sommario
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Luciano Baldessari e i padiglioni Breda alla Fiera di Milano
La committenza Breda
Costruire una “corporate image” alla Fiera di Milano del dopoguerra
Processo ideativo e architetture pubblicitarie
1951: un “mammuth” della tecnica
1952: un fiore sbocciato all’improvviso
1953: il “mondo” della Breda
1954: un’ala per librarsi nell’aria
Allestimenti silenziosi e altri progetti per la Fiera di Milano
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200
205
207
apparati
Scritti su Luciano Baldessari e i padiglioni alla Fiera di Milano
Cenni biografici
Fonti d’archivio e indicazioni bibliografiche
Indice dei nomi
208
Referenze fotografiche
209
Ringraziamenti
Luciano Baldessari
e i padiglioni Breda
alla Fiera di Milano
«Progettai, inventai molto,
realizzai poco, e di quel poco,
parecchio per non durare.»
6
Che fosse Luciano Baldessari l’architetto cui
affidare la concezione e il disegno della nuova
immagine di una delle più importanti industrie
siderurgiche italiane alla Fiera di Milano era
scritto nei fatti. Quando ottiene l’incarico
di predisporre i padiglioni Breda, Baldessari
ha maturato una solida esperienza come
raffinato progettista di allestimenti per mostre
temporanee e fiere campionarie: nel 1951
ha già all’attivo una serie di magistrali
interventi di successo, tanto che verrà in
seguito considerato dalla storiografia come
«uno dei maestri dell’arte espositiva italiana»
che applica un approccio «felicemente
disinibito, ricco di invenzioni scenografiche
e cromoplastiche, aperto alle contaminazioni
e alle trasgressioni linguistiche»1. Un’attività
di sofisticato allestitore, strettamente intrecciata
a quella di scenografo, di pittore e di scultore,
che – come è stato sostenuto – «Baldessari
non abbandonò mai con una coerenza pari
solo all’entusiasmo che lo animava»2.
Non solo da parte degli storici, ma anche da parte dei critici coevi è stato riconosciuto come Baldessari
abbia accordato e mescolato le diverse forme espressive in una «problematica zona d’incontri»
(come scrisse Guido Ballo)3, mettendo peraltro in discussione i confini tra architettura e scultura.
Già al loro apparire, i quattro padiglioni realizzati per la Breda nei primi anni cinquanta vennero
interpretati liberamente da Carola Giedion-Welcker come architetture che – senza ambigui
tentennamenti – oltrepassavano i limiti verso il dominio della scultura4. Agnoldomenico Pica affermò
che «un certo piglio teatrale, una certa sonora eloquenza, una talquale compiacenza per il puro gioco
plastico, un esaltato gusto del colore, pur nascendo da spunti scenografici e da sollecitazioni
coreografiche, si trasferiscono, in queste costruzioni effimere e pubblicitarie, con assoluta aderenza
non solo formale ma perfino funzionale, dacché è chiaro che, qui, un discorso impostato sui canoni
consueti della utilitarietà e della economia costruttiva sarebbe del tutto falso. Qui si trattava di
inventare macchine favolose a non altro fine se non quello di polarizzare l’attenzione della folla»5.
Gillo Dorfles ritenne che si potesse «parlare senza timore di equivoci, d’una “plastificazione
dell’architettura” per i grandi padiglioni Breda, e d’una “architettonicità del disegno” per le sue
scenografie e i suoi schizzi pre-esecutivi». Secondo il critico, gli allestimenti per le mostre valevano
«certo molte case, palazzi e stadi costruiti in più o meno solidi materiali da altri architetti coevi»;
in particolare, «la serie dei padiglioni pubblicitari Breda alla Fiera di Milano del 1951, ’52, ’53, ’54 –
specie quelli del ’51 e ’52 – il cui sinuoso dipanarsi nella grandiosità d’un impianto plastico e al tempo
stesso d’un “percorso” architettonico, costituisce un esempio tra i più efficaci non solo di quella
particolare arte fieristica ma di quel linguaggio architettonico che ha preso l’avvio da una rinascita
di spiriti e umori barocchi e che ha visto negli ultimi anni moltiplicarsi i suoi adepti sino a dilagare
nell’eccesso di alcune esemplificazioni brasiliane, venezuelane e tecnologiche», rimanevano «quali
testimonianze d’una capacità inventiva singolarissima»6.
Questi, come tutti i giudizi espressi dalla critica coeva, hanno fatto sì che nella storiografia
si consolidasse la convinzione che i padiglioni Breda costruiti alla Fiera costituissero dei capolavori
assoluti, forse le opere più rilevanti nel curriculum dell’architetto e nel panorama dell’architettura
pubblicitaria del secondo Novecento. Ma al di là del fatto che per l’insieme dell’opera di Baldessari,
a valle anche di significativi studi recenti7, una tale considerazione suonerebbe forse riduttiva,
va ricordato che quando si parla di architettura “rappresentativa” di un’industria bisognerebbe porre
la questione in ben altri termini: non solo dunque andrebbe esplorata la capacità dell’architetto di
produrre soluzioni formali convincenti all’interno di una manifestazione fieristica fatta anche da tanti
altri padiglioni, ma andrebbe indagata, ovviamente insieme alle richieste della committenza, anche
l’idoneità delle strategie, tutte moderne, della comunicazione pubblicitaria. Come per i pubblicitari,
infatti, pure per Baldessari prima regola da tenere presente nella creazione di un messaggio in Fiera
era “essere visti” e poi “convincere”, mostrare cioè – valorizzandoli – i campioni che dovevano
corrispondere inequivocabilmente al livello tecnico, alla qualità e al tipo di produzione. I quattro
padiglioni Breda, ma anche quelli allestiti in seguito nel corso degli anni (sempre per l’industria di
Sesto San Giovanni, ma anche per la Sidercomit-Italsider), erano accomunati, oltre che da tale basilare
principio, anche dalle medesime logiche che i pubblicitari stavano perfezionando in questi anni.
Ancora: va notato come, al pari di alcune opere teatrali, i padiglioni in Fiera contenessero una forza
poetica tale, da aver saputo “parlare” con l’immediatezza del genio, a spettatori/visitatori di ogni
Paese, di ogni cultura, di ogni collocazione sociale. Il riferimento al teatro non è casuale. Come è noto,
la biografia di Baldessari dimostra quanto esso sia stato importante nella sua dimensione di architetto.
Non solo negli anni giovanili trascorsi nella Germania di Weimar, lavorando a stretto contatto con i più
famosi attori e registi, ma anche nel periodo americano, passato sui tavoli da lavoro a preparare
bozzetti scenografici e frequentando il mondo del teatro e del cinema, Baldessari diede prova
dell’originalità creativa e della ricchezza propositiva della sua ricerca architettonica. Fin dall’esperienza
“futurista” vissuta a stretto contatto con Fortunato Depero, l’architetto trentino era pienamente
8
convinto che nel teatro fosse possibile individuare la forma più consona alle possibilità di
comunicazione artistica dell’epoca. Nel recensire gli interni di casa Spadacini in via Mozart a Milano nel
1932, Persico aveva intuito come l’architetto, creando una «vera e propria messa in scena», avesse
«pensato per una famiglia signorile la casa come teatro»8.
Che fossero allestimenti di interni o padiglioni fieristici, per Baldessari i limiti spaziali e temporali
delle architetture effimere si trasformavano in occasioni di libertà. Le parole che scrive con piglio fiero
e orgoglioso in occasione del numero monografico a lui dedicato dalla rivista «Controspazio» nel 1978 –
«Progettai, inventai molto, realizzai poco, e di quel poco, parecchio per non durare» – sono di per sé
eloquenti. Una fierezza che rivela una libertà raccontata con l’architettura ed espressa mediante
le tante forme di “spettacolo”.
Per questo motivo, come Erwin Piscator (da lui conosciuto a Berlino), Baldessari sviluppa una
forma di “montaggio” teatrale servendosi degli strumenti meccanici e delle risorse dei nuovi mezzi
di comunicazione, con messe in scena di macchinari teatrali e costruzioni sceniche complesse: basti
pensare ai suoi originali allestimenti in relazione a quelli innovativi di “dilatazione tecnologica del
teatro” di Piscator per Die Abenteuer des braven Soldaten Sc’vèik di Jaroslav Hasek dove gli attori
camminavano su tapis-roulants in senso inverso, oppure per Sturmflut di Alfons Paquet con le
proiezioni di immagini cinematografiche di scene di massa. Senza – beninteso – avere ambizioni
da “teatro politico” o “epico”9, per i padiglioni fieristici l’architetto non accetta i linguaggi storici della
“rappresentazione”, ribadendo la volontà di privilegiare tanto il gesto della comunicazione rispetto
al momento dell’espressione, quanto la scomposizione dei codici architettonici fino a quel momento
utilizzati. Egli è interessato alla saldatura tra palcoscenico e platea, facendo – come scrisse Giulio
Carlo Argan riferendosi al “teatro totale” di Walter Gropius per Piscator – «sconfinare la vicenda tra
gli spettatori; a organizzare scenicamente tutto lo spazio del teatro per mezzo di luci e di proiezioni»10.
Quella di Piscator da un lato e dall’altro quella di Max Reinhardt (per il quale Baldessari lavora a dei
progetti di scenografie)11, sono state per l’architetto trentino le lezioni più autorevoli e strutturate,
capaci di modificare la visione delle cose e di stabilire un nuovo rapporto tra azione spettacolare
e spettatore. In particolare, l’insegnamento delle sperimentazioni di Reinhardt è stato fondamentale
per la comprensione della responsabilità del “regista” – qualsiasi tipo di spettacolo egli diriga –
nell’orchestrare l’apporto di ogni elemento in scena. Nel 1914, in un’intervista avente come tema
Sulla regia di massa, il grande rinnovatore del teatro moderno dichiara: «Ogni essere umano è un poco
attore. Sfruttare questo poco, metterlo al servizio dello scopo comune: questo è il compito principale
della regia di massa. Ogni individuo, uomo o donna che sia, deve essere pervaso dalla convinzione che
ha da assolvere un compito interpretativo dal quale dipende la riuscita del tutto; che egli è un piccolo,
eppure importante elemento del grande organismo. Solo allora egli cercherà di dare ogni sera il meglio
di sé. Se raggiungo questo obiettivo, sono riuscito a trasfondere nella massa l’espressione dei
sentimenti richiesti dall’opera, rivelandone pure l’intima necessità»12.
Sembra opportuno osservare, inoltre, che gli allestimenti di mostre e i padiglioni fieristici, come
il teatro nel caso dei suoi amici artisti, offrono a Baldessari l’occasione per esprimersi senza
le restrizioni dettate dalle “cose”, per inventare un mondo in cui è protagonista indiscusso senza
apparenti responsabilità. Nello spazio “dato”, l’architetto fa agire i suoi inconsapevoli personaggi,
affidando ai loro movimenti, alla loro presenza, la definizione del mondo in cui essi esistono. Nei primi
quattro padiglioni Breda, egli ritiene indispensabile sbarazzarsi delle convenzioni fino allora adottate,
nate prima della guerra e considerate al loro apparire rivoluzionarie nella loro capacità di rendere con
un linguaggio nuovo il mondo dell’industria, ma trasformatesi poi in sterile routine, non più all’altezza
di rappresentare una situazione differente.
Per meglio intendere, inoltre, le contingenze con le quali Baldessari deve confrontarsi elaborando
i progetti, a maggior ragione bisogna rammentare come la Breda – al pari di altre grandi industrie
italiane – necessiti nei primi anni cinquanta di costruire una politica culturale e al contempo
9
un’immagine di forza, fino a poco prima trascurata, da diffondere attraverso canali preferenziali, quali
potevano essere la fiera campionaria milanese. Per questa ragione, al fine di comprendere tutto ciò
illustreremo dettagliatamente nel corso di queste pagine l’insieme dei padiglioni concepiti da
Baldessari, definiti da Leonardo Sinisgalli «monumenti senza retorica»13: il considerevole nucleo
di disegni – alcuni dei quali molto noti, altri finora mai pubblicati –, di cui disponiamo per ricostruire
l’evoluzione dei progetti, è assai significativo. Per di più, oltre alla documentazione grafica esistente,
abbiamo a disposizione le carte conservate nei fondi Baldessari che, insieme alla ragguardevole e
straordinaria mole di fotografie raccolte, consentono di individuare le diverse fasi progettuali, le scelte
compiute dall’architetto per l’occasione e di chiarire i meccanismi strategici sottesi alla presentazione
di una grande azienda nella più importante manifestazione fieristica italiana del dopoguerra.
La committenza Breda
Nel febbraio 1951, quando Giuseppe Dal Monte, vicedirettore generale della Breda, propone a Luciano
Baldessari di realizzare un’adeguata “presentazione” dei prodotti dell’azienda da lui rappresentata14,
l’industria di Sesto San Giovanni versa in una difficile e delicata situazione su tutti i fronti.
Per comprendere quali siano, all’indomani della seconda guerra mondiale, i fattori che spingono
la Società Italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche a rivoluzionare il proprio sistema di
auto-rappresentazione mediante l’immagine dei padiglioni alla Fiera di Milano, è necessario
ripercorrere i momenti salienti della storia della grande industria siderurgica15.
Rilevato nel 1886 lo stabilimento della Cerimedo e C.16, noto come l’“Elvetica”, Ernesto Breda
lo trasforma e fonda la società Ing. Ernesto Breda e C. facendola diventare nel corso di pochi anni
un solido gruppo industriale polisettoriale, tanto che alla sua morte nel 1918 risultava essere fra
le quattro maggiori imprese italiane, insieme all’Ilva, all’Ansaldo e alla Fiat17. Prevalente campo
di lavorazione era la costruzione di motrici ferroviarie, a cui sul finire dell’Ottocento si aggiunse
la produzione di macchine utensili e agricole, oltre che di carrozze ferroviarie e di materiale bellico.
A valle del successo ottenuto con la ristrutturazione e con la previsione di future commesse ferroviarie,
nel 1899 la società in accomandita viene liquidata e si crea la società anonima denominata Società
Italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche, con stabilimenti tra Niguarda e Sesto San Giovanni,
in un’area servita dalla linea ferroviaria Milano-Chiasso e dalla tramvia elettrica Milano-Monza18.
Negli anni precedenti la prima guerra mondiale, l’azienda conosce un notevole successo, tanto che
10
si raddoppia la fabbricazione di locomotive a vapore, fino ad arrivare nel 1908 a registrare il superamento
del tetto delle 1000 unità prodotte.
Su progetto di Giovanni Broglio, già autore per la Breda di un quartiere di case per i lavoratori19,
nel 1921 viene inaugurato un Istituto scientifico-tecnico con l’obiettivo di contribuire «a rendere la Patria
indipendente dai prodotti industriali di altre nazioni» e di «fondare sopra salde basi scientifiche una
industria forte che dia ricchezza», secondo le parole di Ernesto Breda pronunciate nel giugno 191720.
Tra il 1914 e il 1934 un ulteriore ampliamento dei settori di attività è dovuto all’entità della domanda
civile e militare; in particolare, durante la prima guerra mondiale la Breda riduce l’impegno nel ramo
ferroviario a favore del carico derivato dai reparti siderurgici, costruendo propri impianti idroelettrici
nei pressi del Lys a Gressoney e istituendo anche una sezione per le produzioni aeronautiche
e il cantiere navale di Marghera. Durante gli anni del fascismo l’industria di Sesto riprende a produrre
locomotive e caldaie e avvia le costruzioni elettromeccaniche (impianti per centrali elettriche, cabine
di trasformazione, locomotive elettriche). Alcuni studi di storia economica hanno sottolineato quanto,
in questo periodo, la Breda risultasse solida e in rapido sviluppo, con dipendenti che passarono,
tra il 1934 e il 1935, da 6000 a circa 9000 elementi (ricordiamo che elettrotreni e “littorine”
contribuivano al successo delle ordinazioni). Ottenuta una liquidità dalla vendita all’IRI delle
partecipazione azionarie della SIP (società subentrata nella proprietà degli impianti del Lys), la Breda
acquisisce la Officine Ferroviarie Meridionali e la Industrie Aeronautiche Romeo, due massime
espressioni dell’industria meccanica dell’Italia meridionale. Con il raggiungimento di 30.000
dipendenti, durante il secondo conflitto mondiale la Breda vede investire capitali prevalentemente
nel settore bellico.
Al termine della guerra, stremata e senza risorse finanziarie utili a rimettere in sesto gli stabilimenti,
la società – da oltre un decennio capitanata da Carlo De Angeli Frua (maggiore azionista dal 1935) –
era suddivisa tecnicamente in otto sezioni, coordinate a Milano dalla direzione generale. La prima
sezione si rivolgeva alla produzione di locomotive a vapore ed elettriche, macchine industriali, caldaie
a vapore per impianti fissi, macchine agricole e altre apparecchiature elettriche di grandi dimensioni;
la seconda era indirizzata alla costruzione dei carri merci e carrozze ferroviarie; la terza era costituita
da fucine e fonderie di acciaio, oltre che da un reparto di prima lavorazione dei prodotti della fonderia;
la quarta si occupava di siderurgia, mentre la quinta era dedicata alla costruzione di velivoli. A queste
cinque sezioni corrispondevano gli stabilimenti di Sesto San Giovanni. La sesta sezione, con sede
11
Araca, bozzetti
pubblicitari per la Breda,
anni quaranta.
Giulio Minoletti,
padiglione Breda alla
Fiera di Milano, 1948.
a Brescia, e la settima a Roma, erano destinate alla fabbricazione di armi; l’ottava sezione, infine,
riguardava la divisione della cantieristica navale ed era concentrata nella sede di Porto Marghera.
In un contesto nazionale che vedeva il sistema produttivo, quando non distrutto, tanto obsoleto dal
punto di vista tecnologico quanto arretrato nelle logiche di gestione finanziaria21, il settore
metalmeccanico, di cui la Breda rappresentava la massima espressione, costituiva il perno attorno
al quale, a partire dall’inverno 1947-48, ruotavano interessi economici e soprattutto politici22. Le otto
anime della Breda, in particolare, versavano in una situazione difficile – come appariva agli occhi
dell’ingegner Francesco Mauro, chiamato alla presidenza nel 1946 – dovuta sia alle distruzioni belliche
e alle requisizioni e occupazioni delle forze armate tedesche sia ai problemi di riassetto e di ricerca di
nuovi indirizzi produttivi, vista la caduta dell’autarchia e la rinascita del libero mercato internazionale.
A partire dai primi mesi del 1948, una serie di vicende si susseguono nel giro di pochi anni: cambi
di presidenti più o meno vicini alla famiglia De Angeli Frua (Roberto Pozzi, Luigi Norsa), carenza di
interventi pubblici, il subentro della proprietà del FIM (Fondo di finanziamento dell’Industria
Meccanica), aspre proteste sindacali, inutili piani di risanamento, inefficaci tentativi di salvataggio
con aumenti di capitale per sanare la disastrosa situazione finanziaria. A seguito delle elezioni politiche
dell’aprile 1948 che decretano la vittoria della Democrazia Cristiana23 e grazie alla possibilità prevista
dal decreto costitutivo del FIM di intervenire nelle vita delle imprese, il 27 gennaio 1949 il ministro
del Tesoro scioglie il consiglio di amministrazione della Breda e nomina Pietro Baldassarre
commissario straordinario. Con una perdita che si aggirava, a chiusura del 1948, intorno ai tre miliardi
di lire, la società si presentava – secondo Baldassarre – gravata, fra i maggiori problemi, dall’opera
di assistenzialismo sociale dovuta al blocco dei licenziamenti (nonostante il ragguardevole esubero
del personale), all’obsolescenza dei macchinari, all’assenza di tecnologie che avrebbero permesso
l’automazione del ciclo produttivo. Su pressione del comitato direttivo del FIM venne chiusa la sezione
aereonautica e alleggerita quella siderurgica. In quest’ultima, era urgente il rinnovo degli impianti,
in quanto erano ormai superati o comunque al di sotto degli standard internazionali. Inoltre, sempre
secondo Baldassarre, per la Breda era necessario trovare nuovi mercati di sbocco, vista l’insufficiente rete
commerciale di un’industria che fino a quel momento aveva avuto lo Stato come unico cliente.
Quantunque l’analisi di Baldassarre indirizzasse la politica aziendale su chiare linee di riforma,
il bilancio del 1949 si chiuse con un forte deficit e con previsioni altrettanto catastrofiche per l’anno
successivo. Così, per scongiurare la messa in liquidazione, si decide di intervenire con una ulteriore
12
copertura da parte del FIM, principale azionista e creditore della Breda. Con un decreto del ministro
del Tesoro Giuseppe Pella, il 24 gennaio 1951 viene nominato commissario straordinario il giovane
avvocato barese Pietro Sette24.
Individuata come causa “patologica” del dissesto da parte di Sette, la situazione dei macchinari
e degli impianti del complesso industriale si presentava aggravata dalla mancanza di specializzazione
produttiva e dalla carenza di capitali. In tal senso, l’avvocato pugliese individua le ragioni del collasso
nel rapporto intitolato La Breda al giugno 1951. Esame della situazione e proposte di provvedimenti25,
inserendo tra le ragioni anche il fallimento totale dei prodotti di riconversione (l’aereo passeggeri BZ308
i cui interni erano stato disegnati da Giulio Minoletti26, l’aereo trasporto merci BP471, i trattori agricoli,
i fucili da caccia, le motociclette e il telaio Cotton, la macchina Nastrofil), tutti causa di ingenti perdite.
Inizia così il rilancio dell’azienda. Nell’agosto 1951 parte il piano di risanamento con 3000
licenziamenti27 e, sulla base di precise direttive, Sette trasforma la Breda in una vera e propria holding
pubblica con presenza di azionisti privati28. Con la ristrutturazione della quinta, della settima e della
ottava sezione, la neonata Finanziaria Ernesto Breda è a capo di un gruppo di società di cui conserva
quote azionarie. Perfezionati gli atti notarili29, nel gennaio 1952 nascono le otto società autonome della
Finanziaria Ernesto Breda. Prendono vita la Breda Elettromeccanica e Locomotive, la Breda
Ferroviaria, la Breda Fonderia e Forgia e Macchine Industriali (poi Breda Fucine), la Breda Siderurgica,
la Breda Motori. La sesta sezione si trasforma nella Fabbrica nazionale di armi di Brescia
(Breda Meccanica Bresciana), mentre gli stabilimenti nella capitale assumono il nome di Breda
Meccanica Romana. In ultimo si costituisce la Breda Istituto di Ricerche Scientifiche Applicate
all’Industria. Il 14 luglio si riunisce l’ultima assemblea dei soci azionisti che delibera il mutamento
dell’oggetto e della denominazione sociale, il ripristino degli organi sociali precedentemente sospesi,
e la nomina di Pietro Sette a capo del nuovo consiglio di amministrazione.
Il biennio 1952-53 si configura come il periodo cruciale del risanamento della situazione finanziaria
e patrimoniale. A partire proprio dal 1952 la produzione si orienta verso la costruzione di locomotive
elettriche e di macchine movimento terra, l’equipaggiamento di centrali termiche e di impianti di
estrazione, la costruzione di macchine industriali e motori diesel, di armi leggere, di motocoltivatori
e di frigoriferi a uso domestico.
Nel 1954 la situazione della Breda migliora e l’esercizio annuale si chiude con un considerevole attivo
in tutte le diverse società del gruppo. Con il passaggio degli ultimi crediti dal FIM alla Finanziaria Breda
13
Giulio Minoletti,
padiglione Breda alla
Fiera di Milano, 1948,
1949.
Giulio Minoletti,
padiglione Breda alla
Fiera di Milano, 1950.
C.A.S.V.A. II.A.12
(la cui maggioranza restava tuttavia di proprietà FIM), nel 1958 si chiude il periodo critico del
dopoguerra. Acquisito il pieno controllo delle varie società del gruppo, per la struttura aziendale
si avvia una fase di maturazione. Forte dei risultati raggiunti, la Breda Siderurgica viene ceduta, proprio
nel 1958, alla Finsider. Come altre imprese italiane a partecipazione statale, anche la Breda viene
coinvolta nel processo di industrializzazione del Mezzogiorno. In linea con gli orientamenti di Vanoni
e poi di Moro, Sette collabora alla definizione di una politica meridionalistica, impegnando la Breda
in un alcuni interventi nel Sud. Fra le iniziative industriali spicca la creazione nei pressi di Bari della
Pignone Sud, azienda destinata alla fabbricazione di strumenti di misura, regolazione e controllo dei
servomotori e dei trasmettitori, varata con la collaborazione della Nuova Pignone. In tale ambito,
vengono collocate nel Mezzogiorno sei aziende (tra cui la Fucine Meridionali, a Bari, e la Società
Italiana Vetro a Vasto), e si costituisce a Bari una succursale dell’Istituto di ricerche Breda. Nel gennaio
1962 viene istituito l’EFIM, ente autonomo di gestione per le partecipazioni del FIM e, nel dicembre
dello stesso anno, confluisce la Finanziaria Ernesto Breda, permettendo così al nuovo organismo
di svilupparsi sotto la presidenza sempre di Pietro Sette. Nello stesso mese diviene esplicita
la collaborazione con la Cassa del Mezzogiorno con la costituzione della società finanziaria INSUD.
Contraddistinti da scambi e acquisizioni di pacchetti azionari tra la Finanziaria Ernesto Breda,
il gruppo IRI o lo stesso gruppo EFIM, i successivi anni vedono l’intreccio ormai indissolubile tra
politiche di gestione delle singole società e più generale situazione dell’industria nazionale.
Costruire una “corporate image” alla Fiera di Milano del dopoguerra
La sintetica ricostruzione delle vicende aziendali ci permette di comprendere quali siano state
le esigenze di “avanguardia”30 della Breda di mostrarsi nel 1951 rinata agli occhi del grande pubblico.
Si trattava in quel momento di un obiettivo di vitale importanza per l’industria di Sesto San Giovanni
che, per forza di cose, avrebbe dovuto prevedere l’intervento di artisti, architetti e intellettuali nella fase
di promotion avanzata. Come stava accadendo in altre realtà industriali italiane, infatti, era viva la
consapevolezza di far coesistere l’istanza di ristrutturazione e rinnovamento neocapitalista con le
teorie di provenienza statunitense sulle aziende quali istituzioni pubbliche, insieme alla capacità del
moderno design di rivoluzionare l’immagine complessiva di un gruppo. Ricordiamo che in questi anni
le maggiori aziende, dalla Pirelli a quelle dell’Iri, sull’esempio della Olivetti reclutavano intellettuali,
artisti ed esponenti di spicco della cultura architettonica31.
14
Del resto, anche se non era giunta alla costruzione di un vero e proprio “stile Breda”, fin dagli anni
trenta la storica industria lombarda si era servita delle competenze di valenti architetti per il progetto
degli edifici più rappresentativi e per il disegno dei propri prodotti: alla V Triennale del 1933, ad
esempio, per la mostra sulle carrozze ferroviarie, Giuseppe Pagano e Gio Ponti avevano realizzato gli
interni del vagone Triennale-Breda32, mentre nel 1936 la Breda commissiona a Baldessari il progetto di
un palazzo per uffici da costruirsi a Sesto San Giovanni33 e, nello stesso anno, Pagano partecipa al
programma di una nuova linea aerodinamica e degli interni del primo elettrotreno Etr 200, prodotto
dalla Breda. È stato ipotizzato, altresì, il coinvolgimento sempre di Pagano e di Ponti nel progetto della
palazzina del Campo Voli che la Breda realizza per testare i prototipi lì costruiti34. Dal 1946 al 1950
Giulio Minoletti collabora a varie iniziative dell’azienda di Sesto San Giovanni, dall’allestimento di stand
al progetto dei padiglioni alla Fiera di Milano35, fino al disegno degli interni dell’aereo Bz 308,
già ricordato, e del treno Etr 300, più noto come Settebello36. In questi anni, inoltre, l’azienda è alla
ricerca di un’immagine accattivante – rimettendosi a valenti artisti illustratori e a studi di grafici quali
Pelizza, Polenta e Rognoni, Simoni e Radicati, Biraghi, Huber, Araca (quest’ultimo già autore del
marchio Breda)37 – da diffondere sul mercato pubblicitario tramite l’Ufficio Propaganda e Relazioni.
Ma, a differenza degli anni d’oro, con l’arrivo di Sette – uomo di raffinata formazione intellettuale,
oltre che tecnica – diventa essenziale l’elaborazione di una specifica identità culturale da affidare a un
solo artista capace di interpretare e coniugare cultura umanistica e sapere tecnico. È stato notato che
nelle grandi aziende, come l’Olivetti, la Pirelli e l’Italsider, tecniche e conoscenze professionali americane
facevano parte della formazione dei dirigenti e, in senso lato, di molte delle diverse fasce di responsabili.
Con Sette è plausibile ipotizzare che anche alla Breda si respirasse, nel nuovo gruppo dirigente, l’aria
delle teorie economiche e delle moderne tecniche di marketing diffusesi ormai ovunque in Europa.
Da poco rientrato in Italia dopo circa otto anni trascorsi a New York, Baldessari incarnava il referente
perfetto di un modo di concepire strategie e pratiche professionali. Aggiornato, e adeguatamente
qualificato, l’architetto di Rovereto possedeva dialetticamente, per la committenza, cultura artistica
à la page e conoscenza delle prassi dell’advertising americano. Dopo la rottura professionale con
Minoletti, dovuta alle alte richieste di ricompensa, Baldessari era visto non solo come un professionista
affidabile e che già in passato, tramite Carlo De Angeli Frua, marito di Amalia Breda, aveva avuto rapporti
con l’azienda, ma anche come colui che appariva in grado di abbozzare il nuovo volto di un’industria,
fortemente impegnata – è bene ricordarlo – a presentarsi agli occhi dell’opinione pubblica ma anche
15
Progetto per un palazzo
per uffici Breda,
Sesto San Giovanni 1936.
Mostra della Seta
a Villa Olmo, Como 1927.
Cartello pubblicitario
per la I Mostra nazionale
della moda, Torino 1933.
Auto reclamistica
per la De Angeli Frua
con il marchio “Sole
Onda”, Milano 1929.
Le sale “Aviazione civile,
turismo aereo, posta
aerea” e “Fascismo e
Aviazione” all’Esposizione
dell’Aeronautica Italiana
al palazzo dell’Arte,
Milano 1934.
16
a quelli dei propri dipendenti a cui chiedeva sacrifici indispensabili per la salvezza, come capace di
superare le logiche paternalistiche e di affrontare la realtà della moderna ricostruzione industriale.
A sua volta, per Baldessari la Breda rappresentava un interlocutore coraggioso e di larghe vedute;
la frase in calce a un’annotazione manoscritta conservata tra le carte dell’architetto è in proposito assai
significativa: «Non è facile trovare tali clienti o committenti come li vuoi chiamare»38.
Baldessari non era nuovo a interventi effimeri concepiti per la Fiera milanese e per altre importanti
occasioni espositive. Dopo il brillante esordio dell’allestimento per la Mostra della seta a Villa Olmo
a Como (1927), che vede i drappeggi dei tessuti avvolti sui manichini di Aleksandr Archipenko, nel 1929
l’architetto concepisce per la De Angeli Frua (azienda della famiglia proprietaria peraltro della
maggioranza azionaria insieme ai Breda dell’industria di Sesto San Giovanni) lo stand all’Esposizione
dei tessuti di Bolzano e l’auto reclamistica, con il marchio “Sole Onda” da lui ideato, la cui parte
posteriore è trasformata in una «vetrina viaggiante»39: un teatrino meccanico rotante e con manichini,
che ai visitatori della Fiera di Milano presenta le ultime novità in fatto di stoffe. Conosciuto nell’ambito
delle frequentazioni del ristorante Craja, Carlo De Angeli Frua era divenuto a partire dal 1928
il principale committente di Baldessari, che per lui realizza nel giro di pochi anni – oltre al palazzo
per uffici in piazza De Angeli (con Figini e Pollini) e a varie sistemazioni di interni sia di appartamenti
sia di negozi – gli eleganti stand DAF allestiti alla IV Triennale di Monza (1930), alla V Triennale di Milano
(1933), e alla Mostra nazionale della moda di Torino (1933) per la quale elabora, con la collaborazione
del pittore Enrico Ciuti, anche il cartellone pubblicitario. Alla Fiera di Milano, sempre con alcuni
contributi di Ciuti, per la De Angeli Frua crea il contenitore trasparente del padiglione Vesta del 1933
e la complessa struttura pubblicitaria “a ponte” del 1936, destinata a reclamizzare i tessuti stampati
di seta, lana, rayon e cotone, che «vincono le sanzioni»40.
Per di più, con la progettazione di allestimenti attinenti il campo della moda, come acutamente
scrive Fulvio Irace, Baldessari perviene a «una personale iconografia architettonica dai caratteri
fortemente idiosincratici rispetto ai temi dominanti delle nuove avanguardie razionaliste»41. Come
è stato del resto riconosciuto, per Baldessari il tema dell’effimero risulta più che congeniale, in grado
di liberare aspirazioni altrimenti represse, e capace di produrre capolavori di altissimo virtuosismo
rappresentativo. Allestendo con la «violenza dei giochi decorativi»42, le sale “Aviazione civile, turismo
aereo, posta aerea” e “Fascismo e Aviazione” all’Esposizione dell’Aeronautica Italiana al palazzo
dell’Arte di Milano (1934), ad esempio, Baldessari dimostra un’autentica attitudine “comunicativa”,
17
Veduta e assonometria
del padiglione Vesta alla
Fiera di Milano, 1933.
Complesso pubblicitario
per la De Angeli Frua
alla Fiera di Milano, 1936.
Renzo Zavanella,
padiglione delle Officine
Meccaniche alla Fiera
di Milano, 1950.
Enrico Ciuti, padiglione
del Gruppo Finmare alla
Fiera di Milano, 1954.
Mario Bacciocchi,
padiglione Agip Snam
alla Fiera di Milano, 1953.
18
asciutta e veloce, tanto da far scrivere a Edoardo Persico – a proposito della sala ispirata agli hangar
per dirigibili – che si tratta di «una costruzione di propaganda, in cui tutti gli elementi hanno carattere
di vivace e immediata illustrazione». Per il critico napoletano gli archi parabolici delineano «un motivo
scenografico di immediata evocazione, alla quale danno maggiore intensità i manifesti che tappezzano
tutta la sala, creando un’efficace ossessione reclamistica»43.
A “comunicare” l’innovazione senza il ricorso a ridondanti retoriche, Baldessari era comunque
giunto, alla Fiera, con il già citato padiglione Vesta. «Armadio a vetri monumentalizzato»44, lo stallo
in struttura di acciaio con la pelle segnata da sottili linee ortogonali su cui erano poggiate le lastre
vetrate era un sentito omaggio all’opera di Mies van der Rohe. Per cogliere la portata del valore
riconosciuto in Mies, è significativo leggere quanto Baldessari scriverà in onore del settantesimo
compleanno del maestro: «Insegnaste a credere e usare la tecnica come mezzo espressivo sì, ma non
come fine. Insegnaste a possedere ogni più perfetto mezzo tecnico per superarlo. Insegnaste non
tanto a “faire chanter le point d’appui”, quanto a essere al di là della tecnica, nella zona astratta dove
è solo possibile liberare per il creato l’empito lirico di una espressione non traducibile in parole, il canto
sicuro ed ampio di un’Arte universale»45. Come è stato osservato, il padiglione Vesta si faceva notare
per la sua semplicità quale esempio di puro razionalismo, in cui interno ed esterno comunicavano con
chiarezza, senza presenza di filtri, il messaggio commerciale. Definito una delle opere più poetiche
di Baldessari, il padiglione avvertiva – mediante l’identificazione del linguaggio formale con la
concezione strutturale – come lo stile fosse nella misura delle cose, nel grado di dosare materiali
ed espressioni comunicative, nella congruenza armonica tra oggetto da esporre ed espositore.
La corporate image per la Breda, dunque, era esprimibile mediante una vera strategia che
contemplasse anche la cosiddetta “architettura pubblicitaria” da realizzare a Milano nella più
importante esposizione italiana del dopoguerra. Va tenuto conto che fino ad allora l’esposizione dei
prodotti Breda era stata organizzata alla Fiera – definita «città dei balocchi» o luogo per la «produzione
di sogni»46 – in due settori, uno all’aperto dedicato alla meccanica pesante, l’altro in una struttura
costruita all’estremità dell’area a disposizione, all’interno della quale si potevano mostrare la
meccanica leggera e i modelli fabbricati. Prospiciente piazzale Milano, il settore all’aperto, appendice
del padiglione 41-B, era imperniato ogni anno su una macchina che, per le sue dimensioni, costituiva
da sola elemento di richiamo47. Dal 1951 tecniche di comunicazione e visioni moderne di corporate
identity prendono così forma nei padiglioni effimeri della Fiera campionaria48: dai prospetti delle spese
sostenute dalla Breda per gli allestimenti nelle manifestazioni fieristiche a partire dal 1949 si evince
come quella di Milano risulti di gran lunga la più onerosa49.
Del resto, l’esposizione milanese rivive, nella febbrile ripresa economica del dopoguerra e in un
Paese che vede l’organizzazione di un considerevole numero di fiere, un imponente processo di
crescita, con stand ideati per esibire prodotti non più in modo statico, ma «nell’esercizio delle attività
per cui sono stati creati». In tal senso, se le merci hanno bisogno di essere provate, testate, collaudate,
si ricostruiscono “ambienti” adeguati: pezzi di deserto con sabbia gialla fanno da pista per la
Campagnola, che si arrampica su dune e guada pozzanghere; costruzioni “calligrafiche” in fil di ferro
smaltato di bianco, con contadini in costumi multicolori, simulano un paese alpino per esporre prodotti
alimentari; mucche gigantesche di cartapesta e galli sfilano su automobili tra il pubblico; in una darsena
galleggiano gli ultimi modelli di motoscafi e idroscooter.
A partire dalla Fiera del 1951, inoltre, il nuovo elemento spettacolare è dato dalla presenza della Rai,
e in generale della televisione, che con i suoi apparecchi disseminati ovunque manda in onda partite,
film o riprese girate per la mostra; peraltro, nel padiglione del 1952 – allestito dai fratelli Castiglioni
(con Bruno Munari)50 – l’ente radio-televisivo italiano ricostruisce, su due piattaforme rotanti,
due ambienti significativamente diversi: da un lato una tradizionale casa borghese fin de siècle con
grammofoni a tromba e abat-jour di cristallo colorato a forma di corolla di fiore; dall’altro una moderna
abitazione “funzionale”, con quadri dadaisti, luci fluorescenti, mobili di acciaio e apparecchi radio
ovunque. «Scaturisce da tutto ciò – scrive Raffaello Guzman – un continuo effetto di spettacolo,
di divertimento, che indubbiamente ha una grande efficacia, e non soltanto sul grosso pubblico, cioè
quello che va alla Fiera, appunto, per divertirsi: come andrebbe al cinema o a fare una scampagnata.
Ne scaturisce un effetto di meraviglioso Paese dei Balocchi, che i grandi ammirano con la serietà
e l’interesse con cui i bambini si estasiano davanti a un trenino elettrico»51. Alla Fiera di Milano si ha così
un nuovo modo di intendere la comunicazione, fatta di architettura e grafica pubblicitaria «spettacolare
e cinestetica», con stand che diventano un’«istituzione linguistico-presentativa» come osserva Giovanni
Anceschi52. Di conseguenza, costruire all’interno dell’esposizione milanese significa considerare
ulteriormente l’elemento spettacolare del contesto in cui va a mostrarsi l’architettura, oltre che tenere
conto delle questioni di corporate image. Un contesto in cui – secondo Gustavo Montanaro, direttore
dell’allora Servizio stampa e propaganda della Fiera – la base funzionale «non è dunque una pubblicità
di prestigio, ma una pubblicità tecnica, direttamente commerciale»53. Vi è da dire che negli anni in cui
19
Erberto Carboni, con Max
Huber, Carlo Mollino,
F. Campo, C. Graffi,
padiglione Eni Snam
alla Fiera di Milano, 1954.
Erberto Carboni,
padiglione Eni Snam
alla Fiera di Milano, 1956.
Errico Ascione, Leonardo
Sinisgalli, padiglione Eni
Snam alla Fiera di Milano,
1959.
la pubblicità in Italia cercava un linguaggio autonomo, era convinzione dei progettisti dell’effimero che
l’architettura pubblicitaria avrebbe dovuto articolare proprio le prime parole di questo linguaggio.
Anzi, già nel 1941 si era ben consapevoli di quali fossero le questioni da porre al centro
dell’attenzione: Angelo Bianchetti e Cesare Pea, ad esempio, analizzando modi, tecniche e scelte da
adottare, nella realizzazione di sistemazioni, installazioni, ingressi, fontane, richiami pubblicitari
e padiglioni per una fiera – avvertivano che era necessario individuare «caratteristiche di stile ed
organiche nettamente diverse da quelle pertinenti all’architettura intesa in senso universale»54.
Non a caso, secondo i progettisti, la produzione di forme per le manifestazioni fieristiche era stata
da sempre un’attività influenzata esclusivamente dalle arti visive: «L’architettura pubblicitaria deriva
più dalla plastica, dalla scultura, dalla pittura che non dall’architettura». Tuttavia, esprimere
un messaggio mediante la materializzazione concreta di forme, voleva dire anche misurarsi con le
questioni poste dal progetto, prima ancora che dai materiali e dal cantiere. Va da sé che, al pari degli
altri padiglioni presenti alla Fiera, anche quelli Breda, vere meraviglie dell’effimero, erano governati
dalle leggi dettate da problemi tecnici specifici. Costruire, come ad esempio nel caso del padiglione
Breda del 1951, riutilizzando le strutture – novelle folies – lasciate dalla messa in scena dell’anno
precedente di Giulio Minoletti, acquistava una concretezza fatta di mattoni, cemento, tralicci, vernici.
Sicché, come gli altri interventi presenti alla Fiera nei primi anni cinquanta, che siano di Cesare
Scoccimarro per la Fiat o di Angelo Bianchetti e Cesare Pea per la Montecatini o per la Italviscosa
oppure di Renzo Zavanella per le Officine Meccaniche55, anche i padiglioni Breda si inseriscono in una
ragnatela fatta di parole e immagini – oltre che di forme e di materiali costruttivi – con un contesto
visuale, nonostante tutto, profondamente carico di retorica e affollato di “architetture per comunicare”:
ogni singolo padiglione restava in fondo un monumento all’etica e agli ideali dei nuovi consumatori,
basati sulla gratificazione e rappresentati da vetrine allestite per l’acquisizione di beni di massa.
Processo ideativo e architetture pubblicitarie
Sinuosa e intrigante, la prima forma immaginata da Baldessari si misurava con “la gioiosa arditezza dei
giochi infantili” disseminati negli spazi della Fiera. Assimilate le lezioni futuriste dell’amico e maestro
Depero56, l’architetto allestisce una «colossale» – come fu definita da Leonardo Sinisgalli – «arditissima»
costruzione pubblicitaria. Nella prosa del poeta-ingegnere di Montemurro si palesa una interpretazione
critica calzante; riferendosi ai padiglioni del 1951 e del 1952, egli coglie le intenzioni dell’architetto che
20
disegna un vero e proprio evento: «Ha creato qualcosa che nell’insieme, scena e personaggi, potesse
dar l’idea di uno spettacolo, una processione, una sfilata, un corteo, una passeggiata»57.
Baldessari tenta un esperimento di fusioni. Nella felice definizione di «promenade architecturale
et métallurgique», Sinisgalli individua lo “spirito moderno” di tali acrobazie sperimentali e lo fa risalire
alle rappresentazioni di Erwin Piscator o di Luchino Visconti.
Il padiglione del 1951 viene considerato quello della finalità esibita e della regia riuscita: «Baldessari
ha fatto recitare una parte ai visitatori, la parte appunto della massa, come in una pantomima, come
in un balletto, ma senza imporre un ruolo obbligato né ai personaggi né alle macchine. Soltanto ha
fissato un itinerario, un itinerario dentro un paesaggio, un paesaggio che ha una straordinaria
eloquenza, un paesaggio astratto ma carico di una suggestione profonda»58.
Tecnica, materia, forma si fondono e coagulano in un’“espressione coreografata” per condurre i
visitatori in fila su una passerella, in attesa di ammirare un panorama di prodotti industriali: Baldessari
li accompagna in un tubo – forno che sia – a contemplare il progresso e la vitalità di chi li ha realizzati59.
Il padiglione del 1951 si propone di mostrare la vivacità di un’azienda fatta di uomini e di ingegno, che
sta attraversando – come abbiamo visto – una fase di notevole difficoltà; in riferimento al padiglione,
i giornalisti non mancano di sottolineare l’eccezionalità dell’industria: «Più che una “ditta”, la Breda
è il simbolo della capacità tecnica dei lavoratori»60.
Nell’ideare i padiglioni Breda, Baldessari medita sull’eleganza; ha necessità di incasellare i prodotti
di una industria moderna, con il loro peso di funzionalità, in un equilibrato insieme di vuoti e di pieni,
ma anche di colori e di luci. Con la passerella che percorre i sentieri di un rinnovato meccanismo del
comunicare, egli anticipa le istanze della “tecnica” che diventa essa stessa linguaggio. Manifestata
nella sua nuda espressione, la stessa “tecnica” sarà la cifra distintiva del padiglione Sidercomit
realizzato da Baldessari, sempre con Marcello Grisotti, alla Fiera di Milano nel 195361. Qui gli architetti
partono da un’idea strutturale elementare – «un’idea che è insieme un concetto costruttivo e un
arabesco della fantasia», dirà Agnoldomenico Pica – imperniata su un elemento a “V” con due ali
spiegate, evocante la «contrapposizione di due falconi metallici egualmente caricati e mutuamente
reggentisi in vicendevole equilibrio»62.
“Esibita” e resa “viva” dal pubblico, nel progetto di Baldessari del 1951, la forza della siderurgia
mostra oggetti “tecnici” da divulgare in tutte le forme possibili: va ricordato che la parola d’ordine era
sempre “far conoscere”. Stupire, mediante un’architettura nata dal teatro (come teorizzato da Walter
21
Gropius), ed educare, attraverso anche una sala di proiezione a margine del percorso, sono gli obiettivi
cari all’industria di Sesto San Giovanni. In un articolo intitolato Architettura pubblicitaria, apparso sulla
rivista «Pirelli» proprio mentre si inaugura il padiglione, Vittorio Bonicelli scrive: «Questo è il vero gioco
pubblicitario: aumentare fino al limite estremo le superfici parlanti, dimostrative, amplificarne
l’eloquenza didattica, senza perdere estrosità e ritmo, e ricorrere anche al cinema per creare una
quarta dimensione»63. D’altro canto, il motto che campeggiava sul cartellone all’uscita del forno –
“Per ogni industria la macchina, per ogni trasporto il mezzo” – si poneva come conclusione retorica
alla visione dell’ampia gamma di produzioni della fabbrica64. Diversi sono dunque i linguaggi espressivi
utilizzati e i livelli comunicativi: il teatro che configura l’architettura, il cinema che appare dentro
l’architettura, la pubblicità che prende forma con le forme stesse dell’architettura.
Ed è un motto, “La Breda ieri una, oggi unitaria”, a segnare il principio del padiglione del 1952;
uno slogan pubblicitario riprodotto su cartelloni e brochures, utilizzato per presentare il complesso
delle otto aziende coordinate da un’unica “Finanziaria”. Soddisfatta del risultato raggiunto l’anno
precedente, nel 1952 in una manifestazione nata ancora una volta per stupire il grande pubblico
(con la Montecatini – ad esempio – che riproduce davanti al suo padiglione un disco volante in
polietilene65), la Breda affida a un concetto, e alla forma scultorea magistralmente interpretata da
Baldessari, la mission del nuovo corso aziendale.
Abbandonando la tradizionale mostra di prodotti-campione, l’opera di Baldessari si concentra
su una struttura a ventaglio curvato dalla quale «si sviluppa con un tracciato di armoniosa ed energica
impronta il nastro che, collegando le otto società, le riporta funzionalmente alla Breda Finanziaria
ricostituendone un unico complesso articolato e capace di presentarsi sui mercati mondiali come una
coerenza unitaria di forze produttive»66. Con riferimento all’interpretazione funzionale dell’architettura,
in una relazione si legge: «La coclea centrale (che ritornando su se stessa dà origine a tutta la
configurazione) la domina, non solo per le sue gigantesche proporzioni, ma soprattutto per l’arditezza
delle linee coraggiosamente lanciate verso l’alto nel superamento di un pericoloso strapiombo, quasi
a materializzare la tensione di vita del grosso complesso industriale che nella coclea stessa ha origine,
evoluzione e conclusione. Lo spazio lasciato allo sviluppo dei percorsi delle otto nuove Società nate
dalla vecchia Breda, pur essendo completamente libero, è tutto dominato dalla coclea e compreso nel
nastro che con leggere e ardite volute si stacca talvolta con audace decisione dal piano su cui si svolge
la vita delle Società consociate»67.
Nessuna macchina, dunque, viene esposta: una scelta coraggiosa giustificata anche dal proposito di
evitare che, di fronte a pochi esemplari, si possa credere che a essi soli si sia ridotta l’attività della Breda,
come scrive il pittore intellettuale Attilio Rossi. Si propone in effetti un tema pubblicitario spinoso, «quasi
scoraggiante per la sua complessità in quanto si trattava di presentare due cose in una e cioè: illustrare,
innanzi tutto, le caratteristiche armoniche della nuova struttura derivata dalla razionale riorganizzazione
e della conseguente divisione in otto società, società però presenti sul mercato mondiale con una unica
forza. Naturalmente poi mostrare anche la produzione tipica di ogni singola società. La soluzione di
problemi di raffigurazione così complessi non poteva essere trovata che intuitivamente e, ancora una
volta, come se fosse necessario, si è dovuti ricorrere non al tecnico ma all’artista. L’artista o, meglio, gli
artisti sono riusciti con la loro fervida fantasia a creare uno spettacolo plastico armonioso e a illustrare
sinteticamente l’arido schema organizzativo di questo grande complesso industriale. La novità
sconcertante e coraggiosa è stata quella di non esporre nessuna macchina (che lezione per certi miopi
tecnici pubblicitari, miopi per credere troppo nelle statistiche o per la lettura di troppi manuali). Questa
soluzione, oltre che lasciare un più libero campo creativo, è stata utile anche per evitare equivoci che
sarebbero certamente derivati da una esposizione parziale»68.
Come si vede, la pregnante testimonianza del direttore della rivista «Linea Grafica» – il quale nello
stesso periodo collabora con Baldessari alla Mostra del risorgimento mantovano nella Casa del
Mantegna a Mantova e a quella dedicata a Van Gogh a Palazzo Reale a Milano69 – evidenzia in
22
particolar modo le logiche espositive sottese alla creazione della forma definita «dolmen di linee
aereo-dinamiche». Attraverso una successione di documenti fotografici sulle principali “attività in
atto”, allestiti poi lungo le pareti del percorso prestabilito, si intende offrire una visione d’insieme del
complesso industriale “in movimento”70, mentre l’unica mostra di prodotti – in particolare fucili da
caccia e da tiro – viene allestita all’interno del fabbricato permanente (interessante, in tal senso,
è il modo di presentare i fucili anch’essi “in movimento”, anziché “in vetrina”).
Risultato della fruttuosa collaborazione tra committente e artista, il padiglione materializzava
la sinergia delle quattro componenti in gioco: linguaggio riconoscibile da parte dell’industria, esigenza
di presentarsi sui mercati mondiali come espressione di un unico e articolato complesso, arte della
mise en scène, estetica della moderna comunicazione pubblicitaria71.
Per di più, nella coclea era evidente quanto l’attenzione fosse concentrata sull’impresa piuttosto
che sulla promozione dei suoi prodotti, in linea con la scuola di management aziendale basata sulle
human e public relations. Proprio nel 1952 era sorto l’Istituto italiano per le relazioni pubbliche, ente
che si preoccupava di diffondere ruolo e compiti del nuovo ambito di intervento consistente
«nelle attività che si organizzano e nei programmi informativi che si realizzano per far partecipare
la comunità alle attività del settore»72. Si trattava dunque di presentare la Breda stimolando
la partecipazione fattiva dei visitatori della Fiera, senza fare alcun riferimento agli oggetti da lanciare
sul mercato.
Peraltro, va tenuto conto che fino alla seconda guerra mondiale – come abbiamo ricordato –
il principale cliente della Breda era individuato nello Stato; mentre con il nuovo corso storico era
necessario dare la giusta enfasi a un complesso industriale che faticosamente si stava rimettendo in
sesto, e diffondere un’idea di industria “indispensabile” all’economia nazionale e alla vita del Paese.
Un’idea che si ridimensiona l’anno seguente, allorquando si verifica una ripresa economica che
permette alla Breda di adottare lo slogan «Una industria nel mondo». Impressa con forza sul dado che
fuorusciva dalla sfera nel padiglione del 1953, la scritta sintetizzava l’avvenuto recupero, tanto che la
Breda poteva tranquillamente ritornare a mostrare i prodotti di punta con cui l’azienda era
intenzionata a conquistare il mercato internazionale. La comunicazione, con un efficace linguaggio,
dell’identità d’impresa, passava dunque in secondo piano: si ritornava a mostrare l’innovazione
e la qualità dell’industrial product di una grande holding nata da un insieme di otto consociate, come
rimarcava il grafico inserito da Attilio Rossi sulla grande parete di sinistra ispirato alla pianta del
padiglione dell’anno prima.
Alla “plastica pubblicitaria” del 1954 è affidato il compito di esprimere il consolidamento di una
cultura d’impresa e di una corporate image. Proiezione dell’azienda che adotta come tema Struttura
della Breda, l’elemento architettonico si poneva come manifestazione raggiunta dello sviluppo del
complesso siderurgico. Non più viaggio iniziatico verso la conoscenza, la passeggiata del visitatore era
diretta verso l’“universo” dell’industria con il mercato pronto ad accogliere i nuovi prodotti, ed era
allietata da una carrellata di immagini che ripercorrevano i momenti salienti della gloriosa e difficile
vita della Breda. La Plastica luminosa di Lucio Fontana sul soffitto della saletta, il bassorilievo della
Sintesi del ciclo produttivo siderurgico di Umberto Milani, la figurazione sulla facciata del padiglione
La Breda oggi nell’universo industriale di Attilio Rossi contribuivano alla creazione di un codice di
segni universalmente accessibile, proprio perché la Breda aveva in quel momento necessità di
mostrare quell’autorevolezza e quel prestigio, fino a qualche anno prima messi in crisi da complesse
vicende politiche, e di relazionarsi in modo nuovo con i propri dipendenti e con il mondo esterno alla fabbrica.
1951: un “mammuth” della tecnica
Ma facciamo un passo indietro. Come si è detto, Baldessari riceve l’incarico di realizzare il primo
padiglione della Breda nel febbraio 1951. L’inaugurazione della XXIX Fiera è prevista per il 12 aprile,
ha quindi poco più di un mese per elaborare un progetto plausibile, che tenga conto dei prodotti
23
da esporre. Per di più, tra gli “oggetti” da mostrare vi è un forno a rotazione per la fabbricazione
del cemento dal diametro di 2 e dalla lunghezza di 60 metri circa (definito dalla stampa quotidiana
«un “mammuth” della tecnica»73) che la Breda aveva costruito per uno stabilimento di Gubbio.
Come concepisce il progetto Luciano Baldessari? La soluzione più immediata che gli si presenta
è quella di riutilizzare quanto lasciato dalla precedente esposizione: due pareti di cemento larghe
8 metri circa e alte 16. Inoltre, il forno rotativo di 260 tonnellate gli suggerisce «una delle più geniali
architetture pubblicitarie finora escogitate»74. L’idea è che il pubblico possa penetrare nel prodotto,
per conoscerlo a fondo e, allo stesso tempo, possa rimanere coinvolto in un rito collettivo di
partecipazione, oltre che di adesione condivisa al senso del lavoro siderurgico. Baldessari scrive:
«Dovevo esporre un forno rotativo; vi penetrai come in un tunnel, e mi nacque allora l’idea di
incanalarvi il pubblico. Rifiutai la retorica dei fotomontaggi e delle didascalie, per arrivare ad un
linguaggio più immediato, capovolsi tutti i preesistenti concetti espositivi fondendo in unità espressiva
scultura e scenografia, funzionalità e fantasia»75.
Sospesa nell’aria grazie a leggeri supporti, una lunga e stretta passerella in cemento armato –
che attraversa i due setti paralleli già esistenti, su cui spicca il nome della Breda – invita allora alla
passeggiata il visitatore che con due curve e una leggera pendenza viene portato a 6 metri circa dal
livello del suolo. Qui si penetra all’interno del forno (inclinato allo stesso modo che avrebbe avuto nella
fabbrica e poggiato su solidi supporti di cemento armato) e lo si percorre per l’intera lunghezza
potendo ammirare i pannelli fotografici lungo le pareti. Suggestionato dalla visione della conduttura
ruotante su cuscinetti attraverso la quale il materiale sarebbe passato per una fortissima fiamma
disgregatrice, il visitatore – secondo il progettista – poteva immaginare il funzionamento della
macchina e il calore ottenuto da carbone polverizzato, nafta oppure metano pari a una temperatura
di 1400 gradi immesso all’imboccatura opposta76.
Grazie proprio alla potenza icastica del forno dipinto in blu cobalto77, l’immagine complessiva
del padiglione viene assunta in questi mesi dagli operai in lotta come emblema del loro lavoro in
fabbrica78.
Come cornice al percorso, Baldessari concepisce una forma astratta aerea, illuminata
al calar del sole in modo da lasciare sullo sfondo il forno in ombra. Immagina un nastro nello spazio
da realizzare in cemento armato, che invece viene poi realizzato in sette giorni con una struttura
metallica saldata e ricoperta di rete e intonaco.
24
La costruzione dell’intero padiglione è portata a termine in quaranta giorni. Un periodo necessario
per creare un «un linguaggio – come scrisse Baldessari – di una Architettura nello spazio, dove,
in comune con le altre Arti, Scultura e Pittura, si esaltano e drammatizzano scenograficamente, e idea
ed espressione»79. Già al centro degli incontri dei Ciam (Bridgewater 1947, Bergamo 1949),
il “problema” della collaborazione o, meglio, sintesi, fra architettura e altre arti, era stato del resto
risolto da Baldessari, negli stessi mesi in cui predisponeva il padiglione, anche in occasione degli
allestimenti ideati per la IX Triennale80. Come ha messo in luce Fulvio Irace, l’architetto sa creare
una «sinergia tra le varie forze espressive», che trova nella sistemazione degli ambienti d’ingresso
una esemplare testimonianza81.
«Quello che desideravo mettere in evidenza – dichiara Baldessari a Gillo Dorfles a proposito
dell’allestimento della Triennale del 1951 – era la necessità della sottomissione di pittori e scultori
ai voleri dell’architetto. Qui, quello che contava era l’impostazione architettonica delle sale, poco
importava di quali opere figurative o non figurative si trattasse, purché queste opere fossero
inquadrate a dovere nell’ambientazione generale»82. Dorfles rileva come Baldessari “da buon
scenografo” si sia preoccupato in particolar modo di considerare l’ingresso, lo scalone e l’atrio del
Palazzo dell’Arte come “una gigantesca scenografia”83. Un intento riuscito là dove sono coinvolti –
secondo Dorfles – artisti dallo «spiccato senso decorativo». Va ricordato che il soffitto viene
interpretato da Lucio Fontana con il celeberrimo segno gestuale del Cirro luminoso, il tubo al neon
ispirato a un lazo argentino, che «crea una piacevole sensazione spaziale utilizzando l’elemento
luminoso e plastico». Non sempre risultano appropriati gli accostamenti di talune opere d’arte:
agli occhi dei critici contemporanei i lavori di alcuni contrastavano con quelli di altri84. Ma al di là delle
valutazioni coeve e delle occasioni colte dai singoli – Fontana ad esempio vedrà il momento adatto
per promuovere (sostenendone la primogenitura) il manifesto del movimento spaziale85 – l’aspetto
significativo della collaborazione tra architetto e artisti-intellettuali nell’esposizione milanese permette
di misurare il portato delle invenzioni di Baldessari nei disegni di studio a oggi pervenuti relativi a ogni
singolo padiglione della Fiera.
Nell’anno in cui Gillo Dorfles pubblica il Barocco nell’architettura moderna, Baldessari si avvicina
alle sperimentazioni di Alexander Calder (da lui conosciuto a New York), ma soprattutto alla pittura
gestuale americana e alla poetica delle linee-forza dell’amico Fontana. I tratti informali che appaiono
sui suoi fogli da lavoro sono leggibili come potenza dell’automatismo del gesto della mano che
25
Padiglione Breda alla
Fiera di Milano, 1951.
Luciano Baldessari
davanti al padiglione
Breda alla Fiera di Milano,
1951.
Luciano Baldessari con
Marcello Grisotti, Erminio
Gosso e Giorgio Grando
alla Fiera di Milano, 1951.
Bozzetto per Il Campiello
di Carlo Goldoni, 1944.
Bozzetto per Pelléas
et Mélisande di Claude
Debussy, 1941-44.
C.A.S.V.A. IV.A.4a
Prove colore per
il padiglione Breda alla
Fiera di Milano, 1951.
Studio per un Tetiteatro,
1952.
Dettagli del padiglione
Breda alla Fiera di Milano,
1952.
26
27
concretizza forme inedite. Cogliendo una suggestione prodotta dai nastri trasportatori presenti nelle
acciaierie della Breda, l’architetto sovrappone, fa scorrere, talvolta interseca, le linee generate dalla
matita alla ricerca di una sequenza di tensioni coerenti. Come emerge nei disegni del C.A.S.V.A.
contrassegnati dalla sigla IV.A.2 (vd. pp. 65-67), da leggere in successione e non in forma autonoma,
l’elaborazione progettuale rincorre soluzioni convincenti: il nastro si piega, si curva, taglia lo spazio,
attraversa le due lame preesistenti con una chiarezza disarmante. Illuminata dal basso e proiettante
luce dai faretti immaginati in diversi punti (sostituiti nell’opera realizzata da neon predisposti lungo
tutta la superficie inferiore), la fascia più volte schizzata, anche nello stesso foglio, fissa l’idea
generatrice del progetto, costante dall’inizio alla fine. Baldessari sperimenta i difformi gradi di
approccio al tema, mediante solchi e tracciati, per individuare le regole del movimento. In tal senso,
il tempo di percorrenza era basilare per la buona riuscita della messa in scena, e nei disegni appaiono
precisati gli assetti curvilinei, tanto del nastro quanto della passerella che conduce al forno.
Ma la lunga rampa si presenta nei fogli di lavoro non tanto come pura forma, quanto come
concezione statica. Intuitivamente l’architetto schizza soluzioni alla ricerca di quella perfetta, la sola
che avrebbe permesso “quel tempo” di osservazione dell’oggetto esposto. Come Frank Lloyd Wright
nel Guggenheim Museum, egli sperimenta il sistema di far contemplare degli oggetti mediante
il movimento86. Avvalendosi anche degli elementi “di risulta” della precedente esposizione,
nel padiglione del 1951 Baldessari procede a una manipolazione simile al trattamento cubista
dell’objet trouvé che introduceva nell’opera un materiale, una forma, un contenuto diverso.
1952: un fiore sbocciato all’improvviso
Eppure la lunga fila dei visitatori curiosi – che si accalcano sulle passerelle piuttosto che nei percorsi
obbligati, non solo nei giorni dell’inaugurazione della Fiera, incalzati dal richiamo pubblicitario proveniente
dalle curiose ed eccentriche forme – non si deve solo alla spettacolarità del padiglione, ma anche al modo
sorprendente in cui era sorto tale gioiello strutturale. A questo punto è necessario analizzare anche
il diverso ruolo dei collaboratori. Per i quattro padiglioni Breda, Baldessari chiama a collaborare, come
abbiamo visto, il giovane ingegnere e architetto Grisotti, segnalatogli dall’amico pittore Adriano di
Spilimbergo, e gli architetti e ingegneri Giorgio Grando, Erminio Gosso e Giovanni Vespignani dell’Impresa
Morganti, i quali – insieme a Giuseppe Dal Monte della Breda e agli artisti Fontana, Rossi e Milani –
avranno non poco peso nella realizzazione della sue coraggiose ideazioni. È sempre difficile comprendere
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Veduta aerea della Fiera
di Milano, 1952.
Luciano Baldessari
e Marcello Grisotti alla
Fiera di Milano, 1952.
Veduta aerea del
padiglione Breda alla
Fiera di Milano, 1952.
Studi per un Tetiteatro,
1952.
Dettagli del padiglione
Breda alla Fiera di Milano,
1952.
Max Bill, costruzioni
di anelli circolari, 1947-48.
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il ruolo giocato dai collaboratori, tecnici e artisti coinvolti nel progetto. Il contributo dello staff degli
ingegneri appare evidente guardando le straordinarie fotografie scattate nei diversi cantieri nel corso
degli anni per documentare le fasi di posa in opera nei tempi stretti delle realizzazioni.
In particolare, il padiglione del 1952, il «fiore sbocciato all’improvviso sull’area della Fiera»87,
impegna per giorni e notti il lavoro delle squadre dei tecnici della Breda e dell’impresa di costruzioni
Morganti88. Diretti da Baldessari con Gosso, i lavori iniziano il 1° marzo e si concludono in quarantadue
giorni. Dal punto di vista statico la struttura si presenta alquanto complessa. Va tenuto presente che
la XXX Fiera di Milano si inaugura il 12 aprile 1952 con sorprendenti novità89. Tra queste un bacino
d’acqua trasformato in un porto con barche a vela e a motore, utile per esibizioni di sommozzatori
o di pesca subacquea, che nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto fondersi proprio con il padiglione
Breda, «riprendendone e accentuandone l’elegante fluidità lineare». Dato che l’ipotesi di unire i due
spazi si rivela impraticabile, si decide di realizzare la coclea dalla quale si dipana per 160 metri il nastro
che si distacca dal piano orizzontale sul quale era rappresentata la vita delle nuove società collegate.
Costituita da un’ossatura metallica formata da quaranta costole con struttura a traliccio per
cinquanta tonnellate, e rivestita con reticolo e intonaco Stauss, la coclea – massima espressione della
compiuta fusione tra spazio interno ed esterno, tra Innen e Aussen direbbe Dorfles – nella sua parte
centrale raggiunge i 18 metri di altezza con uno sbalzo di 8, ed è illuminata dal basso da potenti riflettori.
Assai difficoltosa è la soluzione del nastro per la notevole luce delle campate, per l’irregolarità degli
appoggi, per la necessità – volendo esprimere il senso della leggerezza – di contenere lo spessore del
nastro stesso entro i circa 25 centimetri. Inoltre, la striscia avvolgente doveva apparire non sostenuta,
ma semplicemente appoggiata sui muri laterali e posata «con quella naturalezza di svolgimento
di forme plastiche che il libero giuoco delle forze fa assumere ad un materiale elastico»90. Per ottenere
tale naturalezza, studiata con un modello in scala 1:50, era fondamentale creare un sistema labile,
da irrigidire in un secondo tempo, nel quale fosse possibile operare gli spostamenti e le correzioni
indispensabili. Tale sistema era costituito da quattro tondini di acciaio del diametro di 35 millimetri,
disposti lungo i quattro spigoli del nastro e poggianti su altrettante “selle” collocate agli spigoli di
diaframmi metallici, messi a distanza variabile uno dall’altro normalmente alle superfici esterne del
nastro stesso, in modo che, conservando invariata la sua sezione, questo avrebbe potuto avere la libertà
di assumere qualsiasi posizione nello spazio. Una volta presa la forma voluta, i tondi vennero saldati alle
selle e si provvide alla necessaria controventatura dei diaframmi. Anche per la lunga striscia venne
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impiegato il graticcio Stauss con intonaco di cemento quale materiale di rivestimento. Come nelle opere
dei suoi amici artisti, anche nel caso dei padiglioni di Baldessari l’utilizzo di tecnologie fino ad allora
poco sfruttate assume un notevole valore, giacché uno dei fattori più interessanti dei progetti
è costituito da soluzioni costruttive sorprendenti, nate dal connubio tra universo dei materiali
e coscienza del loro uso effimero. Per questo motivo, il rivestimento con il graticcio Stauss venne
scelto per la malleabilità e la rapidità, oltre che per il costo contenuto e per l’economia di spazio
e di peso. Peraltro, questa tecnica consentiva la realizzazione di strutture reticolari completamente
monolitiche, adatte a garantire elevate prestazioni di stabilità mediante la solidarietà tra opere
orizzontali e verticali con le strutture portanti91. Costituito da una rete di fili di acciaio ricotto e protetto
da ossido carbonioso disposti a maglia quadrata al cui incrocio era collocato un elemento laterizio,
il graticcio si prestava anche per le sue caratteristiche di resistenza al fuoco92.
La presenza dello specchio d’acqua antistante, destinato alla mostra nautica, in qualche modo
frena anche l’iniziale intenzione di far sorgere «il fantastico giuoco di linee» dall’acqua stessa,
che avrebbe potuto dar vita e forma a un’idea ispirata al Tetiteatro, concepito nel 1923 dal pittore
Alberto Martini.
In un’intervista rilasciata molti anni dopo, Baldessari dichiara di aver reso omaggio all’artista
conosciuto nel salotto milanese di Jennie Mazloun e al suo teatro sull’acqua. Lontano tuttavia dal
simbolismo di Martini, il padiglione avrebbe incarnato nel tema del doppio – quello dell’architettura
e del suo riflesso – la specificità di una messa in scena nella messa in scena, la cui forza risiedeva
proprio nel gioco dei rimandi tra attore e spettatore. Ma per individuare altre convincenti fonti visive
di riferimento che contribuiscono alla realizzazione di un’equivalenza plastica «concepita – come
scrive Baldessari – nella purezza delle parabole, delle iperboli, delle concoidi»93, accanto alle
suggestioni grafiche che riconducono alla sua attività di artista-scenografo, è necessario considerare
anche le influenze esercitate dalle forme dell’anello di Moebius come dalle sculture di Lucio Fontana
(ricordiamo, ad esempio, il cono rovescio avvolto su se stesso per il Monumento a Giuseppe Grandi
dei primi anni trenta94) o di Max Bill (si pensi ai motivi plastici astratti del 1936 e alle sperimentazioni
nastriformi del 1947-48) 95. Del resto, proprio tale familiarità con le altre arti dovuta alla sua formazione,
alle esperienze tedesche e americane, nonché alle sue cosmopolite frequentazioni, sebbene allontani
Baldessari dai coevi “schieramenti architettonici”, come è stato giustamente sottolineato da Amedeo
Belluzzi e Claudia Conforti, farà ampliare il patrimonio formale da lui acquisito96.
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Walter Molino, copertina
de «La Domenica del
Corriere», 13 aprile 1952.
Progetto per il
Monumento all’Aviatore,
New York 1945.
Fucili da caccia e da tiro
“in movimento” all’interno
del fabbricato
permanente Breda
alla Fiera di Milano, 1952.
Osservandoli in successione, i disegni eseguiti nel 1952 – tanto quelli pervenuti quanto quelli
dispersi ma noti grazie alle riproduzioni fotografiche – sembrano concepiti per stupire, data l’energia
da cui la forma del padiglione è pervasa. Pronti per essere incorniciati o regalati ad amici, come del
resto in molti casi avvenne, gli arabeschi per la Breda si caratterizzano per una assoluta essenzialità:
il segno è dinamico e teso, il ductus spesso e deciso. Ben più che di meri schizzi, si tratta di disegni
tracciati da un artista esperto, che dispone, affianca, talvolta contrappone, le soluzioni delineate con
una sintesi senza eguali, tanto che alcuni di questi abbozzi sono da lui stesso replicati per farne
variamente omaggio. Applicazioni della luce, studio dei colori, indagini sulle azioni da indurre si
delineano, di tanto in tanto a margine, prendono corpo senza assediare i fogli con note, appunti, scritte
sovrabbondanti. Al pari della luce come “segno” nello spazio di Fontana, la forma avvolgente disegnata
da Baldessari scorre sulla carta, già concepita per essere proiettata nelle tre dimensioni. In relazione
ai motivi dello spazialismo e alla “riduzione a concetti di un’idea”, tipica dei fenomeni artistici che
si sarebbero di lì a poco manifestati (dalla pop art all’arte concettuale), la configurazione della coclea
avviluppata insiste sull’interazione arte-architettura con un semplice (dal punto di vista teorico)
quanto difficile (sul piano pratico) contrappunto estetico. Come risultato, le figure complessive leggibili
negli elaborati cartacei appaiono in sintonia con il côté emozionale indotto nei visitatori del padiglione.
È stato sottolineato come la decisione di rendere protagonista la linea spiraliforme sia
concettualmente analoga a quella assunta anni prima, allorquando Baldessari traccia segni veloci
sui suoi fogli (Nudo, 1915) o schizza le soluzioni per il già ricordato allestimento della Mostra della seta a
Villa Olmo a Como. Ma si potrebbe aggiungere, in questa ricerca di coerenza, anche l’idea del movimento
insita tanto nel manichino-lampada Luminator, come appare nei bozzetti del 1926, quanto nelle esili figure
delineate nei disegni per la Danse macabre o per il Teatro della Moda, entrambi del 1928, e nelle spirali
metalliche porta-rose, arrotolate intorno a colonne e colonnine negli spazi aperti del complesso
industriale Italcima a Milano (1932-39) e della casa della Madre e del Bambino di Brescia (1935-37).
È possibile inoltre osservare la medesima linea che ritorna, gira su se stessa, si distende per poi
dilatarsi in altezza negli studi eseguiti a New York per il Monumento all’Aviatore (1945); in questa
occasione, la china acquerellata scorre fluida sulla carta, si segmenta nelle volute delle traiettorie
acrobatiche che si piegano fino ad assumere la forma di archi paraboloidi. Accostando l’immagine
dell’arco di Adalberto Libera immaginato per l’E 4297, a figure filiformi volanti ispirate alle sculture della
cara amica Mary Callery, Baldessari riflette sul dialogo tra le forme e il movimento, nella sua non
metaforica bensì concreta rappresentazione. Che fossero sospese in volo o galleggianti su aeree
passerelle, le silhouettes disegnano lo spazio che le circonda come accade nei bozzetti da lui realizzati
per il Pelléas et Mélisande (1941-44) di Claude Debussy, dove si assiste negli scenari al rifiuto dell’unità
di tempo e di luogo98, o per Il Campiello (1944) di Carlo Goldoni. Va ricordato come il tema dell’arco
paraboloide fosse presente anche nell’allestimento delle sale dedicate ad “Aviazione e Fascismo”
alla Mostra dell’Aeronautica di Milano (1934), nel bozzetto per il Monumento al generale Roca a Buenos
Aires (1936), e nel progetto per John H. Harris – tra i committenti dell’operazione
San Babila – di una villa alla Giudecca (1936-37).
Cantore della libertà espressiva, Baldessari inventa un’architettura che lo pone sulla medesima
lunghezza d’onda della sua opera pittorica e scenografica, già inserita da Enrico Prampolini nella
corrente de “L’astrazione spaziale plastico cromatica”, quella che «riassume le esperienze e le tecniche
del cubismo e del futurismo e dell’astrattismo»99. Esito non tanto di una riflessione sulla figurazione
scultorea, quanto del riverbero di una sequenza di espansioni e contrazioni plastiche, la forma da lui
modellata per il padiglione del 1952 possiede una forza eloquente che condivide con poche altre
architetture concepite nel dopoguerra in Italia. Stupefatto e al contempo fiero del successo conseguito
dai primi due padiglioni Breda, a conclusione del già citato articolo, Sinisgalli esprimeva l’orgoglio
dell’intellettuale che si inchina alla forza dell’arte, al caos dell’artista: «Abbiamo capito oggi che un
graffio, uno sgorbio possono contenere una carica di emozione pari a quella del segmento o dell’arco,
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che una gruccia ci può piacere quanto una colonna. L’architetto, di fronte ai temi effimeri, può ritrovare
una freschezza che spesso è negata ai retori che lavorano per l’eternità». Sinisgalli concludeva
l’articolo lodando gli architetti e l’industria «che ha accettato una rappresentazione non conformista,
ma coraggiosa della propria rinascita»100.
1953: il “mondo” della Breda
Più che coraggiosa, la scelta per il 1953 si dimostra alquanto ambiziosa nel proporre un ipotetico globo,
simboleggiante quello terrestre pronto per essere conquistato dalla Breda con l’impulso produttivo
di tutte le consociate. Realizzata interamente in acciaio, la struttura viene rivestita con il medesimo
sistema metallico Stauss ricoperto di rete e intonaco. Nella composizione ritorna l’idea di una passerella
che guida la passeggiata; ma stavolta, a differenza del padiglione del 1951, il visitatore, dopo aver salito
una ripida scala, proseguiva il percorso in linea retta, metaforicamente indirizzato verso i mercati
internazionali, e penetrava nel “mondo” Breda, il grande elemento sferico sospeso su cui campeggiava
lo slogan dell’anno. A conclusione del sentiero aereo, la Breda mostrava quanto il suo nome fosse diffuso
sul pianeta grazie alle forniture all’estero, mediante alcuni documentari proiettati nella saletta realizzata
a piano terra nel corpo di testa. Adottando questa soluzione, Baldessari rende esplicita la suggestione
che la sfera tende a esprimere, rimarcando tanto la vicinanza al padiglione Breda ideato da Minoletti nel
1948, quanto la prossimità al Périsphère di Harrison & Fouilhoux da lui ammirato alla New York World’s
Fair del 1939 avente come tema The World of Tomorrow. Ideata in occasione dell’anniversario
dell’istituzione dell’autorità municipale della futura “Grande Mela” e in concomitanza della ricorrenza
dell’elezione di George Washington quale primo presidente degli Stati Uniti101, la fiera nasceva con
l’obiettivo di promuovere e diffondere nel mondo l’ideale americano di “democrazia degli affari”,
attraverso la proposta di un modus vivendi, più che di un sistema politico102. Giunto a New York nel
dicembre del 1939103, Baldessari aveva avuto modo di visitare l’esposizione che vantava padiglioni
spettacolari – da quello della AT&T a quello della General Motors – in grado di coinvolgere il pubblico
con soluzioni originali ed espedienti ingegnosi e brillanti. E se da padiglioni come il Futurama di Norman
Bel Geddes l’architetto italiano apprende la capacità di rendere complice e stupire il visitatore, è
soprattutto dal Périsphère – con il Trylon autentica icona della mostra – progettato da Wallace
K. Harrison & J. André Fouilhoux104, che mutua l’idea – da riproporre nelle dovute ridotte dimensioni –
della sfera penetrabile mediante un ponte sospeso.
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Padiglione Breda alla
Fiera di Milano, 1953.
Luciano Baldessari
davanti al padiglione
Breda alla Fiera di Milano,
1953.
Gli elaborati grafici relativi al progetto del 1953 si contraddistinguono, ancora una volta, per una
completa essenzialità. Varianti e stesure più o meno dissimili vengono messe in sequenza «per arrivare
al mercato mondiale», come riporta una scritta sul foglio IV.A.5i del C.A.S.V.A. (vd. p. 141).
L’inconfondibile stile grafico comunica il senso della fantasmagoria fieristica dove tutto si trasforma in
spettacolo: uncinata, avvolta, circondata da anelli filiformi, legata da un arco paraboloide, la sfera viene
tratteggiata con mano sicura studiandone i disuguali esiti formali determinati dalle diverse traiettorie
disegnate dalla passerella.
Nelle mani di Baldessari la rappresentazione grafica dell’allestimento si trasforma in materia vivente,
che nutre l’atto creativo in sé e conquista una propria autonomia, in modo da stravolgere
completamente le fonti dalle quali era partito il processo di ideazione. L’architetto definisce una vera
e propria poetica non certo basata sulla stratificazione di segni né, tanto meno, sulla decuplicazione
dei suggerimenti formali, quanto piuttosto sulla indeterminazione dei tratti, in cui risulta evidente lo
sforzo teso a fornire delle precise coordinate alle strutture spaziali e volumetriche. Come scrive Enrico
D. Bona: «I disegni di Baldessari, sorretti da una tecnica formidabile, hanno la rapidità e la sicurezza
di chi agisce senza ripensamenti e per puro intuito; il loro svolgimento nel tempo non ha perciò
le caratteristiche della ricerca intesa in senso tecnico o scientifico ma quelle della meditazione continua
ed interiore: ci corrispondono la libertà e il lirismo delle linee continue ed il bianco delle superfici
(il simbolo della purezza e dei valori assoluti cui Fontana – che molto si giovò della collaborazione
di Baldessari – dà il senso delle cose perdute con un semplice gesto)»105.
La specificità dell’approccio di Baldessari risalta in pieno, se si confrontano i due padiglioni
realizzati nel 1953, per la Breda e per la Sidercomit, con quelli degli altri architetti-artisti coinvolti negli
allestimenti nella Fiera dello stesso anno. A differenza, ad esempio, di Mario Bacciocchi e Gianluigi
Giordani nel padiglione Agip-Snam o di Erberto Carboni nel padiglione Montecatini o ancora di Enrico
Ciuti nel suo pur interessante padiglione sull’acqua del Gruppo Finmare106, Baldessari opera un
intervento con lo spazio e nello spazio: egli fissa in chiave poetica – fertile di postille e annotazioni
interlineari – un “testo” che impiega i prodotti da mostrare come “pretesti”.
L’insieme delle parole ideate non è altro che l’embrione di un discorso sui rapporti tra spazialità
interna ed esterna dell’architettura, e valenze simboliche di tale spazialità gravata dalla inevitabile
contingenza effimera. Il corridoio aereo diventa allora il simbolo principale di tanta spazialità
temporanea. Emblema che ritorna l’anno seguente: ma questa volta la passerella diventa tesa come
una corda tirata, così come appare nei disegni approntati per il nuovo allestimento.
1954: un’ala per librarsi nell’aria
Dal punto di vista simbolico, anche il padiglione del 1954 cerca di sostituirsi alla esclusiva
comunicazione icastica delle scritte e delle gigantografie (adottata negli stand allestiti in Fiera dalle
altre aziende), proponendosi esso stesso come messaggio.
Rispetto all’anno precedente è ribaltato il senso di cammino: l’avvio del circuito viene previsto
dal corpo posizionato sulla destra. L’insieme degli elementi architettonici approntati allude ai diversi
periodi di crescita della Breda, con il primo a rappresentare la fase iniziale dell’azienda «tutta tesa nello
sforzo di creare la sua produzione fondamentale»107, il secondo dalla spiccata verticalità a esprimere
il momento in cui l’industria fu pronta ad accogliere ogni manifestazione del mercato allargando
il campo delle attività produttive, il terzo a manifestare – con fotografie collocate lungo il percorso –
lo sviluppo nel tempo della Breda.
Per la costruzione del padiglione, Baldessari riutilizza l’allestimento dell’anno precedente, lasciando
intatto il gruppo passerella, portale e scala di discesa. La novità data dalla grande ala e dal cilindroide
comporta uno studio eccezionale sugli aspetti strutturali, sia dal punto di vista statico sia da quello
del montaggio. Con una superficie biconvessa e una luce di 38 metri, l’ala viene costruita con una
struttura metallica – eseguita con eccezionale rapidità dalle Officine Bossi di Milano – formata da due
36
37
Manifesto della Fiera di
Milano, 12-26 aprile 1954.
Attilio Rossi, grafico sulla
parete nel padiglione
Breda alla Fiera di Milano,
1953.
Harrison & Fouilhoux,
studi per i padiglioni alla
World’s Fair di New York,
1939.
Lo stand Breda alla
World’s Fair di New York,
1939.
Padiglione Sidercomit
alla Fiera di Milano, 1953
(in costruzione
e terminato).
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briglie e da tre longheroni longitudinali a traliccio, disposti secondo i piani radiali della doppia
superficie. Questi elementi sono collegati da una struttura trasversale formata da centine a traliccio
con i correnti che riproducono le generatrici delle due superfici dell’ala. Decantandone i meriti sulle
pagine di «Costruzioni metalliche», l’ingegner Fabrizio De Miranda analizzava il funzionamento della
doppia superficie in lamiera irrigidita con angolari saldati lungo le isostatiche di compressione per
evitare fenomeni di instabilità locale. Tale doppia superficie era necessaria per collegare e irrigidire
le membrature, oltre che per collaborare «all’assorbimento delle azioni tangenziali dovute al taglio
ed alla torsione creata dall’eccentricità dell’asse di torsione rispetto a quello baricentrico. Le reazioni
trasversali e di torsione sono poi riportate, attraverso due timpani rigidi costituiti da una lamiera
interamente irrigidita da costole, che assicura l’indeformabilità delle sezioni d’imposta, su due
strutture turriculari mascherate, l’una dal concoide, l’altra dalla parete del lato sud»108.
Completamente elettrosaldata, la struttura viene eseguita in officina e spedita in Fiera in tronchi
giuntabili a piè d’opera delle dimensioni di 4 x 8 metri. Una volta effettuato il collegamento dei vari
tronchi si procede al sollevamento con falconi e argani elettrici, mediante imbragatura in
corrispondenza dei timpani di estremità. Tutta l’operazione viene eseguita in alcune ore. Ancorata da un
lato alla struttura metallica preesistente e dall’altro al portale inserito all’interno del cilindroide, l’ala
pesa circa 30 tonnellate. Raggiungendo la quota di 21,5 metri di altezza, il cilindroide viene concepito
con una serie di mensole verticali a traliccio, autoportanti, disposte a raggiera, i cui montanti
costituiscono, verso l’intradosso, le generatrici della forma interna avente per base una spirale
logaritmica, e verso l’estradosso quelle del cilindro esterno. Opportunamente disposta, una orditura di
collegamento viene montata per la controventatura delle mensole e per il sostegno del graticcio Stauss,
ricoperto ovviamente di malta di cemento. Impiegato in maniera raffinata, ancora una volta il sistema
costruttivo viene piegato alla volontà dell’architetto.
Nelle numerose immagini scattate in cantiere appare lo stato di sospensione e di tensione della
forma, abilmente eternato nei disegni autografi. In alcuni schizzi, infatti, è interessante osservare come
Baldessari stia ragionando sulle forme concavo-convesse allacciate mediante passerella aerea alla
struttura preesistente: disegnando ardite conformazioni plastiche animate dalle piccole silhouette,
elementi essenziali della composizione, più che dalla lezione di Le Corbusier, che pure evoca,
egli sembra attratto dalla ricerca sulle strutture paraboloidi e iperboliche in questi anni portata avanti
da un nutrito gruppo di brillanti ingegneri e architetti come Candela, Torroja, Dieste. Le prime ipotesi
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C.A.S.V.A. IV.A.7d
C.A.S.V.A. IV.A.7a
Padiglione Breda alla
Fiera di Milano, 1954.
Plastico della Campana
dei Caduti a Rovereto,
1961-64.
Studi per il padiglione
Breda alla Fiera di Milano,
1955.
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proposte sulla carta trovano riscontro nella fase avanzata della progettazione: i tratti inconfondibili
della penna di Baldessari registrano la volontà di costruire un corpo plastico piegato, che può essere
letto come anticipazione del progetto di concorso ideato per la Campana dei Caduti a Rovereto (196164). Mettendo in relazione le forme delle architetture espositive della Breda e per la Fiera di Milano con il
progetto per la centrale di San Floriano-Egna sull’Avisio (1954-55), Fulvio Irace ha sapientemente
definito il senso delle sue “strutture a guscio”, come l’immagine dell’«ardito librarsi nell’aria di una
“forma invitante”»109.
Va detto che, depurato dall’idea del coinvolgimento fisico dello spettatore, il padiglione, con alcune
modifiche, sarà riproposto l’anno seguente, quando la scala di accesso alla passerella viene sostituita
con un immenso compasso, e “ridecorata” la parete di sinistra. Il predominio dei prodotti industriali
viene stavolta chiaramente asserito e lo spazio architettonico funge da mera cornice. Non basterà
lo slogan scelto – «Coerenze strutturali» – di per sé impregnato di suggestioni materializzabili, a frenare
l’abbandono della componente spettacolare presente nei padiglioni degli anni precedenti. Con il 1955
si conclude l’esperienza delle “plastiche pubblicitarie”, ma non il rapporto di Baldessari con la Breda.
Oltre agli allestimenti fieristici, ideati come vedremo fino al 1961, tra gli interventi eseguiti per l’industria
di Sesto San Giovanni si segnalano anche le sistemazioni degli interni del grattacielo in piazza
Repubblica a Milano (1955-56) e dell’ingresso degli stabilimenti a Saronno (1957), nonché la
realizzazione dei cancelli, della portineria, delle pensiline e delle scritte segnaletiche per gli stabilimenti
di Sesto San Giovanni (1955-60)110.
Comunque, proprio a partire dal 1955, consolidata l’immagine dell’azienda, si assiste a una svolta
nel modo di presentare i prodotti: come accade anche per altre industrie presenti in Fiera (ENI-Agip,
Montecatini), oltre al ricorso alle ultime esperienze dell’arte contemporanea, ci si affida a principi quali
«ordine, chiarezza, coerenza, logica, obiettività» che diventano i presupposti del lavoro degli architetti
coinvolti negli allestimenti. Non occorre più solo sbalordire. Sostenendo quanto l’originalità debba avere
radice nei valori dei prodotti esposti, Mario Ballocco affermerà nel 1957: «Nel corso di una trattativa
commerciale, si usano forse argomenti tortuosi, frasi ampollose e citazioni petrarchesche o
dannunziane? […] Tendere alla linearità funzionale e al concetto unitario, senza indulgere a superficialità
od artificio, non vuol dire affatto favorire la monotonia; al contrario significa abbandonare un comodo,
insipido gusto eclettico precostituito – quindi anonimo e standardizzato – per esaltare, con
la personalità di ciascuna industria, la più estesa varietà»111.
Allestimenti silenziosi e altri progetti per la Fiera di Milano
È possibile dunque osservare, proprio con il padiglione Breda del 1956, come il rigore –
presente anche in numerosi altri allestimenti di quell’anno – sia la componente
imprescindibile del progetto, a vantaggio di una maggiore comprensione delle macchine
oggetto di attenzione. Si trattava di rendere visibile, mediante una messa in scena
“silenziosa”, i prodotti della siderurgia: non più oggetto “vivo” da innalzare, varcare e
percorrere come nel 1951, il grande forno era appoggiato al suolo, i frigoriferi in fila
addossati alla parete e i complessi delle caldaie sistemati in semplici aiuole; un modo
laconico di organizzare i componenti industriali, accentuato dalla nuda parete su cui
spiccava unicamente la scritta Breda. L’obiettivo era di mettere in mostra l’insieme degli
elementi nella loro fierezza, da sola capace di conquistare
i mercati mondiali come evidenziava un diagramma del pittore cartellonista Franco Mosca.
La ricerca di una potente valenza espressiva veniva sacrificata a favore di una più dimessa,
ma non per questo meno raffinata, tendenza all’essenziale. La scelta dell’azienda era chiara.
Non più articolati sistemi di rappresentazione, ma allestimenti comprensibili, didascalici,
rigorosi. Per tale motivo, probabilmente, viene scartata la soluzione del 1957 – in cui a un
complesso sistema di telai intrecciati si sarebbero ancorati degli elementi tesi destinati
a reggere i pannelli riportanti l’effige del cavallino rampante – a favore di un allestimento
“neutro” più logico e intelligibile. Il progetto non realizzato per il padiglione del 1957 richiama
alla memoria quanto scritto vent’anni prima da Mario Labò in un articolo dedicato agli
Edifici pubblicitari alla Fiera di Milano; in riferimento alle straordinarie costruzioni
pubblicitarie Chatillon e Raion realizzate da Bianchetti e Pea nel 1939, scriveva:
«La tessitura di pilastri e travi, senza pareti, allude appena a un grande impianto industriale,
col suo fantasma. In basso, due scatole di cristallo conterranno, come un alambicco,
il prodotto di quell’impianto. Graticcio in controluce, di giorno, sul cielo chiaro, di notte
l’orditura assume un aspetto irreale, con le volte riverberanti sui rettangoli bianchi e neri»112.
Nel caso del padiglione Breda si sarebbe configurata una narrazione spaziale fatta di aeree
vibrazioni: non solo i rimandi alle eleganti visioni degli allestimenti di Bianchetti e Pea
oppure di Albini, ma anche il riferimento ai modi di concepire lo spazio che furono di Persico
e Nizzoli, o di Luigi Gargantini nel castello pubblicitario Pirelli alla XXIX Fiera di Milano113,
41
Padiglione Breda alla
Fiera di Milano, 1955.
42
si compongono nell’immagine evocata da Baldessari. Accanto ai consueti prodotti di punta, l’anno
seguente è il nuovo treno Trans Europ Express a fungere da agente attrattore. L’area a disposizione
viene interamente occupata dal treno e non resta nemmeno lo spazio per impiantare strutture
scultoree fatte con le aste di perforazione come accade invece nei due allestimenti successivi del 1959
e del 1960. E se nel primo, davanti alla elettromotrice su pneumatici, con un elemento plastico
Baldessari richiama la sala dell’iconografia alla mostra di Leonardo tenutasi nel 1939, nel secondo con
l’evocazione di una piramide fatta solo con le aste celebra esclusivamente le attrezzature petrolifere
Breda dando assoluto risalto ai singoli prodotti della siderurgia. Nel 1961, le medesime aste incrociate
reggeranno un globo costituito da una rete metallica.
A differenza di quanto accadeva nei primi anni cinquanta, ormai la tendenza a realizzare costruzioni
meramente pubblicitarie lascia il terreno a sobrie esposizioni di campionari. Mutate richieste del
gruppo dirigente, ma anche l’adozione di diverse strategie di marketing possono spiegare questi ultimi
allestimenti della Breda, oltre alla questione spinosa, e di lunga data, degli elevati costi per strutture
architettoniche “non direttamente utilitarie” e per giunta dalla vita breve114. Non a caso, nel 1963
saranno motivi economici alla base della mancata realizzazione del padiglione Breda, secondo le idee
di Baldessari, alla Fiera del Levante di Bari115. Invitato da Pietro Sette alla progettazione di «un’opera
prestigiosa», Baldessari studia una soluzione che in corso d’opera viene pesantemente modificata dai
collaboratori locali Cirielli e De Vita, per le continue richieste dei dirigenti della Breda (Musaio Somma,
Cenni). Nello specifico, la fantasiosa soluzione a traliccio metallico proposta da Baldessari per la città
pugliese risulta per la committenza alquanto onerosa, soprattutto perché è necessario provvedere
in futuro ad aggiunte dispendiose. Per tale motivo, si accetta la proposta dell’architetto
e dell’ingegnere baresi di realizzare soltanto il corpo funzionale e la sistemazione del piazzale.
Del resto, la Breda aveva già deciso, per motivi economici, di procrastinare all’anno successivo
la costruzione della palazzina uffici. Definito ironica parodia di una porta monumentale116, il padiglione
non realizzato si caratterizzava – come annotato da Baldessari – per il suo “ingresso spettacolare”,
tanto da diventare traccia simbolica della presenza dell’industria e al contempo segno imprescindibile
all’interno della Fiera di un legame con il mare. Nastro piegato dal vento, il grande arco che sarebbe
stato innalzato in cemento armato per 10 metri e in graticcio Stauss per il resto dell’altezza dei
38 metri, introduceva allo spazio espositivo all’aperto e al padiglione vero e proprio contenente, oltre
alla sede permanente degli uffici della Breda, la sala per le esposizioni, la biglietteria della Fiera e un
43
preesistente ufficio postale. Seguendo le indicazioni di Sette, l’architetto concepisce un’immagine,
più che un’idea, mediante – come egli stesso appunta – «un atto di energia che nasce da un atto di
rispetto di stima e di amore»117. Un’energia esplosa nella forma plastica della struttura nastriforme,
ma già presente nella prima idea concepita al momento in cui riceve l’incarico: Baldessari aveva infatti
ipotizzato «una casa favolosa, fantasiosa, spettacolare tutta di vetro»118. Anzi, pensando ai materiali
vitrei da esporre della Società Italiana Vasto, scrive: «Vetro! Il canto del vetro! Passeggiate strane
di visitatori in paesaggio surreale, ricco di luci misteriose, di specchi allucinanti: il tutto esaltante
il nascituro, nuovo complesso. Deve essere il trionfo del vetro».
I ripensamenti dovuti, come abbiamo visto, ai desiderata della committenza, portano alla parziale
realizzazione del complesso119. Scomparsa qualsiasi ipotesi plastica a favore di una scialba copertura
piana, su tre livelli e per una superficie di 3000 metri quadrati, il padiglione infine costruito – e non più
riconosciuto da Baldessari – presentava una vasta rassegna della produzione delle ormai trenta
società appartenenti alla Finanziaria Ernesto Breda. Concepito per consentire la visione dei prodotti
esposti nel piazzale (dalla locomotiva Diesel elettrica alle valvole di regolazione fabbricate dalla
Pignone Sud), il percorso probabilmente studiato dall’architetto trentino – tra un plastico dello
stabilimento Italperga di Barletta e il campionario delle lastre di vetro della fabbrica di Vasto – venne
considerato uno degli aspetti più originali del progetto120.
Al di là dei lavori per la Breda, Baldessari ha modo intanto di instaurare un proficuo rapporto di
collaborazione con la Fiera. Grazie all’amicizia con Michele Guido Franci, segretario generale dell’Ente,
ottiene l’incarico di progettare alcuni interventi per il complesso espositivo. Fin dal 1951 Franci
dimostra stima verso l’architetto e le sue visioni architettoniche, tanto che a proposito della “fontana
magnifica” proposta da Baldessari gli scrive che: «Dovrà attendere ancora, ma la sua attuazione
rimane sempre nel mio programma futuro; e volentieri la interpellerò per questo o per altri progetti
che andranno maturando con il tempo»121. Di parola, il 16 febbraio 1957 Franci incarica l’architetto di
ideare il “Grande Padiglione”, un vasto progetto da realizzare tra porta Giulio Cesare e porta
Meccanica122. Nella minuta di una lettera inviata da Baldessari a Franci, conservata tra le carte
dell’archivio, si legge: «Il suo riconoscimento e la sua stima mi offrono la possibilità, in questa sua fiera,
per me palestra di giochi e di invenzioni, di concludere un ciclo che vuole proprio sfociare in un nuovo
mondo – suo e mio – ricco di allegria, di festosità, di vitalità. Quanto le presento è un’idea, non “l’idea”;
il suo consiglio la renderà perfetta. Seguii logica, semplicità di costruzione, sfruttamento di spazio»123.
44
45
Padiglione Breda alla
Fiera di Milano, 1956, 1957,
1959 (a sinistra, dall’alto
verso il basso); 1956,
1958, 1960, 1961
(a destra, dall’alto verso
il basso).
Plastico del padiglione
Breda alla Fiera di Bari,
1963.
Studio per il padiglione
Breda alla Fiera di Bari,
1963.
C.A.S.V.A. IV.A.14n
C.A.S.V.A. IV.A.14c
C.A.S.V.A. IV.A.14f
C.A.S.V.A. IV.A.14m
Studi per un padiglione
alla Fiera di Milano, 1957.
Modello di studio per
un padiglione alla Fiera
di Milano, 1957.
C.A.S.V.A. IV.A.14l
Appunti relativi
al progetto di un
padiglione alla Fiera
di Milano, 1957.
46
47
C.A.S.V.A. IV.A.16a
C.A.S.V.A. IV.A.16e
C.A.S.V.A. IV.A.16l
Contenente attrezzature di servizio e diversi padiglioni per la Fiera, il complesso – concepito con
la collaborazione dell’architetto Maria Pia Matteotti e dell’ingegner Ernesto Saliva – sarebbe dovuto
sorgere nell’area occupata dai padiglioni Breda e avrebbe assunto un carattere permanente.
Intersecando «un libero gioco di volumi» insieme al «contrappunto di fantasiose pensiline»124,
Baldessari ci pone di fronte alla inidoneità degli strumenti interpretativi a nostra disposizione.
Nella sua arte l’architetto dimostra sempre grande attenzione e rispetto per le libere espressioni della
fantasia. Per Baldessari il carattere, il linguaggio, i tipi compositivi e le convenzioni sono sempre
fortemente radicati nella capacità di cogliere l’“invenzione”. Guardando i suoi disegni (e in particolare
questi del 1957), non si percepisce mai un senso di inferiorità verso i maestri dell’architettura passata
e presente, alla quale egli comunque si ispira, producendo opere basate non tanto sull’imitazione
quanto sul dialogo. Nello specifico instaura un confronto dialettico con Le Corbusier. I disegni che
Baldessari elabora nel 1957 sono un evidente segno di questo confronto: la chiesa di Notre Dame
du Haut a Ronchamp – largamente illustrata sulle riviste di architettura (basti pensare che in un solo
numero la «Casabella» di Rogers le dedica circa una trentina di pagine)125 – è più che evocata
o semplicemente citata. Al pari di quella di Le Corbusier, la composizione che egli delinea per la Fiera
è tutta un gioco di curve e controcurve, di concavità e di convessità, di ombre proprie e di ombre
portate. Alcuni schizzi sembrano poi un dichiarato omaggio all’«enfiato lenzuolo della copertura»
della cappella di Ronchamp, un manifesto atto di ossequio verso un architetto, che riconosce come
maestro. D’altra parte, cercando un alleato capace di sostenerlo nella sua aspirazione a costruire una
chiesa, nel 1959 Baldessari scrive a Franci: «Sa che fra quelli che ci hanno battuto (e lo dico con
tristezza) c’è proprio un calvinista, un Le Corbusier?»126. Eppure, Baldessari aveva sempre nutrito
un’ammirazione, sebbene conflittuale, verso l’architetto svizzero fin dagli anni trenta, fin da quando
cioè ebbe modo di incontrarlo nel 1934 a Milano, e di accompagnarlo a visitare il palazzo per uffici
De Angeli Frua. Una stima confermata nel 1946, quando ha l’opportunità di ascoltare a New York
una conferenza tenuta presso l’American Society of Planners and Architects and the International
Congress of Modern Architects: in quell’occasione scrive che: «La sua concezione della “Ville radieuse”
ha colmato di entusiasmo la nostra generazione»127.Comunque, il progetto del 1957 non va in porto,
ma Baldessari ha modo ugualmente di realizzare per la Fiera la trasformazione del sotterraneo del
padiglione 19, con portali che denunciano il taglio luminoso inferto ai soffitti delle singole campate.
Due anni dopo, due nuovi lavori impegnano l’architetto: nel 1959, sempre su richiesta di Franci,
48
concepisce la sistemazione della tribuna presidenziale e uno studio per l’ingresso del viale dell’Editoria
con un arco parabolico nastriforme che anticipava, per certi versi, la soluzione per il padiglione barese
del 1963128. In struttura metallica con pannelli rinforzati in graticcio Stauss, il grande arco, indipendente
dai blocchi edilizi esistenti, si sarebbe aperto verso i negozi e verso il viale sistemato con un complesso
di vetrine per esposizione di libri. Queste avrebbero permesso la doppia visione dei materiali esposti
sia all’interno che all’esterno dei portici. Per proporzionare l’altezza delle due gallerie fiancheggianti
i negozi, vengono studiate da Baldessari delle soffittature ribassate con gole luminose129. Inoltre,
per movimentare la passeggiata si prevedono, per dieci campate, delle passerelle, a quota 2,4 metri,
sospese a sbalzo verso l’esterno su pilastri portanti in ferro. In una relazione, datata 10 dicembre 1959,
si evince come in corrispondenza di queste campate, previo smantellamento della parte a sbalzo,
l’architetto abbia previsto l’inserimento di una pensilina trasparente130. Se l’ingresso al viale –
ponendosi come fluente composizione, non priva di sfaccettature, dalla incontestabile espressività –
era giustificato dalla volontà di creare un elemento distintivo tangibile, la sistemazione della tribuna
presidenziale era motivata dal cambio della destinazione d’uso del padiglione curvilineo antistante
l’emiciclo di Giuseppe De Finetti e Pier Luigi Nervi; si trattava, cioè, di trasformare la galleria degli
“antiquari” al piano terra e il grande ambiente del primo piano che avrebbe dovuto ospitare mostre
d’arte131. Elegante invito per la galleria, l’atrio avrebbe dovuto avere anche la funzione di accogliere
le personalità che ogni anno avrebbero inaugurato la Fiera. A questo scopo, vengono aboliti i quattro
pilastri centrali e alle pareti sono applicati pannelli di legno che fanno da quinta alle statue antiche
collocate ai fianchi dell’ingresso e lungo la galleria, mentre al primo piano si realizza un gioco di soffitti
a differenti quote con luce indiretta, per una migliore esposizione delle opere d’arte. Per quanto
riguarda l’ampliamento, Baldessari studia soluzioni in armonia con lo spazio antistante, in modo che
il blocco anteposto al padiglione di Nervi eviti di «invadere disarmonicamente la piazza
danneggiandone le proporzioni», come egli stesso scrive nella relazione di progetto132, e di pregiudicare
la funzionalità dei negozi frontali esistenti. Per questo motivo, il progetto viene ideato anche in
perfetta sintonia con lo spirito delle forme strutturali; la grande sala prevista al primo piano viene
immaginata come innestata all’interno fino ai pilastri a forcella lì presenti, per i quali vengono previsti
dei rivestimenti con pannelli. A questo proposito, per ottenere superfici con un’inclinazione anche qui
adatta all’esposizione dei quadri, l’architetto suggerisce di ricoprire anche le forcelle dei due bracci
di galleria che sarebbero risultati esterni alla sala. All’esterno l’attacco tra il corpo addossato e la parte
49
Studi per un padiglione
alla Fiera di Milano, 1957.
Sistemazione
del sotterraneo del
padiglione 19 alla Fiera
di Milano, 1958.
Studi colore per
la sistemazione del
sotterraneo del padiglione
19 alla Fiera di Milano,
1957.
C.A.S.V.A. IV.A.15m
C.A.S.V.A. IV.A.15g
C.A.S.V.A. IV.A.15n
C.A.S.V.A. IV.A.15i
Studi per l’avancorpo
della tribuna
presidenziale alla Fiera
di Milano, 1959-60.
Modello di studio del
quarto progetto di
ampliamento della tribuna
presidenziale alla Fiera
di Milano, 1959-60.
Piante del progetto di
ampliamento della tribuna
presidenziale alla Fiera
di Milano (prima versione,
maggio giugno 1959;
terza e quarta versione,
settembre 1959).
50
51
C.A.S.V.A. IV.A.17a
preesistente viene risolto con una parete curva, strutturalmente ipotizzata come trave portante della
copertura del nuovo edificio. Sfondo per la piazza, e al contempo invito al padiglione, il blocco ideato
avrebbe mascherato anche il volume retrostante, costituito dall’ascensore già esistente. Tutta la
struttura viene prevista in cemento armato, con travi incrociate che avrebbero portato le solette del
primo piano e della copertura, e che sarebbero state appoggiate solo perimetralmente, proprio perché
sia la sala superiore sia la hall avrebbero dovuto essere libere dagli ingombri dei pilastri.
I fianchi della costruzione vengono risolti con ampie vetrate. Ma se la sistemazione interna ha modo di
concretizzarsi, la realizzazione dell’avancorpo della tribuna – per la quale Baldessari studia diverse
soluzioni133, fino a coinvolgere nel quarto progetto anche Lucio Fontana – resta esclusivamente impressa
sulla carta e immortalata nelle fotografie della maquette realizzata134. Così come del progetto per il viale
dell’Editoria, nonostante il consenso di Franci135 e l’arrivo a un livello di definizione esecutivo136, restano
soltanto i disegni, gli schizzi, il plastico e le immagini di frammenti di modelli in scala 1:1 (peraltro, alcune
di quest’ultime ritraggono un assorto Baldessari che ammira pensieroso la sua opera). Al di là delle
formidabili intuizioni leggibili nei mancati interventi, tanto ambiziosi quanto sfortunati per la Fiera,
sta di fatto che i risultati ottenuti con l’ideazione dei primi quattro padiglioni, autentici capolavori,
restano irraggiungibili. Con tali occasioni fornite dalla Breda, l’idea di architettura di Baldessari o,
almeno, il punto di arrivo e la conclusione della sua ricerca, sono chiaramente delineati. Per le loro
caratteristiche – il mettere in scena il fatto architettonico stesso, rivelandone la natura di “rappresentazione”;
l’uso di forme, coreografie e “movimenti” spettacolari, prendendo ispirazione dal teatro; la riduzione dei
messaggi pubblicitari a strutture fine a se stesse perché aggettivate della loro funzione commerciale –
i padiglioni svuotano dall’interno le forme di libertà dall’architetto prese a prestito, le mantengono
mentre ne dichiarano l’inadeguatezza. È una scelta decisiva che in Baldessari si è tradotta in una
riduzione costante dei mezzi espressivi, tesa verso l’immobilità e il silenzio, verso l’impossibilità
dell’architettura stessa. Ma l’architettura, come del resto quel teatro amato da Baldessari, trova altri
modi e altre forme in cui realizzarsi, come abbiamo tentato sin qui di ricordare; oppure segue altri
percorsi – magari avventurosi e misteriosi – a partire dalle stesse premesse. Quanto scritto da Baldessari
appare dunque come qualcosa che non si può non condividere: «Questi monumenti antiretorici si
guardano come si guardano le composizioni archimedee, come si guardano le Piramidi, la torre Eiffel.
Non sono più scatole né padiglioni: sono spettacoli, sono paesaggi astratti carichi di suggestioni
profonde. Lo scopo industriale-commerciale, “reclamistico” è raggiunto, e proprio con queste funzioni
algebriche e trascendentali, che nello spazio si fondono in una tensione di avventura e di mistero»137.
52
53
Veduta della tribuna
presidenziale
e sistemazione della
galleria degli antiquari
e dell’atrio della tribuna
presidenziale alla Fiera
di Milano, 1959-60.
Modello e studio per
la sistemazione del viale
dell’Editoria alla Fiera
di Milano, 1959.
note
Veduta prospettica
della sistemazione
del viale dell’Editoria
alla Fiera di Milano, 1959.
a pagina 58
Luciano Baldessari
e un modello in scala 1:1
di un frammento della
sistemazione del viale
dell’Editoria alla Fiera
di Milano, 1959.
54
55
1 S. Polano, L’arte dell’allestimento
temporaneo. Mostrario italiano,
in F. Dal Co (a cura di), Storia
dell’architettura italiana. Il secondo
Novecento, Electa, Milano 1997,
p. 425.
2 C. de Seta, La cultura architettonica
in Italia tra le due guerre, Laterza,
Roma-Bari 1972 (1989, p. 247).
3 G. Ballo, Designers italiani. Artisti del
nostro tempo: Luciano Baldessari, in
«Ideal-Standard», settembrenovembre 1964, p. 34.
4 Cfr. C. Giedion-Welcker, Plastik des
XX Jahrhunderts Volumen und
Raumgestaltung, Gerd Hatje,
Stuttgart 1955, pp. 209, 258-259.
5 A. Pica, Organismi pubblicitari,
in «Spazio», 7, dicembre 1952 - aprile
1953, pp. 58-60.
6 G. Dorfles, La mostra di Luciano
Baldessari in Germania, in «Domus»,
352, marzo 1959, pp. 35-36.
7 Si vedano gli studi recenti di Fulvio
Irace, Graziella Leyla Ciagà e Anna
Chiara Cimoli segnalati nelle
indicazioni bibliografiche.
8 [E. Persico], Un alloggio a Milano,
in «Casabella», 4, aprile 1933, p. 32.
9 Secondo Giulia Veronesi le enormi
architetture pubblicitarie Breda sono
«scene per l’uomo della strada».
Cfr. G. Veronesi, Luciano Baldessari
architetto, Collana di artisti trentini,
Trento 1957, p. 13.
10 G.C. Argan, Walter Gropius
e la Bauhaus, Einaudi, Torino 1951
(si cita dalla II ed, del 1957, p. 117).
11 Sul periodo berlinese di Baldessari
si veda A.C. Cimoli, Luciano Baldessari
a Berlino e New York. Materiali dalle
collezioni del Casva
di Milano, in «Incontri in biblioteca»,
nuova serie 1, Comune di Milano,
Milano 2008, pp. 5-38.
12 Intervista pubblicata in «Berliner
Lokal-Anzeiger», 10 maggio 1914,
e riportata, nella traduzione di Flavia
Foradini, in M. Reinhardt, I sogni del
mago, a cura di E. Fuhrich
e G. Prossnitz, Guerini e Associati,
Milano 1995, pp. 71-72.
13 [L. Sinisgalli], Architettura
pubblicitaria, in «Civiltà delle
Macchine», 1, gennaio 1954, p. 76.
14 Su sollecitazione di Baldessari,
l’ingegner Giuseppe Dal Monte
ricorda l’affidamento dell’incarico in
una lettera, datata Sirtori 15 dicembre
1975, conservata presso il Museo
di arte moderna e contemporanea
di Trento e Rovereto (d’ora in poi
Mart), Fondo Luciano Baldessari,
Cartella Dal Monte Mariola, in copia
presso l’Archivio Luciano Baldessari,
Dipartimento Indaco del Politecnico
di Milano (d’ora in poi ALB), PBM
51-55, DM.
15 Sulla storia della Breda è possibile
consultare i numerosi materiali
documentari conservati presso
l’Archivio storico Breda della
Fondazione ISEC –Istituto per la Storia
dell’Età Contemporanea – di Sesto
San Giovanni (d’ora in poi Archivio
storico Breda). Tra le fonti a stampa
si veda Società Italiana Ernesto Breda
per costruzioni, in Trevisani, Rossi e
Fiori, L’Italie industrielle et artistique
à Paris 1900, Capriolo & Massimino,
Milano 1900; La Società Italiana
Ernesto Breda per costruzioni
meccaniche dalle sue origini ad oggi
1886-1936, Mondadori, Verona-Milano
1936; Dal ferro all’acciaio. La Breda
siderurgica, Aeda, Torino 1977. Per una
storia economica aziendale si vedano
i contributi pubblicati in La Breda.
Dalla Società Italiana Ernesto Breda
alla Finanziaria Ernesto Breda 18861986, Amilcare Pizzi, Cinisello
Balsamo (Milano) 1986. Mentre
sull’attività svolta mediante accordi
internazionali con le industrie estere
cfr. F. Marcoaldi, F.M. Cataluccio,
La Breda all’estero. Un secolo di lavoro
nel mondo, Amilcare Pizzi, Cinisello
Balsamo (Milano) 1990. Manca allo
stato una ricostruzione esaustiva dei
rapporti dell’impresa, quale
committente di architetture, con i
professionisti del costruire.
16 Lo stabilimento a Milano fuori
porta Nuova, lungo il naviglio della
Martesana, sorge per iniziativa della
Bouffier & C., a cui subentrano nel
1850 la Schlegel & C., nel 1860
la Rümmele & C., nel 1862 la Bauer &
C., nel 1877 la Bamat & C., nel 1879
la Cerimedo e C.
17 Cfr. S. Licini, Dall’Elvetica alla
Breda. Alle origini di una grande
impresa milanese (1846-1918),
in «Società e storia», 63, 1994,
pp. 79-123.
18 Cfr. Società Italiana Ernesto Breda
per costruzioni meccaniche Milano,
Per la millesima locomotiva, s.e., s.l.
[ma Capriolo & Massimino, Milano]
1908, pp. 17-18. Si veda anche
G. Petrillo, La Breda e Sesto San
Giovanni fra la fine dell’Ottocento
e i primi decenni del Novecento,
in La Breda… cit., pp. 141-160.
19 Cfr. A. Bassi, Per una storia
dell’architettura di fabbrica e
dell’abitazione operaia a Sesto
San Giovanni: ricostruzione
documentaria e fonti iconografiche,
tesi di laurea, Università degli Studi di
Milano, rel. F. Barbieri, a.a. 1982-83,
pp. 136-140.
20 Cfr. Archivio storico Breda,
Sezione FEB, b. 1149 bis, fasc. 2427,
Istituto Scientifico-Tecnico Ernesto
Breda, opuscolo datato 1924.
21 La letteratura dedicata all’industria
italiana negli anni della Ricostruzione
è assai vasta e, come si intuisce,
eterogenea. Utile può risultare la
lettura di G. Amato, Il governo
dell’industria in Italia, Il Mulino,
Bologna 1972; C. Daneo, La politica
economica della ricostruzione. 19451949, Einaudi, Torino 1975; M. Salvati,
Stato e industria nella ricostruzione.
Alle origini del potere democristiano
1944-1949, Feltrinelli, Milano 1982.
22 Per un’analisi attenta della
situazione difficile in cui versava
la Breda nei primi anni del dopoguerra
cfr. P. Viani, L’Industria
metalmeccanica nella ricostruzione:
il caso Fim-Breda, in «Economia
pubblica», 1-2, gennaio-febbraio 1994,
pp. 21-31.
23 Sulle vicende della Breda cfr.
il fondamentale V. Castronovo,
La Breda nella storia dell’industria
italiana, in La Breda… cit., pp. 20-28.
24 Già allievo di Alberto Asquini, nel
1951 Sette ha trentasei anni e vanta
una solida preparazione nel settore
delle società e dei titoli di credito.
In tal senso, cfr. G. Aliberti, La nascita
della Finanziaria Ernesto Breda,
in La Breda… cit., pp. 270-272.
25 Il rapporto è conservato
nell’Archivio storico Breda, Sezione
FEB.
26 Studiato a partire dal 1942 da
Filippo Zappata, il quadrimotore civile
BZ 308 “interamente metallico” per
voli transatlantici e transcontinentali
si libra in aria solo nel 1948.
Sul fallimento dell’impresa si veda
L. Ganapini, Perché non decollò quel
quadrimotore, in G. Petrillo,
A. Scalpelli (a cura di), Milano anni
Cinquanta, Franco Angeli, Milano
1986, pp. 101-138; G. Bosoni, A. Nulli,
Il viaggio abitato. Storia degli interni
dei mezzi di trasporto del XIX e del XX
secolo, Mondadori, Milano 1987,
pp. 84-89. Si veda inoltre A. Bassi,
Gli interni di Giulio Minoletti per
i mezzi di trasporto Breda,
in «Casabella», 695-696, dicembre
2001 - gennaio 2002, pp. 57-63.
27 Cfr. A. Varni, La ripresa economica
e i problemi del lavoro nel secondo
dopoguerra, in La Breda… cit., p. 215.
28 G. Aliberti, op. cit., pp. 274.
29 Cfr. Archivio storico Breda,
Sezione FEB, b. 58, fasc. 490:
Documentazione relativa al piano di
ristrutturazione aziendale intrapreso
nel 1951 dall’avv. Pietro Sette
(19/11/1949 - 3/10/1952).
30 Cfr. A. Pica, L’arte moderna al
servizio dell’industria, in «Le Arti»,
11-12, dicembre 1961, pp. 132-136.
31 Su queste vicende si veda il bel
libro di C. Vinti, Gli anni dello stile
industriale 1948-1965. Immagine
e politica culturale nella grande
impresa italiana, Università Iuav di
Venezia-Marsilio, Venezia 2007.
32 Cfr. V. Gregotti, Il disegno del
prodotto industriale. Italia 1860-1980,
a cura di M. De Giorgi, A. Nulli,
G. Bosoni, Electa, Milano 1986,
pp. 186, 213, 262-263; A. Bassi,
L. Castagno, Giuseppe Pagano,
Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 96-97.
33 Cfr. ALB, EBS, 36, D.
34 Cfr. G. Tucci, La palazzina del
Campo Voli a Bresso, in S. Van Riel,
A. Ridolfi (a cura di), La conservazione
dell’architettura moderna. Il caso
Predappio: fra razionalismo e
monumentalismo, Atti del convegno
(2003), Comune di Predappio,
Predappio-Firenze 2005, pp. 73-81.
35 Cfr. Archivio storico Breda, Sezione
FEB, b. 13, fasc. 90: Breda Riservate –
Segreto. Progetto del padiglione
aziendale alla Fiera di Milano.
36 Cfr. Archivio storico Breda,
Sezione FEB, b. 27, fasc. 326: Giulio
Minoletti. Progetto BZ 308.
37 Cfr. Archivio storico Breda, Sezione
FEB, b. 1153, fasc. 2441: Attestato di
trascrizione di marchio (23/06/1941);
brevetto per marchio d’impresa /
Cavallo rampante realizzato da Araca
(3/10/1949). Araca (in italiano
“perbacco”) è lo pseudonimo del
pittore e pubblicitario Enzo Forlivesi
Montanari (1898-1989) – nato a
Santiago (Cile) e formatosi a Parigi –
che non poteva utilizzare il proprio
nome per accordi contrattuali con
stampatori francesi. Autore di
numerosi lavori, realizza i manifesti
per alcune fiere italiane (Milano 1930,
Padova 1931, Bari 1931) e si occupa
della pubblicità per la Ramazzotti, la
Snia Viscosa e la Cirio. Cfr. Catalogo
Bolaffi del Manifesto italiano.
dizionario degli illustratori, Giulio
Bolaffi editore, Torino 1995, p. 93;
M.P. [M. Pigozzi], Araca (Enzo
Forlivesi), scheda in Gli anni Trenta.
Arte e cultura in Italia, catalogo della
mostra, Comune di Milano - Mazzotta,
Milano 1982, p. 543. Si veda anche
G. Ginex, La fabbrica immaginata.
La grafica, in G. Ginex, D. Bigazzi
(a cura di), L’immagine dell’industria
lombarda 1881-1945, Silvana
Editoriale, Milano 1998, p. 98.
I bozzetti pubblicitari originali per la
Breda sono tutti conservati presso
l’archivio di Sesto San Giovanni.
38 Mart, Fondo Luciano Baldessari,
Annotazione manoscritta e firmata,
in copia presso ALB, PBM 51-55, DM.
39 Cfr. Mart, Fondo Luciano
Baldessari, ADB 29.
40 Si vedano i materiali in ALB, PD
36, D e DM.
41 F. Irace, “Uomini di uno strano
destino”, in G.L. Ciagà (a cura di),
Luciano Baldessari e Milano. Progetti e
realizzazioni in Lombardia, C.A.S.V.A.,
Milano 2005, p. 17.
42 A.M. Mazzucchelli, Stile di una
mostra, in «Casabella», 80, agosto
1934, p. 6.
43 E. Persico, Alla mostra
dell’Aeronautica, in Catalogo della
Mostra dell’Aeronautica, Milano 1934,
rip. in G. Veronesi (a cura di), Edoardo
Persico. Scritti d’architettura (19271935), Vallecchi editore, Firenze 1968,
p. 134.
44 I. Cinti, Luciano Baldessari,
architetto integrale, in «Economia
Trentina», 5-6, 1959, p. 9.
45 Mart, Fondo Luciano Baldessari,
PV 33. Baldessari usa le stesse parole
per concludere la conferenza tenuta
nel gennaio 1939 a Zurigo, Basilea e
Berna, dietro invito dell’Associazione
degli Ingegneri ed Architetti della
56
Federazione Svizzera. Il testo della
conferenza è pubblicato in
L. Baldessari, L’architettura moderna
in Italia, Tipografia Mercurio, Rovereto
1939.
46 Cfr. J. Foot, Milan since the Miracle.
City, Culture and Identity, Berg, New
York 2001 (trad. it. Milano dopo il
miracolo. Biografia di una città,
Feltrinelli, Milano 2003, p. 141).
47 Alla Fiera il terreno viene
assegnato con una concessione nel
febbraio 1947. Archivio storico Breda,
Sezione FEB, b. 27, fasc. 323: Ente
Fiera – Corrispondenza BaldassarreFranci 1949-50.
48 Sui padiglioni costruiti alla Fiera si
veda A. Castellano, Modelli espositivi e
architetture della Fiera di Milano,
e G. Bosoni, Architetture provvisorie
alla Fiera Campionaria, entrambi in
Fiera Milano 1920-1995. Un percorso
tra economia e architettura, Electa,
Milano 1995, pp. 84-139; 172-195.
49 Archivio storico Breda, Sezione
SIEB, b. 33, fasc. 383: Dettaglio Fiere
Campionarie.
50 Cfr. S. Polano, Achille Castiglioni.
Tutte le opere 1938-2000, Electa,
Milano 2001, p. 59.
51 R. Guzman, La Fiera di Milano,
paese delle meraviglie. Straordinari
giocattoli per grandi ammirati con
la serietà dei bimbi, in «Il Giornale di
Sicilia», 20 aprile 1952.
52 G. Anceschi, Il campo della grafica
italiana: storia e problemi, in
«Rassegna», 6, aprile 1981, p. 16.
53 Si veda la sezione Come si fa la
pubblicità della fiera? nell’inchiesta
svolta da Vincenzo Buonassisi
e Simonetta De Benedetti, apparsa
con il titolo La tecnica delle fiere,
in «Pirelli», a. VI, 2, aprile 1953, p. 11.
54 A. Bianchetti, C. Pea, Architettura
pubblicitaria, in «Casabella», 159-160,
marzo-aprile 1941, p. 96.
55 Cfr. A.R. [A. Rosselli], Renzo
Zavanella. L’O.M. alla Fiera di Milano,
in «Stile Industria», II, 3, gennaio 1955,
pp. 29-31.
56 Su Depero e la comunicazione
pubblicitaria futurista esiste un’ampia
letteratura; si veda comunque
P. Vetta, La tecnologia del cartone.
Invenzione futurista di ambienti
spettacolo, in «Rassegna», 10, giugno
1982, pp. 28-33; E. Godoli,
Il Futurismo, Laterza, Roma-Bari 1983
(1989, pp. 151-153); Id., Padiglioni,
allestimenti e reclame futuristi, in
«Rassegna», 43, settembre 1990,
pp. 38-45; e da ultimo G. Belli,
B. Avanzi (a cura di), Depero
Pubblicitario: dall’auto-reclame
all’architettura pubblicitaria, catalogo
della mostra, Skira, Milano 2007.
57 L. Sinisgalli, Plastica pubblicitaria,
in «Pirelli», a. V, 3, maggio-giugno
1952, p. 42.
58 Ibid., pp. 42-43.
59 Ricordiamo che nel 1928
Baldessari progettava le uscite delle
modelle durante le sfilate tenute al
Teatro della Moda alla IX Fiera di
Milano e al Teatro dell’Esposizione di
Torino. Cfr. A.C. Cimoli, Luciano
Baldessari a Berlino e New York… cit.,
p. 36.
60 G. Toti, La Fiera della pace, in «Vie
nuove», 6 maggio 1951.
61 Il padiglione Sidercomit viene
realizzato anche con la collaborazione
di Lucio Fontana per il nastro zincato
sulla testata e per il soffitto a lamiera
con buchi piatti della saletta proiezioni,
di Attilio Rossi per la decorazione
delle pareti in alluminio della saletta
e di Umberto Zimelli per lo schema
del ciclo di produzione. Sul padiglione
si vedano le numerose fotografie
e la relazione tecnica conservate
presso l’Archivio Marcello Grisotti.
62 A. Pica, Architettura pubblicitaria
per la Sidercomit alla Fiera di Milano,
in «Architettura Cantiere», 7, maggiogiugno 1955, p. 7. La contrapposizione
tra linguaggio della tecnica e
linguaggio dell’arte era rimarcata dal
nastro arricciato di Fontana –
srotolato lungo il possente muro
sghembo di testa – su cui spiccavano
le scritte Sidercomit-CornigalianoIlva-Dalmine-SIAC-Terni. Per la
Sidercomit, divenuta poi Italsider,
Baldessari allestisce i padiglioni fino al
1961 ed esegue nel 1962 e nel 1966 –
in linea con le estetiche delle coeve
“utopie” tecnologiche – degli studi
che avrebbero previsto il riuso della
struttura del 1953. Baldessari scrive:
«Volevo rappresentare la forza della
siderurgia, del suo celebre progredire
con nuovi temi e nuovi materiali.
Per questo, la parte nuova doveva
intersecare ma non rivestire, non
coprire quella precedente. Il traliccio,
linguaggio strutturale comune da
mezzo secolo, doveva essere
integrato dagli esili montanti di
sostegno nella nuova lega. Il pubblico
doveva essere peso partecipe di
quest’evolversi, nel contempo doveva
far vivere, con la sua presenza, la sua
struttura». Mart, Fondo Luciano
Baldessari, PS 53-66. Il progetto viene
alla fine affidato allo studio AlbiniHelg e risolto – come l’anno
precedente dallo studio Gregotti,
Meneghetti, Stoppino – come
contenitore che, a differenza di quello
di Baldessari, annulla, mascherandola
verso l’esterno, l’immagine della
struttura esistente.
63 V.B., Architettura pubblicitaria,
in «Pirelli», a. IV, 2, marzo-aprile 1951,
p. 22. È ragionevole ritenere l’articolo
opera di Vittorio Bonicelli. Il poliedrico
giornalista e critico firma altri pezzi
sulla rivista; in particolare, si segnala
quello – dedicato alla Breda – dal
titolo Sulle rotaie corrono i salotti,
a. IV, 3, maggio-giugno 1951, pp. 17-18.
64 G. Toti, Nei padiglioni dell’industria
meccanica. Le Reggiane, la Breda e la
Fiat nel “taccuino” del cronista alla
Fiera, in «L’Unità», 19 aprile 1951.
65 Cfr. XXX edizione della Fiera di
Milano. Volete fabbricare dischi
volanti?, ritaglio di giornale in Archivio
Marcello Grisotti.
66 Archivio Marcello Grisotti,
La Breda ieri “una”, oggi “unitaria”:
brochure pubblicitaria.
67 Mart, Fondo Luciano Baldessari,
Distribuzione spaziale. Relazione
tecnica, in copia presso ALB, PBM 5155, DM.
68 Mart, Fondo Luciano Baldessari,
1952 – Padiglione Breda, in copia
presso ALB, PBM 51-55, DM. Il
dattiloscritto conservato negli archivi
costituisce il testo dato alle stampe
in A. Rossi, Una moderna favola
pubblicitaria, in «Linea Grafica», 3-4,
marzo-aprile 1952, pp. 58-59.
69 Cfr. A.C. Cimoli, Musei effimeri.
Allestimenti di mostre in Italia 19491963, Il Saggiatore, Milano 2007,
pp. 14, 79-80.
70 Cfr. Sulle vie della Fiera tra i giganti
dell’industria, in «L’Italia», 4 aprile
1952.
71 Archivio storico Breda, Sezione
FEB, b. 1149, fasc. 2426: Depliant
pubblicitario Breda.
72 Citazione tratta dall’editoriale
di G. De Rossi Del Lion Nero,
in «Relazioni pubbliche», 22, 1-15
dicembre 1959, riportata in C. Vinti,
op. cit., p. 73.
73 Cfr. Uomini nel forno, in
«Il Tempo», 14 aprile 1951.
74 Ivi.
75 Mart, Fondo Luciano Baldessari,
1951 Padiglione Breda, in copia presso
il Politecnico di Milano, Archivio
Luciano Baldessari, PBM 51-55, DM.
76 Cfr. Panorama della XXIX Fiera
di Milano, in «La scienza illustrata»,
maggio 1951, p. 39.
77 Si vedano gli studi colore
conservati presso il Politecnico di
Milano, Archivio Luciano Baldessari,
PBM 51-55, DM.
78 Cfr. G. Carrà, I lavoratori
riprendono la lotta per la salvezza
della Breda minacciata, in «Voce
comunista», 18 aprile 1951; Fiera di
Milano, in «L’Unità», 18 aprile 1951.
Si vedano inoltre i documenti e gli
articoli in Archivio storico Breda,
Sezione FEB, b. 1149 bis, fasc. 2427.
79 Mart, Fondo Luciano Baldessari,
Architettura pubblicitaria Breda 1951,
in copia presso ALB, PBM 51-55, DM.
80 Cfr. Luciano Baldessari architetto,
in «Trentino», 6 giugno 1951.
81 F. Irace, La difficile proporzione,
in A.C. Cimoli, F. Irace (a cura di),
La divina proporzione. Triennale
1951, Triennale-Electa, Milano 2007,
p. 14.
82 G. Dorfles, Piccola guida per la IX
Triennale, in «Pirelli», a. IV, 3, maggiogiugno 1951, pp. 40-42.
83 L’atrio fu definito da Carlo Doglio
come un «trionfo hollywoodiano di
luci al neon e di lusso». C. Doglio,
Accademia e formalismo alla base
della Nona Triennale, in «Metron», 43,
settembre-dicembre 1951, p. 19.
84 Ad esempio, le opere di Soldati,
Radice, Rossi contrastavano con
i lavori di Spilimbergo e Del Bon,
Milani e Fontana mal si affiancavano
a Fabbri e Cappello, così come Pepe e
Pancera stridevano con Rui e Galvano.
85 Su Fontana restano fondamentali
gli studi di Enrico Crispolti; in
particolare si veda Fontana. Catalogo
generale, 2 voll., Electa, Milano 1986;
Carriera “barocca” di Fontana.
Taccuino critico 1959-2004
e Carteggio 1958-1967, a cura di
P. Campiglio, Skira, Milano 2004.
Si veda inoltre Cfr. J. De Sanna, Lucio
Fontana. Materia Spazio Concetto,
Mursia, Milano 1993, pp. 93-94.
Sui rapporti tra Fontana e Baldessari
si veda il carteggio pubblicato in
P. Campiglio (a cura di), Lucio Fontana.
Lettere 1919-1968, Skira, Milano 1999,
passim; P. Campiglio (a cura di),
Itinerari di Lucio Fontana a Milano
e dintorni, Charta, Milano 1999, e
Lucio Fontana 1947-1965, catalogo
della mostra, Charta, Milano 2001.
86 Non è dato sapere se nel 1945,
a New York, Baldessari abbia potuto
vedere il modello, allora esposto, del
noto museo che si sarebbe costruito
di lì a poco sulla Fifth Avenue.
87 Il padiglione della Breda alla XXX
Fiera Campionaria di Milano su
progetto dell’architetto Luciano
Baldessari, in «Trentino», marzo-aprile
1952, pp. 40-41.
88 L’impresa Morganti aveva già
costruito, su disegno di Minoletti,
il padiglione della Breda nel 1950.
89 Cfr. La Fiera si prepara,
in «Il Popolo», 21 marzo 1952.
90 La Breda alla XXX Fiera
Internazionale di Milano, in
«Architettura-Cantiere», 2, 1953,
s.n.p. Si veda anche C. Pagani,
Padiglione alla Fiera di Milano,
in Architettura italiana oggi, Hoepli,
Milano 1955, p. 221.
91 Cfr. la documentazione relativa
al graticcio Stauss conservata in ALB,
PBM 51-55, DM.
92 Cfr. il publiredazionale A.D. Tirone,
Materiali edilizi resistenti al fuoco, in
«Antincendio e protezione civile»,
a. XXVI, novembre 1974. Per le
informazioni fornite, ringrazio la
Tirone Edilizia, fin dall’epoca agente di
vendita per l’Italia del sistema Stauss.
93 La frase di Baldessari è riportata,
talvolta con alcune variazioni,
in numerosi annotazioni dattiloscritte
e relazioni pervenute. Cfr. i documenti
conservati al Mart, Fondo Luciano
Baldessari, in copia presso ALB, PBM
51-55, DM.
94 Cfr. P. Campiglio, Lucio Fontana.
La scultura architettonica negli anni
Trenta, Ilisso, Nuoro 1995, p. 43.
95 Cfr. il numero doppio di
«Costruzioni Casabella», 159-160,
marzo-aprile 1941, dedicato al tema
dell’Architettura delle mostre. Si veda
inoltre T. Maldonado, Max Bill, ENV,
Buenos Aires 1955, pp. 82-95.
57
96 Cfr. A. Belluzzi, C. Conforti,
Architettura italiana 1944-1994,
Laterza, Roma-Bari 1985 (1994, p. 27).
97 Non è ben chiaro se il progetto del
grande arco per l’E 42 sia stato
presentato all’esposizione di New York
e quindi lì conosciuto da Baldessari.
I legami tra la “World’s Fair” e la
kermesse romana sono stati precisati
in E. Godoli, L’E 42 e le esposizioni
universali, in M. Calvesi, E. Guidoni,
S. Lux, E 42 Utopia e scenario del
regime. II Urbanistica, architettura,
arte e decorazione, catalogo della
mostra, Marsilio, Venezia 1987 (1992,
pp. 147-155).
98 Cfr. G. Cagnoni, Pelléas e
Mélisande, in «Casabella», 466,
febbraio 1981, p. 7.
99 Cfr. E. Prampolini, Lineamenti di
scenografia italiana dal Rinascimento
ad oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte,
Roma 1950, p. 14. Nella conferenza
tenuta al Politecnico di Berlino nel
maggio 1955 su invito della BDA,
Baldessari usa la categoria di
“architettura plastico-formale” per
definire le proprie opere e quelle di
Carlo Mollino. Cfr. il testo della
conferenza in L. Baldessari,
L’architettura contemporanea in Italia,
Maestri Arti Grafiche, Milano 1955, pp.
6-7.
100 L. Sinisgalli, Plastica pubblicitaria
cit.
101 Cfr. P.F. Barone, 1939-40. New
York World’s Fair, in Le esposizioni del
’900 in Italia e nel Mondo, numero
monografico di «Quaderni Di», 11,
1990, pp. 107-112.
102 Sulla “conquista del mondo con
mezzi pacifici” da parte degli Stati
Uniti, cfr. l’interessante V. de Grazia,
Irresistible Empire. America’s Advance
through Twentieth-Century Europe,
The Bell Knap Press of Harvard
University Press, Cambridge (Mass.)London 2005 (trad. it. L’impero
irresistibile. La società dei consumi
americana alla conquista del mondo,
Einaudi, Torino 2006).
103 Sul periodo americano di
Baldessari si veda A.C. Cimoli, Luciano
Baldessari a New York, in «La rivista
FMR Bianca», nuova serie, 24, marzoaprile 2008, pp. 87-99; e Ead., Luciano
Baldessari a Berlino e New York… cit.,
pp. 41-62.
104 Baldessari conosce i due
architetti americani grazie alla Callery.
Sulle opere eseguite da Harrison
& Fouilhoux alla fiera di New York
cfr. V. Newhouse, Wallace K. Harrison
Architect, Rizzoli, New York 1989,
pp. 80-93.
105 E.D. Bona, Baldessari testimone
e protagonista, in «Casabella», 342,
novembre 1969, p. 15.
106 Cfr. G. Ballo, Designers italiani (4).
Con Enrico Ciuti continua la galleria
dei personaggi che hanno inciso
sull’evoluzione del costume artistico
italiano, in «Ideal-Standard», maggiogiugno 1965, pp. 35-44.
107 Mart, Fondo Luciano Baldessari,
Struttura della “Breda”, in copia
presso ALB, PBM 51-55, DM.
108 F. De Miranda, La “struttura delle
Breda” alla 32a Fiera Campionaria di
Milano, in «Costruzioni metalliche», 3,
1954 (estratto), p. 3.
109 F. Irace, Luci moderne. Muzio,
Ponti e Baldessari e il progetto delle
centrali, in R. Pavia (a cura di),
Paesaggi elettrici. Territori,
architetture, culture, Marsilio, Venezia
1998, p. 162.
110 Cfr. ALB, EBR 55-57, D.
111 M. Ballocco, La nuova estetica
della tecnica espositiva facilita la
migliore conoscenza dei prodotti,
in «Fiera di Milano. Rassegna dell’Ente
Autonomo Fiera», IX, marzo 1957,
p. 94.
112 M.L. [M. Labò], Edifici pubblicitari
alla Fiera di Milano, in «Casabella
Costruzioni», 137, maggio 1939, p. 13.
113 Cfr. Allestimenti, in «Domus», 260,
luglio-agosto 1961, p. 60.
114 Cfr. A. Pica, Difesa dell’architettura
pubblicitaria,
in «Suggestione Pubblicitaria»,
supplemento a «L’Ufficio Moderno –
La Pubblicità», 8, agosto 1952,
pp. 73-75.
115 Cfr. i materiali documentari
conservati in Mart, Fondo Luciano
Baldessari, PBB 63 e quelli in ALB,
PBB 63, D e DM.
116 Cfr. G. Veronesi, Luciano
Baldessari: tre progetti recenti, in
«Domus», 425, aprile 1965, p. 4.
117 Cfr. ALB, PBB 63, DM: nota
manoscritta.
118 ALB, PBB 63, DM: Lettera del 5
febbraio 1963, inviata da Baldessari
a Sette.
119 Costruito nel viale Italo-Orientale
di fronte alla palazzina della Cassa per
il Mezzogiorno, il progetto “a metà”
viene ribadito da Baldessari a Pietro
Sette nel settembre del 1963,
allorquando, nello scusarsi del
mancato incontro a Bari con
l’avvocato, rammenta di regolare
i pagamenti secondo le due diverse
soluzioni.
120 Cfr. “Vernice” ad alto livello per
una Fiera tutta da vedere,
in «La Gazzetta del Mezzogiorno»,
10 settembre 1963, p. 4.
121 Mart, Fondo Luciano Baldessari,
cartella Franci Michele Guido: Lettera,
datata 25/7/51, inviata da Franci
a Baldessari.
122 Il 24 maggio 1957 viene
presentato il progetto con la relazione
e il preventivo; il 28 luglio vengono
consegnate le foto del modello.
Cfr. la documentazione e la
corrispondenza in ALB, PBF 57, DM e C.
123 ALB, PBF 57, C: minuta di lettera,
datata fine luglio [s.a.], inviata da
Baldessari a Franci.
124 Mart, Fondo Luciano Baldessari,
PF 57.
125 Cfr. E.N. Rogers, Il metodo di
Le Corbusier e la forma nella
“Chappelle de Ronchamp”, in
«Casabella Continuità», 207,
settembre-ottobre 1955, pp. 2-29.
126 «Anch’io da anni agogno, penso,
accumulo disegni, idee per il progetto
di una Chiesa. Piccola, grande, dove
non importa. Mi sento preparato al
compito. La penso capace di
sorreggermi in tale aspirazione,
lo faccia!». Mart, Fondo Luciano
Baldessari, cartella Franci Michele
Guido, lettera, datata 8/10/59, inviata
da Baldessari a Franci.
127 Dagli appunti redatti nel 1946
a New York, riportati in Z. Mosca
Baldessari, Note biografiche,
in G.L. Ciagà (a cura di), Luciano
Baldessari nelle carte del suo archivio,
Guerini, Milano 1997, p. 244.
128 L’incarico di sistemare il viale
dell’Editoria viene affidato il primo
luglio 1958, ma è nell’autunno-inverno
del 1959 che il progetto viene
presentato a Franci. Nello specifico,
il 12 ottobre si discute il progetto
complessivo, il 21 ottobre si ragiona
sul disegno delle vetrine, il 24
novembre si realizza un primo
modello al vero, il 9 dicembre si
consegnano le tavole, il 4 gennaio
1960 si mette in piedi un altro modello
in scala 1:1, il 12 febbraio si elaborano
alcune modifiche e l’11 aprile si
rilascia il progetto.
129 Cfr. ALB, PVE 59-60, DM:
Relazione, datata aprile 1960, sul
progetto di sistemazione del viale
dell’Editoria.
130 Cfr. ALB, PVE 59-60, DM:
Relazione datata 10 dicembre 1959.
131 Mart, Fondo Luciano Baldessari,
PTP 59-60.
132 Cfr. ALB, PTP 59-60, DM: Relazioni,
datate dicembre 1959 e aprile 1960,
sul progetto di ampliamento della
tribuna presidenziale.
133 Alcune soluzioni per la tribuna
anticipano le forme della cappella
Santa Lucia nel complesso di villa
Letizia realizzata a Caravate a partire
dal 1962. Si veda il volume realizzato
con la collaborazione di Zita Mosca,
Una casa e una chiesa, Banca Cesare
Ponti, Milano 1968.
134 Il 15 aprile 1959 Baldessari
ottiene l’incarico; nel maggio-giugno
elabora il primo progetto di massima;
nel luglio viene presentato il secondo
progetto, nel settembre lavora alla
terza ipotesi, nell’aprile del 1960 discute
con Franci della quarta e ultima
soluzione. Cfr. la documentazione in
ALB, PTP 59-60, DM.
135 Cfr. ALB, PVE 59-60, C: Lettera,
datata 15 novembre 1959, inviata da
Baldessari a Franci.
136 Baldessari scrive: «La messa in
scena del viale dell’Editoria è pronta».
Cfr. ALB, PVE 59-60, C: Lettera, datata
21 ottobre 1959, inviata da Baldessari
a Franci.
137 Mart, Fondo Luciano Baldessari,
Breda 1951-52-53-54, in copia presso
ALB, PBM 51-55, DM.
58
1951
C.A.S.V.A. IV.A.2e
«Il progettista […] non ha pensato al solito
scatolone, o padiglione. Ha creato qualcosa
che nell’insieme, scena e personaggi, potesse
dar l’idea di uno spettacolo, una processione,
una sfilata, un corteo, una passeggiata è il
termine giusto, une promenade architecturale
et metallurgique […] Baldessari ha fatto
recitare una parte ai visitatori, la parte appunto
della massa, come in una pantomima, come
in un balletto, ma senza imporre un ruolo
obbligato né ai personaggi né alle macchine.
Soltanto ha fissato un itinerario, un itinerario
dentro un paesaggio, un paesaggio che ha
una straordinaria eloquenza, un paesaggio
astratto, ma carico di una suggestione
profonda […] La novità di queste invenzioni
viene dal fatto che l’architetto ha sposato
in unità espressiva scultura e coreografia,
funzionalità e fantasia.» (L. Sinisgalli, 1952)
61
C.A.S.V.A. IV.A.2a
62
C.A.S.V.A. IV.A.2b
C.A.S.V.A. IV.A.2g
63
C.A.S.V.A. IV.A.2c
64
C.A.S.V.A. IV.A.2f
C.A.S.V.A. IV.A.2d
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C.A.S.V.A. IV.A.3a
«E teatro, scene per l’uomo della strada furono,
da quell’anno stesso fino al 1956, le enormi
architetture pubblicitarie Breda, smaglianti nel
bianco e negli schietti colori, costruite alla Fiera
di Milano. Insisteremo a chiamarle architetture
anche se siano state le storie della scultura
del secolo a farne conto, all’estero, prima delle
storie dell’architettura. Erano,in realtà, puri fatti
plastici, di classificazione opinabile per quanto
non necessaria, e però senza alcun rapporto,
fuor dalla tecnica, con l’edilizia: aperte “forme”
modellanti un iperbolico spazio mediante la
stessa visuale dinamica a cui si offrivano, così
grandi, così “sproporzionate”all’uomo, quando
l’uomo incantato le guardava passando e vi si
lasciava attrarre, entrando docilmente nel loro
giuoco, camminando sul filo fantastico di un
bianco itinerario funzionalmente giustificato
dal succedersi di scritte pubblicitarie lungo
il percorso.» (G. Veronesi, 1957)
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1953
C.A.S.V.A. IV.A.5g
«Nell’opera di Baldessari ritroviamo proprio
la storia rivissuta sinteticamente in termini
ideali ed è per questo che può sembrare
inutile rintracciarne punto per punto
le derivazioni ora dall’espressionismo
ora dal razionalismo in quanto le premesse
enunciate ci portano a concludere come
fatto fondamentale che Baldessari
è al di fuori di uno stile linguisticamente
configurato. Baldessari ha un “suo stile”,
come atteggiamento personale e perciò
irripetibile: la sua pertanto, più che di forma,
è una lezione di contenuti. Derivano da questa
situazione alcune immediate conseguenze,
prima tra le quali la definizione dell’uomoartista inteso in senso classico con
implicazioni di tipo umanistico. Ritroviamo
infatti nell’opera di Baldessari le varie
componenti del pittore, dello scultore, dello
scenografo, dell’architetto.» (E.D. Bona, 1969)
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1954
«L’architettura pubblicitaria risponde
perfettamente, come genere, alle necessità
espressive di Baldessari: in sostanza è una
variante della scenografia, intesa nel senso
più nuovo; è anch’essa provvisoria e implica
l’esigenza di attrarre lo spettatore
coinvolgendolo nella partecipazione attiva.
In più, l’architettura pubblicitaria non
può non partire dalla chiarezza funzionale:
è spettacolo, ma deve colpire, e per
coinvolgere il visitatore ha bisogno di attirarlo
il più vicino possibile; a differenza dunque
della scena che si svolge davanti agli
spettatori, ma lontana, l’architettura
pubblicitaria, per essere efficace, diventa
ambiente spaziale dove penetra e si muove
il visitatore […] Nei Padiglioni Breda la funzione
pubblicitaria ha fatto scattare liberamente
l’estro di questo singolare artista.» (G. Ballo,
1964)
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Agnoldomenico Pica
Organismi pubblicitari, in «Spazio», 7,
dicembre 1952 - aprile 1953, pp. 58-60
Ojetti ebbe, una volta, una frase felice quando
venne fuori a dire che la vita moderna,
in definitiva, si sintetizza nella corsa
automobilistica: «Si è eroici stando seduti».
Se pensiamo qualcosa di simile trasferendolo
all’architettura troveremo certo un bandolo
di coerenza che lega, paradossalmente ma
saldamente, il funzionalismo di Loos
al “neobarocchismo” recente.
Baldessari potrebbe essere indicato tra i più vivi
rappresentanti di questa ardua, e assolutamente
moderna, coerenza, se si pensi come dalle
esperienze della Bauhaus e del “Gruppo 7”,
sia giunto, senza rinnegarsi, alla libertà di oggi.
E, forse, è proprio in queste sue ultime
espressioni, attuate in collaborazione con
Grisotti, che Baldessari giunge a realizzare
pienamente quella che è la sua più vera vena di
fantasioso immaginatore di impressionanti
e perfino pirotecnici fondali. Infatti sembra
appena utile ricordare che un certo piglio
teatrale, una certa sonora eloquenza, una
talquale compiacenza per il puro gioco plastico,
un esaltato gusto del colore, pur nascendo da
spunti scenografici e da sollecitazioni
coreografiche, si trasferiscono, in queste
costruzioni effimere e pubblicitarie, con assoluta
aderenza non solo formale ma perfino
funzionale, dacché è chiaro che, qui, un discorso
impostato sui canoni consueti della utilitarietà
e della economia costruttiva sarebbe del tutto
falso. Qui si trattava di inventare macchine
favolose a non altro fine se non quello
di polarizzare l’attenzione della folla.
Si può forse osservare che l’invenzione per la
Fiera dell’anno scorso, il tubo sospeso e adattato
a galleria, è stata pubblicitariamente più felice,
o, almeno, di più immediata ed efficace
accezione, e pur brillante era stata la
sistemazione aerea, su cavalletti di cemento,
della grande tubazione sospesa, alquanto
discutibile, invece, ci era sembrata la pensilina,
di cui non siamo riusciti a cogliere il nesso
compositivo nell’economia generale dell’opera.
Nel padiglione della “Breda” del ’52 l’architetto,
abbandonato qualsiasi riferimento pratico,
ha invece affidato l’efficacia del discorso
pubblicitario unicamente al ritmo plastico.
Il tentativo, da un punto di vista di purismo
formale, è forse più interessante di quello
precedente.
La grande coclea, che si sviluppa e protrae
elegantemente nel nastro che delimita lo spazio,
si risolve apparentemente in una scultura
astratta, che tuttavia rimane architettura in
quanto crea e coordina spazi. L’atteggiamento
neo-barocco di questa architettura può riferirsi,
in Italia, alle opere di un Mollino, può legarsi,
in un certo senso alle architetture di un Rudolf
Steiner, o di un Eric Mendelsohn, o di un
Niemeyer, o di un Burle Marx; con anche più
aderenza può richiamare lo spirito di talune
recenti esperienze scultoree, dalle “Due forme”
di H. Moore (1934) al “Laocoonte” di Ossip
Zadkine (1944) e dalle superfici involte di Max
Bill a talune plastiche di I. Noguchi e di Barbara
Hepworth. Citiamo codesti nomi per richiamare
un clima che è oggi attuale nel mondo delle arti,
non per stabilire analogie, che inutilmente
si cercherebbero in un’opera alla quale tutto
potrebbe esser negato, salvo una coraggiosa
indipendenza.
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C.A.S.V.A. IV.A.9e
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Scritti su Luciano Baldessari
e i padiglioni alla Fiera di Milano
Studi per il padiglione
Sidercomit alla Fiera
di Milano, 1953.
a destra
Studio per il padiglione
Sidercomit alla Fiera
di Milano, 1953.
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C.A.S.V.A. IV.A.9d
Studio per il padiglione
Italsider alla Fiera
di Milano, 1961.
Agnoldomenico Pica
Architettura pubblicitaria per la Sidercomit
alla Fiera di Milano, in «Architettura Cantiere»,
7, maggio-giugno 1955, p. 7
C.A.S.V.A. IV.A.10c
C.A.S.V.A. IV.A.10b
divisoria d’obbligo, hanno assai diminuito
l’impaccio della pesante ipoteca.
Va però anche detto che i progettisti stessi
si sono poi creato un inutile vincolo con il muro
pieno di fondo, il quale nella soluzione adottata
svolge anche funzioni di ancoraggio, è vero,
ma che si sarebbe certamente potuto evitare
o sostituire, con il risultato indubbio di una
struttura più libera, più schietta, più evidente
e, anche, più coerente: codesta parete, in realtà,
essendo, in tutta la struttura metallica, l’unico
elemento murario, per di più non inevitabile,
finisce per avere un poco il sapore di un
anacoluto, tanto da ingenerare il senso
di un certo ibridismo costruttivo.
Diremo ancora, e questo a titolo di alto
riconoscimento, che l’incongruenza è messa
in rilievo proprio dalla stessa essenziale eleganza
della struttura che è tale da non tollerare scarti.
L’agganciamento delle due travi a ginocchio, che
reggono le scale e il terrazzo a sbalzo, con il
vertice inferiore delle due pensiline a V sopra
il portale, determina una sorta di cerniera,
di fuoco, di punto polare di tutta la
composizione. La bellissima struttura a ponte,
che racchiude la sala di proiezione, rappresenta
invece un elemento divergente rispetto all’idea
fondamentale, ma tuttavia si giustifica
largamente e con la sua funzionalità, e con il suo
valore esemplificativo.
Sono in fine da notare la finezza di taluni partiti
geometrici come la continuità della linea rampapensilina, l’impeto delle due grandi ali delle
pensiline, l’estro che ha fatto divaricare le travi
a traliccio esterne secondo un angolo diedro, che,
interrompendo imprevedibilmente la ortogonalità
del tessuto, induce nel rigore della composizione
spaziale l’inaspettato impennarsi della fantasia
e come l’ictus di una scattante dinamicità.
Il teatro, allora, lo attrasse. È questo l’altro
aspetto fondamentale della sua formazione
di architetto. Baldessari non è partito
dall’ingegneria, e neppure da intime
sollecitazioni di ordine sociale […]; bensì
dall’invenzione, dal fatto poetico puro e
disinteressato, da visioni plastiche e cromatiche:
come la solidificazione di immagini, come il farsi
pietra e cemento di volumi ch’egli “vedeva”,
prima, immateriali, se non irreali. Non è senza
motivo ch’egli abbia lavorato per anni, come
architetto, nel campo delle mostre, delle fiere,
delle esposizioni, più che in quello dell’edilizia
utilitaria. Pittore egli è rimasto; lo si riconosce
non soltanto dalla superiore qualità grafica del
suo disegno architettonico, ma proprio dal fatto
che l’opera gli nasce così, dall’intimo, da una
visione; è, cioè, d’essenza lirica, è prima di tutto
una forma. L’idea strutturale (poiché, per
converso, questo pittore è veramente architetto)
v’è implicita e ne sgorga, chiara, logica, a sua
volta implicando in modo naturale le ragioni
e le premesse sociali, tecniche, economiche,
e tutta la complessa e fondamentale “moralità”
dell’architettura come ordine del vivere […]
La guerra ricondusse Baldessari lontano
dall’Italia, e lontano dalla pratica
dell’architettura: questa volta, a New York.
Furono anni duri, salvati però nel ritorno alla
pittura, al teatro. Ed è ancora sul piano della
“scena”, di un’astratta regia, che alla Triennale
milanese del 1951 egli rientrerà nelle file
dell’architettura con la trasformazione
temporanea del grandioso ingresso del Palazzo
dell’Arte. Il volume, già articolato verticalmente
con scolastica monumentalità nelle tre
componenti dell’atrio, dello scalone e del
vestibolo superiore, fu ricostituito, ricreato come
unità spaziale circoscritta in un’atmosfera
di finissimi accordi tonali, tutti predisposti
dall’architetto. Sui delicati passaggi dei grigi,
sulle sospensioni, sulle ombre viola e sulle
diffuse luminosità, ritmicamente dirompevano
i colori e i rilievi delle pitture, delle sculture
e delle irreali luci con cui l’architettura era
idealmente integrata, secondo la classica
concezione della collaborazione della arti in
funzione architettonica, alla quale Baldessari
C.A.S.V.A. IV.A.10e
C.A.S.V.A. IV.A.10d
Una certa meccanicità, una talquale enfasi
strutturale, quel modo piuttosto risentito di
modulare le due murature d’ambito, che
svolgono, nei riguardi del padiglione, funzione di
schermi esterni, hanno indotto taluno a qualche
riserva di fronte a quest’opera di Baldessari
e Grisotti. Sennonché la destinazione medesima
dell’architettura, destinazione squisitamente
pubblicitaria e cioè propriamente oratoria, non
soltanto giustifica, ma pretende come
strettamente “funzionali” codesti atteggiamenti
che, in altra occasione, potrebbero apparire
solamente magniloquenti, mentre qui sono
rigorosamente pertinenti.
Come tutte le architetture raggiunte, questa
costruzione di Baldessari e Grisotti nasce da
un’idea che è insieme un concetto costruttivo
e un arabesco della fantasia: una grande V
aperta, quasi come due immense ali, imperniata
a terra con il suo vertice inferiore, o, diciamo, nel
punto di sutura e di articolazione delle due ali
battenti. La incisiva bellezza grafica del motivo
riceve valore sostanziale dalla piena
corrispondenza, e quasi consentaneità, con
il comportamento delle forze in tensione proprio
della struttura metallica. Alla radice l’idea
costruttiva, anche se poi diversamente attuata,
sorge dalla contrapposizione di due falconi
metallici egualmente caricati e mutuamente
reggentisi in vicendevole equilibrio.
Disgraziatamente i gravissimi vincoli generati
dalla ubicazione del padiglione, imponendo la
coerenza con la costruzione confinante proprio
su uno dei lati maggiori del nuovo padiglione,
hanno vietato che l’architettura potesse giocare
intero il suo gioco. Gli architetti, per la verità,
hanno fatto quanto era possibile, ed è da
riconoscere che sia le tinteggiature, sia il
risentito frastagliamento della grande parete
Giulia Veronesi
Luciano Baldessari architetto,
Collana di artisti trentini, Trento 1957
pp. 13-24
Palazzo per uffici
De Angeli Frua, Milano
1931-32/1937-38.
Bar Craja, Milano 1930.
C.A.S.V.A. IV.A.11a
Complesso Italcima,
Milano 1932-39.
Bar Craja, Milano 1930.
Ricostruzione
di G.R. Dradi su
indicazioni di Enrica
Craja, 1995-96.
Studi per il Padiglione
Italsider alla Fiera di
Milano, 1966 e 1961.
190
191
aveva accennato già vent’anni prima nel
Padiglione della Stampa; nell’allestimento di due
memorabili mostre al Palazzo Reale di Milano
(di Van Gogh nel 1952, della Civiltà Etrusca nel
1955) egli l’avrebbe ribadita valendosi delle
stesse opere da esporre, con risultati splendidi,
sebbene discussi. La bellezza di quelle superiori
“composizioni” spaziali e cromatiche era, senza
dubbio, fine a sé stessa; l’architetto proponeva
però alla museografia un interessante problema
di interpretazione e di orchestrazione
espressioniste delle opere, in tal modo esaltate.
Era ancora teatro. E teatro, scene per l’uomo
della strada, furono, da quell’anno stesso fino al
1956, le enormi architetture pubblicitarie Breda,
smaglianti nel bianco e negli schietti colori,
costruite alla Fiera di Milano. Insisteremo
a chiamarle architetture anche se siano state
le storie della scultura del secolo a farne conto,
all’estero, prima delle storie dell’architettura.
Erano, in realtà, puri fatti plastici, di
classificazione opinabile per quanto non
necessaria, e però senza alcun rapporto,
fuor dalla tecnica, con l’edilizia: aperte “forme”
modellanti un iperbolico spazio mediante
la stessa visuale dinamica a cui si offrivano, così
grandi, così “sproporzionate” all’uomo, quando
l’uomo incantato le guardava passando e vi si
lasciava attrarre, entrando docilmente nel loro
giuoco, camminando sul filo fantastico di un
bianco itinerario funzionalmente giustificato dal
succedersi di scritte pubblicitarie lungo il
percorso simbolico, secondo date e fatti relativi
all’industria Breda (come nel 1952), o dalla meta
finale, l’interno di un forno vero, come nel 1951;
ad ogni suo passo, il nastro fluente lo invitava
alla scoperta dello spazio […] L’identificazione di
queste plastiche animate con l’idea dello
spettacolo è convalidata nella rielaborazione del
progetto 1952, in cui la coclea diventa l’immensa
scena di un vero teatro sull’acqua. Il bacino di
una nuova costruzione destinata alla Mostra
Nautica avrebbe dovuto fondersi plasticamente
con la coclea già costruita, riprendendone
e accentuandone l’elegante fluidità lineare,
i valori fantastici: sorgendo dall’acqua, la bella
forma doveva essere spazio scenico, luogo
illusorio, teatro.
Gillo Dorfles
La mostra di Luciano Baldessari in Germania,
in «Domus», 352, marzo 1959, pp. 35-36
La mostra di Luciano Baldessari – ordinata con
estrema larghezza di spazio e di intenti nella
galleria della Neue Sammlung di Monaco –
ci offre l’occasione per riproporre all’attenzione
del nostro pubblico un’opera assai complessa
e multiforme di cui forse, in patria, non si
è ancora tenuto sufficiente conto, anche se la
mostra – più limitata – ordinata lo scorso anno
in una galleria milanese, aveva già suscitato
favorevoli echi e consensi. L’iniziativa della
società monacense e del suo direttore Hans
Eckstein di dare di quest’opera un quadro
pressoché completo e analiticamente articolato
merita d’essere sottolineata, e vorremmo, sia
pure per sommi capi, ricordare alcune delle
opere esposte, che comprendono non solo
riproduzioni fotografiche e progetti
architettonici, ma altresì: disegni originali
risalenti al periodo futurista e numerose
scenografie (quelle appunto che dettero
all’artista la maggior fama soprattutto all’estero,
nella stessa Germania – dove ebbe a risiedere
negli anni dal ’22 al ’26 – e negli Stati Uniti dove
soggiornò durante l’ultima guerra). Oltre a ciò
la mostra presenta alcune interessanti e
caustiche “tavole comparative” da cui risultano
evidenti certe indiscutibili “priorità” dell’artista
e di altri noti artisti contemporanei, rispetto
a loto seguaci o involontari imitatori.
È estremamente arduo per i contemporanei dire
– o pre-dire – a quale opera sarà legata più
intimamente nel futuro la fama di un artista:
spesso opere che parvero secondarie e minori
al momento della loro creazione, sono destinate
ad assumere un’importanza decisiva in tempi
successivi, magari assai lontani. Nel caso di
Baldessari, questo quesito si presenta anche più
arduo da risolvere data la latitudine del suo
operare in campi diversi seppur affini, e data la
molteplicità dei suoi interessi. Dovrà perciò
esser considerato più decisivo il suo apporto nel
settore dell’architettura, della scultura, del
teatro? Potremmo, ricordare, a questo proposito
come, nel suo ottimo volume sulla scultura
moderna Carola Giedion abbia incluso, tra
i pochissimi scultori italiani, per l’appunto
Baldessari; ma potremmo, del pari, affermare
che anche i disegni – spesso prestigiosi –
risalenti al periodo futurista del ’15
meriterebbero da soli d’esser rammentati quali
“documenti di un’epoca”. Oppure potremmo
ribadire che costruzioni quali la fabbrica Frua de
Angeli (’31), il Padiglione della stampa (del ’33),
il bar Craja (’30), l’Italcima (del ’34), il chiosco
Pensuti (’35), sono sempre architettoniche che,
per la loro data precocissima, meritano d’esser
considerate pedine essenziali nel cammino
dell’architettura moderna in Italia.
In effetti, in mezzo al gran parlare che si fa, da
trent’anni a questa parte, di «synthèse des arts»,
molto spesso avallando esperimenti e tentativi
quanto mai dubbi ed arbitrari – Baldessari,
ha avuto, sin dai suoi inizi, il coraggio di
realizzare codesta sintesi già nella concezione
stessa di parecchie sue opere: il disegno infatti
(concepito come atto creativo autonomo e non
come mera indicazione esecutiva) è sempre alla
base delle sue costruzioni, dei suoi scenari, dei
suoi allestimenti. La componente plastica è,
pur’essa, quasi sempre presenta che nelle opere
architettoniche (almeno nelle migliori); sicché
potremo parlare senza timore di equivoci, d’una
“plastificazione dell’architettura” per i grandi
padiglioni Breda, e d’una “architettonicità del
disegno” per le sue scenografie e i suoi schizzi
pre-esecutivi. È forse anche per colpa d questa
interdipendenza tra le diverse categorie di arti
visuali che non sempre la produzione dell’artista
ha trovato l’accoglienza desiderata o non si
è affermata come avrebbe meritato. Questa
mostra – presentando accanto alle opere
eseguite, i molti progetti mai realizzati (da quello
per l’E 42 a quello per il centro di San Babila, da
quello d’una centrale elettrica a quello per
il grattacielo dell’Interbau a forma stellare
tripartita) – ne offre una prova palmare e quanto
mai impressionante, e permette di compiere
quel “raddrizzamento” del giudizio critico che
non è mai possibile davanti ad opere isolate.
Ebbene: senza voler togliere a Baldessari il
merito d’aver interpretato nel migliore dei modi
il “clima futurista” coi suoi disegni, e l’impianto
funzionalista con le sue architetture prebelliche
e con alcuni arredamenti (Libreria Notari ’27,
Calzaturificio Varese ’29) io ritengo che il
momento decisamente significativo della sua
arte, quello che dovrebbe bastare anche per gli
anni futuri a costituire un piedistallo per
l’importanza creativa e rinnovatrice
dell’architetto trentino è la sua qualità di
inventore di forme effimere, di quelle particolari
architetture dell’istantaneo e del transeunte che
sono tra le più tipiche espressioni di un’epoca,
come la nostra, essa stessa effimera.
I migliori monumenti della nostra età, infatti,
sono, a mio avviso, quelli che furono concepiti per
un’occasione transitoria ma di cui pure restano
le documentazioni grafiche e fotografiche
a testimoniare la continuità nel tempo.
Gli allestimenti, dunque (come quelli
per la mostra voltiana del ’27, come quello per
l’ingresso della IX Triennale, come quelli per
la mostra di Van Gogh, dell’Arte Etrusca), che
abbiamo ancora negli occhi, pur a distanza di
anni, valgono certo molte case, palazzi e stadi
costruiti in più o meno solidi materiali da altri
architetti coevi. E, soprattutto, rimangono quali
testimonianze d’una capacità inventiva
singolarissima: la serie dei padiglioni pubblicitari
Breda alla Fiera di Milano del 1951, ’52, ’53, ’54 –
specie quelli del ’51 e ’52 – il cui sinuoso
dipanarsi nella grandiosità d’un impianto plastico
e al tempo stesso d’un “percorso” architettonico,
costituisce un esempio tra i più efficaci non solo
di quella particolare arte fieristica ma di quel
linguaggio architettonico che ha preso l’avvio da
una rinascita di spiriti e umori barocchi e che ha
visto negli ultimi anni moltiplicarsi i suoi adepti
sino a dilagare nell’eccesso di alcune
esemplificazioni brasiliane, venezuelane e
tecnologiche. Non si dimentichi perciò che,
per molti aspetti, i padiglioni Breda di Baldessari
si possono considerare come i progenitori di
parecchi edifici analoghi; e non si dimentichi che
Baldessari ha saputo intendere l’importanza di
una “rottura” con gli schemi funzionalistici con
una precedenza di alcuni anni, così come aveva
saputo accettarli nel 1930 quando ancora in Italia
erano appena stati importati. L’importanza di
questa mostra, in definitiva, ci sembra indubbia,
specie se si tenga conto che viene ad inserire ed
a proporre nel cuore d’una Germania oggi tesa
verso una restaurazione del verbo funzionalista
alquanto tradizionale, una varietà d’accenti
quanto mai personali; forse particolarmente
efficace per un pubblico come quello germanico
perché crea una sorta di ideale ma anche
tangibile trait d’union tra il “momento
espressionista” che ebbe in quel paese il suo
glorioso (e di cui Baldessari ha interpretato
lo spirito nelle sue scenografie che la mostra
esemplifica) e l’attuale momento di rinascita
plastica da cui invece la Germania sembra essere
ancora non tocca. L’influenza che queste opere,
esposte a Monaco e a Francoforte sono destinate
ad avere sull’ambiente architettonico e grafico
mitteleuropeo è dunque, senza dubbio, rilevante;
e ci è sembrato opportuno sottolinearlo anche
sulle pagine di questa rivista.
Padiglione della Stampa
alla V Triennale di Milano,
1933.
192
193
Italo Cinti
Luciano Baldessari, architetto integrale,
in «Economia Trentina», 5-6, 1959,
pp. 5-20
Luciano Baldessari è l’artista più completo fra
i moderni, il più rinascimentale: colui che porta,
insomma, ad espressione, con qualunque
processo artistico intenda operare, e ne impiega
diversi, l’integralità massima dell’uomo. È per
questa esemplarità, valevole a portare chiarezza
nel mondo dell’arte contemporanea, che da
tempo ho posto attenzione su di lui; per
giovarmene il più possibile (dato che cerco
maestri e non allievi), e per giovare, potendo,
a quanti lavorano su di sé per conseguire
appunto questa benedetta chiarezza.
Baldessari è pittore, scenografo, architetto,
arredatore e allestitore di mostre; e invece di
svolgere attività particolaristiche, proprio oggi
che si cerca la pura pittura, la pura scultura,
la pura architettura, arrivando nello smontaggio
alle estreme amputazioni, egli è sempre unitario;
nel senso che in ogni sua opera, se pure
classificabile per l’estrinseco a una singola arte,
ci sono gli elementi di tutte le altre. Come
dev’essere, e come si arriverà ad intendere,
dovendo por fine allo sperimentalismo
particolaristico che ha già dato i suoi frutti,
e molto cospicui, e che, continuando a vuoto,
diverrebbe ozioso.
Questa dell’unità dell’arte è la prima, la più
fondamentale delle conferme che vi vengono da
quella particolare e viva unica esperienza che
è Baldessari. Ma noi dovremo cercare prove
dialettiche. Metteremo quindi innanzi quella
capitale delle epurazioni allo scopo di togliere
davvero da un’arte quello che è delle altre; per
vedere che cosa accade e per non far credito
nemmeno a Baldessari, se prima non abbiamo
vagliato criticamente la sua posizione
integralista […]
Nei tempi d’avvento delle nuove civiltà, v’è una
prima fase, quella del distacco, in cui le nuove
istanze sono confuse, mentre gli impulsi a tutto
negare del passato sono quanto mai radicali e
violenti. In questa fase non è difficile inserirsi,
essendo che l’estremismo è più questione di
carattere che di fantasia. Quando invece il nuovo
ciclo si afferma con certezze vitali, occorrono
al fine le doti creative. Oggi ci troviamo in questa
fase, che è poi quella dell’ecatombe, non bastando
più gridi o ingiurie per avanzare, ma occorrendo
davvero valori positivi; e in questa fase Baldessari
è passato in testa; è tra i pochi architetti moderni,
infatti, a usare, quando occorre, un nuovo
monumento; vale a dire ad esprimere un
194
contenuto poetico, al di là e al di sopra del fatto
funzionale, che tuttavia non viene sacrificato.
Dice Gropius nel suo libro Architettura integrata:
«Lo slogan “funzionalità uguale bellezza” è vero
solo a metà. Quando diciamo bello un viso
umano? Ogni viso è funzionale, ma solo
proporzioni e colori perfetti, in una
contemporanea armonia, meritano quel titolo
d’onore. Lo stesso è vero in architettura. Solo
l’armonia perfetta delle sue funzioni tecniche
come delle sue proporzioni può sfociare nel
bello». Nel 1957 Baldessari stesso scriveva:
«Credo fermamente ad un’etica di chiarezza
e pertanto la mia attività è ancora legata, seppur
libera, ai primi validi schemi del razionalismo».
Che sia «libera» potremo sincerarcene con una
ricerca volta a separare criticamente il razionale
puro dagli innesti poetici che quel razionale
traspongono in una zona superiore. Perché sta
proprio in quel «libera», che riammette l’estro, la
sua classificazione di architetto come artista […]
Non mi dilungo, e potrei citare i tre meravigliosi
complessi Breda alla Fiera di Milano. Avrò
occasione più avanti di integrare l’argomento con
altri collaterali, ma resta dimostrata la
effettuazione della sintesi razionalismo-lirismo,
fusi organicamente in un solo getto creativo per
via analogica. Cos’è l’analogia? È appunto un
processo squisito di integrazione: un’immagine
si pone in movimento e si accomuna, si immerge
in un’altra. Ne risulta una nuova immagine, che
a sua volta può mescersi in una terza sulla via
della partecipazione al tutto. La comunione
mistica non è che presenza contemporanea in
ogni parte del tutto. Perciò è gioia ineffabile.
Perciò acquista significato particolare
l’architettura di Baldessari. L’auspicio per una
architettura integrata di Gropius, per la
simultaneità delle tre arti figurative propugnata
da Le Corbusier, in Baldessari è un fatto d’ogni
giorno.
Ho cercato di caratterizzare con la scoperta
dell’idea analogica alcuni edifici di Baldessari.
Non ci si meravigli della apparente sommarietà di
queste caratterizzazioni. La realtà di un edificio,
dopo un congruo esame, consiste nella capacità
di vederlo “contemporaneamente” dentro, fuori,
sopra e intorno nella sua integrale corporeità
fisica e di comprenderne l’espressione spirituale,
raggiunta nel suo nocciolo. Non sempre questa
visione essenziale si rivela subito. Talvolta bisogna
attenderla, si tratta di una intuizione che deve
coincidere con quella dell’artista. Si tratta
insomma di comunione. Solo che nella specie
critica l’intuizione deve poi tramutarsi nella
dialettica necessaria a scoprire se gli organi
obietti vati nell’immagine sono tutti necessari,
oppure se ve ne sono di superflui e se la forma
esprime tutto il contenuto “antecedente” fino
a renderlo concreto nella forma stessa, o se lo
cela o disperde con intrusioni estranee. Ecco che
allora il Padiglione Vesta, armadio a vetri
monumentalizzato, ci riappare con un rigore e una
purezza inattaccabili. Nulla da aggiungere e nulla
da togliere: tale il contenuto e tale la forma, giusta
la “scala”, il rapporto delle tre dimensioni snello e
sottile, di una eleganza distinta e godibile. Allo
stesso modo possiamo fare a ritroso, cioè dalla
realizzazione all’idea, il cammino intuitivo per
il Padiglione della Stampa, per trovare una
conferma con maggiore consapevolezza di un
ciclo compiuto e concluso di creatività […]
Nella casa torre di Berlino, appena ultimata
(è stato chiamato coi migliori architetti del
mondo a segnare la presenza dell’Italia),
imposta genialmente la pianta su due superfici
separate per l’aerazione diretta. Le due
superfici, legate da logge traverse (scenografia
nobilissima), sono formate ciascuna da due
rettangoli a contatto sulla mezzaria, ma
divergenti, il che forma chiaroscuro a vasti
campi e rende le viste indipendenti […] V’è una
chiarezza così immediata, una logica così
lampante e inoppugnabile, insieme ad una
armonia così sottile, da raggiungere la poesia.
Qui non si tratta peraltro di poesia gratuita,
offerta di volta in volta dal mutare delle superfici
secondo l’ordine elementare e causale
dell’esistenza, qui si tratta di invenzione, cioè di
pura e autentica creatività architettonica. Qui è
l’uomo consapevole che ha impresso nella forma
più semplice la significazione della serenità e
della individualità appartata e fin segreta, pur nel
complesso di un’ampia convivenza di
centotrenta abitazioni, il che, tra l’altro, risolve
un delicato problema sociale […] La critica è una
sperimentazione che si avvale di quante
verifiche è possibile effettuare. S’era parlato in
Baldessari di razionalismo lirico e di
integralismo rinascimentale che sorge da
un’idea analogica. Non è dunque inopportuno
saggiare come sorge l’idea in Baldessari. Non
è mai “cercata” intellettualisticamente, è una
veggenza istantanea che si conclude in uno
schizzo. I suoi schizzi, tanto di quadri, che di
scene e di architetture, sono di una velocità che
ha del proiettile. Sono scariche che
concretizzano l’immagine in un baleno, facendo
sovvenire quelli di Mendelsohn e meglio ancora
i disegni a rette radenti di Feininger. Certuni,
appunto, sembrano sparati. Ora questa
infallibilità senza pentimenti è garanzia in primo
luogo di autenticità senza finzione alcuna, in
secondo luogo dell’organicità del getto unico.
Mi diceva in un incontro alla Galleria Kaldor
“Casa Beust” in Torbole: «Nella scultura è
necessario essere intorno all’immagine,
nell’architettura bisogna essere fuori e dentro
nello stesso istante. All’architettura è necessaria
l’onnipresenza». Questo essere “fuori e dentro”,
è proprio tutta la cosa permeata con al presenza
di tutto lo spirito; il che abbiamo già osservato
[…] Non siamo peraltro giunti alla radice delle
supreme eleganze, reperibili negli schizzi di
Baldessari, senza di che, ad esempio, non
potremo comprendere i tre miracoli dei
Padiglioni Breda, in ispecie di quello del 1952,
quel nastro che gira e nel girare si arrovescia
e fa belle curve sfogate, poi si avvolge
slargandosi e impennandosi in imbuti estrosi.
La geometria ha estratto appunto con taluni
movimenti linearistici, le eleganze dei moti
astrali o degli itinerari delle forze che agiscono
nella natura. Abbiamo così parabole, ellissi, ovali,
spirali, iperboli, cerchi e poligoni; e l’architettura
se n’è impossessata con tutti i possibili raccordi,
impiegando altresì gole dritte e rovesce, scozie,
“becchi di civetta”, concoidi, archi e volte.
Con il Padiglione Breda 1952, con lo schizzo per
un teatro sull’acqua (1952), che raccorda due
concoidi una dentro l’altra, siamo alle origini del
classicismo greco, nella condizione apollinea più
perfetta, e però in uno stato inventivo nuovo,
modernissimo, che aggiunge alla sublimazione
della forma, l’espressività della forma stessa;
siamo inoltre, come ognun vede, alla condizione
della “geometria latente” di Bragdon, o meglio
ancora alle idee primordiali di Goethe,
nell’impulso continuo della metamorfosi,
assunto dall’uomo come attività che conduce
la stessa natura ad evolversi. A conclusione di
questo ordine di concetti è bene avvertire,
nondimeno, che gli schizzi non si possono
gustare senza una autentica partecipazione
spirituale al loro tesissimo impulso creativo.
Perché se si è troppo calati nel piano del “tutto
195
sensibile”, non si può trovare l’apertura
necessaria a comprenderli, dato che la linea,
in sé, è l’elemento artistico più povero di
corporeità, anche quando si fa germe
determinato di visioni ampie e potenti.
Oggi si parla di spazio. Si dà allo spazio
architettonico un valore primario che non ha,
in quanto lo spazio che contiene qualsiasi forma
non è forma, è una costruzione mentale, sia pur
derivata dall’intuizione sensibile che sorge da un
“prima” e da un “dopo” e si congegna in seguito
a infinite sperimentazioni di rapporti di distanze
fra le cose per un bisogno di ordine e di
chiarezza. In ogni atto creativo, il fatto primario
è la forma, cioè l’idea che pone l’immagine con
la sua particolare determinazione. Geoffrey
Scott deduce la concezione spaziale dal fatto
che per la conoscenza di una architettura
bisogna muoversi, camminare intorno e dentro
al monumento. E poiché a muoversi si percorre
spazio, l’elemento fondamentale
dell’architettura diviene automaticamente, per
lui, lo spazio. Ma non ha pensato che a
percorrere spazio si impiega tempo e che tempo
e spazio sono sempre insieme. Sicché
l’architettura è anche tempo. I due concetti
infatti si sono dovuti unificare con una sola
parola: “cronotopo”, talché se ne discorre in
modo congiunto. Sarebbe qui fuor di luogo
riandare alle concezioni di tempo e spazio più
famose, da quelle di S. Agostino, di Kant, di
Leibniz o di Newton, di chi li pone da matematico
o da metafisico in assoluto; o chi li pone in modo
individualistico o psicologico; qui importa
riaffermare che l’immagine nasce come
immagine, puramente e semplicemente.
La paternità spirituale che la fa essere, bada
a lei; la gestazione lunga o breve si applica solo
su di lei. Certo dovrà poi collocarsi in un
ambiente, ma questo è sempre implicito; e se
dovrà collocarsi con sapienza urbanistica dovrà
considerare non altri spazi, che sono astratti,
ma altre forme con la loro concretissima
corporeità. Perciò si comprende la netta
posizione di Baldessari quando nella conferenza
tenuta a Berlino nel 1955 per invito
dell’Associazione architettonica di Germania,
afferma che la sua corrente pone la istanza di
una architettura «plastico-formale». Cioè
plasticare, dar forma a un’idea, far essere in
modo positivo corporeo-spirituale. Abbiamo già
visto, d’altronde, che l’idea in Baldessari nasce
dal puro impulso poetico dell’analogia, nasce
quindi per visione diretta e immediata; il che ci
sembra un’altra verifica della sua schiettezza.
Sappiamo bene che con questo ci poniamo
contro al già citato Scott, nonché a Wright, Zevi,
William Newton, Ellis; in compenso, per
Mendelsohn, Niemeyer, Aalto […] ha grande
importanza la determinazione dell’involucro
murario. Non vogliamo certo farne una
questione di autorità, come nel medioevo,
ci tratterremo perciò in sede ancora dialettica.
Per Zevi […] l’architettura è solo lo spazio
interno. Spazio interno, intendiamoci, non come
“stampato” dalla cassa muraria, tirata via la
quale risulterebbe la forma come risultato di una
“colata”, ma come luogo amorfo, perché la cassa
muraria per lui è monumento, vale a dire
scultura, non architettura. Ecco, quindi, che in
nome di uno spazio astratto (che ha, si è visto,
l’incomoda presenza del tempo), è costretto
ad abolire l’architettura, trasferendone tutta la
creatività nella scultura.
E l’unità delle arti? L’accetta in sede filosofica,
non in sede critica, senza però dimostrare la
validità di una simile affermazione. Perché se
una verità agisce nell’ordine universale, penetra
in ogni caso nel particolare; e dunque
l’architettura è proprio scultura, ma è anche
pittura, poesia e musica e, per identità,
potendosi agevolmente chiudere il circolo, anche
la scultura… è architettura. Baldessari ha
dichiarato franco, a questo proposito, di avere
abolito i limiti fra scultura e architettura, ha
dunque consapevolezza per esperienza diretta
dell’unità dell’arte. Non abbiamo peraltro ancora
superato il concetto di spazio-tempo. Sono
strumenti posseduti dallo spirito per un bisogno
di ordine, come abbiamo rilevato. Compiuta
perciò la loro funzione di strumenti, vengono
messi da parte. Quand’è che tempo e spazio,
nel giudizio estetico, hanno compiuto il loro
ufficio preliminare? Quando per successive
analisi e sintesi, la conoscenza dell’immagine
è completa, quando la presenza delle sue parti
è contemporanea e unificata, quando cioè si
realizza, sia pure nei limiti umani, l’onnipresenza
relativa all’oggetto in esame, e quindi, nel caso
dell’architettura,quando si è superata la fase
separativa dei momenti e dei luoghi diversi per
giungere all’unità dello spirito, che, in sé, è
onnipresente e onnisapiente. Ma allora abbiamo
la forma; e appunto Baldessari bada alla forma.
Guido Ballo
Designers italiani. Artisti del nostro tempo:
Luciano Baldessari, in «Ideal-Standard»,
settembre-novembre 1964, pp. 34-42
«Credo fermamente a un’etica di chiarezza…
Mi accosto ai soggetti più disparati, agli
esperimenti più nuovi, se sanno d’invenzione
e valgono da messaggi; godo rasentare il pericolo
dell’attuazione». Queste poche frasi danno già un
acuto autoritratto psichico di Luciano Baldessari,
una delle figure più rappresentative che hanno
contribuito al rinnovamento del clima artistico
italiano di oggi: in quella particolare e
problematica zona d’incontri fra architettura,
pittura, scultura, scenografia, grafica.
Per renderne più veri nella loro complessità
i tratti, bisogna però aggiungere che egli è di
origine montanara: l’esigenza di chiarezza deriva
dunque, fin dall’infanzia, dalla familiarità col nitore
dei rapporti, con l’evidenza limpida. Ma sarebbe
uno sbaglio definirlo, come è stato anche fatto,
un semplice razionalista: la componente
razionalista è senza dubbio fondamentale,
ma non spiega questo suo bisogno di tensione,
di colore, di nuovo, questa sua ansia continua
di espressività, anche se dominata con rigore.
Il fatto è che col razionalismo ha influito sulla sua
evoluzione anche l’espressionismo: non quello
gridato in modo esterno, ma il più teso
astrattamente, quello cioè che porta il colore non
ai valori di suffuse atmosfere, ma di accentuazioni
strutturali, di rapporti cromatici esaltati nei timbri,
di materie nuove, di tagli imprevedibili,
di sorprendenti effetti dinamici. È ovvio che,
su questa strada, la radice diventa addirittura
scenografica: nel senso (ad evitare equivoci) non
di semplice apparenza visiva, ma di colloquio
sempre vario e mobile. L’aspirazione all’unità delle
arti, tanto perseguita da Baldessari, trova così una
ragione che non è ritorno al rinascimento, ormai
lontano come clima da noi: è necessità
d’intendere l’architettura nella sua evidenza
plastica, di colore, di nitida luce; la scultura,
nel criterio architettonico; la pittura e la grafica,
in funzione di segno strutturalmente dinamico.
Su tutto questo, è chiaro, la premessa futurista
ha inciso come spinta morale, al di là degli stessi
risultati delle opere. Siamo ancora nel 1912:
Luciano Baldessari, a Rovereto, quando ha
appena sedici anni, può frequentare Depero,
anch’egli di quella città […] L’esperienza
futurista rimane però una premessa, di ordine
più morale che linguistica: il giovane pittore
viene al Politecnico di Milano e si laurea in
architettura nel ’22: ma non abbandona gli studi
di pittura, di scultura, di scenografia. Dal ’22 al
’26 Baldessari si sposta a Parigi e poi a Berlino:
soprattutto qui si dedica ai problemi del teatro e
del cinema, entrando in rapporto con le scuole di
Reinhardt e di Piscator. Proprio da questi registi
apprende i principi, congeniali al suo
temperamento, «della coordinazione di elementi
multipli in una visione unitaria» […] Certamente
queste esperienze teatrali, fatte nel clima
rovente della Berlino degli anni del primo
dopoguerra, hanno inciso sull’evoluzione di
Baldessari: anche quando diventerà architetto
razionalista, non potrà dimenticare certa
evidenza di strutture e certo valore di
immediatezza espressiva, in funzione dinamica.
I suoi più recenti esempi di architettura
pubblicitaria sono un altro conseguente sviluppo
di tali esperienze. Due bozzetti di scenografia,
per Giovanna d’Arco di Shaw, destinati al teatro
Reinhardt a Berlino, indicano già in Baldessari
una tendenza costruttiva, dove i suggerimenti di
Adolfo Ampia, che fin dall’ultimo Ottocento ha
contribuito a rinnovare la concezione scenica in
Europa, fanno tendere alla terza dimensione
plastica: è già, in questi bozzetti, il germe di
un’architettura mossa nella luce e nel colore,
affidata ai valori strutturali […] La prima opera
attuata fuori del teatro è la Mostra della seta
all’Esposizione Voltiana di Villa Olmo a Como, nel
’27: ed è una conseguenza delle precedenti
esperienze sceniche. Lo spettatore non sta più
in platea, ma si muove in questa nuova, nitida
“scena” architettonica, dove l’espressionismo
dei rapporti cromatici accentuati assume vigore
e anche evidenza da tutta l’ambientazione
spaziale purificata al massimo […]
Nel ’33 Baldessari inventa con sottile fantasia una
delle sue più estrose e limpide architetture
pubblicitarie, il Padiglione Vesta per l’Industria
tessile De Angeli Frua alla Fiera di Milano. Bisogna
dire a questo punto che l’architettura pubblicitaria
risponde perfettamente, come genere, alle
necessità espressive di Baldessari: in sostanza è
una variante della scenografia, intesa nel senso
più nuovo; è anch’essa provvisoria e implica
l’esigenza di attrarre lo spettatore coinvolgendolo
nella partecipazione attiva. In più, l’architettura
pubblicitaria non può non partire dalla chiarezza
funzionale: è spettacolo, ma deve colpire, e per
coinvolgere il visitatore ha bisogno di attirarlo il più
vicino possibile; a differenza dunque della scena
che si svolge davanti agli spettatori, ma lontana
(ormai da tempo, tuttavia, il teatro – a pianta
centrale o no – ha cercato di superare questo
dualismo: da Gropius e Piscator, a Luigi Pirandello,
che, come autore, identificava il personaggio con
lo spettatore, abolendo idealmente la platea)
l’architettura pubblicitaria, per essere efficace,
diventa ambiente spaziale dove penetra e si
muove il visitatore. Ebbene, Baldessari, fin da
questo suo primo esempio del Padiglione Vesta,
ha sentito tale necessità: rivelandosi architetto
rigoroso, ma con estro fantastico, oltre che grafico
nuovo (perché la sua architettura pubblicitaria
è anche variante della grafica pubblicitaria) e
scenografo: la serie degli allestimenti di mostre,
fino a oggi, e gli altri suoi esempi in questo ramo
sono indicativi. Il Padiglione Vesta è un esempio di
puro razionalismo: nella semplicità strutturale del
parallelepipedo […] il volume finiva col risolversi
nella superficie, e questa a sua volta si annullava in
un reticolato di sottili linee ortogonali, tutto a vetri:
l’interno e l’esterno comunicavano con estrema
chiarezza, per cui al visitatore non era nas costo
nulla. È questa, senza dubbio, una delle opere più
poetiche di Baldessari: lo stile è misura, ma anche
chiarezza di funzione e di parola. Si giunge così al
’33, l’anno del Padiglione della Stampa alla V
Triennale di Milano, considerato come il
complesso più importante costruito da Baldessari
tra le due guerre. due corpi distinti si integravano:
un corpo formava la parte “rappresentativa”,
risolvendosi in accenti monumentali; l’altro corpo,
in ferro e vetro, con infissi in giallo tenue,
costituiva la parte “utile”: su pannelli e diaframmi
si susseguivano i documenti della mostra […]
Per J.H. Harris di New York Baldessari progettò,
sull’area occupata oggi parzialmente dallo
sbocco della Racchetta, la costruzione di un
grande “centro” di 4000 mq, che comprendeva
un teatro, un cinematografo, un ristorante:
ai piani superiori erano abitazioni e uffici per una
costituenda società cinematografica.
Il complesso della costruzione formava un
blocco, reso più dinamico e teso – oltre che dalle
proporzioni – dalle sottili nervature delle
strutture portanti, lasciate in vista secondo
i suggerimenti di Wright […] Altro progetto
anteriore alla guerra, non realizzato ma ricco di
interesse, è il Palazzo della Civiltà Italiana all’E 42
di Roma con la collaborazione di Saliva:
i grandiosi parallelepipedi tutti a vetri, mentre
accentuavano – per le regolari sequenze di
elementi in travertino, per il basamento in granito
scuro, per il corpo centrale in porfido rosso –
il valore cromatico, erano un conseguente
sviluppo dell’architettura razionalista, ma risolta
con calda partecipazione espressiva […] Dopo
l’allestimento della Mostra di Van Gogh (1952),
cromaticamente esaltante, e quello più sobrio
e funzionale per la Mostra della Civiltà Etrusca
(1955) pure nel Palazzo reale di Milano,
le architetture pubblicitarie, per i Padiglioni Breda
alla Fiera internazionale di Milano (1951-55), con
la collaborazione di Dal Monte, Grisotti e Gosso,
sono un punto di arrivo di tutto il linguaggio di
Baldessari. Anche il grattacielo all’Hansaviertel di
Berlino (1955-57), con la collaborazione di Saliva,
è la conclusione di tutte le altre sue architetture
razionali: ma qui egli non ricorre ad alcuna
soluzione scenografica; il risultato è pura
architettura, che trae vigore dalle strutture e
s’impone come vivo esempio razionalista, molto
nitido e valido anche dal punto di vista sociale.
Nei Padiglioni Breda invece la funzione
pubblicitaria ha fatto scattare liberamente l’estro
di questo singolare artista: il visitatore era
coinvolto, penetrando nel mistero della tecnica di
oggi, perché poteva vivere nel movimento
ambientale di tutta la architettura dinamica della
mostra, sempre nuova nelle varie rielaborazioni.
Architettura pubblicitaria dunque veramente
attiva, che ha stabilito un dialogo aperto col
pubblico: per il movimento neobarocco, ma
funzionale, delle strutture, per le parabole
costruttive, le iperboli, gli scorci suggestivamente
scenografici. Anche recentemente Baldessari ha
raggiunto con coerenza il più vivo nitore di
concezione architettonica: il suo progetto per
la Fontana del Risparmio (concorso bandito dalla
Cassa di Risparmio, Milano 1962 e chiusosi nullo)
e l’altro per il Monumento per la Campana dei
Caduti di Rovereto (concorso bandito dalla
Reggenza per la Campana, 1964 e vinto in
assoluto da Baldessari) indicano senza equivoci
la sua inventiva, mentre risponde con dominio di
forme plastiche alla particolare ambientazione,
muove gli elementi architettonici con libertà
nuova: l’architettura diventa scultura, regolata da
un segreto ritmo di dinamica spaziale.
Con queste opere Luciano Baldessari ha dato
conferma della sua estrosa fantasia, della lucidità
razionale, e dell’immediata, umana facoltà
comunicativa: perché, come dicevo, alla radice
del suo linguaggio è sempre la necessità d’una
parola da comunicare con estrema chiarezza,
da uomo schietto, di montagna.
Casa della madre e del
bambino, Brescia 1935-37.
Progetto di villa
alla Giudecca, Venezia
1936-37.
Progetti per il concorso
del palazzo della Civiltà
Italiana all’E 42, Roma 1937.
196
197
Progetto per un
complesso in piazza
San Babila, Milano
1936-39.
Enrico D. Bona
Baldessari testimone e protagonista,
in «Casabella», 342, novembre 1969, pp. 10-21
Su una rivista che si occupa fondamentalmente
dell’architettura inserita nel mondo industriale,
sia per quanto riguarda le metodologie di
progettazione che i procedimenti di
fabbricazione o di montaggio, sembrerebbe
strano veder apparire periodicamente opere
o personaggi scelti al di fuori di questo filone.
Dato per scontato che gli strumenti della ricerca
critica sono oggi in grado di correlare fra di loro
anche gli episodi apparentemente più lontani,
è pur sempre logico rivolgersi, e non solo per un
semplice intento speculativo, a quelle fonti che
non sono comprese per intrinseche
caratteristiche formali o per suddivisione
tipologica (la chiesa, il teatro, l’allestimento
fieristico teatrale, il museo e molti altri edifici per
la collettività) nel settore dell’edilizia
industrializzata. In effetti, le posizioni opposte
dell’architetto che lavora individualmente e del
gruppo organizzato dovrebbero avere degli
scambi a livello critico e culturale per integrare
delle esperienze che rischierebbero di non
esplicare completamente la loro potenzialità.
Anzi, allo stato attuale, è quasi sempre
l’individuo che dà al gruppo più di quanto da
esso non riceva e questo perché chi ha la
capacità di condurre un discorso autonomo ha
in sé una ricchezza di contenuti che manca
generalmente al lavoro organizzato dal team:
il quale a sua volta elude volontariamente certi
problemi per affrontarne altri. Ma finché
è necessario rintracciare nell’opera dell’uomo
una sua immagine ed una sua somiglianza
(esigenza oggi non scomparsa e forse
inalienabile) alla comunità saranno
indispensabili – e su questo punto si batté con
tutte le forze Sigfried Giedion – quegli individui
generalmente chiamati artisti; ai quali oggi
qualcuno – credendo così di fare qualche cosa di
nuovo – ha cambiato il biglietto da visita in
operatori plastici e visuali, senza accorgersi che
l’uomo è sempre lo stesso ed ha semplicemente
cambiato certi strumenti. In questi termini
ci proponiamo di leggere l’opera di Luciano
Baldessari. Il quale fin dai primi ani lasciò
trasparire i segni di quanto dentro gli ribolliva,
confermando che i così detti “meravigliosi
incidenti” o presentimenti non è che accadano
a tutti o per caso. Sarebbe sufficiente per questo
ricordare che, sentendosi soffocare
nell’ambiente ristretto e provinciale di quell’Italia
che solo ora si accorge di aver rifiutato il
futurismo (unico movimento che insieme a certe
punte della pittura metafisica potrà reggere
storicamente al confronto delle grandi correnti
198
dell’arte moderna), prese il treno e andò
a Berlino per vivere, e rimeditare poi
continuamente, una delle stagioni culturali più
importanti del nostro secolo.
Oltre questo, che potremmo definire dell’intuito,
peraltro spiccato e sicuro, due altri tratti devono
essere ricordati nella personalità di Baldessari:
il superamento della idea politica di parte –
e non idea dell’uomo, sull’uomo –, di fatti
cronistici contingenti per i quali una idea viene
gestita, amministrata, mortificata in
compromessi; la libertà assoluta di pensiero e di
azione, che lo ha portato a rifiutare
l’accomodamento per evitare giri professionali,
le millanterie propagandistiche (e per chi ha
vissuto direttamente con gli altri protagonisti le
origini dell’architettura dei nostri tempi non era
certo difficile recitare una parte che molti altri
con minore diritto hanno invece recitato).
Su questo temperamento la storia europea
intorno al secondo e terzo decennio aveva buon
gioco; e fu proprio il futurismo che lo predispose
ad incontrare espressionismo e razionalismo dai
quali Baldessari assunse i temi che elaborò
lungo la sua opera.
Il futurismo agì su di lui probabilmente in due
direzioni: formale e contenutistica. Diciamo
formale nel senso che la sua non fu una
adesione puramente esteriore ma una
partecipazione diretta; prova ne è che dai primi
disegni ai più recenti, pur passando attraverso
diversi significati, la libertà del segno e la sua
immediatezza, la dinamicità e l’impossibilità di
rappresentare un oggetto per parti (o prospetti)
ma in una unità che supera spesso i normali
parametri percettivi, non sono mai venuti a
mancare. Quanto ai contenuti, oltre a quelli già
espressi (rottura degli schemi prospettici
tradizionali, ricerca di un nuovo linguaggio) va
ricordato che il futurismo combatté quello che
oggi potremmo chiamare la sua contestazione
su diversi canali ma fondamentalmente sul
teatro. Cioè su una materia essenzialmente
classica perché implica il concetto di
rappresentazione, di essere e di recitare,
di posizioni soggettive e oggettive; in definitiva –
e ritorniamo su quanto detto per l’aspetto
politico – implica una visione dell’uomo, attore
della propria vita. Baldessari scenografo perciò,
pur assumendo conseguentemente, ed anzi
proprio qui con maggiore evidenza, i temi più
caratteristici dell’espressionismo, non aderì solo
casualmente ai motivi più umani dell’opera di
Pirandello; e la sua scenografia non fu perciò
a livello di semplice allestimento di uno spazio
fisico per la scena, come a tutt’oggi ancora
avviene per questo tipo di “spettacolo”.
Probabilmente la differenza è tutta qua: fra
“spettacolo” e rappresentazione. Pertanto
il filone scenografico riemerge spesso nell’opera
di Baldessari anche in manifestazioni di tipo non
teatrale; essendo centrato su problemi di
contenuto, di idee, di espressività, rimane
disponibile e aperto anche per altri problemi:
e non per nulla proprio negli allestimenti
espositivi commerciali (quali le fiere
campionarie) o culturali (quali le numerosissime
mostre dalle quali emergono le sale per Van
Gogh e per gli Etruschi) o comunque in quei fatti
che, temporalmente provvisori, potremmo
definire effimeri. Essi acquistano valore quanto
più si esprimono in termini ideali, quanto più
hanno capacità – superati i brevi termini della
sopravvivenza fisica – di rimanere nella
memoria; di svolgere cioè il proprio ruolo
culturale allo stesso livello delle opere
permanenti. Più da vicino consideriamo
il padiglione Vesta alla Fiera di Milano del 1933
e lo scalone d’onore alla IX Triennale di Milano
del 1951: il primo è un oggetto di arredo sentito
in termini razionalisti ingrandito alla scala
architettonica per acquistare uno spazio subito
perso attraverso la grande vetrata –un autentico
atteggiamento pop ante-litteram –; il secondo
è l’intervento in un ambiente in sé inespressivo
reso spazio architettonico con il semplice
inserimento di un fondale ricurvo e inclinato.
Il futurismo pertanto, che si pose come
elemento di rottura in termini assoluti, quasi
esclusivistici ed aprioristici, agì proprio sul
teatro colpendo nel vivo del problema, optando
per una rivoluzione in cui l’aspetto formale
interviene come una delle componenti. E in
termini umani, ideologici, la lezione più interiore
del futurismo fu probabilmente di stabilire
un’altra differenza (oltre quella di “spettacolo”
e “rappresentazione”): fra avanguardia e
avanguardismo; intendendo con il primo termine
ogni vitale necessità di rinnovamento, con il
secondo ogni rivalsa demagogica da sfruttare
in termini propagandistici spesso legati a motivi
politici contingenti (differenza che intercorre ad
esempio fra Malevič e Guttuso). Con questo
bagaglio, l’espressionismo e il razionalismo non
sono stati assorbiti da Baldessari in termini
puramente linguistici e formali ma al limite come
momenti ideali (libertà e razionalità) che
intervengono dialetticamente (e il discorso
è ancora tutto crociano) nella creatività
dell’opera d’arte. La definizione di Baldessari
quale artista europeo, spesso enunciata ma forse
mai a fondo verificata, va intesa in questo senso:
proprio nell’aver capito che il razionalismo non
è stato l’unico promotore dell’architettura
moderna europea, ma che accanto ad esso,
dialetticamente, va posto l’espressionismo […]
Nell’opera di Baldessari ritroviamo proprio la
storia rivissuta sinteticamente in termini ideali
ed è per questo che può sembrare inutile
rintracciarne punto per punto le derivazioni ora
dall’espressionismo ora dal razionalismo in
quanto le premesse enunciate ci portano
a concludere come fatto fondamentale che
Baldessari è al di fuori di uno stile
linguisticamente configurato. Baldessari ha un
“suo stile”, come atteggiamento personale e
perciò irripetibile: la sua pertanto, più che di
forma, è una lezione di contenuti. Derivano da
questa situazione alcune immediate
conseguenze, prima tra le quali la definizione
dell’uomo-artista inteso in senso classico con
implicazioni di tipo umanistico. Ritroviamo infatti
nell’opera di Baldessari le varie componenti del
pittore, dello scultore, dello scenografo,
dell’architetto, ora in sé isolate ora saldamente
integrate; ciò significa un’assoluta padronanza di
questi linguaggi adoperati in funzione di quanto
si vuole esprimere, conferendo perciò all’idea
il valore fondamentale e primigenio nel processo
di creatività (e con ciò è reso praticamente nullo
il pericolo del formalismo); ma vuole anche dire
unitarietà nella misura in cui ogni problema viene
affrontato con quei mezzi che sono coerenti alla
sua scala e immediatezza fra pensiero e azione.
I disegni di Baldessari, sorretti da una tecnica
formidabile, hanno la rapidità e la sicurezza di chi
agisce senza ripensamenti e per puro intuito;
il loro svolgimento nel tempo non ha perciò
le caratteristiche della ricerca intesa in senso
tecnico o scientifico ma quelle della meditazione
continua ed interiore: ci corrispondono la libertà
e il lirismo delle linee continue ed il bianco delle
superfici (il simbolo della purezza e dei valori
assoluti cui Fontana – che molto si giovò della
collaborazione di Baldessari – dà il senso delle
cose perdute con un semplice gesto).
Specificatamente per l’architettura vorremmo
esaminare più da vicino come si esprima questa
unitarietà e che ruolo vi svolga lo spazio. Questo
perché generalmente si indica lo spazio come uno
dei componenti fondamentali dell’architettura.
Ma due atteggiamenti almeno nei confronti dello
spazio possono portare a due diverse concezioni
dell’architettura: o lo si pone come elemento
costitutivo in termini formali e funzionali, in un
199
certo senso già come idea architettonica, o come
categoria di una figurazione possibile che non ha
prevalenze particolari sulle linee, o i piani
o i volumi o la luce o il colore. Nel primo caso
l’architettura, pur potendo avere tutti i valori tipici
delle opere d’arte, rimane più facilmente legata
ad una destinazione funzionalistica in termini
materialistici, nel secondo prevalgono i contenuti
ideali e l’architettura, al limite, rimane essa stessa
strumento, e non fine, per la espressione dell’idea.
Si può pertanto riprendere, per approfondire,
il concetto di classicità prima ribadito, in quanto
proprio l’architettura può essere più disponibile
alla sintesi dei vari linguaggi (senza che ciò
comporti naturalmente una sua supremazia
rispetto alle altre arti). Le capacità di Baldessari
di essere ora pittore, ora scultore, ora scenografo
gli consentono con una certa immediatezza di
creare opere in cui lo spazio non è la matrice
fondamentale avendo in sé anche i
corrispondenti valori di luminosità, di plasticità,
di disponibilità alla rappresentazione. Rispetto al
problema della sintesi delle arti come viene oggi
impostata, Baldessari occupa perciò un posto
particolare:
Le Corbusier ad esempio tende a configurarsi
volta a volta come architetto o scultore o pittore,
lasciando perciò alle relative opere una certa
autonomia (un intervento pittorico rimane perciò
essenzialmente tale anche quando è inserito in
uno spazio architettonico e l’integrazione
si risolve più spesso in un accostamento); i già
citati operatori visuali o plastici, da parte loro,
hanno impostato il problema sull’unitarietà del
linguaggio (linguaggio come strumento per
esprimersi) dando per scontato il superamento
della pittura e della scultura in quanto tali.
Vorremmo perciò definire quella di Baldessari una
sintesi “ab initio”, una capacità di intuire il
problema nella sua scala corretta con tutte le sue
componenti necessarie per definirlo. E forse
proprio in questo senso, superando il periodo
storico della sua formazione, vorremmo limitare
la prevalenza delle componenti espressionistiche
nell’opera di Baldessari per accentuarne quelle
razionali – non già semplicemente razionaliste.
La definizione, da altri avanzata, di artista
europeo, va oltre le sue esperienze nella Berlino
del ’20 e del ’30 ma comprende quell’area di
storia mediterranea che dalla Grecia, al
Rinascimento italiano, all’Illuminismo francese ha
sempre fatto perno sull’uomo creatore, che trae
proprio dalla razionalità, in modi sempre diversi,
i motivi più validi per esprimere la propria
unitarietà ed individualità.
Veduta e studio della
cappella di Santa Lucia
nel complesso di villa
Letizia a Caravate, Varese
1962-68.
Cenni biografici
Sesto di nove figli, Luciano Giovanni Maria
Baldessari nasce a Rovereto (Trento) il 10 dicembre
1896. Morto il padre nel 1906, viene accolto
all’Istituto Orfanotrofio della sua città natale.
Nel 1909 entra alla Scuola Reale Superiore
Elisabettina (tra i suoi maestri ha il pittore Luigi
Comel). Nel 1913, con Remo Costa, Ennio
Valentinelli, Giovanni Tonini, Mario Maddalena,
Remo Galvani, Tullio Trotter, frequenta il Circolo
Futurista di Fortunato Depero, suo amico già dagli
anni dell’orfanotrofio e che gli aveva insegnato
i primi rudimenti di arte e disegno. Allo scoppio
della prima guerra mondiale, viene deportato con
la madre e le sorelle a Schardenberg-Schärding,
e poi a Braunau am/Inn. Trasferita la Scuola Reale
a Vienna, riprende le lezioni e si diploma il 31 luglio
1916. Subito dopo entra nell’esercito austroungarico e presta servizio in Galizia, Ucraina,
Polonia e al confine russo. Al termine del conflitto,
nel 1919 viene a Milano per studiare al Politecnico
e all’Accademia di Brera. Nel capoluogo lombardo
stringe subito amicizia con numerosi artisti
(dal compositore Riccardo Zandonai all’architetto
Giuseppe Pizzigoni). Il 14 dicembre 1922 consegue
la laurea in architettura.
Neanche un mese dopo, si trasferisce a Berlino,
per restarvi fino al maggio 1926. Nella città tedesca
lavora prevalentemente come pittore e scenografo,
frequentando artisti del cinema, del teatro e della
musica (Paul Wegener, Conrad Veidt, Werner
Krauss, Carlo Aldini, Maria Jacobini, Ferruccio
Busoni, Ignaz Friedman, Titta Ruffo, Mattia
Battistini, Alessandro Moissi, Carletto Thieben);
espone i suoi acquerelli in fortunate mostre,
diventando amico di galleristi-editori (Wolfgang
Gurlitt, Alfred Flechtheim, Bruno Cassirer)
e collabora al film Kaddish. Edmund e Max
Reinhardt si interessano alla sua attività
scenografica.
Tra gli altri, conosce Erwin Piscator, che influenzerà
notevolmente il suo modo di concepire l’arte
e l’architettura per il teatro. Negli anni berlinesi
ha l’opportunità di frequentare anche pittori (Oskar
Kokoschka, Otto Dix, Karl Hofer, Lovis Corinth),
scultori (George Kolbe, Kähte Kollowitz, Ernest
de Fiori), giornalisti (Magda Kluge, Edgar Ansel
Mowrer, Julio Alvarez del Vayo), critici (Rom
Landau), scrittori (Kurt Tucholsky), poeti (Ernst
Toller, Leo Lania, Giorgio Vasari, Herwart Walden)
e architetti (Mies van der Rohe, Walter Gropius,
Hans Poelzig, Ernst Neufert).
Nell’estate del 1925 trascorre alcuni mesi in
Francia, dedicandosi alla pittura, per poi tornare
a settembre in Germania, e nel maggio 1926 in
Italia. Nel 1927 allestisce a Como la Mostra
nazionale serica a Villa Olmo. Nello stesso anno
realizza la Libreria Notari in via Montenapoleone
a Milano. Continua il suo lavoro per il teatro,
realizzando numerosi bozzetti per scene
e costumi di opere quali Giuliano di Zandonai per
il Teatro Sociale di Como, La vita è bella di Achard
e Il vascello fantasma di Richter e Lothar entrambi
per il teatro Olimpia di Milano, Quelle signore di
Maugham per il teatro Eden di Milano. In questo
periodo – dirà in un’intervista rilasciata a Cesare
de Seta in occasione della Biennale di Venezia del
1976 – i suoi lavori sono influenzati dalla corrente
espressionista di Kokoschka e di Corinth.
Il carattere affabile e la disponibilità verso
il prossimo sono doti che gli creano una rete
di amicizie autorevoli: peraltro, artisti come i pittori
Sironi, Garbari, Radice e gli scultori Marini,
Fontana, Callery, sono, come lui, frequentatori del
bar Craja. Per il noto locale di vicolo Santa
Margherita esegue una completa sistemazione
degli spazi con l’aiuto di Luigi Figini e Gino Pollini,
insieme a Marcello Nizzoli (che realizza un
manichino metallico) e a Fausto Melotti (autore di
una fontana). Alla fine del 1928 apre il suo primo
studio a Milano e inizia a lavorare per Carlo
De Angeli Frua. Con l’industriale dei tessuti avvia
un proficuo rapporto professionale e di amicizia:
per lui realizza nel giro di pochi anni il palazzo per
uffici in piazza De Angeli (1931-32, 1937-38),
le sistemazioni di interni sia di appartamenti sia di
negozi, gli stand DAF alla IV Triennale di Monza
(1930), alla V Triennale di Milano (1933), alla
Mostra nazionale della moda di Torino (1933).
Sempre per De Angeli Frua crea anche il
padiglione Vesta alla Fiera di Milano del 1933.
Sebbene orientato verso una linea razionalista con
chiare matrici internazionali – evidente, oltre che
nei progetti per la De Angeli Frua, anche nel
negozio del Calzaturificio di Varese (1929-33) –
declina l’invito di Terragni, Bottoni e Vietti,
e rinuncia a partecipare ai Ciam.
Nel 1932 si iscrive all’Albo professionale di Trento.
Su suggerimento dell’amico Lamberto Vitali,
l’industriale Achille Levi affida a lui e a Gio Ponti
(con cui aveva lavorato all’Esposizione di
Barcellona, realizzando il manichino tubolare che
diventerà in seguito il celebre Luminator)
la costruzione a Milano della fabbrica di cioccolato
Italcima. Per difficoltà di collaborazione, in seguito
continua il lavoro da solo, avendogli Ponti ceduto
progressivamente la responsabilità del progetto,
riservandosi soltanto la direzione dei lavori.
Per un gruppo formato da impresari teatrali e registi
(Urievic, Pommer, Lang, Reinhardt, Pabst, Laemmle
e Griffith), progetta a Milano una Città
cinematografica (1932-33) da erigersi tra le vie
Inganni, Lorenteggio e Chinotto; le tavole vengono
esposte alla V Triennale di Milano. Nella medesima
Triennale costruisce il Padiglione della Stampa,
considerato da Giulia Veronesi la sua opera più
importante fra quelle realizzate tra le due guerre
(nel 1934 Raffaello Giolli scrive che il padiglione,
insieme a quello Vesta edificato
contemporaneamente nella Fiera di Milano, sono
«segni non equivoci della sua personalità»).
Ispirandosi agli spazi degli hangar per dirigibili,
nel 1934 allestisce all’Esposizione dell’Aeronautica
al palazzo dell’Arte di Milano le sale “Aviazione
civile, turismo aereo, posta aerea” e “Fascismo
e Aviazione”, quest’ultima definita da Edoardo
Persico «una costruzione di propaganda, in cui tutti
gli elementi hanno carattere di vivace e immediata
illustrazione». Con il Padiglione Ortofrutticolo
e Vinicolo, e con l’allestimento dello stand per
la Montecatini, partecipa all’Esposizione
internazionale di Bruxelles del 1935. L’anno
successivo, su incarico di De Angeli Frua e della
Breda avvia il progetto del complesso di piazza
San Babila a Milano (nel gruppo finanziatore, oltre
alla Metro Goldwin Meyer, vi è il costruttore John H.
Harris, per il quale disegna una villa da costruirsi
alla Giudecca in Venezia): guardando alle
esperienze tedesche, per la centralissima piazza
milanese studia un ardito complesso, in cui si
esaspera – come scrive Fulvio Irace «la misura di
magnete urbano».
Mentre per l’Opera nazionale maternità e infanzia
completa gli edifici di Brescia e di Roma (1935-37),
con un’articolata composizione monumentale, nel
1937 partecipa, in collaborazione con l’ingegner
Ernesto Saliva, al concorso per il Palazzo della
Civiltà Italiana all’E 42. Nel 1938 trasferisce
l’iscrizione all’Albo professionale di Milano.
Nell’agosto del 1939 partecipa all’Esposizione
nazionale svizzera di Zurigo, dove ha l’opportunità di
diventare amico di Alfred Roth e di Max Bill.
Per diversi motivi, non ultimo la situazione politica
che stava diventando incandescente, nel dicembre
Foto di gruppo al
Politecnico di Milano
1920-21 (Baldessari
è il secondo seduto
in basso da sinistra).
Luciano Baldessari,
Braunau am Inn 1915.
Foto di gruppo
all’Accademia di Brera
con i professori Mentessi
e Cattaneo, Milano
1920-21 (Baldessari
è il secondo in basso
da destra).
200
Luciano Baldessari,
Berlino 1923.
Luciano Baldessari, Parigi
30 giugno 1925.
201
dello stesso anno lascia l’Italia e approda
a New York, dove resta fino al 1948. Già compagno
di Alma Griffith-Grey, il 20 dicembre 1941 inaugura
uno “spaghetti-ristorante-self service” da lui
progettato. Nel periodo americano svolge
prevalentemente l’attività di pittore e di
scenografo, che gli consente di vivere
dignitosamente. Mentre continua ad avere legami
con amici lontani (è in continuo rapporto epistolare
con Lucio Fontana dall’Argentina), grazie a Mary
Callery, seconda moglie di De Angeli Frua
e all’ordine degli architetti, entra in contatto con
numerosi architetti (J. André Fouilhoux, William
Lescaze, Wallace K. Harrison, Andrew Reinhard,
José Luis Sert, Paul Lester Wiener, Stamo
Papadaki), artisti (Fernand Léger, Amedée
Ozenfant, Alexander Calder), galleristi e
collezionisti newyorkesi (Curt Valentin-Buchholz,
Pierre Matisse, Alfred Barr, Alfred H. Frankfurter)
e, in questi anni, diventa fervido amico di Milan ed
Eleonor Petrovic. Venuta a mancare la compagna
Alma, nell’estate del 1948 torna in Italia e riprende
i legami con Carlo De Angeli Frua e con gli amici di
un tempo.Il 1951 è un anno di grandi soddisfazioni:
oltre a mettere in piedi, con la collaborazione di
Marcello Grisotti, la prima delle sue realizzazioni
per la Breda, è chiamato a far parte della giunta
esecutiva della IX Triennale, dove ha la possibilità
di rafforzare le sue relazioni e di coinvolgere
nell’allestimento complessivo molti validi artisti
(Fontana, Cappello, Cassinari, Greco, Fabbri,
Milani, Dova, Rossi, Pepe, Tavernari, Soldati,
Radice), portando un significativo contributo
al dibattito in corso sulla sintesi delle arti.
Per l’istituzione milanese predispone anche
l’esposizione itinerante, che s’inaugura a Oslo
il 15 gennaio 1952. In occasione del suo viaggio
nordico stringe amicizia con Arne Korsmo, Alvar
Aalto ed Erik Herlow. In primavera s’inaugura
il secondo padiglione Breda alla Fiera
internazionale di Milano. Nello stesso anno,
con il pittore Attilio Rossi, allestisce
magistralmente le mostre dedicate a Van Gogh
(Palazzo Reale di Milano) e al Risorgimento
mantovano (Casa del Mantegna, Mantova).
L’attività di allestitore di padiglioni lo impegna
nuovamente nel 1953, oltre che per la Breda, anche
per la Sidercomit. La capacità di tessere reti di
relazioni e la padronanza delle lingue
contribuiscono a farlo nominare coordinatore per
le sezioni straniere alla X Triennale del 1954.
Nella kermesse milanese costruisce con Grisotti
anche degli esempi di case prefabbricate nel parco.
Continua ad allestire mostre, quali quella Nazionale
di Pittura contemporanea e quelle dedicate
a Rembrandt e al Seicento olandese, e all’Arte
e alla Civiltà Etrusca, tutte tenutesi al Palazzo
Reale di Milano.
Con Gropius, Bill e Vordemberge-Gildewart,
il 2 ottobre 1955 è presente all’inaugurazione della
Hochschule für Gestaltung a Ulm-Donau.
In occasione dell’Esposizione internazionale
dell’edilizia di Berlino del 1957 realizza con
la collaborazione dell’architetto Maria Pia Matteotti
e dell’ingegner Ernesto Saliva il grattacielo
all’Hansaviertel (1954-58).
Per l’Istituto autonomo case popolari, nel 1957
avvia la realizzazione, con altri (Pollini, Bacciocchi,
De Carlo, Gardella, Giordani, Mangiarotti, Terzaghi),
del quartiere Feltre a Milano; è inoltre incaricato da
Michele Guido Franci di studiare alcuni padiglioni
per la Fiera di Milano.
A Rovereto realizza alcuni lavori, tra i quali
i condomini “Milano” (1960-61) e “Venezia” (196162), e l’Istituto Tecnico Fratelli Fontana (1962-66,
1967-73). Nel 1962 ottiene l’incarico di restaurare
una villa e costruire una casa di riposo per ciechi
a Caravate (Varese). Il suo sogno di edificare una
chiesa si concretizza nella cappella Santa Lucia
posta nei pressi della casa.
Nel 1963 disegna l’ultimo progetto per la Breda,
da erigersi alla Fiera del Levante di Bari.
Al concorso per la Campana dei Caduti di Rovereto,
chiusosi nel 1964, ottiene il primo premio.
Nel settembre 1965 sposa a Basilea l’attrice di
prosa Schifra Gorstein, conosciuta nel primo
dopoguerra a Berlino, da cui si separa nel 1970.
Nel 1967 conosce Zita Mosca che inizia, a partire
da questo momento, a lavorare con lui come
collaboratrice e co-progettista: nel 1971 il comune
di Milano affida loro la sistemazione di Palazzo
Reale; in tale ambito, nasce la spettacolare mostra
su Lucio Fontana allestita nel 1972. Nel 1978
ottiene dal comune di Milano la medaglia d’oro per
la sua attività artistica e dall’Accademia Nazionale
dei Lincei il Premio Feltrinelli per l’architettura.
Dopo il matrimonio con la compagna Zita,
celebrato il 22 giugno 1982, si aggravano le sue
condizioni fisiche. Muore a Milano il 26 settembre.
Tumulata nella cappella di Santa Lucia di Caravate,
da lui costruita, l’urna cineraria è in seguito traslata
nel famedio del cimitero di San Marco a Rovereto.
Luciano Baldessari
con Le Corbusier
ed Ernesto Nathan
Rogers alla IX Triennale
di Milano, 1951.
Luciano Baldessari
davanti alla cappella
Santa Lucia di Caravate,
Varese.
Luciano Baldessari
con il gallerista Bianda,
Locarno 21 agosto 1981.
Zita Mosca Baldessari
in cantiere, marzo 1965.
203
Fonti d’archivio
e indicazioni
bibliografiche
L’archivio di Luciano Baldessari è suddiviso
tra il Centro di Alti Studi sulle Arti Visive (C.A.S.V.A.)
del Comune di Milano, il Politecnico di Milano,
Dipartimento Indaco, e il Museo di arte moderna
e contemporanea di Trento e Rovereto (Mart).
Per informazioni circa i disegni della collezione
Mosca Baldessari conservata al C.A.S.V.A. si veda
il catalogo curato da Graziella Leyla Ciagà, Luciano
Baldessari e Milano. Progetti e realizzazioni
in Lombardia, C.A.S.V.A., Milano 2005.
L’Archivio storico Breda è conservato presso
la Fondazione ISEC – Istituto per la Storia dell’Età
Contemporanea di Sesto San Giovanni.
Sono stati inoltre consultati i materiali conservati
presso l’archivio privato di Zita Mosca Baldessari,
l’archivio privato di Marcello Grisotti, l’Archivio
storico della Fondazione La Triennale di Milano.
La documentazione fotografica è conservata presso
l’archivio privato Mosca Baldessari, l’archivio privato
di Marcello Grisotti, l’Archivio storico Breda e
l’Archivio storico della Fondazione Fiera di Milano.
Per quanto riguarda le indicazioni bibliografiche
si forniscono qui di seguito i riferimenti essenziali
utili all’inquadramento storico di Luciano Baldessari
e dei padiglioni alla Fiera di Milano.
Tra gli strumenti che riportano esaurienti
bibliografie vi sono il numero monografico Luciano
Baldessari, «Controspazio», n. 2-3, marzo-giugno
1978, il catalogo della mostra curata da Zita Mosca
Baldessari, Luciano Baldessari, Mondadori, Milano
1985, e il catalogo-inventario curato da Graziella
Leyla Ciagà, Luciano Baldessari nelle carte del
suo archivio, Guerini, Milano 1997. Esistono inoltre
diverse tesi di laurea, di perfezionamento
e di dottorato su Luciano Baldessari; tra queste
si segnalano A.C. Cimoli, Luciano Baldessari,
scenografie e architetture effimere, Università degli
studi di Milano, rel. A. Negri, a.a. 1994-95; C. Caputo,
La città e il cinema: due progetti di Luciano
Baldessari per Milano, Politecnico di Milano,
rel. F. Irace, a.a. 1996-97; G. Morganti, Luciano
Baldessari 1896-1982, Politecnico di Milano,
rel. F. Schiaffonati, a.a. 2002-03.
Alcuni articoli apparsi in quotidiani e fonti a stampa
d’epoca sono invece reperibili presso il Mart, Fondo
Luciano Baldessari, e presso l’Archivio storico Breda
(b. 1149 bis, fasc. 2427: Rassegna stampa).
205
Pubblicazioni di carattere generale
e numeri monografici di riviste
Pubblicazioni sui padiglioni Breda
1957
G. Veronesi, Luciano Baldessari architetto, Collana
di artisti trentini, Trento 1957.
1950
P. Nervi, Foire de Milan, in «L’Architecture
d’Aujourd’hui», 1950, p. 70.
1972
C. de Seta, La cultura architettonica in Italia tra
le due guerre, Laterza, Roma-Bari 1972 (1989,
pp. 243-259).
1951
Allestimenti, in «Domus», 260, luglio-agosto 1951,
p. 60.
1978
G. Contessi (a cura di), Luciano Baldessari
architetto. Gli anni del Luminator, catalogo della
mostra, Galleria del Levante, Milano 1978.
Luciano Baldessari, in «Controspazio», n. 2-3,
marzo-giugno 1978.
Z. Mosca (a cura di), Il disegno di Luciano Baldessari
1915-1972, catalogo della mostra, Fondazione
Corrente, Milano 1978.
1981
C. De Carli, Luciano Baldessari architetto artista,
in «Città e Società», 2, aprile-giugno 1981, pp. 81-90.
1982
V. Fagone, Baldessari. Progetti e scenografie, Electa,
Milano 1982.
1985
A. Belluzzi, C. Conforti, Architettura italiana 19441994, Laterza, Roma-Bari 1985 (1994, pp. 27-29).
Z. Mosca Baldessari (a cura di), Luciano Baldessari,
Mondadori, Milano 1985.
1986
F. Irace, Un esempio di architettura industriale degli
anni Trenta: lo stabilimento Italcima, in O. Selvafolta
(a cura di), Costruire in Lombardia 1880-1980.
Industria e terziario, Electa, Milano 1986, pp. 80-93.
1995
P. Campiglio, Lucio Fontana. La scultura
architettonica negli anni Trenta, Ilisso, Nuoro 1995,
passim.
1997
G.L. Ciagà (a cura di), Luciano Baldessari nelle carte
del suo archivio, Guerini, Milano 1997.
1998
F. Irace, Luci moderne. Muzio, Ponti e Baldessari
e il progetto delle centrali, in R. Pavia (a cura di),
Paesaggi elettrici. Territori, architetture, culture,
Marsilio, Venezia 1998, pp. 137-165.
2001
V. Fagone, L’arte all’ordine del giorno. Figure e idee
in Italia da Carrà a Birolli, Feltrinelli, Milano 2001,
pp. 162-180.
2004
F. Irace. Centro e periferia nella Milano degli anni
Trenta, in G. Ciucci, G. Muratore (a cura di), Storia
dell’architettura italiana. Il primo Novecento, Electa,
Milano 2004, pp. 372-395.
2005
G.L. Ciagà (a cura di), Luciano Baldessari e Milano.
Progetti e realizzazioni in Lombardia, Comune di
Milano, Milano 2005.
2007
A.C. Cimoli, Musei effimeri. Allestimenti di mostre
in Italia 1949-1963, Il Saggiatore, Milano 2007,
passim.
2008
A.C. Cimoli, Luciano Baldessari a New York,
in «La rivista FMR Bianca», nuova serie, 24,
marzo-aprile 2008, pp. 87-89.
M. Savorra, La X Triennale e le case prefabbricate,
in F. Irace (a cura di), Casa per tutti. Abitare la città
globale, catalogo della mostra, Triennale-Electa,
Milano 2008, pp. 115-121.
i.c.s.
A. Friedmann, Città del cinema fra progetto e utopia,
in R. De Berti, R. Eugeni, M. Locatelli (a cura di),
Figure della modernità nel cinema italiano
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C. Bianconi, Breda. An experiment in exhibition
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K.-A. Bieber, Messestand der Società Italiana
Ernesto Breda, in «Grafik», 11, 1951, pp. 578-581.
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G. Carrà, I lavoratori riprendono la lotta per la
salvezza della Breda minacciata, in «Voce
comunista», 18 aprile 1951.
Fiera di Milano, in «L’Unità», 18 aprile 1951.
“La Fiera di Milano, esempio al mondo”, in «L’Italia»,
14 aprile 1951.
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1951.
G. Lopez, Ah, la fiera, che passione!..., in «Le Vie d’Italia»,
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Una mostra nel colosso, in «L’Avanti», 13 aprile 1951.
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G. Toti, Nei padiglioni dell’industri meccanica.
Le Reggiane, la Breda e la Fiat nel “taccuino” del
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Uomini nel forno, in «Il Tempo», 14 aprile 1951.
1952
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G. Baldi, Dall’ago ai miliardi, in «Epoca», 79, 12 aprile
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Complesso Breda alla Fiera di Milano, in
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Copertina della «Domenica del Corriere», 13 aprile
1952.
R. De Monticelli, Volete fabbricare dischi volanti?,
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Design for Industry: Architecture as Scuplture,
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Diecimila espositori alla trentesima Fiera,
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Domani si apre la XXX Fiera, in «L’Unità», 11 aprile
1952.
S. Fabozzi, Una nuova originale costruzione alla
Fiera di Milano, in «Costruzioni», maggio-giugno
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La Fiera si prepara, in «Il Popolo», 21 marzo 1952.
Fra cinque giorni la XXX Fiera. Celebrazione del
lavoro umano e dunque delle opere di pace,
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G. Guareschi, La barba campionaria di Milano,
in «Candido», 20 aprile 1952.
R. Guzman, La Fiera di Milano, paese delle
meraviglie. Straordinari giocattoli per grandi
ammirati con la serietà dei bimbi, in «Il Giornale di
Sicilia», 20 aprile 1952.
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dell’Ente Autonomo Fiera», V, settembre 1952,
pp. 10-12.
Il padiglione della Breda alla XXX Fiera Campionaria
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Baldessari, in «Trentino», 3-4, marzo-aprile 1952,
pp. 40-41.
Un padiglione alla XXIX Fiera Internazionale di
Milano, in «Architetti», 14, giugno 1952, pp. 49-50.
Un padiglione alla XXX Fiera Internazionale di
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A. Pica, Difesa dell’architettura pubblicitaria,
in «Suggestione Pubblicitaria», supplemento
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Piccola guida di Milano ad uso dei visitatori della
fiera, in «L’Europeo», 19 aprile 1952.
Quarto, Prima scorribanda tra le novità. La Fiera
è anche un grande spettacolo e pertanto offre
copiose risorse alla curiosità e allo svago dei suoi
visitatori, in «L’Italia», 10 aprile 1952.
A. Rossi, Una moderna favola pubblicitaria,
in «Linea Grafica», 3-4, marzo-aprile 1952, pp. 58-59.
A. Schüler, Die neuen Palazzi, in «Der Tagesspiegel»,
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P.A. Soldini, Hanno portato il mare alla Fiera di
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Standgestaltung auf der Mailänder Messe 1952,
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Sulle vie della Fiera tra i giganti dell’industria,
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1952-53
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Aalto, Alvar 195, 202
Dorfles, Gillo 8, 25, 32, 55-56, 192
Dova, Gianni 202
Le Corbusier 38, 48, 194, 199,
203
Pica, Agnoldomenico 8, 21, 55-57,
189-190
Vespignani, Giovanni 29
Achard, Marcel 200
Albini, Franco 41, 56
Ellis, Peter 195
Léger, Fernand 202
Pigozzi, Marinella 56
Visconti, Luchino 21
Aldini, Carlo 200
Fabbri, Agenore 57, 202
Leonardo 42
Pirandello, Luigi 196-198
Vitali, Lamberto 200
Alvarez del Vayo, Julio 200
Figini, Luigi 16, 200
Lescaze, William 202
Piscator, Erwin 9, 21, 196, 200
Ampia, Adolfo 196
Flechtheim, Alfred 200
Levi, Achille 200
Pizzigoni, Giuseppe 200
Vordemberge-Gildewart,
Friedrich 200
Araca (Enzo Forlivesi Montanari)
11, 15, 56
Fontana, Lucio 23, 25, 29, 33-34,
37, 53, 56-57, 199, 200, 202
Libera, Adalberto 34
Poelzig, Hans 200
Walden, Herwart 200
Loos, Adolf 189
Polenta (grafico-illustratore) 15
Washington, George 35
Archipenko, Aleksandr 16
Fouilhoux, J. André 35, 37, 57, 202
Lothar 200
Pollini, Gino 16, 200, 202
Wegener, Paul 200
Ascione, Errico 20
Lux, Simonetta 57
Pommer, Erik 201
Wiener, Paul Lester 202
Asquini, Alberto 55
Franci, Michele Guido 45, 48, 53,
57, 202
Maddalena, Mario 200
Ponti, Gio 15, 200-201
Wright, Frank Lloyd 29, 195-196
Bacciocchi, Mario 18, 37, 202
Frankfurter, Alfred H. 202
Malevič, Kazimir 198
Pozzi, Roberto 12
Zadkine, Ossip 189
Baldassarre, Pietro 12
Friedman, Ignaz 200
Mangiarotti 202
Prampolini, Enrico 34, 57
Zandonai, Riccardo 200
Ballo, Guido 55, 57, 162, 196
Galvani, Remo 200
Marini, Marino 200
Radicati, Giuseppe 15
Zappata, Filippo 55
Barr, Alfred 202
Galvano, Albino 57
Martini, Alberto 33
Radice, Mario 57, 200, 202
Zavanella, Renzo 18, 20
Battistini, Mattia 200
Garbari, Tullio 200
Matisse, Pierre 202
Reinhard, Andrew 202
Zevi, Bruno 195
Bel Geddes, Norman 35
Gardella, Ignazio 202
Matteotti, Maria Pia 48, 202
Reinhardt, Edmund 200
Zimelli, Umberto 56
Bianchetti, Angelo 20, 41, 56
Gargantini, Luigi 41
Maugham, William Somerset 200
Bianda (gallerista) 203
Giedion, Sigfrid 198
Mauro, Francesco 12
Reinhardt, Max 9, 55, 196,
200-201
Bigazzi, Duccio 56
Ginex, Giovanna 56
Mazloun, Jennie 33
Richter, O. 200
Bill, Max 31, 33, 189, 201-202
Giolli, Raffaello 201
Melotti, Fausto 200
Bona, Enrico D. 37, 57, 136, 198
Giordani, Gianluigi 37, 202
Mendelsohn, Eric 189, 195
Rogers, Ernesto Nathan 48, 57,
203
Bonicelli, Vittorio 22, 56
Goldoni, Carlo 25, 34
Meneghetti, Lodovico 56
Bottoni, Piero 200
Gorstein, Schifra 202
Breda, Amalia 15
Gosso, Erminio 25, 29, 32, 197
Mies van der Rohe, Ludwig 18,
200
Breda, Ernesto 10-11
Graffi, C. 20
Milani, Umberto 23, 29, 57, 202
Broglio, Giovanni 11
Grandi, Giuseppe 33
Burle Marx, Roberto 189
Grando, Giorgio 25, 29
Minoletti, Giulio 11, 13, 15, 20, 35,
57
Busoni, Ferruccio 200
Greco, Emilio 202
Moissi, Alessandro 200
1969
E.D. Bona, Baldessari testimone e protagonista,
in «Casabella», 342, novembre 1969, pp. 10-21.
Calder, Alexander 25, 202
Gregotti, Vittorio 55-56
Molino, Walter 33
Callery, Mary 34, 57, 200, 202
Griffith, David 201
Mollino, Carlo 20, 57, 189
Campo, F. 20
Griffith-Grey, Alma 202
Montanaro, Gustavo 19
M. Cinotti, Razionalismo di Baldessari, in «Le Arti»,
10, ottobre 1969, p. 32.
Candela, Félix 38
Moore, Henri 189
1975
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Cappello, Carmelo 57, 202
Grisotti, Marcello 21, 25, 29, 189,
190, 197, 202
Carboni, Erberto 20, 37
Gropius, Walter 9, 21, 194, 196,
200, 202
Mosca, Franco 41
1978
D. Baroni, Le architetture semipermanenti
di Luciano Baldessari, in «Ottagono», 51, dicembre
1978, p. 26.
Cassinari, Bruno 202
Guido Ballo 8
Cassirer, Bruno 200
Mowrer, Edgar Ansel 200
Gurlitt, Wolfgang 200
Sinisgalli, Leonardo 10, 20-21,
34-35, 55-57, 60
Castiglioni, Achille 19
Munari, Bruno 19
Guttuso, Renato 198
Sironi, Mario 200
Castiglioni, Pier Giacomo 19
Guzman, Raffaello 19, 56
Musaio Somma (dirigente Breda)
42
Soldati, Anastasio 57, 202
Cenni (dirigente Breda) 42
Harris, John H. 34, 196, 201
Nervi, Pier Luigi 49
Cinti, Italo 56, 194
Neufert, Ernst 200
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1997
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Moro, Aldo 14
Mosca Baldessari, Zita 57, 202
Rossi, Attilio 22-23, 29, 37, 56-57,
202
Roth, Alfred 201
Ruffo, Titta 200
Rui, Romano 57
Saliva, Ernesto 48, 196-197,
201-202
Scalpelli, Adolfo 55
Scoccimarro, Cesare 20
Scott, Geoffrey 195
Sert, José Luis 202
Sette, Pietro 13-15, 42, 45, 55
Simoni, Vittorio 15
Spilimbergo, Adriano (di) 29, 57
Steiner, Rudolf 189
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Cirielli, Tonino 42
Harrison, Wallace K. 35, 37, 57,
202
Ciuti, Enrico 16, 18, 37
Hasek, Jaroslav 9
Niemeyer, Oscar 189, 195
1981
C. De Carli, Luciano Baldessari architetto artista,
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87-88, 90.
Comel, Luigi 200
Helg, Franca 56
Nizzoli, Marcello 41, 200
Corinth, Lovis 200
Hepworth, Barbara 189
Noguchi, I. 189
Costa, Remo 200
Herlow, Erik 202
Norsa, Luigi 12
Dal Monte, Giuseppe 10, 29, 55,
197
Hofer, Karl 200
Ojetti, Ugo 189
Huber, Max 15, 20
De Angeli Frua, Carlo 11, 15-16,
200-202
Ozenfant, Amedée 202
Irace, Fulvio 16, 25, 40, 55-57, 201
Pabst, Georg Wilhelm 201
Jacobini, Maria 200
Pagano, Giuseppe 15
Kluge, Magda 200
Pancera, Gastone 57
Kokoschka, Oskar 200
Papadaki, Stamo 202
Kolbe, George 200
Urievic (commercialista
e impresario teatrale) 201
Paquet, Alfons 9
Kollowitz, Kähte 200
Valentin-Buchholz, Curt 202
Pea, Cesare 20, 41, 56
Korsmo, Arne 202
Valentinelli, Ennio 200
Pelizza (grafico-illustratore) 15
Krauss, Werner 200
Pella, Giuseppe 13
Van Gogh, Vincent 22, 191-192,
197-198, 202
Laemmle, Carl 201
Pepe, Lorenzo 57, 202
Vanoni, Ezio 14
Landau, Rom 200
Vasari, Giorgio 200
Veronesi, Giulia 55-57, 94, 191,
201
N. Lucarelli, Baldessari contro tutti, in «Casaviva»,
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De Finetti, Giuseppe 49
1984
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De Vita (ingegnere-architetto) 42
De Miranda, Fabrizio 38, 57
Debussy, Claude 25, 34
Del Bon, Angelo 57
Depero, Fortunato 8, 20, 56, 196,
200
Newton, William 195
Dieste, Eladio 38
Lang, Fritz 201
Persico, Edoardo 9, 18, 41, 55, 56,
201
Dix, Otto 200
Lania, Leo 200
Petrovic, Eleonor 202
Petrovic, Milan 202
206
Rognoni (grafico-illustratore) 15
207
Stoppino, Giotto 56
Tavernari, Vittorio 202
Terragni, Giuseppe 200
Terzaghi, Mario 202
Thieben, Carletto 200
Toller, Ernst 200
Tonini, Giovanni 200
Torroja, Edoardo 38
Trotter, Tullio 200
Tucholsky, Kurt 200
Veidt, Conrad 200
Vietti, Luigi 200
Referenze
fotografiche
Archivio Fotografico Mosca Baldessari pp. 15-18,
24 (al centro e a destra), 27 (in alto), 30, 35
(a destra), 36 (in alto al centro), 44-45, 49
(a sinistra), 50 (in basso), 52, 53 (a sinistra), 58, 65,
70, 87, 91, 98-99, 142-144, 163-165, 191, 193, 197,
200-203.
Archivio Marcello Grisotti pp. 24 (a sinistra), 25
(a destra), 29 (a sinistra), 31 (in alto), 35 (a sinistra),
38-39, 40 (a sinistra), 42, 71, 74-79, 81, 83
(in basso), 86 (in basso), 88, 89 (in alto a destra),
90 (in alto e in basso a sinistra), 102-103, 106, 107
(in alto), 108, 112, 113 (in alto), 114-122, 124-133, 148
(prima, seconda e terza in alto; seconda al centro),
149, 151-152, 158-159, 170-171, 172 (in basso), 179,
180 (in basso), 181-184.
Archivio storico Breda della Fondazione ISEC –
Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea,
Sesto San Giovanni pp. 11-13, 29 (a destra), 33, 40
(al centro), 80, 82, 83 (in alto), 84-85, 86 (in alto),
89 (in alto a sinistra), 90 (in alto e in basso
a destra), 110-111, 113 (in basso), 123, 148
(prima e terza al centro; prima, seconda e terza
in basso), 150, 153, 155-157, 174-176, 177 (a destra),
178 (in alto a destra), 180 (in alto), 186.
208
Archivio storico della Fondazione Fiera di Milano
pp. 19-21, 28, 36 (in alto a sinistra), 43, 72-73, 89
(in basso), 104-105, 107 (in basso), 109, 154, 172
(in alto), 173, 177 (a sinistra), 178 (in alto a sinistra
e in basso), 185.
Ringraziamenti
C.A.S.V.A. – Centro di Alti Studi sulle Arti Visive del
Comune di Milano, Collezione Baldessari, Milano
pp. 14, 41, 46, 49 (a destra), 50 (in alto e al centro),
53 (a destra), 61-64, 66 (in alto), 95-97, 137-141, 166
(in alto), 189-190.
Politecnico di Milano, Archivio Luciano Baldessari /
foto Robero Mascaroni, Milano pp. 26, 47 (a destra),
48, 51, 54, 66 (in basso), 67-69, 100-101, 145-147, 166
(al centro e in basso), 167-169.
L’editore è a disposizione degli aventi diritto
per quanto riguarda eventuali fonti iconografiche
non individuate.
209
Il primo, più sentito ringraziamento va a Zita Mosca
Baldessari; insieme a Ferruccio Crepaldi,
mi ha accolto con affetto e amicizia, dandomi
l’opportunità di studiare le opere di Luciano
Baldessari. Tra una caramella al miele e l’altra,
le lunghe chiacchierate con lei sono state foriere
di stimoli e fonte di continue riflessioni sul fare del
maestro; davvero senza il suo aiuto la compilazione
di quest’opera non sarebbe stata possibile.
Più che un semplice grazie lo devo poi a Marcello
Grisotti: la straordinarietà delle sue fotografie
è direttamente proporzionale alla disponibilità
con cui ha acconsentito la riproduzione
di un prezioso materiale documentario.
Per l’Archivio storico Breda tengo a ringraziare
Primo Ferrari, Alberto de Cristofari e tutto lo staff
della Fondazione Isec di Sesto San Giovanni, che con
rara professionalità mi hanno agevolato nel corso
della ricerca. Cristina D’Adda responsabile del Fondo
Luciano Baldessari conservato presso il C.A.S.V.A.
del Comune di Milano è stata una eccellente
interlocutrice; senza di lei, sicuramente, non avrei
potuto studiare i disegni originali di Baldessari.
Con lei ringrazio anche Rina Laguardia, direttrice del
C.A.S.V.A., per la cortesia e per aver concesso
la riproduzione di importanti disegni. Un doveroso
ringraziamento va a Graziella Leyla Ciagà, che oltre
a curare con grande competenza l’Archivio Luciano
Baldessari conservato presso il Dipartimento Indaco
del Politecnico di Milano, è stata sempre pronta alle
mie richieste di consultazione. La mia gratitudine va
inoltre ad Andrea Lovati, responsabile dell’Archivio
storico della Fondazione Fiera di Milano: la sua
tempestiva e valida collaborazione è stata
impagabile nell’acquisire taluni materiali
iconografici di estremo interesse. Ringrazio Paola
Pettenella, chief-curator per gli archivi storici, e
Carlo Prosser, conservatore, del Mart di Rovereto,
dove è conservata una parte dell’archivio di Luciano
Baldessari, per aver favorito lo studio dei documenti
e della rassegna stampa relativi all’architetto;
con loro ringrazio anche Flavia Fossa Margutti,
responsabile del settore comunicazione, per
l’amicizia e per la disponibilità dimostrate.
La mia riconoscenza va inoltre a Tommaso Tofanetti
dell’Archivio storico Fondazione La Triennale
di Milano, per la gentilezza e per aver facilitato
la consultazione dei materiali conservati presso
la sua istituzione, e a Ferruccio Luppi della
Fondazione Piero Portaluppi, per le segnalazioni
ricevute. Insieme a loro, desidero anche ricordare la
sollecitudine e la cordialità del personale di tutte le
biblioteche del Politecnico di Milano, della Biblioteca
comunale Sormani di Milano, della Biblioteca
nazionale Braidense di Milano, della Biblioteca
civica Carlo Negroni di Novara. Per le interessanti
informazioni ringrazio poi l’Impresa di costruzioni
ing. Alfonso Morganti s.p.a. e la Tirone Edilizia s.a.s.
Un grazie speciale va a Camilla Miglio, a Daniele
Sette e a tutta la famiglia Sette, per aver condiviso
con me ricordi e memorie familiari. Ringrazio altresì
Alberto Bassi per aver dato, all’inizio del lavoro, dritte
basilari sul reperimento di alcuni materiali d’archivio.
Un caloroso sentimento di gratitudine è rivolto
a Fulvio Irace e alle sue illuminanti parole scritte su
Luciano Baldessari, e a Claudia Conforti, generosa
di indicazioni puntuali e di grande utilità. A Maria
Luisa Scalvini devo più che un semplice grazie;
attenta e impagabile consigliera è stata, come
sempre del resto, insostituibile per le sue pregnanti
osservazioni. La mia gratitudine va inoltre a Fabio
Mangone, che mi ha sempre appoggiato e sostenuto:
i suoi suggerimenti sono stati tutte le volte per me
fondamentali. A Francesco Dal Co, infine, va tutta
la mia riconoscenza per aver creduto sin dall’inizio
nella fattibilità di questo mio progetto e per aver
incoraggiato e voluto la pubblicazione del libro.
In conclusione, ringrazio quanti in Electa si sono
prodigati alla buona riuscita del lavoro: a partire da
Gabriella Borsano, Stefania Colonna Preti, Giovanna
Crespi, Silvia Gibelli, Alessandro Intra, Laura
Maggioni, Virginia Ponciroli, fino a Paolo Tassinari,
il cui contributo è stato essenziale per il valore
aggiunto della “costruzione” grafica complessiva.
Questo libro è nato per Chiara.
O meglio. Questo libro fin dal principio
è stato pensato per essere dedicato a Chiara.
Ma lei non me ne vorrà, anzi – sono sicuro –
sarà d’accordo con me, se dedico questo libro
anche a quelle bambine del settimo piano
dal destino crudele e dalla vita sofferta,
e in alcuni casi troppo breve.
Correggo dunque la mia dedica: questo libro
è per Chiara, ma anche per tutte quelle
bellissime bambine.
coordinamento editoriale
Giovanna Crespi
coordinamento redazionale
Virginia Ponciroli
redazione
Laura Maggioni
progetto grafico e copertina
Tassinari/Vetta
impaginazione
Francesco Nicoletti
(Tassinari/Vetta)
coordinamento ricerca iconografica
Stefania Colonna-Preti
ricerca iconografica
Silvia Gibelli
Questo volume è stato stampato
per conto di Mondadori Electa spa
presso lo stabilimento Mondadori Printing spa
Verona nell’anno 2008