(Balaban, 1995; Grillon & Baas, 2003; Schmidt & Fox, 1998). Secondo la Motivational Priming Hypothesis proposta da
Lang (1995), l’attivazione di due sistemi motivazionali di base, aversivo e appetitivo, modificherebbe l’intensità e la velocità
della risposta, potenziandola nel caso in cui un individuo si trovi in uno stato a tono edonico negativo (paura, rabbia,
tristezza, etc.) ed inibendola nel caso si trovi in uno stato a tono edonico positivo (gioia, felicità, etc.), fenomeno noto in
letteratura come modulazione affettiva della risposta di startle (Agnoli, Dondi, Mendini, & Franchin, 2007; Balaban, 1996;
Costa & Ricci Bitti, 1998; Lang, Simons, & Balaban, 1997). Grazie all’indagine della modulazione affettiva dello startle in
infanti 5 mesi di vita, Balaban (1995) ha dimostrato come già a quest’età i bambini siano in grado di comprendere il
significato di alcune espressioni facciali di emozione, inibendo la risposta durante la visione di volti sorridenti (a causa
dell’attivazione del sistema motivazionale appetitivo) e potenziandola durante la visione di volti arrabbiati (a causa
dell’attivazione del sistema motivazionale aversivo).
Obiettivo della presente ricerca è stato indagare se le espressioni facciali positive (sorriso) e negative (distress) esibite
spontaneamente da bambini di 5 mesi di vita siano in grado di modulare affettivamente la risposta di startle.
Metodo
Un campione di 12 infanti sani e nati a termine di 5 mesi di vita è stato sottoposto ad un nuovo protocollo sperimentale per
l’indagine della risposta motoria di startle (Automated Infant Motor Movement Startle Seat; AIMMSS). L’AIMMSS è in
grado di rilevare, grazie alla registrazione effettuata da alcuni sensori estensimetrici opportunamente posizionati al di sotto di
un seggiolino, le caratteristiche fisiche (latenza ed ampiezza) della risposta motoria di startle esibita dal bambino posto sul
seggiolino. Mentre il bambino interagiva liberamente con un genitore, lo sperimentatore somministrava una breve
stimolazione acustica in grado di elicitare la risposta di startle nel momento in cui il bambino esibiva spontaneamente
un’espressione facciale di sorriso, di distress e un’espressione facciale neutra (condizione neutra). Le espressioni facciali
sono state codificate offline da due codificatori esperti nell’utilizzo dei più noti sistemi di codifica del comportamento
facciale infantile.
Risultati
Una prima serie di analisi non ha rilevato alcuna modificazione della risposta di startle durante l’esibizione spontanea delle
espressioni facciali di sorriso e di distress. E’, tuttavia, emersa una modulazione affettiva della risposta nelle condizioni
neutre immediatamente successive al sorriso e all’espressione facciale di distress. Nello specifico, nella condizione neutra
successiva all’esibizione del sorriso è stato rilevato un andamento inibitorio nella risposta, al contrario, nella condizione
neutra successiva all’espressione facciale di distress è emerso un andamento facilitatorio (potenziamento) della risposta.
Nei bambini di 5 mesi di vita, l'espressione di sorriso non determina perciò un’inibizione della risposta di startle elicitata
durante la sua esibizione, bensì induce un andamento di tipo inibitorio nella risposta elicitata successivamente alla sua
esibizione. Allo stesso modo, l’espressione facciale di distress non determina un potenziamento della risposta elicitata
durante la sua esibizione, ma induce un andamento di tipo facilitatorio nello startle elicitato successivamente alla sua
esibizione.
Keywords
startle response, emotional facial expressions, early infancy
260
L’ONTOGENESI DEI NEURONI SPECCHIO
VALERIA MANERA (1), MARCO DEL GIUDICE (1), CHRISTIAN KEYSERS (2).
(1) Centro di Scienza Cognitiva, Dipartimento di Psicologia, Università di Torino
(2) BCN NeuroImaging Center, University Medical Center Groningen, University of Groningen
[email protected]
In questo lavoro teorico presentiamo una nuova ipotesi biologica sullo sviluppo dei neuroni specchio durante i primi mesi di
vita. Numerosi studi suggeriscono che i neuroni specchio siano coinvolti in diverse abilità fondamentali per lo sviluppo
psico-sociale del bambino, come l’imitazione e l’apprendimento sociale. Nell’ultimo decennio sono stati fatti molti progressi
nello spiegare la funzione e la localizzazione cerebrale di questi neuroni, ma continuiamo a sapere pochissimo relativamente
alla loro ontogenesi: come si sviluppano i neuroni specchio? Sono il risultato di un processo di apprendimento, oppure si
sviluppano tramite un meccanismo innato? In letteratura sono state proposte entrambe le ipotesi, ma evidenze recenti
sembrano favorire l’ipotesi dell’apprendimento. Secondo Keysers e Perrett (2004: Trends in Cognitive Science) i neuroni
specchio si formano sulla base di un processo di apprendimento hebbiano: ad esempio, mentre il neonato osserva sé stesso
afferrare un oggetto, i neuroni motori coinvolti nel gesto di afferramento e quelli visivi coinvolti nella percezione del
movimento sono attivi contemporaneamente, e questo fa sì che si rafforzino le connessioni sinaptiche tra di essi. La ripetuta
auto-osservazione di azioni farebbe emergere nel cervello delle “aree specchio”, capaci di rispondere allo stesso modo alle
azioni altrui.
In questo contributo di ricerca, proponiamo un’ipotesi più avanzata sullo sviluppo dei neuroni specchio: nel nostro modello
(Del Giudice, Manera e Keysers [in press]: Developmental Science), l’apprendimento hebbiano che porta alla formazione dei
neuroni specchio è un processo biologicamente canalizzato, cioè “guidato” da parametri innati che lo rendono più efficiente e
che ne orientano il risultato in senso adattativo. In questa prospettiva, le due ipotesi sull’origine dei neuroni specchio
(apprendimento e innatismo) non sono incompatibili, ma vengono integrate in un modello più generale.
Secondo la nostra ipotesi, i parametri percettivi e motori del neonato sarebbero tali da favorire un apprendimento rapido ed
efficace. Gli studi sulle condizioni che facilitano l’apprendimento hebbiano mostrano che esistono alcune condizioni che
favoriscono il rafforzamento a lungo termine delle sinapsi: 1) gli stimoli devono essere ripetuti nel tempo; 2) sembra esistere
una frequenza di ripetizione ottimale, circa 0,2 cicli/minuto; 3) la sincronizzazione su frequenze Theta facilita ulteriormente
il consolidamento sinaptico. Inoltre, per garantire l’input corretto al sistema, è necessario che 4) il neonato abbia qualche tipo
di preferenza per osservare i propri movimenti volontari.
Per testare la plausibilità di questa ipotesi abbiamo analizzato la letteratura sulle caratteristiche percettivo-motorie dei
neonati, con particolare riferimento alle azioni di afferramento (grasping). Abbiamo quindi elaborato un modello matematico
che predice il livello del consolidamento a partire dalla frequenza dei cicli di apprendimento e dalla loro irregolarità, in modo
da sottoporre a verifica gli assunti centrali della nostra proposta teorica.
Coerentemente con le nostre ipotesi, i risultati della ricerca bibliografica mostrano che: A) i bambini hanno una marcata
preferenza visiva per le proprie mani, soprattutto quando le mani si muovono e manipolano oggetti; B) i movimenti
spontanei dei neonati nei primi 4-5 mesi hanno una natura ciclica, e la frequenza dei cicli potrebbe essere vicina alla
frequenza ottimale per massimizzare l’apprendimento hebbiano; e C) quando il bambino afferra gli oggetti, le aree specchio
del cervello mostrano una sincronizzazione EEG nella banda Theta. Il modello matematico da noi introdotto mostra inoltre
che la frequenza dei movimenti ciclici osservati nei neonati può essere considerata ottimale per facilitare l’apprendimento
hebbiano.
La nostra ipotesi, per quanto ancora speculativa, fornisce un quadro di riferimento per comprendere l’ontogenesi dei neuroni
specchio, e permette di integrare l’ipotesi dell’apprendimento con quella della predisposizione innata, superando la
semplicistica dicotomia innato-appreso. Inoltre fornisce numerosi spunti di analisi e nuove ipotesi di ricerca da sottoporre a
verifica empirica, nella direzione di integrare lo studio del comportamento con quello del funzionamento neuronale.
Keywords
Mirror neurons, experiential canalization, hebbian learning
261
LA RISPOSTA MATERNA AL PIANTO NEONATALE, DIFFERENZE INTERCULTURALI
MONICA TOSELLI, ANTONELLA AGOSTINI, LINDITA BUKACI
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Firenze
[email protected]
Introduzione
La risposta materna al pianto neonatale è una delle espressioni più immediate e universali della sensibilità materna alla
condizione di disagio del bambino. Il comportamento materno può essere più o meno efficace nel confortare il neonato e
interrompere il suo pianto (Bell e Ainsworth, 1972). Per i teorici dell’attaccamento la prontezza e adeguatezza dell’intervento
materno esprimerebbe la sensibilità materna e risulterebbe predittiva delle specifiche relazioni che si instaurano tra i due
partner. Altri studi hanno sottolineato come gli interventi di cura materni siano legati anche a ciò che le madri ritengono sia
giusto fare in base a presupposti culturali (LeVine, 1988) e al contesto specifico (Super e Harkness,1986). In particolare sono
state identificate culture caratterizzate dall’esigenza di stabilire un “alto” contatto (culture tradizionali) oppure “basso”
(culture occidentali) tra caregiver e bambini (Small, 1999).
Obiettivo della ricerca è confrontare i comportamenti materni di risposta al pianto neonatale e la loro efficacia sul pianto del
neonato stesso, in gruppi culturali diversi e in contesti diversi. Si ipotizza che gli interventi materni e la risposta neonatale,
nei primi giorni di vita, variino in funzione dell’appartenenza culturale delle madri e del contesto ospedaliero nel quale si
svolgono, ma risentano anche, nel corso del tempo, delle risposte dei bambini, rendendoli più simili tra loro.
Metodo
Sono stati esaminati 4 gruppi di coppie madre-bambino: - 40 coppie madri-bambino italiane, in ospedale in Italia - 20 coppie
madri-bambino albanesi, in ospedale in Italia - 20 coppie madri- bambino albanesi, in ospedale in Albania, a Valona.
Le madri, primipare, e i loro neonati sono state osservati, con un’osservazione carta e matita a intervalli temporali di 10”, per
la durata complessiva di 3’, a 24 e a 48 ore circa dopo il parto, in ospedale da due osservatrici. I comportamenti materni di
consolazione al pianto e l’efficacia degli interventi sull’intensità del pianto sono stati rilevati tramite una check list: 23
categorie, mutualmente non esclusive, riferite alla madre, 1 categoria, con tre livelli (pianto assente, piagnucolio, pianto
forte) riferita al bambino.
Risultati
Alla prima osservazione, (24 ore circa dal parto) i comportamenti materni complessivamente più frequenti per tutti e tre i
gruppi di madri sono stati nell’ordine: guardare il neonato, prenderlo in braccio, lasciarlo nella sua cullina.
Significativamente (p< .05) più frequenti, per uno almeno dei tre gruppi rispetto agli altri gruppi, per le madri italiane: parla
al neonato, accarezza il viso; per le madri albanesi in Albania: attacca il neonato al seno, non tocca i piedi, ignora il pianto.
I neonati che hanno interrotto il pianto sono stati: italiani 25%, albanesi in Italia 35%, e ben 60% albanesi in Albania. La
presenza di pianto forte esprimeva lo stesso andamento, maggiore in neonati italiani (37,5%), intermedia per i piccoli
albanesi in Italia (30%) e minore in neonati albanesi in ospedali albanesi (15%).
Alla seconda osservazione, (48 ore circa dal parto) i comportamenti materni complessivamente più frequenti per tutti e tre i
gruppi sono stati, nell’ordine: prendere il neonato in braccio, guardare il neonato, lasciarlo nella sua culla. Significativamente
(p< .05) più frequenti, per le madri italiane: prende il neonato in braccio, guarda il neonato, cammina con il neonato in
braccio, parla al neonato; per le madri albanesi in Italia: lascia il neonato nella cullina, scopre il neonato; per le madri
albanesi in Albania: non parla al neonato.
Il comportamento dei neonati, durante l’osservazione, è stato caratterizzato da una più frequente interruzione del pianto
(italiani 52%, albanesi in Italia 50%, 63% albanesi in Albania) e da una ridotta presenza di pianto forte (italiani 15%,
albanesi in Italia 15%, albanesi in Albania 15%) mostrando quindi l’efficacia degli interventi materni.
Conclusione
Emergono differenze significative nelle coppie madri bambini a seconda dell’etnia di appartenenza e delle caratteristiche del
contesto ospedaliero. Le madri italiane sembrano esprimere le convinzioni di cura di una cultura a basso contatto: scarso
comportamento di allattamento e presenza di comportamenti verbali, le madri albanesi in Albania si caratterizzano per un
alto contatto con il neonato per la frequenza del comportamento di “attacca il neonato al seno”. Le madri albanesi in ospedali
italiani esprimono forme di comportamento in qualche modo intermedie rispetto agli altri due gruppi. Gli interventi risultano
complessivamente abbastanza efficaci, particolarmente quelli delle madri albanesi in Albania. Le differenze tuttavia si
attenuano nel corso del tempo mostrando come gli interventi materni vengono regolati dal comportamento del bambino.
262
L’ELABORAZIONE DI SEQUENZE SPAZIALI ALLA NASCITA:
L’ASTRAZIONE DI RELAZIONI SPAZIALI INVARIANTI
LUCIA GAVA
Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Psicologia della Sviluppo e della Socializzazione
[email protected]
Introduzione
Un prerequisito necessario per la percezione, l’interpretazione e la pianificazione dei comportamenti é la nostra abilità di
codificare correttamente la successione degli eventi nell’ambiente circostante. L’elaborazione delle corrispondenze tra
differenti eventi si basa sul processo percettivo e cognitivo che permette di apprendere l’ordine sequenziale di una serie di
elementi: l’apprendimento di sequenze spazio-temporali (i.e., spatiotemporal sequence learning) (e.g., Conway &
Christiansen, 2001). Questa importante forma di apprendimento si basa sulla capacità di astrarre strutture invarianti nello
scorrere degli eventi (Koch, 2002). In ambito evolutivo, é stato dimostrato che molto precocemente i bambini sono in grado
di apprendere sequenze spazio-temporali fisse, sequenze cioè i cui elementi presentano posizioni ordinate costanti. In
specifico, a 3 mesi di vita i bambini riconoscono sequenze fisse di elementi visivi, elaborando le posizioni spaziali degli
elementi all’interno della sequenza (Haith, 1993; Wentworth, Haith & Hood, 2002; Lewkowickz, 2004). L’obiettivo generale
del presente studio é stato di indagare se già alla nascita i bambini siano in grado di cogliere e apprendere una sequenza fissa
di elementi visivi. Più precisamente, date le sviluppate abilità riscontrate già nei primi giorni di vita nel processare ed
utilizzare le informazioni spaziali degli oggetti (Valenza & Bulf, 2007; Valenza, Leo, Gava & Simion, 2006; Gava, Valenza
& Turati, in rev), si e’ verificato se i neonati fossero in grado di riconoscere una sequenza fissa di elementi visivi, attraverso
l’astrazione di proprietà spaziali invarianti.
Metodo
Sono stati condotti 2 esperimenti con bambini neonati (età media = 45,7 ore, D.S. = 12,6), utilizzando la tecnica della
familiarizzazione visiva. Obiettivo dell’Esperimento 1 e’ stato di verificare se i neonati fossero in grado di riconoscere una
sequenza spaziale fissa, in base alla relazione spaziale destra/sinistra invariante. A tal fine, tutti i partecipanti, assegnati alla
condizione sperimentale (n=20) o di controllo (n=16), sono stati familiarizzati a 3 sequenze spaziali. Unicamente nella
condizione sperimentale le sequenze presentavano un’invariante relazione spaziale dx/sx tra gli elementi. In entrambe le
condizioni, dopo la fase di familiarizzazione, i soggetti sono stati testati con un nuovo esempio della sequenza familiare e un
esempio di una nuova sequenza. Si e’ ipotizzato che solo nella condizione sperimentale i bambini avrebbero manifestato una
preferenza visiva per uno dei due stimoli, preferendo la sequenza nuova. Al fine di verificare se i neonati avessero
riconosciuto la sequenza sulla base della posizione spaziale di un unico elemento o sulla base delle relazioni spaziali
invarianti tra gli elementi, nell’Esperimento 2, dopo aver familiarizzato i neonati (n = 20) a sequenze con un’invariante
relazione spaziale dx/sx tra gli elementi, in fase test sono state presentate una nuova sequenza e l’immagine speculare della
sequenza familiare. Entrambe le sequenze presentavano quindi nuove relazioni spaziali tra gli elementi, ma la sequenza
speculare presentava l’elemento centrale familiare. Si e’ ipotizzato che se i neonati fossero stati in grado di elaborare le
relazioni spaziali tra gli elementi, non avrebbero manifestato alcuna preferenza visiva. Al contrario, se i neonati avessero
elaborato solo la posizione spaziale di un unico elemento della sequenza, avrebbero riconosciuto la sequenza speculare come
familiare e quindi avrebbero preferito la nuova sequenza.
Risultati
I dati raccolti confermano le ipotesi e dimostrano che fin dai primi giorni di vita i bambini:
1) sono in grado di riconoscere la sequenza spaziale fissa, in base alla relazione spaziale dx/sx invariante (Esperimento1;
condizione sperimentale). I neonati fissano, infatti, per più tempo lo stimolo nuovo rispetto allo stimolo familiare, t(19)
=2,75, p <,014 ;
2) quando sono stati familiarizzati a sequenze che non presentano un’invariante relazione spaziale dx/sx tra gli elementi, non
manifestano alcuna preferenza visiva per le due sequenze presentate in fase test (Esperimento 1; condizione controllo), t(15)
=0,418, p >,05;
3) quando devono discriminare tra una nuova sequenza e l’immagine speculare della sequenza familiare (Esperimento 2),
percepiscono entrambe le sequenza come nuove, t(19)=0,325, p>,05. Questo dato suggerisce che, durante la fase di
familiarizzazione, i neonati abbiano codificato tutti gli elementi e le loro relazioni spaziali all’interno delle sequenze.
Complessivamente, i dati raccolti dimostrano che già alla nascita, astraendo un’invariante relazione spaziale dx/sx, i bambini
sono in grado di cogliere e riconoscere delle sequenze spaziali fisse di elementi visivi. E’ ipotizzabile che questa precoce
abilità visuo-spaziale sia un necessario precursore della più sofisticata capacità di cogliere sequenze spazio-temporali,
riscontrata a 4 mesi di vita (e.g., Lewkowickz, 2004).
Keywords
newborns, sequence learning, invariant spatial relations
263
LA COSTRUZIONE DELL'INTENZIONALITÀ: UNO STUDIO SUI NEONATI
VALENTINA DI GANGI , ENRICA MENON, ELEONORA DE PANGHER MANCINI, TERESA FARRONI
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova,
[email protected]
Introduzione
Studi recenti hanno cercato d’indagare la presenza nella prima infanzia di costrutti quali agency, intenzionalità, e la
comprensione di azioni dirette ad uno scopo (es. Woodward et al., 2005, 2001; Gergely et al., 2007 ). Nell’interpretazione
delle azioni dirette ad uno scopo esistono due approcci teorici contrapposti: experience-based (basato sull’esperienza) e cuebased (basato sugli indizi).
In generale si ritiene che il bambino sia sensibile a determinati indizi (autopropulsione; reazione a contingenze ambientali;
direzione del movimento; efficacia della condotta verso uno scopo; variazioni equifinali) nell’identificazione dell’agente e
della finalità di un’azione (es. Leslie, 1994; Csibra&Gergely, 1998; 2003; Premack, 1990). Il primo orientamento sostiene
che tale abilità sia basata sulla conoscenza che l’individuo possiede sulle azioni umane; si suppone che la comprensione
venga acquisita gradualmente attraverso l’esperienza. Il secondo sostiene che quest’abilità sia innata e si sviluppi per
bootstrapping: a partire da elementi innati, per mezzo di un’apprendimento “dominio-specifico”, in seguito all’esposizione a
certe tipologie di stimoli/indizi (anche in presenza di azioni non familiari). Ricerche basate sulla tecnica dell’abituazione, su
bambini nei primi mesi di vita, hanno fornito dati a sostegno dell’una o dell’altra ipotesi (es. Woodward et al. 1999;1998:
experience-based; Biro&Leslie, 2007; Kirali et al., 2003: cue-based). Poiché in letteratura le ricerche sulle capacità di
attribuzione causale e di comprensione degli scopi delle azioni sono state condotte a partire dai 3 mesi di vita, proponendo un
esperimento a neonati di 1-5 giorni s’intende condurre un primo studio esplorativo per approfondire se esistono indizi di
questa capacità fin dalla nascita. Questa ricerca è quindi mirata a cercare di comprendere se, e in che misura, l’esperienza
post-natale è cruciale per l’emergere di tale abilità.
Metodo
Venti neonati (17-91 ore di vita) sono stati sottoposti ad un compito d’abituazione visiva controllata dal bambino: viene
mostrata loro una scena in cui sono presenti due oggetti, nello specifico due birilli identici, ma con simboli geometrici
distintivi nel centro, uno dei quali viene afferrato da un attore. Le variabili utilizzate nell’esperimento sono: tipo di presa
(proveniente dall’alto o lateralmente); oggetto coinvolto nell’azione (birillo col triangolo, birillo con la croce); lateralità
dell’azione (da sinistra, da destra). I bambini sono abituati ad una prima coppia di stimoli e successivamente, nelle due fasi
test di preferenza, gli stimoli variano per “tipo di presa”, “oggetto afferrato” e “posizione degli stimoli”. Lo sperimentatore
codifica on-line il numero di orientamenti ed il tempo totale di fissazione verso ogni stimolo nelle diverse scene, in ciascuna
fase. La prova di ogni soggetto è inoltre videoregistrata e le registrazioni dei movimenti oculari sono in seguito codificate
off-line da uno sperimentatore cieco relativamente alle condizioni e alle ipotesi sperimentali.
Risultati
Analisi a livello di scena: Considerando il comportamento visivo dei partecipanti come rivolto all’intera scena presentata
(prima quella in abituazione e poi le due di test) s’intende verificare se esiste una preferenza per una scena. Dal test-t sui
tempi di fissazione globali emerge una differenza significativa tra le scene contenenti la prensione familiare sull’oggetto
nuovo vs le scene che raffigurano la prensione nuova sul’oggetto familiare (t(19)= -3,171 , p=.005). La scena in cui la
modalità di prensione nuova è esercitata sull’oggetto familiare (dove nuovo e familiare sono da intendersi in relazione a
quanto esperito in abituazione) viene preferita rispetto alla scena in cui la modalità di prensione familiare ha come meta
l’oggetto nuovo.
Analisi a livello di singolo stimolo: dal test-t sulle coppie di stimoli non sono emersi effetti statisticamente significativi
relativi al tipo di oggetto o al tipo di presa. Emerge una differenza significativa tra prensione nuova e oggetto nuovo (t(19)=
2.65, p=.016).
I neonati sembrano preferire le immagini in cui l’elemento di novità è costituito dalla modalità dell’azione. I risultati
sembrano suggerire un’innata preferenza biologica visto che la novità sembra più saliente se legata all’agire dei conspecifici.
I dati verranno interpretati anche alla luce dell’ipotesi del Sistema dei Neuroni Specchio (es. Rizzolatti et al. 2004; Gallese,
2006; Csibra&Gergely, 2007), come base funzionale (attraverso un processo di “risonanza” interna e/o di ricostruzione
analitica dell’evento) dell’abilità di comprensione delle azioni osservate e d’inferenza delle sottese intenzioni altrui.
Keywords
intentionality; habituation; newborn
264
LA VALUTAZIONE DELLE CAPACITA’ DI ATTENZIONE E DI AUTOREGOLAZIONE
NELLA PRIMA INFANZIA
VERONICA DANIELA MARTINA LEVANTI, LAURA ANGELINI
Università “G. d’Annunzio”, Chieti-Pescara
[email protected]
Introduzione
Le capacità di attenzione e di autoregolazione svolgono un ruolo cruciale sia nel contesto dell’apprendimento che in quello
della socializzazione. Tali capacità emergono precocemente nel corso dello sviluppo del bambino. Si è trovato, infatti, che
intorno ai 15 mesi i bambini sono in grado di focalizzare la loro attenzione su aspetti specifici degli stimoli e riescono a
mantenerla per periodi sempre più lunghi (Marzocchi, Molin, & Poli, 2000). Quanto all’autoregolazione, Brown (1987, in
Cornoldi, Gardinale, Masi, & Pettenò, 1996) ha evidenziato come a partire dai 30 mesi i bambini siano in grado di utilizzare
l’azione a scopo regolatorio. Cosa potrebbe accadere, quindi, nel caso in cui queste “fondamenta” non si costituissero in
maniera adeguata? In accordo con Barkley (1997), secondo cui i problemi di “disinibizione” emergono precocemente
(intorno ai 3-4 anni di età), possiamo pensare che una difficoltà precoce in questo ambito possa essere collegata alla
successiva emergenza di patologie dell’attenzione. In particolare, in riferimento al modello proposto da Sonuga-Barke,
Auerbach, Campbell, & Thompson (2005), che teorizza l’esistenza di quattro possibili sentieri evolutivi dell’ADHD
(Attention Deficit Hyperactivity Disorder), possiamo ipotizzare che una fragilità nello strutturarsi delle capacità di attenzione
e di autoregolazione possa condurre, attraverso una serie di passaggi che coinvolgono le sfere familiare ed educativa,
all’emergere di tale disturbo in età scolare. Alla luce delle suddette considerazioni, abbiamo condotto uno studio basato su
dati osservativi e prove strutturate, allo scopo di rilevare e valutare le capacità di attenzione e di autoregolazione nel corso
del secondo e del terzo anno di vita. Ci aspettiamo, ovviamente, di trovare una differenza in tali capacità dovuta all’età dei
soggetti. Ci aspettiamo, inoltre, di trovare una relazione tra i comportamenti osservati e le prestazioni alle prove. In
particolare, l’obiettivo è quello di individuare pattern consistenti di risposte tra le diverse situazioni osservative e le diverse
prove, che permettano di evidenziare differenze individuali a ciascuna età nelle capacità misurate.
Metodo
Partecipanti. Hanno partecipato al progetto, previo consenso informato da parte dei genitori, 60 bambini di età compresa fra
i 24 e i 39 mesi (M=30;23. DS=3;23), tutti frequentanti gli asili nido del Comune di Fano (PU).
Materiali e Procedure. E’ stata inizialmente condotta un’osservazione del comportamento spontaneo del bambino in cinque
contesti dell’attività quotidiana nel Nido (pasto, canzone, racconto, gioco libero, gioco guidato), basata su modalità
osservative differenti (tempi e occorrenze), che si adattano alla peculiarità di ogni singola circostanza. Esempi di item
utilizzati: “Minuti di attività”, “Livello cognitivo”, “Si alza dal suo posto”, etc.. Al termine dell’osservazione, sono stati
somministrati 8 compiti individuali, atti a misurare: attenzione sostenuta (1); attenzione selettiva (2); attenzione focalizzata
(3); shift dell’attenzione (4); inibizione della risposta prepotente (5); inibizione della risposta in corso (6); controllo delle
interferenze (7); delay aversion (8). Per la valutazione delle capacità di attenzione, le prove, presentate sottoforma di attività
ludica, consistono: nella presentazione al bambino di un libro-puzzle per il tempo massimo di dieci minuti (1);
nell’individuazione di 5 stimoli target all’interno di due tavole tratte dal “Sapientino di Winnie the Pooh” (2); nella prova di
cancellazione (Subtest AS, 2-3) della Leiter International Performance Scale-Revised (Leiter-R) di Roid & Miller (2002) (3);
nell’interruzione del compito di attenzione sostenuta, attraverso la presentazione di 5 stimoli visivi da nominare (4). Quanto
alle capacità di autocontrollo, sono stati somministrati i seguenti compiti: 5 interruzioni di un’attività motoria automatizzata
(prepotente) (5); 5 interruzioni di un’attività motoria, al cessare della musica (6); inversione, per 5 volte, dei versi di cane e
gatto (realizzata con il supporto di due animali di plastica) (7); scelta, per complessive 4 volte, di una ricompensa piccola ma
immediata, oppure grande, ma posticipata (8).
Risultati
I risultati parziali evidenziano, come previsto, differenze legate all’età, relative tuttavia a specifici compiti. Inoltre, dividendo
il campione in due gruppi sulla base dei risultati emersi dall’osservazione, e precisamente il gruppo“alto” ( 2 contesti
inadeguati) e quello “basso” ( 3 contesti inadeguati), risultano differenze significative nelle prove 1, 3 e 8.
Keywords
Early individual differences, early attentional skills, early self-regulatory skills
265
Sezione tematica 14
PROCESSI DECISIONALI IN ADOLESCENZA
Coordina: Silvia Ciairano
Università degli Studi di Torino
266
ADOLESCENTI IN OBBLIGO FORMATIVO: PROBLEMI QUOTIDIANI E STRATEGIE DI COPING
PALMA MENNA*, ROBERTA MOLINAR**
* Dipartimento di Scienze Relazionali “G. Iacono”, Università degli Studi di Napoli Federico II
** Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Torino
[email protected]
Introduzione
L’adolescenza rappresenta un “periodo formativo cruciale” (Bandura, 2000), nel quale il soggetto è chiamato a far fronte
a significativi cambiamenti evolutivi e numerosi compiti di sviluppo, che richiedono l’attivazione di numerose strategie
di coping.
D’accordo con gli orientamenti più recenti, è analizzare le strategie di coping in contesti specifici, che consentano di
assumere l’importanza dell’interazione tra fattori personali e fattori situazionali, secondo un paradigma di sviluppo della
persona-nel-contesto (Silbereisen, Todt, 1994; Bonino, Cattelino, Ciairano, 2007). Il processo di coping viene infatti a
determinarsi nell’intreccio ineludibile di fattori situazionali e personali: gli adolescenti tendono a sviluppare degli stili di
coping, che formano pattern personali coerenti, ma essi vanno poi a “posizionarsi” in relazione a specifiche contingenze
situazionali e a specifici ambiti problematici (Seiffge-Kenke, 1995, 2000; Menna, 2004). Con questo lavoro, che si
caratterizza come studio esplorativo per la realizzazione di una ricerca-intervento con ragazzi che hanno abbandonato la
scuola e sono coinvolti in percorsi denominati di “obbligo formativo”, intendiamo focalizzare la nostra attenzione sulle
strategie di coping all’interno di un contesto di sviluppo particolare, contraddistinto da specifiche problematicità.
L’articolo 68 della legge 144/99 ha introdotto, nel panorama scolastico italiano, l’obbligo di frequenza di attività
formative fino al compimento del diciottesimo anno d’età, al fine di offrire a tutti i giovani un’opportunità concreta di
completamento del proprio percorso formativo.
In considerazione della assai esigua presenza di studi in letteratura su questo specifico target di adolescenti, obiettivo del
nostro studio è indagare la natura dei problemi quotidiani e delle strategie di coping utilizzate dagli adolescenti in obbligo
formativo. Abbiamo inteso esplorare quali meccanismi alternativi si attivano e con quali difficoltà nello sviluppo del
repertorio delle strategie di coping per questi adolescenti che non hanno più nella scuola un sistematico luogo di
confronto.
Metodo
Il campione è costituito da 49 adolescenti di età compresa tra i 15 e i 19 anni (M = 17; SD = 1.04), di ambo i sessi
(maschi:53%; femmine:47%) in obbligo formativo, che frequentano corsi di formazione professionale presso un Centro di
Formazione Professionale sito nell’area ovest di Torino. Tali corsi di formazione professionale hanno una durata di due anni,
al termine dei quali si consegue una qualifica professionale riconosciuta che corrisponde all’assolvimento dell’obbligo
scolastico. Per raccogliere i dati sono stati condotti 7 focus group, realizzati secondo il metodo di Krueger (1994). È stata
utilizzata una griglia predefinita, focalizzata su specifiche aree di indagine: le tipologie di situazioni problematiche vissute
quotidianamente, le modalità per far fronte ai problemi quotidiani, le differenze tra maschi e femmine nell’affrontare i
problemi. Agli adolescenti è stato chiesto di partecipare alla ricerca in forma volontaria ed anonima, previo il consenso dei
genitori. Le produzioni discorsive ottenute dai sei focus group sono state registrate con il consenso dei partecipanti, trascritte
fedelmente e suddivise in unità d’analisi. Sono state poi esplorate attraverso un’analisi del contenuto computerizzata
condotta con l’ausilio del software Nud.ist. Il lavoro di analisi ha comportato una duplice codifica del corpus da parte di due
analisti indipendenti. Tenuto conto degli errori tipici della codifica multipla, si è calcolata una media generale delle
percentuali degli accordi equivalente al 79,25%.
Risultati
Di seguito sono presentati i risultati preliminari derivati dall’analisi categoriale. Complessivamente, sono state identificate
quattro macro-categorie, che successivamente si articolano in categorie sotto-ordinate: (1) tipologia di problemi: problemi a
scuola (difficoltà a comunicare con gli insegnanti, bullismo), in famiglia (discussioni, incomprensioni e litigi con i genitori,
mancanza di soldi), problemi relazionali (con il proprio partner o con gli amici), personali (essere timido/a, essere
preoccupati per il proprio futuro); (2) strategie di coping: problem-focused e fondate sulla ricerca di sostegno (parlare del
problema con gli amici, i genitori o con la persona interessata, cercare di risolvere il problema da solo); fondate sul ritiro
(chiudersi in se stessi e tenersi tutto dentro), o sull’evitamento della dimensione problematica (distrarsi e non pensare al
problema, uscire con gli amici, andare in giro). Sono poi state discusse: (3) le differenze di genere nel fronteggiamento delle
situazioni problematiche, (4) le strategie di coping ritenute più efficaci. Per ciascuna categoria è stata calcolata la consistenza
in termini percentuali ed inoltre sono state esplorate – attraverso gli operatori di prossimità e contingenza – le connessioni e
le intersezioni esistenti tra le differenti categorie.
Keywords
coping, daily stressors, school drop-out adolescents
267
PERCORSI DI CONSAPEVOLEZZA E CONTROLLO NELL’ATTIVITA’ MOTORIA E SPORTIVA DEGLI
ADOLESCENTI: UNO STUDIO PILOTA
SILVIA CIAIRANO*/**, FULVIA GEMELLI*, GIOVANNI MUSELLA*, FRANCESCA MAZZARI**, OTTAVIA
ALBANESE***
* Centro Ricerche Scienze Motorie, S.U.I.S.M., Università degli Studi di Torino
** Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Torino
*** Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione "Riccardo Massa", Università degli Studi di Milano Bicoc
[email protected]
Introduzione
L’importanza della conoscenza (Flavell, 1981) e dei meccanismi di controllo dei propri processi cognitivi (Brown, 1978) è
stata riconosciuta da tempo nel campo dell’apprendimento scolastico ed è stato individuato il costrutto di metacognizione. I
numerosi studi nel settore hanno condotto ad evidenziare un ambito estremamente articolato dove sono possibili una pluralità
di percorsi metacognitivi diversificati (Albanese, 2003). Nel corso del tempo è andato sempre più evidenziandosi il ruolo
della componente emotivo-motivazionale ed anche quello dell’errore nel processo attraverso il quale l’esperto promuove una
sempre maggiore autonomia dell’allievo e media tra quest’ultimo e la nozione da apprendere. Nel campo dell’apprendimento
di abilità motorie invece si registra un ritardo nello studio di questi aspetti. Tradizionalmente, almeno nel contesto italiano,
l’esperto (o allenatore) tende a mantenere il controllo sull’apprendimento della tecnica e raramente si pone l’obiettivo di
promuovere una maggiore autonomia dell’allievo circa la consapevolezza ed il controllo dei propri processi di
apprendimento motorio, ed ancora più raramente possiede una preparazione adeguata per poter svolgere un ruolo di
mediazione tra allievo e apprendimento di un’abilità (Musella, Gemelli, Ciairano, 2008). Tale mancanza potrebbe avere
molte conseguenze negative. Non ultima essa potrebbe essere una delle cause dell’alto tasso di abbandono dell’attività
motoria e sportiva in adolescenza e giovane età adulta, quando il bisogno di acquisire autonomia e di mettere alla prova le
proprie capacità ed abilità è più forte che in altri periodi della vita (Palmonari, 2001), anche grazie alla recente acquisizione
del pensiero logico-paradigmatico (Petter, 2003). Riteniamo quindi importante incominciare ad indagare questo fenomeno ed
abbiamo pensato di farlo utilizzando gli stessi strumenti da tempo impiegati nella ricerca sulla metacognizione scolastica,
dopo avere apportato alcuni adattamenti necessari al loro impiego nel campo delle attività motorie e sportive. Anche per
questa ragione, abbiamo pensato di coniare il neologismo “metamotricità” per intendere proprio la consapevolezza ed il
controllo del proprio movimento, vale a dire una motricità di secondo livello.
Obiettivi
Trattandosi del primo studio su questi aspetti, ci si propone degli obiettivi essenzialmente descrittivi: 1) controllare
l’affidabilità (attraverso
di Cronbach) e la dimensionalità (attraverso l’analisi in componenti principali) delle scale
utilizzate; 2) descrivere le differenze di genere, fascia d’età e tipo di sport praticato.
Metodo
Hanno partecipato allo studio 106 adolescenti e giovani (21 ragazze 20%; 85 ragazzi 80%), di età compresa tra 12 e 30 anni
(M 20.6, SD 5.9), frequentanti diversi ordini di scuola nel Nord-Ovest di Italia (61 scuola secondaria di primo grado 58%; 45
scuola secondaria di secondo grado e università 42%). Precondizione per essere inseriti nello studio era la pratica di almeno
un’attività motoria e sportiva per almeno 6 ore alla settimana (l’85% circa pratica sport di squadra).
A questi studenti è stato somministrato un questionario anonimo, contenente sia scale per indagare l’approccio allo Sport
(QASP; adattate dal QAS di De Beni, Moè, Cornoldi, 2003), sia scale su Motivazioni ed Obiettivi Sportivi (AGQSP; adattate
dal AGQ di Elliot, McGregor, 2001).
Risultati
- Sono quattro le dimensioni emerse per il QASP: Strategia dei piccoli passi (18 item, = .89), Controllo strategico (13 item,
= .83), Comprensione del saper fare motorio (12 item, = .81), Controllo del saper fare motorio (7 item, = .73); tutte le
scale sono unidimensionali.
- Quattro anche le dimensioni emerse per il AGQSP: Ricerca della buona prestazione (3 item, = .81), Evitare una cattiva
prestazione (6 item, = .67); Ricerca di una buona padronanza (3 item, = .68); Tendenza ad evitare la cattiva padronanza (3
item, = .80); tutte le scale sono unidimensionali.
- La riflessione sul proprio movimento è maggiore dopo i 14 anni di età.
- Le ragazze sono più orientate rispetto ai ragazzi a ricercare una buona padronanza della materia e ad evitarne un cattivo
dominio (in parallelo a quanto accade a scuola).
- Una buona padronanza è ricercata anche dai partecipanti più grandi di età.
- La ricerca di una buona prestazione è un obiettivo più frequente per chi partecipa a sport di squadra.
Discussione
Pur consapevoli del bisogno di ampliare il campione utilizzato qui e naturalmente di ulteriori approfondimenti, ci sembra che
questi primi risultati incoraggino a proseguire nell’indagine del costrutto di “metamotricità” e del suo ruolo
nell’apprendimento ed anche nella motivazione ad apprendere e migliorarsi nel campo delle abilità motorie e sportive.
Keywords
awareness, control, physical activity
268
VALORI E PROGETTI UNIVERSITARI DI ADOLESCENTI NELL’ULTIMO ANNO DI SCUOLA SUPERIORE
SUSANNA PALLINI
Dipartimento di Scienze dell’educazione Università di Roma Tre
[email protected]
Introduzione
Lo stabilizzarsi dei rapporti con i gruppi di riferimento anche sul piano operativo e istituzionale, che segna la fine
dell’adolescenza (Polmonari, 1993), presuppone la formulazione di scelte tra opportunità formative e professionali, in
particolare negli ultimi cicli scolastici.
Nei processi di scelta gli adolescenti si giovano delle nuove capacità cognitive di astrazione e generalizzazione che rende
loro possibile interrogarsi non solo sulle scelte concrete, ma anche sui criteri in base ai quali scegliere (Piaget e Inhelder,
1955; Amann Gainotti, 2002; Petter, 2002). Il pensiero formale consente di spostarsi da un piano di riflessione sulle scelte tra
opportunità alle condizioni assolte da tali opportunità. I valori rappresentano per l’appunto le condizioni da soddisfare nel
perseguire una meta, principi guida per discriminare fra le opzioni (Knafo e Schwartz (2004).
I valori sono stati posti in relazione alle scelte professionali. (Holland; 1997). Harmon (1994) ha associato all’indirizzo
artistico valori di bellezza, originalità e immaginazione, a quello sociale valori di cooperazione, generosità e utilità sociale
Valori adolescenziali e scelte conseguenti sono influenzate dal genere. Secondo Varkasalo e collaboratori (1996) i maschi
valutavano l’auto miglioramento più delle femmine. Secondo Poyanheinmi, (1997) nelle femmine sono più presenti valori
legati all’interesse intrinseco per il lavoro. Sinislao (2004) ha riscontrato più valori strumentali nei maschi e valori associati
alla sicurezza nelle femmine.
Nella presente indagine si è inteso analizzare in un gruppo di adolescenti differenziati in base al genere e al liceo frequentato,
la relazione fra sistema valoriale e progetti universitari o professionali.
Metodo
I partecipanti (n=202) costituiscono l’intera popolazione dei soggetti frequentanti l’ultimo anno di liceo in un piccolo centro
dell’Italia centrale.
Strumenti e Procedura
E’ stato chiesto di scrivere, dopo attenta riflessione, 5 aggettivi sulle caratteristiche considerate più importanti in un lavoro,
di indicare i progetti universitari, e di compilare l’Inventario dei Valori Professionali (Boerchi, Castelli, 2000).
Gli aggettivi forniti sono stati raggruppati nelle categorie di valori: strumentali; intrinseci, serietà/responsabilità, dinamismo,
autonomia e potere, sociali, altro.
I progetti universitari sono stati radunati in 4 categorie: umanistici, scientifici, artistici, professioni d’aiuto.
E’ stata valutata in quale percentuale le singole categorie fossero rappresentate e attraverso il calcolo del Chi2 è stata
saggiata l’eventuale presenza di differenze significative nel genere, nel liceo frequentato e nel progetto universitario.
L’eventuale presenza di differenze significative nelle media dei punteggi all’IVP è stata calcolata attraverso l’analisi della
varianza univariata, con il pacchetto statistico SPSS.
Risultati
I Progetti. Gli studenti di liceo scientifico e classico scelgono in maggior misura carriere scientifiche, mentre gli allievi di
liceo artistico, rimangono nella loro area di interesse (Chi2= 30,38; g.d.l.=6; p=0,000). Le femmine scelgono in maggior
numero le professioni d’aiuto mentre i maschi quelle scientifiche (Chi2= 10,67; g.d.l.=3; p= 0,014).
I Valori. Il 71,8% degli studenti nomina valori intrinseci, il 67,3% valori strumentali. Più della meta dei ragazzi interpellati
nomina responsabilità e serietà. Solo l’8,9% dei ragazzi interpellati nomina valori relativi al potere e al successo.
Valori e genere. Rispetto al 27,7% delle femmine, solo il 14,4 dei maschi nominano caratteristiche di socialità (Chi2=5,13,
p=0,26).
All’IVP i maschi risultano più orientati alla leedership e le femmine all’automiglioramento, al risultato e alla responsabilità
Valori e liceo frequentato. Il 98,5% di studenti di liceo classico cita valori intrinseci, rispetto a percentuali significativamente
minori degli altri studenti. La maggior parte di studenti dell’artistico nominano valori di competenza e di serietà. All’IVP gli
studenti del classico differiscono in modo significativo nell’orientamento all’automiglioramento (F=3,36; p=0,037).
Valori e Progetti universitari. Gli studenti con progetti umanistici nominano in maggiore proporzione valori strumentali e
successivamente valori intrinseci, mentre quelli con progetti scientifici privilegiano i valori intrinseci rispetto a quelli
strumentali. Gli studenti con progetti artistici nominano con maggiore frequenza valori relativi all’impegno e alla
responsabilità.
Gli studenti orientati verso professioni d’aiuto privilegiano valori intrinseci seguiti da valori strumentali e attribuiscono, in
modo non significativo, più rilevanza a valori di socialità.
All’IVP gli allievi con progetti relativi alla professioni d’aiuto sono i meno orientati alla leedership, all’avanzamento e alla
retribuzione. Gli studenti con progetti artistici sono i più orientati alla mobilità e quelli con progetti umanistici,
all’automiglioramento.
Keywords
values, choices, adolescents
269
STILI DECISIONALI E FIDUCIA NELLA CAPACITÀ DI SCELTA IN ADOLESCENZA:
CORRELATI E PREDITTORI
MARIA LUISA PEDDITZI, MARINELLA PARISI, ROBERTA FADDA
Dipartimento di Psicologia - Università di Cagliari
[email protected]
Presupposti teorici
Molti studi analizzano il career decision-making degli adolescenti (Mann, Harmoni e Power, 1989;
Mann e Friedman 1999; Mann 2000, Nota, Mann, Soresi e Friedman, 2002) e le difficoltà che gli adolescenti si trovano ad
affrontare (Friedman, 1999; Frydenberg, 2000). Pochi studi indagano la relazione esistente fra gli stili decisionali e gli aspetti
emozionali della scelta (D’Alessio, 2006; Di Fabio, 2006), tenendo conto specificamente dei singoli stili decisionali.
Obiettivi
La presente ricerca analizza la relazione esistente fra gli stili decisionali e la fiducia nella capacità di prendere le decisioni,
tenendo conto di caratteristiche quali l’autocontrollo emozionale, la fiducia nella propria capacità di portare a termine
compiti e attività, l’internalità e l’atteggiamento personale verso la risoluzione dei problemi. Ci si concentra in particolare
sugli stili di procrastinazione, di evitamento difensivo e di ipervigilanza degli adolescenti, per verificare le relazioni esistenti
con le suddette variabili e individuare i principali precursori di questi stili.
Metodo
Partecipano alla ricerca 1170 adolescenti di età compresa fra i 17 e i 19 anni, frequentanti il 5° anno della scuola secondaria
superiore di Cagliari e provincia. Si utilizzano i questionari: Melbourne Decision Making di Mann, Burnett, Radford e Ford
(1997), Quanta fiducia ho in me? di Nota e Soresi (2000); So affrontare i miei problemi? e Idee e atteggiamenti sul futuro
scolastico e professionale di Soresi e Nota (2003).
Risultati
L’analisi della regressione lineare multipla evidenzia che i predittori più significativi dello stile adattivo di vigilanza sono la
fiducia nella propria capacità di portare a termine compiti e attività, la capacità di analisi nel problem solving e un
atteggiamento positivo verso la ricerca autonoma delle informazioni (R2=,296; F=154,63; gdl=3; sig<.05). I principali
predittori dello stile di evitamento difensivo risultano invece: l’atteggiamento negativo verso la risoluzione dei problemi, la
sfiducia nella propria capacità decisionale e nella propria capacità di portare a termine compiti e attività, la scarsa
autodeterminazione nel problem solving decisionale e l’esternalità (R2=,326; F=114,05; gdl=5; sig<.05). I predittori dello
stile decisionale di procrastinazione sono analoghi a quelli dello stile di evitamento difensivo. Ad essi si aggiungono la
fiducia nella propria capacità di svolgere attività diverse e una percezione positiva circa le proprie capacità di analisi delle
cause e delle conseguenze dei problemi (R2=,333; F=84,253; gdl=7; sig<.05). Tipica della procrastinazione è infatti la
tendenza a sottostimare il tempo per completare i compiti, nella convinzione di poter comunque svolgere le attività che
spesso si accumulano all’ultimo momento (Lee, 2004). I predittori dello stile di ipervigilanza sono gli stessi dello stile di
procrastinazione, che si caratterizza anche per la scarsa fiducia nel proprio autocontrollo emozionale e per la presenza di un
maggiore senso di insicurezza e di indecisione circa il proprio futuro scolastico e professionale (R2=,365; F=75,72; gdl=9;
sig<.05). La caratteristica tipica dello stile di ipervigilanza è infatti l’elevata insicurezza nel futuro e la marcata tendenza a
soffermarsi sui dettagli secondari, per la paura di compiere scelte considerate inadeguate (Nota e Soresi, 2000). Lo studio
suggerisce che i costrutti emotivi sottesi agli stili di decisione incidono sulle scelte degli studenti, in un periodo complesso
come quello adolescenziale in cui decidere cosa fare in futuro può risultare difficile per la presenza di stili decisionali
disadattivi e di strategie di coping che spesso non tengono conto degli aspetti progettuali della scelta (Frydenberg, 2000). Lo
studio indica tuttavia anche che i costrutti emotivi sottesi agli stili di decisione e in particolare a quelli considerati più
improduttivi richiedono un ulteriore analisi, tenendo conto di modelli descrittivi delle emozioni maggiormente esplicativi
(Mayer e Salovey, 1997; Emmerling, 2004; Emmerling e Cherniss, 2003; Di Fabio e Palazzeschi, 2006).
Keywords
decision-making styles; emotions; adolescence
270
AUTOEFFICACIA E DIMENSIONI DECISIONALI NELL’ORIENTAMENTO DEGLI ADOLESCENTI
GIUSEPPINA MELIS , MARIA LUISA PEDDITZI, DOLORES ROLLO
Dipartimento di Psicologia - Università di Cagliari
[email protected]
Presupposti teorici
Le credenze di efficacia sono in grado di predire e influenzare i livelli di decisionalità e sicurezza di studenti impegnati nei
compiti di scelta (Nota, Ferrari, Solberg e Soresi, 2005). Scarse credenze di efficacia nei confronti delle proprie capacità
decisionali si associano a elevati livelli di indecisione scolastico-professionale (Nota e Soresi, 1997; Nota, 1999). Le teorie
socio-cognitive individuano nelle credenze di autoefficacia un potente costrutto psicologico attraverso il quale è possibile, in
ambito formativo, aiutare gli adolescenti ad incrementare la fiducia nelle proprie capacità decisionali.
Obiettivi
La presente ricerca intende analizzare alcune dimensioni decisionali della scelta (idee e atteggiamenti sul proprio futuro
scolastico e professionale, capacità di problem solving nelle scelte) che in adolescenza sono più sensibili a variazioni in
seguito all’uso di strategie di coping inadeguate. Si intende evidenziare le differenze esistenti fra studenti caratterizzati da
elevati livelli di autoefficacia nelle scelte e studenti caratterizzati da bassi livelli, tenendo conto anche delle differenze di
genere.
Metodo
Partecipano alla ricerca 1105 studenti di età compresa fra i 17 e i 19 anni, frequentanti il 5° anno della scuola secondaria
superiore. Si utilizzano i questionari: "Quanta fiducia ho in me?" di Nota e Soresi (2000); "So affrontare i miei problemi?" e
"Idee e atteggiamenti sul futuro scolastico e professionale" di Soresi e Nota (2003) e "Melbourne Decision Making" di Mann,
Burnett, Radford e Ford (1997). Per verificare l’ipotesi secondo cui livelli alti e bassi di autoefficacia nelle scelte
determinano differenze nel career decision making degli adolescenti (negli atteggiamenti sul futuro scolastico e professionale
e nel problem solving) si è suddiviso il campione in tre gruppi in base ai punteggi di autoefficacia nelle scelte (elevata, media
e bassa) previsti dal questionario. Dopo aver selezionato gli studenti caratterizzati da elevati livelli di autoefficacia nelle
scelte (N=158) e da bassi livelli di autoefficacia (N=279), bilanciati per sesso, si è effettuata l’analisi della varianza
multivariata (sig. < .05) per analizzare gli effetti dei due livelli di autoefficacia nelle scelte e del sesso su ciascuna delle
variabili dipendenti considerate: atteggiamenti verso il futuro (3 scale), problem solving (3 scale) e stili decisionali (4 scale).
Risultati
Si evidenziano differenze significative negli atteggiamenti sul futuro scolastico e professionale dovuti ai differenti livelli di
autoefficacia nelle scelte (Lambda di Wilks =,643; F=79,901; df=3; sig=.000). Gli studenti caratterizzati da elevati livelli di
autoefficacia nelle scelte presentano una maggiore sicurezza e decisionalità verso il futuro, livelli elevati di internalità e una
maggiore tendenza alla ricerca autonoma di informazioni rispetto agli studenti caratterizzati da bassi livelli di autoefficacia.
Per quanto concerne il problem solving decisionale, si osserva che l’autoefficacia incide sull’autodeterminazione, sugli
atteggiamenti verso i problemi e sulla capacità di analisi delle cause e delle conseguenze dei problemi (Lambda di Wilks
=,440; F=182,689; df=3; sig=.000). Gli studenti caratterizzati da livelli elevati di autoefficacia ottengono punteggi superiori
in ciascuna delle suddette variabili del problem solving. Non emergono invece differenze significative dovute al genere o
effetti di interazione dell’autoefficacia e del genere sulle suddette variabili. Si osserva inoltre che l’autoefficacia nelle scelte
incide sugli stili decisionali (Lambda di Wilks =,631; F=62,819; df=4; sig=.000). Gli studenti caratterizzati da elevati livelli
di autoefficacia nelle scelte presentano uno stile decisionale maggiormente orientato alla vigilanza, mentre gli studenti meno
autoefficaci ottengono punteggi più elevati negli altri tre stili disfunzionali di procrastinazione, di ipervigilanza e di
evitamento. Per quanto concerne l’influenza della variabile sesso sugli stili decisionali, emerge un effetto significativo sulla
variabile evitamento (Lambda di Wilks =,969; F=3,457; df=4; sig=.009). Le femmine ottengono punteggi più elevati nello
stile decisionale di evitamento rispetto ai maschi (F=8,275; df=1 sig=.004) con una maggiore tendenza a chiedere aiuto e a
delegare le decisioni considerate troppo difficili. La rilevazione di queste dimensioni psicologiche della scelta può costituire,
nella progettazione di un percorso di orientamento post-diploma, una valida base di partenza per strutturare dei percorsi
finalizzati alla conoscenza di sé e per differenziare l’attività di orientamento a seconda delle caratteristiche e dei bisogni
orientativi specifici espressi dagli studenti.
Keywords
Self-efficacy, problem solving, career decision making
271
INFLUENZA FAMILIARE, LIVELLI DI EMPATIA E SISTEMATIZZAZIONE NELLA SCELTA
UNIVERSITARIA E PROFESSIONALE
FRANCESCA CUZZOCREA
Università degli Studi di Messina
[email protected]
Introduzione
I motivi che determinano la decisione scolastica o di carriera, sono molteplici e ciò può generare, soprattutto nei soggetti più
giovani, uno stato di confusione, al quale a volte si associano sensazioni di ansia e disagio psicologico (Galotti, 2001). La
maggior parte degli studenti appare sufficientemente orientata nella scelta e riesce a raggiungere un certo equilibrio tra
interessi, attitudini e aspettative sociali; sono, tuttavia, numerosi coloro i quali incontrano notevoli difficoltà e necessitano di
un supporto professionale (Hinkelman e Luzzo, 2007). Il compito di chi si occupa di orientamento non può prescindere
dall’analisi delle diverse variabili che entrano in gioco nei meccanismi di decision-making e che possono condizionare gli
interessi e gli atteggiamenti dei ragazzi sul loro futuro scolastico-professionale (Reardon, 2000; Gysbers, 2007). Numerosi
studi hanno dimostrato che la famiglia sembra rivestire un ruolo critico nello sviluppo delle aspirazioni professionali dei figli
(Otto, 2000). Fattori quali il livello socio-culturale (Hossler e coll., 1992), la tipologia del lavoro dei genitori (Trice, 1991),
in particolare del padre (Dustmann, 2004) possono avere un peso sulle preferenze scolastiche e professionali degli
adolescenti. I numerosi studi sui meccanismi alla base dei processi di scelta lavorativa sottolineano l’influenza di fattori
socio-culturali (Mau e coll., 2000), ma non tengono sufficientemente in conto il peso di talune caratteristiche personologiche
(Giannecchini, Rigli e Giannini, 2007). In linea con una precedente ricerca (Larcan, Cuzzocrea, Oliva, 2007), nel presente
lavoro si intende verificare se esista una correlazione tra la professione dei genitori e le aree di scelta professionale
individuate dai figli secondo il modello esagonale di Holland (1992) e, in particolare, se ci sia una relazione tra gli indici di
empatia e sistematizzazione e gli orientamenti professionali degli studenti, ipotizzando che, in linea con il modello teorico di
Baron-Cohen (2003), ad alti livelli di empatia corrisponda una prevalenza di interessi verso ambiti professionali che
richiedono particolari abilità comunicative e relazionali e che a punteggi elevati di sistematizzazione si associno carriere più
tecniche e realistiche. Inoltre, si vuole verificare quanto, studenti dell’ultimo anno di liceo, in funzione del genere e della
tipologia di indirizzo di studi, siano in grado di auto-valutarsi, e le eventuali correlazioni fra i propositi di scelta dichiarati e
le valutazioni ricavate da test standardizzati (Sangiorgi, Piras e Vaccarella, 2007).
Metodo
Hanno preso parte alla ricerca 600 studenti (M = 300; F = 300) del V anno di istituti superiori di Reggio Calabria. L’indirizzo
scolastico (classico, scientifico, magistrale e tecnico) è stato controllato seguendo una procedura matching. La batteria di test
e questionari è stata proposta in tre momenti (bilanciando i tempi e l’ordine di somministrazione) ed è costituta da 3 blocchi
appositamente predisposti: (1)“La mia famiglia”, “Il mio futuro scolastico-professionale”, “Idee ed atteggiamenti sul futuro
scolastico-professionale”, tratti dal portfolio per l’orientamento nella scuola superiore “Clipper” (Soresi, Nota, 2003); (2)
Quoziente di empatia (Baron-Cohen, 2003), Quoziente di sistematizzazione (Baron-Cohen, 2003), Test per la lettura della
mente attraverso lo sguardo (Baron-Cohen, 2003); (3) Self-Directed Search (Polàcek, 2003).
Risultati
I risultati emersi dalle prime elaborazioni sembrano in linea con i dati della letteratura di riferimento, anche se non si osserva
una diretta relazione fra la professione dei genitori e la scelta universitaria degli studenti. Gli studenti dichiarano che per
effettuare la scelta universitaria terranno in considerazione principalmente i loro interessi, ma soprattutto i possibili sbocchi
lavorativi (2° posto) e il rendimento scolastico (3° posto). Gli studenti sembrano, inoltre, mostrare un elevato grado di
decisione e sicurezza nei confronti del proprio futuro scolastico e professionale, anche se associato ad una scarsa capacità di
ricercare autonomamente le informazioni utili per effettuare la propria scelta universitaria. La realizzazione delle proprie
aspirazioni non viene inoltre attribuita alle proprie capacità e al proprio impegno. L’analisi dei dati, seppure ancora parziale,
sembra confermare una certa relazione tra i quozienti di empatia e sistematizzazione e gli ambiti professionali previsti dal
SDS. Non sono emerse correlazioni significative tra le professioni preferite dagli studenti e i punteggi ottenuti nelle diverse
aree professionali del SDS. Si evince cioè un basso livello di correlazione tra le attività lavorative che gli studenti dichiarano
di voler svolgere e le competenze effettivamente richieste. Le discrepanze fra le capacità di autovalutazione degli studenti e i
loro reali interessi sottolineano l’esigenza di maggiori approfondimenti durante il processo di orientamento.
Keywords
Parental influences, Personality and nterests, University choose
272
LA VALUTAZIONE DELLE CREDENZE IN STUDENTI DI SCUOLA SECONDARIA DI II GRADO SECONDO
IL MODELLO DELLA TEORIA DEL COMPORTAMENTO PIANIFICATO
FILIPPO PETRUCCELLI, CARLO DI CHIACCHIO, EVA LATTAVO, VALERIA VERRASTRO, ROBERTA
GRASSOTTI
Università degli Studi di Cassino
[email protected]
Introduzione
La scelta che studenti effettuano al termine della scuola secondaria di II grado è frutto della sintesi di un lungo processo che
si svolge lungo tutto l’arco della vita scolastica dell’individuo. Tuttavia, non sempre gli studenti alla fine della scuola
secondaria pervengono ad una rappresentazione consapevole del proprio futuro. In alcuni casi, i giovani non avendo una
sufficiente conoscenza di loro stessi, presentano aspettative verso un corso di studi o una professione che richiedono capacità
e competenze di cui non sono in possesso o credono di non possedere (Nota e Soresi, 1998). Ci sono giovani che
intraprendono la strada suggerita dagli insegnanti, genitori e amici senza che essa risulti in sintonia con i propri interessi e le
proprie capacità (Bryant et al., 2006; Hartung et al., 2005; Tracey, 2002). La complessità della scelta è, infatti, accentuata dal
fatto che diversi fattori interagiscono tra loro in modo diverso nei vari individui. Partendo da questi presupposti, l’obiettivo
del presente lavoro è quello di indagare quali credenze spingono i giovani studenti ad iscriversi all’università. Partendo
dall’ipotesi che diversi fattori condizionano lo studente al momento della scelta, è stato considerato come modello
concettuale di riferimento dello studio la Teoria del Comportamento Pianificato elaborata da Ajzen (2001). Secondo tale
teoria, la combinazione di atteggiamenti positivi e norme soggettive, nel caso specifico, la scelta post-diploma, combinata
con un alto grado di controllo percepito, si concluderebbe alla fine in forte legame con l’intenzione ad iscriversi
all’università. In aggiunta a questi fattori che determinano l’intenzione, Ajzen (1991) ha specificato le credenze, maturate dal
soggetto, come antecedenti all’atteggiamento alle norme soggettive ed al controllo comportamentale percepito.
Metodo
Lo studio è stato condotto su 1422 studenti (44,7% maschi e 55,3% femmine) frequentanti l’ultimo anno della scuola
secondaria di secondo grado. Agli studenti è stato somministrato il questionario costruito sulla base del modello della Teoria
del Comportamento Pianificato (Ajzen, 2002).
È stata utilizzata una scala Likert a sette punti per valutare: l’intenzione, le norme soggettive ed il controllo comportamentale
percepito, le credenze che determinano gli atteggiamenti (credenze comportamentali e valutazione delle stesse) e le norme
soggettive (credenze normative e motivazione a aderire ai referenti specifici). È stata utilizzata una scala di differenziale
semantico per rilevare l’atteggiamento degli studenti a proseguire gli studi universitari.
Risultati
In fase preliminare è stata misurata la coerenza interna di ciascuna scala attraverso la rilevazione dell’alpha di Crombach per
l’attendibilità (intenzione .97; norme soggettive .89; motivazione a adattarsi ai referenti specifici .66; controllo
comportamentale percepito .66; credenze comportamentali .88; valutazione delle credenze .87; atteggiamento .89).
L’analisi della regressione evidenzia che la combinazione dell’atteggiamento verso il comportamento, le norme soggettive e
la percezione del controllo comportamentale predice la formazione dell’intenzione ad iscriversi all’università (R2.67).
Successivamente, sono state calcolate le credenze sia per quanto riguarda le conseguenze su un’eventuale iscrizione
all’università sia le credenze su come gli altri valutano questo comportamento e la motivazione ad aderire al punto di vista
altrui. Gli atteggiamenti degli studenti sono stati calcolati sulla base del modello “aspettativa-valore” (Fishbein, 1967a,
1967b). Sulla base di tale modello, le credenze (bi), che la prosecuzione degli studi condurrà a certi risultati specifici, si
combinano con le valutazioni (ei) dei risultati ( bi ei).
Una logica simile è stata applicata alla relazione tra credenze normative e norme soggettive. Le credenze normative si
riferiscono alla percezione delle aspettative comportamentali di importanti referenti individuali o gruppi quali la famiglia
dello studente, gli amici e gli insegnanti. Nel caso specifico, le credenze (bi), che specifici individui o gruppi si aspettano che
si esegua o meno il comportamento, si combinano con la motivazione a conformarsi (mi) con questi specifici individui ( bi
mi). State effettuate delle regressioni multiple per ciascun tipo di scuola frequentata (Liceo, Istituto Tecnico, Istituto
Professionale) utilizzando come predittori le nuove variabili ponderate per analizzarne l’effetto netto sull’intenzione insieme
a quelle utilizzate precedentemente. I risultati dei tre modelli hanno evidenziato un buon potere predittivo (Liceo R2=.53;
Istituto Tecnico: R2=.66; Istituto Professionale: R2=.53). In tutti i modelli, l’effetto netto delle credenze normative ponderate
non sono risultate statisticamente significative. Le credenze comportamentali, invece, hanno evidenziato un effetto
significativo a parità delle altre condizioni.
Keywords
Adolescents, Beliefs, Educational-Vocational Guidance
273
Ringraziamenti
Il Direttivo della Sezione Sviluppo e la Segreteria scientifica desiderano esprimere un particolare ringraziamento a tutti quei
colleghi che hanno dato la loro disponibilità a svolgere l’attività di referaggio dei contributi inviati e, in particolare, a quanti
l’hanno successivamente svolta, fornendo un fondamentale aiuto all’organizzazione del convegno.
Hanno collaborato in qualità di referee al convegno 2008:
Franca Agnoli
Paolo Albiero
Gabriella Airenti
Laura Aleni Sestito
Barbara Arfè
Dario Bacchini
Lavinia Barone
Piergiorgio Battistelli
Carmen Belacchi
Beatrice Benelli
Anna Emilia Berti
Laura Bonica
Sabrina Bonichini
Pietro Boscolo
Stefano Cacciamani
Marina Camodeca
Cristina Caselli
Elena Cattelino
Silvia Ciairano
Emanuela Confalonieri
Cesare Cornoldi
Antonella Devescovi
Sergio Di Sano
Laura D’Odorico
Teresa Farroni
Lea Ferrari
Gianluca Gini
Camilla Gobbo
Antonio Iannaccone
Fiorenzo Laghi
Rosalba Larcan
Manuela Lavelli
Alida Lo Coco
Antonella Marchetti
Lucia Mason
Sergio Morra
Ughetta Moscardino
Laura Nota
Margherita Orsolini
Marina Pinelli
Carla Poderico
Daniela Raccanello
Dolores Rollo
Chiara Turati
Eloisa Valenza
Mirella Zanobini
Carla Zappulla
274
Il XII Congresso AIP sez. Sviluppo
è stato organizzato con il patrocinio di:
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione,
Dipartimento di Psicologia Generale
Facoltà di Psicologia
Università degli Studi di Padova
Scuola di Specializzazione Insegnamento Secondario del Veneto
Segreteria Scientifica:
Antonella Devescovi
Pietro Boscolo
Stefano Cacciamani
Alida Lo Coco
Paolo Albiero
Segreteria Organizzativa:
Paolo Albiero,
Sabrina Bonichini
Gianluca Gini
Ughetta Moscardino
c/o DPSS
Università degli Studi di Padova
Via Venezia, 8 - 35131 Padova
E-mail:
[email protected]
Web: http://aip08.psy.unipd.it/sviluppo/
275