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sommario 6 10 14 20 23 29 35 37 41 Luciano Baldessari e i padiglioni Breda alla Fiera di Milano La committenza Breda Costruire una “corporate image” alla Fiera di Milano del dopoguerra Processo ideativo e architetture pubblicitarie 1951: un “mammuth” della tecnica 1952: un fiore sbocciato all’improvviso 1953: il “mondo” della Breda 1954: un’ala per librarsi nell’aria Allestimenti silenziosi e altri progetti per la Fiera di Milano 189 200 205 207 apparati Scritti su Luciano Baldessari e i padiglioni alla Fiera di Milano Cenni biografici Fonti d’archivio e indicazioni bibliografiche Indice dei nomi 208 Referenze fotografiche 209 Ringraziamenti Luciano Baldessari e i padiglioni Breda alla Fiera di Milano «Progettai, inventai molto, realizzai poco, e di quel poco, parecchio per non durare.» 6 Che fosse Luciano Baldessari l’architetto cui affidare la concezione e il disegno della nuova immagine di una delle più importanti industrie siderurgiche italiane alla Fiera di Milano era scritto nei fatti. Quando ottiene l’incarico di predisporre i padiglioni Breda, Baldessari ha maturato una solida esperienza come raffinato progettista di allestimenti per mostre temporanee e fiere campionarie: nel 1951 ha già all’attivo una serie di magistrali interventi di successo, tanto che verrà in seguito considerato dalla storiografia come «uno dei maestri dell’arte espositiva italiana» che applica un approccio «felicemente disinibito, ricco di invenzioni scenografiche e cromoplastiche, aperto alle contaminazioni e alle trasgressioni linguistiche»1. Un’attività di sofisticato allestitore, strettamente intrecciata a quella di scenografo, di pittore e di scultore, che – come è stato sostenuto – «Baldessari non abbandonò mai con una coerenza pari solo all’entusiasmo che lo animava»2. Non solo da parte degli storici, ma anche da parte dei critici coevi è stato riconosciuto come Baldessari abbia accordato e mescolato le diverse forme espressive in una «problematica zona d’incontri» (come scrisse Guido Ballo)3, mettendo peraltro in discussione i confini tra architettura e scultura. Già al loro apparire, i quattro padiglioni realizzati per la Breda nei primi anni cinquanta vennero interpretati liberamente da Carola Giedion-Welcker come architetture che – senza ambigui tentennamenti – oltrepassavano i limiti verso il dominio della scultura4. Agnoldomenico Pica affermò che «un certo piglio teatrale, una certa sonora eloquenza, una talquale compiacenza per il puro gioco plastico, un esaltato gusto del colore, pur nascendo da spunti scenografici e da sollecitazioni coreografiche, si trasferiscono, in queste costruzioni effimere e pubblicitarie, con assoluta aderenza non solo formale ma perfino funzionale, dacché è chiaro che, qui, un discorso impostato sui canoni consueti della utilitarietà e della economia costruttiva sarebbe del tutto falso. Qui si trattava di inventare macchine favolose a non altro fine se non quello di polarizzare l’attenzione della folla»5. Gillo Dorfles ritenne che si potesse «parlare senza timore di equivoci, d’una “plastificazione dell’architettura” per i grandi padiglioni Breda, e d’una “architettonicità del disegno” per le sue scenografie e i suoi schizzi pre-esecutivi». Secondo il critico, gli allestimenti per le mostre valevano «certo molte case, palazzi e stadi costruiti in più o meno solidi materiali da altri architetti coevi»; in particolare, «la serie dei padiglioni pubblicitari Breda alla Fiera di Milano del 1951, ’52, ’53, ’54 – specie quelli del ’51 e ’52 – il cui sinuoso dipanarsi nella grandiosità d’un impianto plastico e al tempo stesso d’un “percorso” architettonico, costituisce un esempio tra i più efficaci non solo di quella particolare arte fieristica ma di quel linguaggio architettonico che ha preso l’avvio da una rinascita di spiriti e umori barocchi e che ha visto negli ultimi anni moltiplicarsi i suoi adepti sino a dilagare nell’eccesso di alcune esemplificazioni brasiliane, venezuelane e tecnologiche», rimanevano «quali testimonianze d’una capacità inventiva singolarissima»6. Questi, come tutti i giudizi espressi dalla critica coeva, hanno fatto sì che nella storiografia si consolidasse la convinzione che i padiglioni Breda costruiti alla Fiera costituissero dei capolavori assoluti, forse le opere più rilevanti nel curriculum dell’architetto e nel panorama dell’architettura pubblicitaria del secondo Novecento. Ma al di là del fatto che per l’insieme dell’opera di Baldessari, a valle anche di significativi studi recenti7, una tale considerazione suonerebbe forse riduttiva, va ricordato che quando si parla di architettura “rappresentativa” di un’industria bisognerebbe porre la questione in ben altri termini: non solo dunque andrebbe esplorata la capacità dell’architetto di produrre soluzioni formali convincenti all’interno di una manifestazione fieristica fatta anche da tanti altri padiglioni, ma andrebbe indagata, ovviamente insieme alle richieste della committenza, anche l’idoneità delle strategie, tutte moderne, della comunicazione pubblicitaria. Come per i pubblicitari, infatti, pure per Baldessari prima regola da tenere presente nella creazione di un messaggio in Fiera era “essere visti” e poi “convincere”, mostrare cioè – valorizzandoli – i campioni che dovevano corrispondere inequivocabilmente al livello tecnico, alla qualità e al tipo di produzione. I quattro padiglioni Breda, ma anche quelli allestiti in seguito nel corso degli anni (sempre per l’industria di Sesto San Giovanni, ma anche per la Sidercomit-Italsider), erano accomunati, oltre che da tale basilare principio, anche dalle medesime logiche che i pubblicitari stavano perfezionando in questi anni. Ancora: va notato come, al pari di alcune opere teatrali, i padiglioni in Fiera contenessero una forza poetica tale, da aver saputo “parlare” con l’immediatezza del genio, a spettatori/visitatori di ogni Paese, di ogni cultura, di ogni collocazione sociale. Il riferimento al teatro non è casuale. Come è noto, la biografia di Baldessari dimostra quanto esso sia stato importante nella sua dimensione di architetto. Non solo negli anni giovanili trascorsi nella Germania di Weimar, lavorando a stretto contatto con i più famosi attori e registi, ma anche nel periodo americano, passato sui tavoli da lavoro a preparare bozzetti scenografici e frequentando il mondo del teatro e del cinema, Baldessari diede prova dell’originalità creativa e della ricchezza propositiva della sua ricerca architettonica. Fin dall’esperienza “futurista” vissuta a stretto contatto con Fortunato Depero, l’architetto trentino era pienamente 8 convinto che nel teatro fosse possibile individuare la forma più consona alle possibilità di comunicazione artistica dell’epoca. Nel recensire gli interni di casa Spadacini in via Mozart a Milano nel 1932, Persico aveva intuito come l’architetto, creando una «vera e propria messa in scena», avesse «pensato per una famiglia signorile la casa come teatro»8. Che fossero allestimenti di interni o padiglioni fieristici, per Baldessari i limiti spaziali e temporali delle architetture effimere si trasformavano in occasioni di libertà. Le parole che scrive con piglio fiero e orgoglioso in occasione del numero monografico a lui dedicato dalla rivista «Controspazio» nel 1978 – «Progettai, inventai molto, realizzai poco, e di quel poco, parecchio per non durare» – sono di per sé eloquenti. Una fierezza che rivela una libertà raccontata con l’architettura ed espressa mediante le tante forme di “spettacolo”. Per questo motivo, come Erwin Piscator (da lui conosciuto a Berlino), Baldessari sviluppa una forma di “montaggio” teatrale servendosi degli strumenti meccanici e delle risorse dei nuovi mezzi di comunicazione, con messe in scena di macchinari teatrali e costruzioni sceniche complesse: basti pensare ai suoi originali allestimenti in relazione a quelli innovativi di “dilatazione tecnologica del teatro” di Piscator per Die Abenteuer des braven Soldaten Sc’vèik di Jaroslav Hasek dove gli attori camminavano su tapis-roulants in senso inverso, oppure per Sturmflut di Alfons Paquet con le proiezioni di immagini cinematografiche di scene di massa. Senza – beninteso – avere ambizioni da “teatro politico” o “epico”9, per i padiglioni fieristici l’architetto non accetta i linguaggi storici della “rappresentazione”, ribadendo la volontà di privilegiare tanto il gesto della comunicazione rispetto al momento dell’espressione, quanto la scomposizione dei codici architettonici fino a quel momento utilizzati. Egli è interessato alla saldatura tra palcoscenico e platea, facendo – come scrisse Giulio Carlo Argan riferendosi al “teatro totale” di Walter Gropius per Piscator – «sconfinare la vicenda tra gli spettatori; a organizzare scenicamente tutto lo spazio del teatro per mezzo di luci e di proiezioni»10. Quella di Piscator da un lato e dall’altro quella di Max Reinhardt (per il quale Baldessari lavora a dei progetti di scenografie)11, sono state per l’architetto trentino le lezioni più autorevoli e strutturate, capaci di modificare la visione delle cose e di stabilire un nuovo rapporto tra azione spettacolare e spettatore. In particolare, l’insegnamento delle sperimentazioni di Reinhardt è stato fondamentale per la comprensione della responsabilità del “regista” – qualsiasi tipo di spettacolo egli diriga – nell’orchestrare l’apporto di ogni elemento in scena. Nel 1914, in un’intervista avente come tema Sulla regia di massa, il grande rinnovatore del teatro moderno dichiara: «Ogni essere umano è un poco attore. Sfruttare questo poco, metterlo al servizio dello scopo comune: questo è il compito principale della regia di massa. Ogni individuo, uomo o donna che sia, deve essere pervaso dalla convinzione che ha da assolvere un compito interpretativo dal quale dipende la riuscita del tutto; che egli è un piccolo, eppure importante elemento del grande organismo. Solo allora egli cercherà di dare ogni sera il meglio di sé. Se raggiungo questo obiettivo, sono riuscito a trasfondere nella massa l’espressione dei sentimenti richiesti dall’opera, rivelandone pure l’intima necessità»12. Sembra opportuno osservare, inoltre, che gli allestimenti di mostre e i padiglioni fieristici, come il teatro nel caso dei suoi amici artisti, offrono a Baldessari l’occasione per esprimersi senza le restrizioni dettate dalle “cose”, per inventare un mondo in cui è protagonista indiscusso senza apparenti responsabilità. Nello spazio “dato”, l’architetto fa agire i suoi inconsapevoli personaggi, affidando ai loro movimenti, alla loro presenza, la definizione del mondo in cui essi esistono. Nei primi quattro padiglioni Breda, egli ritiene indispensabile sbarazzarsi delle convenzioni fino allora adottate, nate prima della guerra e considerate al loro apparire rivoluzionarie nella loro capacità di rendere con un linguaggio nuovo il mondo dell’industria, ma trasformatesi poi in sterile routine, non più all’altezza di rappresentare una situazione differente. Per meglio intendere, inoltre, le contingenze con le quali Baldessari deve confrontarsi elaborando i progetti, a maggior ragione bisogna rammentare come la Breda – al pari di altre grandi industrie italiane – necessiti nei primi anni cinquanta di costruire una politica culturale e al contempo 9 un’immagine di forza, fino a poco prima trascurata, da diffondere attraverso canali preferenziali, quali potevano essere la fiera campionaria milanese. Per questa ragione, al fine di comprendere tutto ciò illustreremo dettagliatamente nel corso di queste pagine l’insieme dei padiglioni concepiti da Baldessari, definiti da Leonardo Sinisgalli «monumenti senza retorica»13: il considerevole nucleo di disegni – alcuni dei quali molto noti, altri finora mai pubblicati –, di cui disponiamo per ricostruire l’evoluzione dei progetti, è assai significativo. Per di più, oltre alla documentazione grafica esistente, abbiamo a disposizione le carte conservate nei fondi Baldessari che, insieme alla ragguardevole e straordinaria mole di fotografie raccolte, consentono di individuare le diverse fasi progettuali, le scelte compiute dall’architetto per l’occasione e di chiarire i meccanismi strategici sottesi alla presentazione di una grande azienda nella più importante manifestazione fieristica italiana del dopoguerra. La committenza Breda Nel febbraio 1951, quando Giuseppe Dal Monte, vicedirettore generale della Breda, propone a Luciano Baldessari di realizzare un’adeguata “presentazione” dei prodotti dell’azienda da lui rappresentata14, l’industria di Sesto San Giovanni versa in una difficile e delicata situazione su tutti i fronti. Per comprendere quali siano, all’indomani della seconda guerra mondiale, i fattori che spingono la Società Italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche a rivoluzionare il proprio sistema di auto-rappresentazione mediante l’immagine dei padiglioni alla Fiera di Milano, è necessario ripercorrere i momenti salienti della storia della grande industria siderurgica15. Rilevato nel 1886 lo stabilimento della Cerimedo e C.16, noto come l’“Elvetica”, Ernesto Breda lo trasforma e fonda la società Ing. Ernesto Breda e C. facendola diventare nel corso di pochi anni un solido gruppo industriale polisettoriale, tanto che alla sua morte nel 1918 risultava essere fra le quattro maggiori imprese italiane, insieme all’Ilva, all’Ansaldo e alla Fiat17. Prevalente campo di lavorazione era la costruzione di motrici ferroviarie, a cui sul finire dell’Ottocento si aggiunse la produzione di macchine utensili e agricole, oltre che di carrozze ferroviarie e di materiale bellico. A valle del successo ottenuto con la ristrutturazione e con la previsione di future commesse ferroviarie, nel 1899 la società in accomandita viene liquidata e si crea la società anonima denominata Società Italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche, con stabilimenti tra Niguarda e Sesto San Giovanni, in un’area servita dalla linea ferroviaria Milano-Chiasso e dalla tramvia elettrica Milano-Monza18. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale, l’azienda conosce un notevole successo, tanto che 10 si raddoppia la fabbricazione di locomotive a vapore, fino ad arrivare nel 1908 a registrare il superamento del tetto delle 1000 unità prodotte. Su progetto di Giovanni Broglio, già autore per la Breda di un quartiere di case per i lavoratori19, nel 1921 viene inaugurato un Istituto scientifico-tecnico con l’obiettivo di contribuire «a rendere la Patria indipendente dai prodotti industriali di altre nazioni» e di «fondare sopra salde basi scientifiche una industria forte che dia ricchezza», secondo le parole di Ernesto Breda pronunciate nel giugno 191720. Tra il 1914 e il 1934 un ulteriore ampliamento dei settori di attività è dovuto all’entità della domanda civile e militare; in particolare, durante la prima guerra mondiale la Breda riduce l’impegno nel ramo ferroviario a favore del carico derivato dai reparti siderurgici, costruendo propri impianti idroelettrici nei pressi del Lys a Gressoney e istituendo anche una sezione per le produzioni aeronautiche e il cantiere navale di Marghera. Durante gli anni del fascismo l’industria di Sesto riprende a produrre locomotive e caldaie e avvia le costruzioni elettromeccaniche (impianti per centrali elettriche, cabine di trasformazione, locomotive elettriche). Alcuni studi di storia economica hanno sottolineato quanto, in questo periodo, la Breda risultasse solida e in rapido sviluppo, con dipendenti che passarono, tra il 1934 e il 1935, da 6000 a circa 9000 elementi (ricordiamo che elettrotreni e “littorine” contribuivano al successo delle ordinazioni). Ottenuta una liquidità dalla vendita all’IRI delle partecipazione azionarie della SIP (società subentrata nella proprietà degli impianti del Lys), la Breda acquisisce la Officine Ferroviarie Meridionali e la Industrie Aeronautiche Romeo, due massime espressioni dell’industria meccanica dell’Italia meridionale. Con il raggiungimento di 30.000 dipendenti, durante il secondo conflitto mondiale la Breda vede investire capitali prevalentemente nel settore bellico. Al termine della guerra, stremata e senza risorse finanziarie utili a rimettere in sesto gli stabilimenti, la società – da oltre un decennio capitanata da Carlo De Angeli Frua (maggiore azionista dal 1935) – era suddivisa tecnicamente in otto sezioni, coordinate a Milano dalla direzione generale. La prima sezione si rivolgeva alla produzione di locomotive a vapore ed elettriche, macchine industriali, caldaie a vapore per impianti fissi, macchine agricole e altre apparecchiature elettriche di grandi dimensioni; la seconda era indirizzata alla costruzione dei carri merci e carrozze ferroviarie; la terza era costituita da fucine e fonderie di acciaio, oltre che da un reparto di prima lavorazione dei prodotti della fonderia; la quarta si occupava di siderurgia, mentre la quinta era dedicata alla costruzione di velivoli. A queste cinque sezioni corrispondevano gli stabilimenti di Sesto San Giovanni. La sesta sezione, con sede 11 Araca, bozzetti pubblicitari per la Breda, anni quaranta. Giulio Minoletti, padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1948. a Brescia, e la settima a Roma, erano destinate alla fabbricazione di armi; l’ottava sezione, infine, riguardava la divisione della cantieristica navale ed era concentrata nella sede di Porto Marghera. In un contesto nazionale che vedeva il sistema produttivo, quando non distrutto, tanto obsoleto dal punto di vista tecnologico quanto arretrato nelle logiche di gestione finanziaria21, il settore metalmeccanico, di cui la Breda rappresentava la massima espressione, costituiva il perno attorno al quale, a partire dall’inverno 1947-48, ruotavano interessi economici e soprattutto politici22. Le otto anime della Breda, in particolare, versavano in una situazione difficile – come appariva agli occhi dell’ingegner Francesco Mauro, chiamato alla presidenza nel 1946 – dovuta sia alle distruzioni belliche e alle requisizioni e occupazioni delle forze armate tedesche sia ai problemi di riassetto e di ricerca di nuovi indirizzi produttivi, vista la caduta dell’autarchia e la rinascita del libero mercato internazionale. A partire dai primi mesi del 1948, una serie di vicende si susseguono nel giro di pochi anni: cambi di presidenti più o meno vicini alla famiglia De Angeli Frua (Roberto Pozzi, Luigi Norsa), carenza di interventi pubblici, il subentro della proprietà del FIM (Fondo di finanziamento dell’Industria Meccanica), aspre proteste sindacali, inutili piani di risanamento, inefficaci tentativi di salvataggio con aumenti di capitale per sanare la disastrosa situazione finanziaria. A seguito delle elezioni politiche dell’aprile 1948 che decretano la vittoria della Democrazia Cristiana23 e grazie alla possibilità prevista dal decreto costitutivo del FIM di intervenire nelle vita delle imprese, il 27 gennaio 1949 il ministro del Tesoro scioglie il consiglio di amministrazione della Breda e nomina Pietro Baldassarre commissario straordinario. Con una perdita che si aggirava, a chiusura del 1948, intorno ai tre miliardi di lire, la società si presentava – secondo Baldassarre – gravata, fra i maggiori problemi, dall’opera di assistenzialismo sociale dovuta al blocco dei licenziamenti (nonostante il ragguardevole esubero del personale), all’obsolescenza dei macchinari, all’assenza di tecnologie che avrebbero permesso l’automazione del ciclo produttivo. Su pressione del comitato direttivo del FIM venne chiusa la sezione aereonautica e alleggerita quella siderurgica. In quest’ultima, era urgente il rinnovo degli impianti, in quanto erano ormai superati o comunque al di sotto degli standard internazionali. Inoltre, sempre secondo Baldassarre, per la Breda era necessario trovare nuovi mercati di sbocco, vista l’insufficiente rete commerciale di un’industria che fino a quel momento aveva avuto lo Stato come unico cliente. Quantunque l’analisi di Baldassarre indirizzasse la politica aziendale su chiare linee di riforma, il bilancio del 1949 si chiuse con un forte deficit e con previsioni altrettanto catastrofiche per l’anno successivo. Così, per scongiurare la messa in liquidazione, si decide di intervenire con una ulteriore 12 copertura da parte del FIM, principale azionista e creditore della Breda. Con un decreto del ministro del Tesoro Giuseppe Pella, il 24 gennaio 1951 viene nominato commissario straordinario il giovane avvocato barese Pietro Sette24. Individuata come causa “patologica” del dissesto da parte di Sette, la situazione dei macchinari e degli impianti del complesso industriale si presentava aggravata dalla mancanza di specializzazione produttiva e dalla carenza di capitali. In tal senso, l’avvocato pugliese individua le ragioni del collasso nel rapporto intitolato La Breda al giugno 1951. Esame della situazione e proposte di provvedimenti25, inserendo tra le ragioni anche il fallimento totale dei prodotti di riconversione (l’aereo passeggeri BZ308 i cui interni erano stato disegnati da Giulio Minoletti26, l’aereo trasporto merci BP471, i trattori agricoli, i fucili da caccia, le motociclette e il telaio Cotton, la macchina Nastrofil), tutti causa di ingenti perdite. Inizia così il rilancio dell’azienda. Nell’agosto 1951 parte il piano di risanamento con 3000 licenziamenti27 e, sulla base di precise direttive, Sette trasforma la Breda in una vera e propria holding pubblica con presenza di azionisti privati28. Con la ristrutturazione della quinta, della settima e della ottava sezione, la neonata Finanziaria Ernesto Breda è a capo di un gruppo di società di cui conserva quote azionarie. Perfezionati gli atti notarili29, nel gennaio 1952 nascono le otto società autonome della Finanziaria Ernesto Breda. Prendono vita la Breda Elettromeccanica e Locomotive, la Breda Ferroviaria, la Breda Fonderia e Forgia e Macchine Industriali (poi Breda Fucine), la Breda Siderurgica, la Breda Motori. La sesta sezione si trasforma nella Fabbrica nazionale di armi di Brescia (Breda Meccanica Bresciana), mentre gli stabilimenti nella capitale assumono il nome di Breda Meccanica Romana. In ultimo si costituisce la Breda Istituto di Ricerche Scientifiche Applicate all’Industria. Il 14 luglio si riunisce l’ultima assemblea dei soci azionisti che delibera il mutamento dell’oggetto e della denominazione sociale, il ripristino degli organi sociali precedentemente sospesi, e la nomina di Pietro Sette a capo del nuovo consiglio di amministrazione. Il biennio 1952-53 si configura come il periodo cruciale del risanamento della situazione finanziaria e patrimoniale. A partire proprio dal 1952 la produzione si orienta verso la costruzione di locomotive elettriche e di macchine movimento terra, l’equipaggiamento di centrali termiche e di impianti di estrazione, la costruzione di macchine industriali e motori diesel, di armi leggere, di motocoltivatori e di frigoriferi a uso domestico. Nel 1954 la situazione della Breda migliora e l’esercizio annuale si chiude con un considerevole attivo in tutte le diverse società del gruppo. Con il passaggio degli ultimi crediti dal FIM alla Finanziaria Breda 13 Giulio Minoletti, padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1948, 1949. Giulio Minoletti, padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1950. C.A.S.V.A. II.A.12 (la cui maggioranza restava tuttavia di proprietà FIM), nel 1958 si chiude il periodo critico del dopoguerra. Acquisito il pieno controllo delle varie società del gruppo, per la struttura aziendale si avvia una fase di maturazione. Forte dei risultati raggiunti, la Breda Siderurgica viene ceduta, proprio nel 1958, alla Finsider. Come altre imprese italiane a partecipazione statale, anche la Breda viene coinvolta nel processo di industrializzazione del Mezzogiorno. In linea con gli orientamenti di Vanoni e poi di Moro, Sette collabora alla definizione di una politica meridionalistica, impegnando la Breda in un alcuni interventi nel Sud. Fra le iniziative industriali spicca la creazione nei pressi di Bari della Pignone Sud, azienda destinata alla fabbricazione di strumenti di misura, regolazione e controllo dei servomotori e dei trasmettitori, varata con la collaborazione della Nuova Pignone. In tale ambito, vengono collocate nel Mezzogiorno sei aziende (tra cui la Fucine Meridionali, a Bari, e la Società Italiana Vetro a Vasto), e si costituisce a Bari una succursale dell’Istituto di ricerche Breda. Nel gennaio 1962 viene istituito l’EFIM, ente autonomo di gestione per le partecipazioni del FIM e, nel dicembre dello stesso anno, confluisce la Finanziaria Ernesto Breda, permettendo così al nuovo organismo di svilupparsi sotto la presidenza sempre di Pietro Sette. Nello stesso mese diviene esplicita la collaborazione con la Cassa del Mezzogiorno con la costituzione della società finanziaria INSUD. Contraddistinti da scambi e acquisizioni di pacchetti azionari tra la Finanziaria Ernesto Breda, il gruppo IRI o lo stesso gruppo EFIM, i successivi anni vedono l’intreccio ormai indissolubile tra politiche di gestione delle singole società e più generale situazione dell’industria nazionale. Costruire una “corporate image” alla Fiera di Milano del dopoguerra La sintetica ricostruzione delle vicende aziendali ci permette di comprendere quali siano state le esigenze di “avanguardia”30 della Breda di mostrarsi nel 1951 rinata agli occhi del grande pubblico. Si trattava in quel momento di un obiettivo di vitale importanza per l’industria di Sesto San Giovanni che, per forza di cose, avrebbe dovuto prevedere l’intervento di artisti, architetti e intellettuali nella fase di promotion avanzata. Come stava accadendo in altre realtà industriali italiane, infatti, era viva la consapevolezza di far coesistere l’istanza di ristrutturazione e rinnovamento neocapitalista con le teorie di provenienza statunitense sulle aziende quali istituzioni pubbliche, insieme alla capacità del moderno design di rivoluzionare l’immagine complessiva di un gruppo. Ricordiamo che in questi anni le maggiori aziende, dalla Pirelli a quelle dell’Iri, sull’esempio della Olivetti reclutavano intellettuali, artisti ed esponenti di spicco della cultura architettonica31. 14 Del resto, anche se non era giunta alla costruzione di un vero e proprio “stile Breda”, fin dagli anni trenta la storica industria lombarda si era servita delle competenze di valenti architetti per il progetto degli edifici più rappresentativi e per il disegno dei propri prodotti: alla V Triennale del 1933, ad esempio, per la mostra sulle carrozze ferroviarie, Giuseppe Pagano e Gio Ponti avevano realizzato gli interni del vagone Triennale-Breda32, mentre nel 1936 la Breda commissiona a Baldessari il progetto di un palazzo per uffici da costruirsi a Sesto San Giovanni33 e, nello stesso anno, Pagano partecipa al programma di una nuova linea aerodinamica e degli interni del primo elettrotreno Etr 200, prodotto dalla Breda. È stato ipotizzato, altresì, il coinvolgimento sempre di Pagano e di Ponti nel progetto della palazzina del Campo Voli che la Breda realizza per testare i prototipi lì costruiti34. Dal 1946 al 1950 Giulio Minoletti collabora a varie iniziative dell’azienda di Sesto San Giovanni, dall’allestimento di stand al progetto dei padiglioni alla Fiera di Milano35, fino al disegno degli interni dell’aereo Bz 308, già ricordato, e del treno Etr 300, più noto come Settebello36. In questi anni, inoltre, l’azienda è alla ricerca di un’immagine accattivante – rimettendosi a valenti artisti illustratori e a studi di grafici quali Pelizza, Polenta e Rognoni, Simoni e Radicati, Biraghi, Huber, Araca (quest’ultimo già autore del marchio Breda)37 – da diffondere sul mercato pubblicitario tramite l’Ufficio Propaganda e Relazioni. Ma, a differenza degli anni d’oro, con l’arrivo di Sette – uomo di raffinata formazione intellettuale, oltre che tecnica – diventa essenziale l’elaborazione di una specifica identità culturale da affidare a un solo artista capace di interpretare e coniugare cultura umanistica e sapere tecnico. È stato notato che nelle grandi aziende, come l’Olivetti, la Pirelli e l’Italsider, tecniche e conoscenze professionali americane facevano parte della formazione dei dirigenti e, in senso lato, di molte delle diverse fasce di responsabili. Con Sette è plausibile ipotizzare che anche alla Breda si respirasse, nel nuovo gruppo dirigente, l’aria delle teorie economiche e delle moderne tecniche di marketing diffusesi ormai ovunque in Europa. Da poco rientrato in Italia dopo circa otto anni trascorsi a New York, Baldessari incarnava il referente perfetto di un modo di concepire strategie e pratiche professionali. Aggiornato, e adeguatamente qualificato, l’architetto di Rovereto possedeva dialetticamente, per la committenza, cultura artistica à la page e conoscenza delle prassi dell’advertising americano. Dopo la rottura professionale con Minoletti, dovuta alle alte richieste di ricompensa, Baldessari era visto non solo come un professionista affidabile e che già in passato, tramite Carlo De Angeli Frua, marito di Amalia Breda, aveva avuto rapporti con l’azienda, ma anche come colui che appariva in grado di abbozzare il nuovo volto di un’industria, fortemente impegnata – è bene ricordarlo – a presentarsi agli occhi dell’opinione pubblica ma anche 15 Progetto per un palazzo per uffici Breda, Sesto San Giovanni 1936. Mostra della Seta a Villa Olmo, Como 1927. Cartello pubblicitario per la I Mostra nazionale della moda, Torino 1933. Auto reclamistica per la De Angeli Frua con il marchio “Sole Onda”, Milano 1929. Le sale “Aviazione civile, turismo aereo, posta aerea” e “Fascismo e Aviazione” all’Esposizione dell’Aeronautica Italiana al palazzo dell’Arte, Milano 1934. 16 a quelli dei propri dipendenti a cui chiedeva sacrifici indispensabili per la salvezza, come capace di superare le logiche paternalistiche e di affrontare la realtà della moderna ricostruzione industriale. A sua volta, per Baldessari la Breda rappresentava un interlocutore coraggioso e di larghe vedute; la frase in calce a un’annotazione manoscritta conservata tra le carte dell’architetto è in proposito assai significativa: «Non è facile trovare tali clienti o committenti come li vuoi chiamare»38. Baldessari non era nuovo a interventi effimeri concepiti per la Fiera milanese e per altre importanti occasioni espositive. Dopo il brillante esordio dell’allestimento per la Mostra della seta a Villa Olmo a Como (1927), che vede i drappeggi dei tessuti avvolti sui manichini di Aleksandr Archipenko, nel 1929 l’architetto concepisce per la De Angeli Frua (azienda della famiglia proprietaria peraltro della maggioranza azionaria insieme ai Breda dell’industria di Sesto San Giovanni) lo stand all’Esposizione dei tessuti di Bolzano e l’auto reclamistica, con il marchio “Sole Onda” da lui ideato, la cui parte posteriore è trasformata in una «vetrina viaggiante»39: un teatrino meccanico rotante e con manichini, che ai visitatori della Fiera di Milano presenta le ultime novità in fatto di stoffe. Conosciuto nell’ambito delle frequentazioni del ristorante Craja, Carlo De Angeli Frua era divenuto a partire dal 1928 il principale committente di Baldessari, che per lui realizza nel giro di pochi anni – oltre al palazzo per uffici in piazza De Angeli (con Figini e Pollini) e a varie sistemazioni di interni sia di appartamenti sia di negozi – gli eleganti stand DAF allestiti alla IV Triennale di Monza (1930), alla V Triennale di Milano (1933), e alla Mostra nazionale della moda di Torino (1933) per la quale elabora, con la collaborazione del pittore Enrico Ciuti, anche il cartellone pubblicitario. Alla Fiera di Milano, sempre con alcuni contributi di Ciuti, per la De Angeli Frua crea il contenitore trasparente del padiglione Vesta del 1933 e la complessa struttura pubblicitaria “a ponte” del 1936, destinata a reclamizzare i tessuti stampati di seta, lana, rayon e cotone, che «vincono le sanzioni»40. Per di più, con la progettazione di allestimenti attinenti il campo della moda, come acutamente scrive Fulvio Irace, Baldessari perviene a «una personale iconografia architettonica dai caratteri fortemente idiosincratici rispetto ai temi dominanti delle nuove avanguardie razionaliste»41. Come è stato del resto riconosciuto, per Baldessari il tema dell’effimero risulta più che congeniale, in grado di liberare aspirazioni altrimenti represse, e capace di produrre capolavori di altissimo virtuosismo rappresentativo. Allestendo con la «violenza dei giochi decorativi»42, le sale “Aviazione civile, turismo aereo, posta aerea” e “Fascismo e Aviazione” all’Esposizione dell’Aeronautica Italiana al palazzo dell’Arte di Milano (1934), ad esempio, Baldessari dimostra un’autentica attitudine “comunicativa”, 17 Veduta e assonometria del padiglione Vesta alla Fiera di Milano, 1933. Complesso pubblicitario per la De Angeli Frua alla Fiera di Milano, 1936. Renzo Zavanella, padiglione delle Officine Meccaniche alla Fiera di Milano, 1950. Enrico Ciuti, padiglione del Gruppo Finmare alla Fiera di Milano, 1954. Mario Bacciocchi, padiglione Agip Snam alla Fiera di Milano, 1953. 18 asciutta e veloce, tanto da far scrivere a Edoardo Persico – a proposito della sala ispirata agli hangar per dirigibili – che si tratta di «una costruzione di propaganda, in cui tutti gli elementi hanno carattere di vivace e immediata illustrazione». Per il critico napoletano gli archi parabolici delineano «un motivo scenografico di immediata evocazione, alla quale danno maggiore intensità i manifesti che tappezzano tutta la sala, creando un’efficace ossessione reclamistica»43. A “comunicare” l’innovazione senza il ricorso a ridondanti retoriche, Baldessari era comunque giunto, alla Fiera, con il già citato padiglione Vesta. «Armadio a vetri monumentalizzato»44, lo stallo in struttura di acciaio con la pelle segnata da sottili linee ortogonali su cui erano poggiate le lastre vetrate era un sentito omaggio all’opera di Mies van der Rohe. Per cogliere la portata del valore riconosciuto in Mies, è significativo leggere quanto Baldessari scriverà in onore del settantesimo compleanno del maestro: «Insegnaste a credere e usare la tecnica come mezzo espressivo sì, ma non come fine. Insegnaste a possedere ogni più perfetto mezzo tecnico per superarlo. Insegnaste non tanto a “faire chanter le point d’appui”, quanto a essere al di là della tecnica, nella zona astratta dove è solo possibile liberare per il creato l’empito lirico di una espressione non traducibile in parole, il canto sicuro ed ampio di un’Arte universale»45. Come è stato osservato, il padiglione Vesta si faceva notare per la sua semplicità quale esempio di puro razionalismo, in cui interno ed esterno comunicavano con chiarezza, senza presenza di filtri, il messaggio commerciale. Definito una delle opere più poetiche di Baldessari, il padiglione avvertiva – mediante l’identificazione del linguaggio formale con la concezione strutturale – come lo stile fosse nella misura delle cose, nel grado di dosare materiali ed espressioni comunicative, nella congruenza armonica tra oggetto da esporre ed espositore. La corporate image per la Breda, dunque, era esprimibile mediante una vera strategia che contemplasse anche la cosiddetta “architettura pubblicitaria” da realizzare a Milano nella più importante esposizione italiana del dopoguerra. Va tenuto conto che fino ad allora l’esposizione dei prodotti Breda era stata organizzata alla Fiera – definita «città dei balocchi» o luogo per la «produzione di sogni»46 – in due settori, uno all’aperto dedicato alla meccanica pesante, l’altro in una struttura costruita all’estremità dell’area a disposizione, all’interno della quale si potevano mostrare la meccanica leggera e i modelli fabbricati. Prospiciente piazzale Milano, il settore all’aperto, appendice del padiglione 41-B, era imperniato ogni anno su una macchina che, per le sue dimensioni, costituiva da sola elemento di richiamo47. Dal 1951 tecniche di comunicazione e visioni moderne di corporate identity prendono così forma nei padiglioni effimeri della Fiera campionaria48: dai prospetti delle spese sostenute dalla Breda per gli allestimenti nelle manifestazioni fieristiche a partire dal 1949 si evince come quella di Milano risulti di gran lunga la più onerosa49. Del resto, l’esposizione milanese rivive, nella febbrile ripresa economica del dopoguerra e in un Paese che vede l’organizzazione di un considerevole numero di fiere, un imponente processo di crescita, con stand ideati per esibire prodotti non più in modo statico, ma «nell’esercizio delle attività per cui sono stati creati». In tal senso, se le merci hanno bisogno di essere provate, testate, collaudate, si ricostruiscono “ambienti” adeguati: pezzi di deserto con sabbia gialla fanno da pista per la Campagnola, che si arrampica su dune e guada pozzanghere; costruzioni “calligrafiche” in fil di ferro smaltato di bianco, con contadini in costumi multicolori, simulano un paese alpino per esporre prodotti alimentari; mucche gigantesche di cartapesta e galli sfilano su automobili tra il pubblico; in una darsena galleggiano gli ultimi modelli di motoscafi e idroscooter. A partire dalla Fiera del 1951, inoltre, il nuovo elemento spettacolare è dato dalla presenza della Rai, e in generale della televisione, che con i suoi apparecchi disseminati ovunque manda in onda partite, film o riprese girate per la mostra; peraltro, nel padiglione del 1952 – allestito dai fratelli Castiglioni (con Bruno Munari)50 – l’ente radio-televisivo italiano ricostruisce, su due piattaforme rotanti, due ambienti significativamente diversi: da un lato una tradizionale casa borghese fin de siècle con grammofoni a tromba e abat-jour di cristallo colorato a forma di corolla di fiore; dall’altro una moderna abitazione “funzionale”, con quadri dadaisti, luci fluorescenti, mobili di acciaio e apparecchi radio ovunque. «Scaturisce da tutto ciò – scrive Raffaello Guzman – un continuo effetto di spettacolo, di divertimento, che indubbiamente ha una grande efficacia, e non soltanto sul grosso pubblico, cioè quello che va alla Fiera, appunto, per divertirsi: come andrebbe al cinema o a fare una scampagnata. Ne scaturisce un effetto di meraviglioso Paese dei Balocchi, che i grandi ammirano con la serietà e l’interesse con cui i bambini si estasiano davanti a un trenino elettrico»51. Alla Fiera di Milano si ha così un nuovo modo di intendere la comunicazione, fatta di architettura e grafica pubblicitaria «spettacolare e cinestetica», con stand che diventano un’«istituzione linguistico-presentativa» come osserva Giovanni Anceschi52. Di conseguenza, costruire all’interno dell’esposizione milanese significa considerare ulteriormente l’elemento spettacolare del contesto in cui va a mostrarsi l’architettura, oltre che tenere conto delle questioni di corporate image. Un contesto in cui – secondo Gustavo Montanaro, direttore dell’allora Servizio stampa e propaganda della Fiera – la base funzionale «non è dunque una pubblicità di prestigio, ma una pubblicità tecnica, direttamente commerciale»53. Vi è da dire che negli anni in cui 19 Erberto Carboni, con Max Huber, Carlo Mollino, F. Campo, C. Graffi, padiglione Eni Snam alla Fiera di Milano, 1954. Erberto Carboni, padiglione Eni Snam alla Fiera di Milano, 1956. Errico Ascione, Leonardo Sinisgalli, padiglione Eni Snam alla Fiera di Milano, 1959. la pubblicità in Italia cercava un linguaggio autonomo, era convinzione dei progettisti dell’effimero che l’architettura pubblicitaria avrebbe dovuto articolare proprio le prime parole di questo linguaggio. Anzi, già nel 1941 si era ben consapevoli di quali fossero le questioni da porre al centro dell’attenzione: Angelo Bianchetti e Cesare Pea, ad esempio, analizzando modi, tecniche e scelte da adottare, nella realizzazione di sistemazioni, installazioni, ingressi, fontane, richiami pubblicitari e padiglioni per una fiera – avvertivano che era necessario individuare «caratteristiche di stile ed organiche nettamente diverse da quelle pertinenti all’architettura intesa in senso universale»54. Non a caso, secondo i progettisti, la produzione di forme per le manifestazioni fieristiche era stata da sempre un’attività influenzata esclusivamente dalle arti visive: «L’architettura pubblicitaria deriva più dalla plastica, dalla scultura, dalla pittura che non dall’architettura». Tuttavia, esprimere un messaggio mediante la materializzazione concreta di forme, voleva dire anche misurarsi con le questioni poste dal progetto, prima ancora che dai materiali e dal cantiere. Va da sé che, al pari degli altri padiglioni presenti alla Fiera, anche quelli Breda, vere meraviglie dell’effimero, erano governati dalle leggi dettate da problemi tecnici specifici. Costruire, come ad esempio nel caso del padiglione Breda del 1951, riutilizzando le strutture – novelle folies – lasciate dalla messa in scena dell’anno precedente di Giulio Minoletti, acquistava una concretezza fatta di mattoni, cemento, tralicci, vernici. Sicché, come gli altri interventi presenti alla Fiera nei primi anni cinquanta, che siano di Cesare Scoccimarro per la Fiat o di Angelo Bianchetti e Cesare Pea per la Montecatini o per la Italviscosa oppure di Renzo Zavanella per le Officine Meccaniche55, anche i padiglioni Breda si inseriscono in una ragnatela fatta di parole e immagini – oltre che di forme e di materiali costruttivi – con un contesto visuale, nonostante tutto, profondamente carico di retorica e affollato di “architetture per comunicare”: ogni singolo padiglione restava in fondo un monumento all’etica e agli ideali dei nuovi consumatori, basati sulla gratificazione e rappresentati da vetrine allestite per l’acquisizione di beni di massa. Processo ideativo e architetture pubblicitarie Sinuosa e intrigante, la prima forma immaginata da Baldessari si misurava con “la gioiosa arditezza dei giochi infantili” disseminati negli spazi della Fiera. Assimilate le lezioni futuriste dell’amico e maestro Depero56, l’architetto allestisce una «colossale» – come fu definita da Leonardo Sinisgalli – «arditissima» costruzione pubblicitaria. Nella prosa del poeta-ingegnere di Montemurro si palesa una interpretazione critica calzante; riferendosi ai padiglioni del 1951 e del 1952, egli coglie le intenzioni dell’architetto che 20 disegna un vero e proprio evento: «Ha creato qualcosa che nell’insieme, scena e personaggi, potesse dar l’idea di uno spettacolo, una processione, una sfilata, un corteo, una passeggiata»57. Baldessari tenta un esperimento di fusioni. Nella felice definizione di «promenade architecturale et métallurgique», Sinisgalli individua lo “spirito moderno” di tali acrobazie sperimentali e lo fa risalire alle rappresentazioni di Erwin Piscator o di Luchino Visconti. Il padiglione del 1951 viene considerato quello della finalità esibita e della regia riuscita: «Baldessari ha fatto recitare una parte ai visitatori, la parte appunto della massa, come in una pantomima, come in un balletto, ma senza imporre un ruolo obbligato né ai personaggi né alle macchine. Soltanto ha fissato un itinerario, un itinerario dentro un paesaggio, un paesaggio che ha una straordinaria eloquenza, un paesaggio astratto ma carico di una suggestione profonda»58. Tecnica, materia, forma si fondono e coagulano in un’“espressione coreografata” per condurre i visitatori in fila su una passerella, in attesa di ammirare un panorama di prodotti industriali: Baldessari li accompagna in un tubo – forno che sia – a contemplare il progresso e la vitalità di chi li ha realizzati59. Il padiglione del 1951 si propone di mostrare la vivacità di un’azienda fatta di uomini e di ingegno, che sta attraversando – come abbiamo visto – una fase di notevole difficoltà; in riferimento al padiglione, i giornalisti non mancano di sottolineare l’eccezionalità dell’industria: «Più che una “ditta”, la Breda è il simbolo della capacità tecnica dei lavoratori»60. Nell’ideare i padiglioni Breda, Baldessari medita sull’eleganza; ha necessità di incasellare i prodotti di una industria moderna, con il loro peso di funzionalità, in un equilibrato insieme di vuoti e di pieni, ma anche di colori e di luci. Con la passerella che percorre i sentieri di un rinnovato meccanismo del comunicare, egli anticipa le istanze della “tecnica” che diventa essa stessa linguaggio. Manifestata nella sua nuda espressione, la stessa “tecnica” sarà la cifra distintiva del padiglione Sidercomit realizzato da Baldessari, sempre con Marcello Grisotti, alla Fiera di Milano nel 195361. Qui gli architetti partono da un’idea strutturale elementare – «un’idea che è insieme un concetto costruttivo e un arabesco della fantasia», dirà Agnoldomenico Pica – imperniata su un elemento a “V” con due ali spiegate, evocante la «contrapposizione di due falconi metallici egualmente caricati e mutuamente reggentisi in vicendevole equilibrio»62. “Esibita” e resa “viva” dal pubblico, nel progetto di Baldessari del 1951, la forza della siderurgia mostra oggetti “tecnici” da divulgare in tutte le forme possibili: va ricordato che la parola d’ordine era sempre “far conoscere”. Stupire, mediante un’architettura nata dal teatro (come teorizzato da Walter 21 Gropius), ed educare, attraverso anche una sala di proiezione a margine del percorso, sono gli obiettivi cari all’industria di Sesto San Giovanni. In un articolo intitolato Architettura pubblicitaria, apparso sulla rivista «Pirelli» proprio mentre si inaugura il padiglione, Vittorio Bonicelli scrive: «Questo è il vero gioco pubblicitario: aumentare fino al limite estremo le superfici parlanti, dimostrative, amplificarne l’eloquenza didattica, senza perdere estrosità e ritmo, e ricorrere anche al cinema per creare una quarta dimensione»63. D’altro canto, il motto che campeggiava sul cartellone all’uscita del forno – “Per ogni industria la macchina, per ogni trasporto il mezzo” – si poneva come conclusione retorica alla visione dell’ampia gamma di produzioni della fabbrica64. Diversi sono dunque i linguaggi espressivi utilizzati e i livelli comunicativi: il teatro che configura l’architettura, il cinema che appare dentro l’architettura, la pubblicità che prende forma con le forme stesse dell’architettura. Ed è un motto, “La Breda ieri una, oggi unitaria”, a segnare il principio del padiglione del 1952; uno slogan pubblicitario riprodotto su cartelloni e brochures, utilizzato per presentare il complesso delle otto aziende coordinate da un’unica “Finanziaria”. Soddisfatta del risultato raggiunto l’anno precedente, nel 1952 in una manifestazione nata ancora una volta per stupire il grande pubblico (con la Montecatini – ad esempio – che riproduce davanti al suo padiglione un disco volante in polietilene65), la Breda affida a un concetto, e alla forma scultorea magistralmente interpretata da Baldessari, la mission del nuovo corso aziendale. Abbandonando la tradizionale mostra di prodotti-campione, l’opera di Baldessari si concentra su una struttura a ventaglio curvato dalla quale «si sviluppa con un tracciato di armoniosa ed energica impronta il nastro che, collegando le otto società, le riporta funzionalmente alla Breda Finanziaria ricostituendone un unico complesso articolato e capace di presentarsi sui mercati mondiali come una coerenza unitaria di forze produttive»66. Con riferimento all’interpretazione funzionale dell’architettura, in una relazione si legge: «La coclea centrale (che ritornando su se stessa dà origine a tutta la configurazione) la domina, non solo per le sue gigantesche proporzioni, ma soprattutto per l’arditezza delle linee coraggiosamente lanciate verso l’alto nel superamento di un pericoloso strapiombo, quasi a materializzare la tensione di vita del grosso complesso industriale che nella coclea stessa ha origine, evoluzione e conclusione. Lo spazio lasciato allo sviluppo dei percorsi delle otto nuove Società nate dalla vecchia Breda, pur essendo completamente libero, è tutto dominato dalla coclea e compreso nel nastro che con leggere e ardite volute si stacca talvolta con audace decisione dal piano su cui si svolge la vita delle Società consociate»67. Nessuna macchina, dunque, viene esposta: una scelta coraggiosa giustificata anche dal proposito di evitare che, di fronte a pochi esemplari, si possa credere che a essi soli si sia ridotta l’attività della Breda, come scrive il pittore intellettuale Attilio Rossi. Si propone in effetti un tema pubblicitario spinoso, «quasi scoraggiante per la sua complessità in quanto si trattava di presentare due cose in una e cioè: illustrare, innanzi tutto, le caratteristiche armoniche della nuova struttura derivata dalla razionale riorganizzazione e della conseguente divisione in otto società, società però presenti sul mercato mondiale con una unica forza. Naturalmente poi mostrare anche la produzione tipica di ogni singola società. La soluzione di problemi di raffigurazione così complessi non poteva essere trovata che intuitivamente e, ancora una volta, come se fosse necessario, si è dovuti ricorrere non al tecnico ma all’artista. L’artista o, meglio, gli artisti sono riusciti con la loro fervida fantasia a creare uno spettacolo plastico armonioso e a illustrare sinteticamente l’arido schema organizzativo di questo grande complesso industriale. La novità sconcertante e coraggiosa è stata quella di non esporre nessuna macchina (che lezione per certi miopi tecnici pubblicitari, miopi per credere troppo nelle statistiche o per la lettura di troppi manuali). Questa soluzione, oltre che lasciare un più libero campo creativo, è stata utile anche per evitare equivoci che sarebbero certamente derivati da una esposizione parziale»68. Come si vede, la pregnante testimonianza del direttore della rivista «Linea Grafica» – il quale nello stesso periodo collabora con Baldessari alla Mostra del risorgimento mantovano nella Casa del Mantegna a Mantova e a quella dedicata a Van Gogh a Palazzo Reale a Milano69 – evidenzia in 22 particolar modo le logiche espositive sottese alla creazione della forma definita «dolmen di linee aereo-dinamiche». Attraverso una successione di documenti fotografici sulle principali “attività in atto”, allestiti poi lungo le pareti del percorso prestabilito, si intende offrire una visione d’insieme del complesso industriale “in movimento”70, mentre l’unica mostra di prodotti – in particolare fucili da caccia e da tiro – viene allestita all’interno del fabbricato permanente (interessante, in tal senso, è il modo di presentare i fucili anch’essi “in movimento”, anziché “in vetrina”). Risultato della fruttuosa collaborazione tra committente e artista, il padiglione materializzava la sinergia delle quattro componenti in gioco: linguaggio riconoscibile da parte dell’industria, esigenza di presentarsi sui mercati mondiali come espressione di un unico e articolato complesso, arte della mise en scène, estetica della moderna comunicazione pubblicitaria71. Per di più, nella coclea era evidente quanto l’attenzione fosse concentrata sull’impresa piuttosto che sulla promozione dei suoi prodotti, in linea con la scuola di management aziendale basata sulle human e public relations. Proprio nel 1952 era sorto l’Istituto italiano per le relazioni pubbliche, ente che si preoccupava di diffondere ruolo e compiti del nuovo ambito di intervento consistente «nelle attività che si organizzano e nei programmi informativi che si realizzano per far partecipare la comunità alle attività del settore»72. Si trattava dunque di presentare la Breda stimolando la partecipazione fattiva dei visitatori della Fiera, senza fare alcun riferimento agli oggetti da lanciare sul mercato. Peraltro, va tenuto conto che fino alla seconda guerra mondiale – come abbiamo ricordato – il principale cliente della Breda era individuato nello Stato; mentre con il nuovo corso storico era necessario dare la giusta enfasi a un complesso industriale che faticosamente si stava rimettendo in sesto, e diffondere un’idea di industria “indispensabile” all’economia nazionale e alla vita del Paese. Un’idea che si ridimensiona l’anno seguente, allorquando si verifica una ripresa economica che permette alla Breda di adottare lo slogan «Una industria nel mondo». Impressa con forza sul dado che fuorusciva dalla sfera nel padiglione del 1953, la scritta sintetizzava l’avvenuto recupero, tanto che la Breda poteva tranquillamente ritornare a mostrare i prodotti di punta con cui l’azienda era intenzionata a conquistare il mercato internazionale. La comunicazione, con un efficace linguaggio, dell’identità d’impresa, passava dunque in secondo piano: si ritornava a mostrare l’innovazione e la qualità dell’industrial product di una grande holding nata da un insieme di otto consociate, come rimarcava il grafico inserito da Attilio Rossi sulla grande parete di sinistra ispirato alla pianta del padiglione dell’anno prima. Alla “plastica pubblicitaria” del 1954 è affidato il compito di esprimere il consolidamento di una cultura d’impresa e di una corporate image. Proiezione dell’azienda che adotta come tema Struttura della Breda, l’elemento architettonico si poneva come manifestazione raggiunta dello sviluppo del complesso siderurgico. Non più viaggio iniziatico verso la conoscenza, la passeggiata del visitatore era diretta verso l’“universo” dell’industria con il mercato pronto ad accogliere i nuovi prodotti, ed era allietata da una carrellata di immagini che ripercorrevano i momenti salienti della gloriosa e difficile vita della Breda. La Plastica luminosa di Lucio Fontana sul soffitto della saletta, il bassorilievo della Sintesi del ciclo produttivo siderurgico di Umberto Milani, la figurazione sulla facciata del padiglione La Breda oggi nell’universo industriale di Attilio Rossi contribuivano alla creazione di un codice di segni universalmente accessibile, proprio perché la Breda aveva in quel momento necessità di mostrare quell’autorevolezza e quel prestigio, fino a qualche anno prima messi in crisi da complesse vicende politiche, e di relazionarsi in modo nuovo con i propri dipendenti e con il mondo esterno alla fabbrica. 1951: un “mammuth” della tecnica Ma facciamo un passo indietro. Come si è detto, Baldessari riceve l’incarico di realizzare il primo padiglione della Breda nel febbraio 1951. L’inaugurazione della XXIX Fiera è prevista per il 12 aprile, ha quindi poco più di un mese per elaborare un progetto plausibile, che tenga conto dei prodotti 23 da esporre. Per di più, tra gli “oggetti” da mostrare vi è un forno a rotazione per la fabbricazione del cemento dal diametro di 2 e dalla lunghezza di 60 metri circa (definito dalla stampa quotidiana «un “mammuth” della tecnica»73) che la Breda aveva costruito per uno stabilimento di Gubbio. Come concepisce il progetto Luciano Baldessari? La soluzione più immediata che gli si presenta è quella di riutilizzare quanto lasciato dalla precedente esposizione: due pareti di cemento larghe 8 metri circa e alte 16. Inoltre, il forno rotativo di 260 tonnellate gli suggerisce «una delle più geniali architetture pubblicitarie finora escogitate»74. L’idea è che il pubblico possa penetrare nel prodotto, per conoscerlo a fondo e, allo stesso tempo, possa rimanere coinvolto in un rito collettivo di partecipazione, oltre che di adesione condivisa al senso del lavoro siderurgico. Baldessari scrive: «Dovevo esporre un forno rotativo; vi penetrai come in un tunnel, e mi nacque allora l’idea di incanalarvi il pubblico. Rifiutai la retorica dei fotomontaggi e delle didascalie, per arrivare ad un linguaggio più immediato, capovolsi tutti i preesistenti concetti espositivi fondendo in unità espressiva scultura e scenografia, funzionalità e fantasia»75. Sospesa nell’aria grazie a leggeri supporti, una lunga e stretta passerella in cemento armato – che attraversa i due setti paralleli già esistenti, su cui spicca il nome della Breda – invita allora alla passeggiata il visitatore che con due curve e una leggera pendenza viene portato a 6 metri circa dal livello del suolo. Qui si penetra all’interno del forno (inclinato allo stesso modo che avrebbe avuto nella fabbrica e poggiato su solidi supporti di cemento armato) e lo si percorre per l’intera lunghezza potendo ammirare i pannelli fotografici lungo le pareti. Suggestionato dalla visione della conduttura ruotante su cuscinetti attraverso la quale il materiale sarebbe passato per una fortissima fiamma disgregatrice, il visitatore – secondo il progettista – poteva immaginare il funzionamento della macchina e il calore ottenuto da carbone polverizzato, nafta oppure metano pari a una temperatura di 1400 gradi immesso all’imboccatura opposta76. Grazie proprio alla potenza icastica del forno dipinto in blu cobalto77, l’immagine complessiva del padiglione viene assunta in questi mesi dagli operai in lotta come emblema del loro lavoro in fabbrica78. Come cornice al percorso, Baldessari concepisce una forma astratta aerea, illuminata al calar del sole in modo da lasciare sullo sfondo il forno in ombra. Immagina un nastro nello spazio da realizzare in cemento armato, che invece viene poi realizzato in sette giorni con una struttura metallica saldata e ricoperta di rete e intonaco. 24 La costruzione dell’intero padiglione è portata a termine in quaranta giorni. Un periodo necessario per creare un «un linguaggio – come scrisse Baldessari – di una Architettura nello spazio, dove, in comune con le altre Arti, Scultura e Pittura, si esaltano e drammatizzano scenograficamente, e idea ed espressione»79. Già al centro degli incontri dei Ciam (Bridgewater 1947, Bergamo 1949), il “problema” della collaborazione o, meglio, sintesi, fra architettura e altre arti, era stato del resto risolto da Baldessari, negli stessi mesi in cui predisponeva il padiglione, anche in occasione degli allestimenti ideati per la IX Triennale80. Come ha messo in luce Fulvio Irace, l’architetto sa creare una «sinergia tra le varie forze espressive», che trova nella sistemazione degli ambienti d’ingresso una esemplare testimonianza81. «Quello che desideravo mettere in evidenza – dichiara Baldessari a Gillo Dorfles a proposito dell’allestimento della Triennale del 1951 – era la necessità della sottomissione di pittori e scultori ai voleri dell’architetto. Qui, quello che contava era l’impostazione architettonica delle sale, poco importava di quali opere figurative o non figurative si trattasse, purché queste opere fossero inquadrate a dovere nell’ambientazione generale»82. Dorfles rileva come Baldessari “da buon scenografo” si sia preoccupato in particolar modo di considerare l’ingresso, lo scalone e l’atrio del Palazzo dell’Arte come “una gigantesca scenografia”83. Un intento riuscito là dove sono coinvolti – secondo Dorfles – artisti dallo «spiccato senso decorativo». Va ricordato che il soffitto viene interpretato da Lucio Fontana con il celeberrimo segno gestuale del Cirro luminoso, il tubo al neon ispirato a un lazo argentino, che «crea una piacevole sensazione spaziale utilizzando l’elemento luminoso e plastico». Non sempre risultano appropriati gli accostamenti di talune opere d’arte: agli occhi dei critici contemporanei i lavori di alcuni contrastavano con quelli di altri84. Ma al di là delle valutazioni coeve e delle occasioni colte dai singoli – Fontana ad esempio vedrà il momento adatto per promuovere (sostenendone la primogenitura) il manifesto del movimento spaziale85 – l’aspetto significativo della collaborazione tra architetto e artisti-intellettuali nell’esposizione milanese permette di misurare il portato delle invenzioni di Baldessari nei disegni di studio a oggi pervenuti relativi a ogni singolo padiglione della Fiera. Nell’anno in cui Gillo Dorfles pubblica il Barocco nell’architettura moderna, Baldessari si avvicina alle sperimentazioni di Alexander Calder (da lui conosciuto a New York), ma soprattutto alla pittura gestuale americana e alla poetica delle linee-forza dell’amico Fontana. I tratti informali che appaiono sui suoi fogli da lavoro sono leggibili come potenza dell’automatismo del gesto della mano che 25 Padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1951. Luciano Baldessari davanti al padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1951. Luciano Baldessari con Marcello Grisotti, Erminio Gosso e Giorgio Grando alla Fiera di Milano, 1951. Bozzetto per Il Campiello di Carlo Goldoni, 1944. Bozzetto per Pelléas et Mélisande di Claude Debussy, 1941-44. C.A.S.V.A. IV.A.4a Prove colore per il padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1951. Studio per un Tetiteatro, 1952. Dettagli del padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1952. 26 27 concretizza forme inedite. Cogliendo una suggestione prodotta dai nastri trasportatori presenti nelle acciaierie della Breda, l’architetto sovrappone, fa scorrere, talvolta interseca, le linee generate dalla matita alla ricerca di una sequenza di tensioni coerenti. Come emerge nei disegni del C.A.S.V.A. contrassegnati dalla sigla IV.A.2 (vd. pp. 65-67), da leggere in successione e non in forma autonoma, l’elaborazione progettuale rincorre soluzioni convincenti: il nastro si piega, si curva, taglia lo spazio, attraversa le due lame preesistenti con una chiarezza disarmante. Illuminata dal basso e proiettante luce dai faretti immaginati in diversi punti (sostituiti nell’opera realizzata da neon predisposti lungo tutta la superficie inferiore), la fascia più volte schizzata, anche nello stesso foglio, fissa l’idea generatrice del progetto, costante dall’inizio alla fine. Baldessari sperimenta i difformi gradi di approccio al tema, mediante solchi e tracciati, per individuare le regole del movimento. In tal senso, il tempo di percorrenza era basilare per la buona riuscita della messa in scena, e nei disegni appaiono precisati gli assetti curvilinei, tanto del nastro quanto della passerella che conduce al forno. Ma la lunga rampa si presenta nei fogli di lavoro non tanto come pura forma, quanto come concezione statica. Intuitivamente l’architetto schizza soluzioni alla ricerca di quella perfetta, la sola che avrebbe permesso “quel tempo” di osservazione dell’oggetto esposto. Come Frank Lloyd Wright nel Guggenheim Museum, egli sperimenta il sistema di far contemplare degli oggetti mediante il movimento86. Avvalendosi anche degli elementi “di risulta” della precedente esposizione, nel padiglione del 1951 Baldessari procede a una manipolazione simile al trattamento cubista dell’objet trouvé che introduceva nell’opera un materiale, una forma, un contenuto diverso. 1952: un fiore sbocciato all’improvviso Eppure la lunga fila dei visitatori curiosi – che si accalcano sulle passerelle piuttosto che nei percorsi obbligati, non solo nei giorni dell’inaugurazione della Fiera, incalzati dal richiamo pubblicitario proveniente dalle curiose ed eccentriche forme – non si deve solo alla spettacolarità del padiglione, ma anche al modo sorprendente in cui era sorto tale gioiello strutturale. A questo punto è necessario analizzare anche il diverso ruolo dei collaboratori. Per i quattro padiglioni Breda, Baldessari chiama a collaborare, come abbiamo visto, il giovane ingegnere e architetto Grisotti, segnalatogli dall’amico pittore Adriano di Spilimbergo, e gli architetti e ingegneri Giorgio Grando, Erminio Gosso e Giovanni Vespignani dell’Impresa Morganti, i quali – insieme a Giuseppe Dal Monte della Breda e agli artisti Fontana, Rossi e Milani – avranno non poco peso nella realizzazione della sue coraggiose ideazioni. È sempre difficile comprendere 28 29 Veduta aerea della Fiera di Milano, 1952. Luciano Baldessari e Marcello Grisotti alla Fiera di Milano, 1952. Veduta aerea del padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1952. Studi per un Tetiteatro, 1952. Dettagli del padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1952. Max Bill, costruzioni di anelli circolari, 1947-48. 30 31 il ruolo giocato dai collaboratori, tecnici e artisti coinvolti nel progetto. Il contributo dello staff degli ingegneri appare evidente guardando le straordinarie fotografie scattate nei diversi cantieri nel corso degli anni per documentare le fasi di posa in opera nei tempi stretti delle realizzazioni. In particolare, il padiglione del 1952, il «fiore sbocciato all’improvviso sull’area della Fiera»87, impegna per giorni e notti il lavoro delle squadre dei tecnici della Breda e dell’impresa di costruzioni Morganti88. Diretti da Baldessari con Gosso, i lavori iniziano il 1° marzo e si concludono in quarantadue giorni. Dal punto di vista statico la struttura si presenta alquanto complessa. Va tenuto presente che la XXX Fiera di Milano si inaugura il 12 aprile 1952 con sorprendenti novità89. Tra queste un bacino d’acqua trasformato in un porto con barche a vela e a motore, utile per esibizioni di sommozzatori o di pesca subacquea, che nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto fondersi proprio con il padiglione Breda, «riprendendone e accentuandone l’elegante fluidità lineare». Dato che l’ipotesi di unire i due spazi si rivela impraticabile, si decide di realizzare la coclea dalla quale si dipana per 160 metri il nastro che si distacca dal piano orizzontale sul quale era rappresentata la vita delle nuove società collegate. Costituita da un’ossatura metallica formata da quaranta costole con struttura a traliccio per cinquanta tonnellate, e rivestita con reticolo e intonaco Stauss, la coclea – massima espressione della compiuta fusione tra spazio interno ed esterno, tra Innen e Aussen direbbe Dorfles – nella sua parte centrale raggiunge i 18 metri di altezza con uno sbalzo di 8, ed è illuminata dal basso da potenti riflettori. Assai difficoltosa è la soluzione del nastro per la notevole luce delle campate, per l’irregolarità degli appoggi, per la necessità – volendo esprimere il senso della leggerezza – di contenere lo spessore del nastro stesso entro i circa 25 centimetri. Inoltre, la striscia avvolgente doveva apparire non sostenuta, ma semplicemente appoggiata sui muri laterali e posata «con quella naturalezza di svolgimento di forme plastiche che il libero giuoco delle forze fa assumere ad un materiale elastico»90. Per ottenere tale naturalezza, studiata con un modello in scala 1:50, era fondamentale creare un sistema labile, da irrigidire in un secondo tempo, nel quale fosse possibile operare gli spostamenti e le correzioni indispensabili. Tale sistema era costituito da quattro tondini di acciaio del diametro di 35 millimetri, disposti lungo i quattro spigoli del nastro e poggianti su altrettante “selle” collocate agli spigoli di diaframmi metallici, messi a distanza variabile uno dall’altro normalmente alle superfici esterne del nastro stesso, in modo che, conservando invariata la sua sezione, questo avrebbe potuto avere la libertà di assumere qualsiasi posizione nello spazio. Una volta presa la forma voluta, i tondi vennero saldati alle selle e si provvide alla necessaria controventatura dei diaframmi. Anche per la lunga striscia venne 32 impiegato il graticcio Stauss con intonaco di cemento quale materiale di rivestimento. Come nelle opere dei suoi amici artisti, anche nel caso dei padiglioni di Baldessari l’utilizzo di tecnologie fino ad allora poco sfruttate assume un notevole valore, giacché uno dei fattori più interessanti dei progetti è costituito da soluzioni costruttive sorprendenti, nate dal connubio tra universo dei materiali e coscienza del loro uso effimero. Per questo motivo, il rivestimento con il graticcio Stauss venne scelto per la malleabilità e la rapidità, oltre che per il costo contenuto e per l’economia di spazio e di peso. Peraltro, questa tecnica consentiva la realizzazione di strutture reticolari completamente monolitiche, adatte a garantire elevate prestazioni di stabilità mediante la solidarietà tra opere orizzontali e verticali con le strutture portanti91. Costituito da una rete di fili di acciaio ricotto e protetto da ossido carbonioso disposti a maglia quadrata al cui incrocio era collocato un elemento laterizio, il graticcio si prestava anche per le sue caratteristiche di resistenza al fuoco92. La presenza dello specchio d’acqua antistante, destinato alla mostra nautica, in qualche modo frena anche l’iniziale intenzione di far sorgere «il fantastico giuoco di linee» dall’acqua stessa, che avrebbe potuto dar vita e forma a un’idea ispirata al Tetiteatro, concepito nel 1923 dal pittore Alberto Martini. In un’intervista rilasciata molti anni dopo, Baldessari dichiara di aver reso omaggio all’artista conosciuto nel salotto milanese di Jennie Mazloun e al suo teatro sull’acqua. Lontano tuttavia dal simbolismo di Martini, il padiglione avrebbe incarnato nel tema del doppio – quello dell’architettura e del suo riflesso – la specificità di una messa in scena nella messa in scena, la cui forza risiedeva proprio nel gioco dei rimandi tra attore e spettatore. Ma per individuare altre convincenti fonti visive di riferimento che contribuiscono alla realizzazione di un’equivalenza plastica «concepita – come scrive Baldessari – nella purezza delle parabole, delle iperboli, delle concoidi»93, accanto alle suggestioni grafiche che riconducono alla sua attività di artista-scenografo, è necessario considerare anche le influenze esercitate dalle forme dell’anello di Moebius come dalle sculture di Lucio Fontana (ricordiamo, ad esempio, il cono rovescio avvolto su se stesso per il Monumento a Giuseppe Grandi dei primi anni trenta94) o di Max Bill (si pensi ai motivi plastici astratti del 1936 e alle sperimentazioni nastriformi del 1947-48) 95. Del resto, proprio tale familiarità con le altre arti dovuta alla sua formazione, alle esperienze tedesche e americane, nonché alle sue cosmopolite frequentazioni, sebbene allontani Baldessari dai coevi “schieramenti architettonici”, come è stato giustamente sottolineato da Amedeo Belluzzi e Claudia Conforti, farà ampliare il patrimonio formale da lui acquisito96. 33 Walter Molino, copertina de «La Domenica del Corriere», 13 aprile 1952. Progetto per il Monumento all’Aviatore, New York 1945. Fucili da caccia e da tiro “in movimento” all’interno del fabbricato permanente Breda alla Fiera di Milano, 1952. Osservandoli in successione, i disegni eseguiti nel 1952 – tanto quelli pervenuti quanto quelli dispersi ma noti grazie alle riproduzioni fotografiche – sembrano concepiti per stupire, data l’energia da cui la forma del padiglione è pervasa. Pronti per essere incorniciati o regalati ad amici, come del resto in molti casi avvenne, gli arabeschi per la Breda si caratterizzano per una assoluta essenzialità: il segno è dinamico e teso, il ductus spesso e deciso. Ben più che di meri schizzi, si tratta di disegni tracciati da un artista esperto, che dispone, affianca, talvolta contrappone, le soluzioni delineate con una sintesi senza eguali, tanto che alcuni di questi abbozzi sono da lui stesso replicati per farne variamente omaggio. Applicazioni della luce, studio dei colori, indagini sulle azioni da indurre si delineano, di tanto in tanto a margine, prendono corpo senza assediare i fogli con note, appunti, scritte sovrabbondanti. Al pari della luce come “segno” nello spazio di Fontana, la forma avvolgente disegnata da Baldessari scorre sulla carta, già concepita per essere proiettata nelle tre dimensioni. In relazione ai motivi dello spazialismo e alla “riduzione a concetti di un’idea”, tipica dei fenomeni artistici che si sarebbero di lì a poco manifestati (dalla pop art all’arte concettuale), la configurazione della coclea avviluppata insiste sull’interazione arte-architettura con un semplice (dal punto di vista teorico) quanto difficile (sul piano pratico) contrappunto estetico. Come risultato, le figure complessive leggibili negli elaborati cartacei appaiono in sintonia con il côté emozionale indotto nei visitatori del padiglione. È stato sottolineato come la decisione di rendere protagonista la linea spiraliforme sia concettualmente analoga a quella assunta anni prima, allorquando Baldessari traccia segni veloci sui suoi fogli (Nudo, 1915) o schizza le soluzioni per il già ricordato allestimento della Mostra della seta a Villa Olmo a Como. Ma si potrebbe aggiungere, in questa ricerca di coerenza, anche l’idea del movimento insita tanto nel manichino-lampada Luminator, come appare nei bozzetti del 1926, quanto nelle esili figure delineate nei disegni per la Danse macabre o per il Teatro della Moda, entrambi del 1928, e nelle spirali metalliche porta-rose, arrotolate intorno a colonne e colonnine negli spazi aperti del complesso industriale Italcima a Milano (1932-39) e della casa della Madre e del Bambino di Brescia (1935-37). È possibile inoltre osservare la medesima linea che ritorna, gira su se stessa, si distende per poi dilatarsi in altezza negli studi eseguiti a New York per il Monumento all’Aviatore (1945); in questa occasione, la china acquerellata scorre fluida sulla carta, si segmenta nelle volute delle traiettorie acrobatiche che si piegano fino ad assumere la forma di archi paraboloidi. Accostando l’immagine dell’arco di Adalberto Libera immaginato per l’E 4297, a figure filiformi volanti ispirate alle sculture della cara amica Mary Callery, Baldessari riflette sul dialogo tra le forme e il movimento, nella sua non metaforica bensì concreta rappresentazione. Che fossero sospese in volo o galleggianti su aeree passerelle, le silhouettes disegnano lo spazio che le circonda come accade nei bozzetti da lui realizzati per il Pelléas et Mélisande (1941-44) di Claude Debussy, dove si assiste negli scenari al rifiuto dell’unità di tempo e di luogo98, o per Il Campiello (1944) di Carlo Goldoni. Va ricordato come il tema dell’arco paraboloide fosse presente anche nell’allestimento delle sale dedicate ad “Aviazione e Fascismo” alla Mostra dell’Aeronautica di Milano (1934), nel bozzetto per il Monumento al generale Roca a Buenos Aires (1936), e nel progetto per John H. Harris – tra i committenti dell’operazione San Babila – di una villa alla Giudecca (1936-37). Cantore della libertà espressiva, Baldessari inventa un’architettura che lo pone sulla medesima lunghezza d’onda della sua opera pittorica e scenografica, già inserita da Enrico Prampolini nella corrente de “L’astrazione spaziale plastico cromatica”, quella che «riassume le esperienze e le tecniche del cubismo e del futurismo e dell’astrattismo»99. Esito non tanto di una riflessione sulla figurazione scultorea, quanto del riverbero di una sequenza di espansioni e contrazioni plastiche, la forma da lui modellata per il padiglione del 1952 possiede una forza eloquente che condivide con poche altre architetture concepite nel dopoguerra in Italia. Stupefatto e al contempo fiero del successo conseguito dai primi due padiglioni Breda, a conclusione del già citato articolo, Sinisgalli esprimeva l’orgoglio dell’intellettuale che si inchina alla forza dell’arte, al caos dell’artista: «Abbiamo capito oggi che un graffio, uno sgorbio possono contenere una carica di emozione pari a quella del segmento o dell’arco, 34 che una gruccia ci può piacere quanto una colonna. L’architetto, di fronte ai temi effimeri, può ritrovare una freschezza che spesso è negata ai retori che lavorano per l’eternità». Sinisgalli concludeva l’articolo lodando gli architetti e l’industria «che ha accettato una rappresentazione non conformista, ma coraggiosa della propria rinascita»100. 1953: il “mondo” della Breda Più che coraggiosa, la scelta per il 1953 si dimostra alquanto ambiziosa nel proporre un ipotetico globo, simboleggiante quello terrestre pronto per essere conquistato dalla Breda con l’impulso produttivo di tutte le consociate. Realizzata interamente in acciaio, la struttura viene rivestita con il medesimo sistema metallico Stauss ricoperto di rete e intonaco. Nella composizione ritorna l’idea di una passerella che guida la passeggiata; ma stavolta, a differenza del padiglione del 1951, il visitatore, dopo aver salito una ripida scala, proseguiva il percorso in linea retta, metaforicamente indirizzato verso i mercati internazionali, e penetrava nel “mondo” Breda, il grande elemento sferico sospeso su cui campeggiava lo slogan dell’anno. A conclusione del sentiero aereo, la Breda mostrava quanto il suo nome fosse diffuso sul pianeta grazie alle forniture all’estero, mediante alcuni documentari proiettati nella saletta realizzata a piano terra nel corpo di testa. Adottando questa soluzione, Baldessari rende esplicita la suggestione che la sfera tende a esprimere, rimarcando tanto la vicinanza al padiglione Breda ideato da Minoletti nel 1948, quanto la prossimità al Périsphère di Harrison & Fouilhoux da lui ammirato alla New York World’s Fair del 1939 avente come tema The World of Tomorrow. Ideata in occasione dell’anniversario dell’istituzione dell’autorità municipale della futura “Grande Mela” e in concomitanza della ricorrenza dell’elezione di George Washington quale primo presidente degli Stati Uniti101, la fiera nasceva con l’obiettivo di promuovere e diffondere nel mondo l’ideale americano di “democrazia degli affari”, attraverso la proposta di un modus vivendi, più che di un sistema politico102. Giunto a New York nel dicembre del 1939103, Baldessari aveva avuto modo di visitare l’esposizione che vantava padiglioni spettacolari – da quello della AT&T a quello della General Motors – in grado di coinvolgere il pubblico con soluzioni originali ed espedienti ingegnosi e brillanti. E se da padiglioni come il Futurama di Norman Bel Geddes l’architetto italiano apprende la capacità di rendere complice e stupire il visitatore, è soprattutto dal Périsphère – con il Trylon autentica icona della mostra – progettato da Wallace K. Harrison & J. André Fouilhoux104, che mutua l’idea – da riproporre nelle dovute ridotte dimensioni – della sfera penetrabile mediante un ponte sospeso. 35 Padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1953. Luciano Baldessari davanti al padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1953. Gli elaborati grafici relativi al progetto del 1953 si contraddistinguono, ancora una volta, per una completa essenzialità. Varianti e stesure più o meno dissimili vengono messe in sequenza «per arrivare al mercato mondiale», come riporta una scritta sul foglio IV.A.5i del C.A.S.V.A. (vd. p. 141). L’inconfondibile stile grafico comunica il senso della fantasmagoria fieristica dove tutto si trasforma in spettacolo: uncinata, avvolta, circondata da anelli filiformi, legata da un arco paraboloide, la sfera viene tratteggiata con mano sicura studiandone i disuguali esiti formali determinati dalle diverse traiettorie disegnate dalla passerella. Nelle mani di Baldessari la rappresentazione grafica dell’allestimento si trasforma in materia vivente, che nutre l’atto creativo in sé e conquista una propria autonomia, in modo da stravolgere completamente le fonti dalle quali era partito il processo di ideazione. L’architetto definisce una vera e propria poetica non certo basata sulla stratificazione di segni né, tanto meno, sulla decuplicazione dei suggerimenti formali, quanto piuttosto sulla indeterminazione dei tratti, in cui risulta evidente lo sforzo teso a fornire delle precise coordinate alle strutture spaziali e volumetriche. Come scrive Enrico D. Bona: «I disegni di Baldessari, sorretti da una tecnica formidabile, hanno la rapidità e la sicurezza di chi agisce senza ripensamenti e per puro intuito; il loro svolgimento nel tempo non ha perciò le caratteristiche della ricerca intesa in senso tecnico o scientifico ma quelle della meditazione continua ed interiore: ci corrispondono la libertà e il lirismo delle linee continue ed il bianco delle superfici (il simbolo della purezza e dei valori assoluti cui Fontana – che molto si giovò della collaborazione di Baldessari – dà il senso delle cose perdute con un semplice gesto)»105. La specificità dell’approccio di Baldessari risalta in pieno, se si confrontano i due padiglioni realizzati nel 1953, per la Breda e per la Sidercomit, con quelli degli altri architetti-artisti coinvolti negli allestimenti nella Fiera dello stesso anno. A differenza, ad esempio, di Mario Bacciocchi e Gianluigi Giordani nel padiglione Agip-Snam o di Erberto Carboni nel padiglione Montecatini o ancora di Enrico Ciuti nel suo pur interessante padiglione sull’acqua del Gruppo Finmare106, Baldessari opera un intervento con lo spazio e nello spazio: egli fissa in chiave poetica – fertile di postille e annotazioni interlineari – un “testo” che impiega i prodotti da mostrare come “pretesti”. L’insieme delle parole ideate non è altro che l’embrione di un discorso sui rapporti tra spazialità interna ed esterna dell’architettura, e valenze simboliche di tale spazialità gravata dalla inevitabile contingenza effimera. Il corridoio aereo diventa allora il simbolo principale di tanta spazialità temporanea. Emblema che ritorna l’anno seguente: ma questa volta la passerella diventa tesa come una corda tirata, così come appare nei disegni approntati per il nuovo allestimento. 1954: un’ala per librarsi nell’aria Dal punto di vista simbolico, anche il padiglione del 1954 cerca di sostituirsi alla esclusiva comunicazione icastica delle scritte e delle gigantografie (adottata negli stand allestiti in Fiera dalle altre aziende), proponendosi esso stesso come messaggio. Rispetto all’anno precedente è ribaltato il senso di cammino: l’avvio del circuito viene previsto dal corpo posizionato sulla destra. L’insieme degli elementi architettonici approntati allude ai diversi periodi di crescita della Breda, con il primo a rappresentare la fase iniziale dell’azienda «tutta tesa nello sforzo di creare la sua produzione fondamentale»107, il secondo dalla spiccata verticalità a esprimere il momento in cui l’industria fu pronta ad accogliere ogni manifestazione del mercato allargando il campo delle attività produttive, il terzo a manifestare – con fotografie collocate lungo il percorso – lo sviluppo nel tempo della Breda. Per la costruzione del padiglione, Baldessari riutilizza l’allestimento dell’anno precedente, lasciando intatto il gruppo passerella, portale e scala di discesa. La novità data dalla grande ala e dal cilindroide comporta uno studio eccezionale sugli aspetti strutturali, sia dal punto di vista statico sia da quello del montaggio. Con una superficie biconvessa e una luce di 38 metri, l’ala viene costruita con una struttura metallica – eseguita con eccezionale rapidità dalle Officine Bossi di Milano – formata da due 36 37 Manifesto della Fiera di Milano, 12-26 aprile 1954. Attilio Rossi, grafico sulla parete nel padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1953. Harrison & Fouilhoux, studi per i padiglioni alla World’s Fair di New York, 1939. Lo stand Breda alla World’s Fair di New York, 1939. Padiglione Sidercomit alla Fiera di Milano, 1953 (in costruzione e terminato). 38 briglie e da tre longheroni longitudinali a traliccio, disposti secondo i piani radiali della doppia superficie. Questi elementi sono collegati da una struttura trasversale formata da centine a traliccio con i correnti che riproducono le generatrici delle due superfici dell’ala. Decantandone i meriti sulle pagine di «Costruzioni metalliche», l’ingegner Fabrizio De Miranda analizzava il funzionamento della doppia superficie in lamiera irrigidita con angolari saldati lungo le isostatiche di compressione per evitare fenomeni di instabilità locale. Tale doppia superficie era necessaria per collegare e irrigidire le membrature, oltre che per collaborare «all’assorbimento delle azioni tangenziali dovute al taglio ed alla torsione creata dall’eccentricità dell’asse di torsione rispetto a quello baricentrico. Le reazioni trasversali e di torsione sono poi riportate, attraverso due timpani rigidi costituiti da una lamiera interamente irrigidita da costole, che assicura l’indeformabilità delle sezioni d’imposta, su due strutture turriculari mascherate, l’una dal concoide, l’altra dalla parete del lato sud»108. Completamente elettrosaldata, la struttura viene eseguita in officina e spedita in Fiera in tronchi giuntabili a piè d’opera delle dimensioni di 4 x 8 metri. Una volta effettuato il collegamento dei vari tronchi si procede al sollevamento con falconi e argani elettrici, mediante imbragatura in corrispondenza dei timpani di estremità. Tutta l’operazione viene eseguita in alcune ore. Ancorata da un lato alla struttura metallica preesistente e dall’altro al portale inserito all’interno del cilindroide, l’ala pesa circa 30 tonnellate. Raggiungendo la quota di 21,5 metri di altezza, il cilindroide viene concepito con una serie di mensole verticali a traliccio, autoportanti, disposte a raggiera, i cui montanti costituiscono, verso l’intradosso, le generatrici della forma interna avente per base una spirale logaritmica, e verso l’estradosso quelle del cilindro esterno. Opportunamente disposta, una orditura di collegamento viene montata per la controventatura delle mensole e per il sostegno del graticcio Stauss, ricoperto ovviamente di malta di cemento. Impiegato in maniera raffinata, ancora una volta il sistema costruttivo viene piegato alla volontà dell’architetto. Nelle numerose immagini scattate in cantiere appare lo stato di sospensione e di tensione della forma, abilmente eternato nei disegni autografi. In alcuni schizzi, infatti, è interessante osservare come Baldessari stia ragionando sulle forme concavo-convesse allacciate mediante passerella aerea alla struttura preesistente: disegnando ardite conformazioni plastiche animate dalle piccole silhouette, elementi essenziali della composizione, più che dalla lezione di Le Corbusier, che pure evoca, egli sembra attratto dalla ricerca sulle strutture paraboloidi e iperboliche in questi anni portata avanti da un nutrito gruppo di brillanti ingegneri e architetti come Candela, Torroja, Dieste. Le prime ipotesi 39 C.A.S.V.A. IV.A.7d C.A.S.V.A. IV.A.7a Padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1954. Plastico della Campana dei Caduti a Rovereto, 1961-64. Studi per il padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1955. 40 proposte sulla carta trovano riscontro nella fase avanzata della progettazione: i tratti inconfondibili della penna di Baldessari registrano la volontà di costruire un corpo plastico piegato, che può essere letto come anticipazione del progetto di concorso ideato per la Campana dei Caduti a Rovereto (196164). Mettendo in relazione le forme delle architetture espositive della Breda e per la Fiera di Milano con il progetto per la centrale di San Floriano-Egna sull’Avisio (1954-55), Fulvio Irace ha sapientemente definito il senso delle sue “strutture a guscio”, come l’immagine dell’«ardito librarsi nell’aria di una “forma invitante”»109. Va detto che, depurato dall’idea del coinvolgimento fisico dello spettatore, il padiglione, con alcune modifiche, sarà riproposto l’anno seguente, quando la scala di accesso alla passerella viene sostituita con un immenso compasso, e “ridecorata” la parete di sinistra. Il predominio dei prodotti industriali viene stavolta chiaramente asserito e lo spazio architettonico funge da mera cornice. Non basterà lo slogan scelto – «Coerenze strutturali» – di per sé impregnato di suggestioni materializzabili, a frenare l’abbandono della componente spettacolare presente nei padiglioni degli anni precedenti. Con il 1955 si conclude l’esperienza delle “plastiche pubblicitarie”, ma non il rapporto di Baldessari con la Breda. Oltre agli allestimenti fieristici, ideati come vedremo fino al 1961, tra gli interventi eseguiti per l’industria di Sesto San Giovanni si segnalano anche le sistemazioni degli interni del grattacielo in piazza Repubblica a Milano (1955-56) e dell’ingresso degli stabilimenti a Saronno (1957), nonché la realizzazione dei cancelli, della portineria, delle pensiline e delle scritte segnaletiche per gli stabilimenti di Sesto San Giovanni (1955-60)110. Comunque, proprio a partire dal 1955, consolidata l’immagine dell’azienda, si assiste a una svolta nel modo di presentare i prodotti: come accade anche per altre industrie presenti in Fiera (ENI-Agip, Montecatini), oltre al ricorso alle ultime esperienze dell’arte contemporanea, ci si affida a principi quali «ordine, chiarezza, coerenza, logica, obiettività» che diventano i presupposti del lavoro degli architetti coinvolti negli allestimenti. Non occorre più solo sbalordire. Sostenendo quanto l’originalità debba avere radice nei valori dei prodotti esposti, Mario Ballocco affermerà nel 1957: «Nel corso di una trattativa commerciale, si usano forse argomenti tortuosi, frasi ampollose e citazioni petrarchesche o dannunziane? […] Tendere alla linearità funzionale e al concetto unitario, senza indulgere a superficialità od artificio, non vuol dire affatto favorire la monotonia; al contrario significa abbandonare un comodo, insipido gusto eclettico precostituito – quindi anonimo e standardizzato – per esaltare, con la personalità di ciascuna industria, la più estesa varietà»111. Allestimenti silenziosi e altri progetti per la Fiera di Milano È possibile dunque osservare, proprio con il padiglione Breda del 1956, come il rigore – presente anche in numerosi altri allestimenti di quell’anno – sia la componente imprescindibile del progetto, a vantaggio di una maggiore comprensione delle macchine oggetto di attenzione. Si trattava di rendere visibile, mediante una messa in scena “silenziosa”, i prodotti della siderurgia: non più oggetto “vivo” da innalzare, varcare e percorrere come nel 1951, il grande forno era appoggiato al suolo, i frigoriferi in fila addossati alla parete e i complessi delle caldaie sistemati in semplici aiuole; un modo laconico di organizzare i componenti industriali, accentuato dalla nuda parete su cui spiccava unicamente la scritta Breda. L’obiettivo era di mettere in mostra l’insieme degli elementi nella loro fierezza, da sola capace di conquistare i mercati mondiali come evidenziava un diagramma del pittore cartellonista Franco Mosca. La ricerca di una potente valenza espressiva veniva sacrificata a favore di una più dimessa, ma non per questo meno raffinata, tendenza all’essenziale. La scelta dell’azienda era chiara. Non più articolati sistemi di rappresentazione, ma allestimenti comprensibili, didascalici, rigorosi. Per tale motivo, probabilmente, viene scartata la soluzione del 1957 – in cui a un complesso sistema di telai intrecciati si sarebbero ancorati degli elementi tesi destinati a reggere i pannelli riportanti l’effige del cavallino rampante – a favore di un allestimento “neutro” più logico e intelligibile. Il progetto non realizzato per il padiglione del 1957 richiama alla memoria quanto scritto vent’anni prima da Mario Labò in un articolo dedicato agli Edifici pubblicitari alla Fiera di Milano; in riferimento alle straordinarie costruzioni pubblicitarie Chatillon e Raion realizzate da Bianchetti e Pea nel 1939, scriveva: «La tessitura di pilastri e travi, senza pareti, allude appena a un grande impianto industriale, col suo fantasma. In basso, due scatole di cristallo conterranno, come un alambicco, il prodotto di quell’impianto. Graticcio in controluce, di giorno, sul cielo chiaro, di notte l’orditura assume un aspetto irreale, con le volte riverberanti sui rettangoli bianchi e neri»112. Nel caso del padiglione Breda si sarebbe configurata una narrazione spaziale fatta di aeree vibrazioni: non solo i rimandi alle eleganti visioni degli allestimenti di Bianchetti e Pea oppure di Albini, ma anche il riferimento ai modi di concepire lo spazio che furono di Persico e Nizzoli, o di Luigi Gargantini nel castello pubblicitario Pirelli alla XXIX Fiera di Milano113, 41 Padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1955. 42 si compongono nell’immagine evocata da Baldessari. Accanto ai consueti prodotti di punta, l’anno seguente è il nuovo treno Trans Europ Express a fungere da agente attrattore. L’area a disposizione viene interamente occupata dal treno e non resta nemmeno lo spazio per impiantare strutture scultoree fatte con le aste di perforazione come accade invece nei due allestimenti successivi del 1959 e del 1960. E se nel primo, davanti alla elettromotrice su pneumatici, con un elemento plastico Baldessari richiama la sala dell’iconografia alla mostra di Leonardo tenutasi nel 1939, nel secondo con l’evocazione di una piramide fatta solo con le aste celebra esclusivamente le attrezzature petrolifere Breda dando assoluto risalto ai singoli prodotti della siderurgia. Nel 1961, le medesime aste incrociate reggeranno un globo costituito da una rete metallica. A differenza di quanto accadeva nei primi anni cinquanta, ormai la tendenza a realizzare costruzioni meramente pubblicitarie lascia il terreno a sobrie esposizioni di campionari. Mutate richieste del gruppo dirigente, ma anche l’adozione di diverse strategie di marketing possono spiegare questi ultimi allestimenti della Breda, oltre alla questione spinosa, e di lunga data, degli elevati costi per strutture architettoniche “non direttamente utilitarie” e per giunta dalla vita breve114. Non a caso, nel 1963 saranno motivi economici alla base della mancata realizzazione del padiglione Breda, secondo le idee di Baldessari, alla Fiera del Levante di Bari115. Invitato da Pietro Sette alla progettazione di «un’opera prestigiosa», Baldessari studia una soluzione che in corso d’opera viene pesantemente modificata dai collaboratori locali Cirielli e De Vita, per le continue richieste dei dirigenti della Breda (Musaio Somma, Cenni). Nello specifico, la fantasiosa soluzione a traliccio metallico proposta da Baldessari per la città pugliese risulta per la committenza alquanto onerosa, soprattutto perché è necessario provvedere in futuro ad aggiunte dispendiose. Per tale motivo, si accetta la proposta dell’architetto e dell’ingegnere baresi di realizzare soltanto il corpo funzionale e la sistemazione del piazzale. Del resto, la Breda aveva già deciso, per motivi economici, di procrastinare all’anno successivo la costruzione della palazzina uffici. Definito ironica parodia di una porta monumentale116, il padiglione non realizzato si caratterizzava – come annotato da Baldessari – per il suo “ingresso spettacolare”, tanto da diventare traccia simbolica della presenza dell’industria e al contempo segno imprescindibile all’interno della Fiera di un legame con il mare. Nastro piegato dal vento, il grande arco che sarebbe stato innalzato in cemento armato per 10 metri e in graticcio Stauss per il resto dell’altezza dei 38 metri, introduceva allo spazio espositivo all’aperto e al padiglione vero e proprio contenente, oltre alla sede permanente degli uffici della Breda, la sala per le esposizioni, la biglietteria della Fiera e un 43 preesistente ufficio postale. Seguendo le indicazioni di Sette, l’architetto concepisce un’immagine, più che un’idea, mediante – come egli stesso appunta – «un atto di energia che nasce da un atto di rispetto di stima e di amore»117. Un’energia esplosa nella forma plastica della struttura nastriforme, ma già presente nella prima idea concepita al momento in cui riceve l’incarico: Baldessari aveva infatti ipotizzato «una casa favolosa, fantasiosa, spettacolare tutta di vetro»118. Anzi, pensando ai materiali vitrei da esporre della Società Italiana Vasto, scrive: «Vetro! Il canto del vetro! Passeggiate strane di visitatori in paesaggio surreale, ricco di luci misteriose, di specchi allucinanti: il tutto esaltante il nascituro, nuovo complesso. Deve essere il trionfo del vetro». I ripensamenti dovuti, come abbiamo visto, ai desiderata della committenza, portano alla parziale realizzazione del complesso119. Scomparsa qualsiasi ipotesi plastica a favore di una scialba copertura piana, su tre livelli e per una superficie di 3000 metri quadrati, il padiglione infine costruito – e non più riconosciuto da Baldessari – presentava una vasta rassegna della produzione delle ormai trenta società appartenenti alla Finanziaria Ernesto Breda. Concepito per consentire la visione dei prodotti esposti nel piazzale (dalla locomotiva Diesel elettrica alle valvole di regolazione fabbricate dalla Pignone Sud), il percorso probabilmente studiato dall’architetto trentino – tra un plastico dello stabilimento Italperga di Barletta e il campionario delle lastre di vetro della fabbrica di Vasto – venne considerato uno degli aspetti più originali del progetto120. Al di là dei lavori per la Breda, Baldessari ha modo intanto di instaurare un proficuo rapporto di collaborazione con la Fiera. Grazie all’amicizia con Michele Guido Franci, segretario generale dell’Ente, ottiene l’incarico di progettare alcuni interventi per il complesso espositivo. Fin dal 1951 Franci dimostra stima verso l’architetto e le sue visioni architettoniche, tanto che a proposito della “fontana magnifica” proposta da Baldessari gli scrive che: «Dovrà attendere ancora, ma la sua attuazione rimane sempre nel mio programma futuro; e volentieri la interpellerò per questo o per altri progetti che andranno maturando con il tempo»121. Di parola, il 16 febbraio 1957 Franci incarica l’architetto di ideare il “Grande Padiglione”, un vasto progetto da realizzare tra porta Giulio Cesare e porta Meccanica122. Nella minuta di una lettera inviata da Baldessari a Franci, conservata tra le carte dell’archivio, si legge: «Il suo riconoscimento e la sua stima mi offrono la possibilità, in questa sua fiera, per me palestra di giochi e di invenzioni, di concludere un ciclo che vuole proprio sfociare in un nuovo mondo – suo e mio – ricco di allegria, di festosità, di vitalità. Quanto le presento è un’idea, non “l’idea”; il suo consiglio la renderà perfetta. Seguii logica, semplicità di costruzione, sfruttamento di spazio»123. 44 45 Padiglione Breda alla Fiera di Milano, 1956, 1957, 1959 (a sinistra, dall’alto verso il basso); 1956, 1958, 1960, 1961 (a destra, dall’alto verso il basso). Plastico del padiglione Breda alla Fiera di Bari, 1963. Studio per il padiglione Breda alla Fiera di Bari, 1963. C.A.S.V.A. IV.A.14n C.A.S.V.A. IV.A.14c C.A.S.V.A. IV.A.14f C.A.S.V.A. IV.A.14m Studi per un padiglione alla Fiera di Milano, 1957. Modello di studio per un padiglione alla Fiera di Milano, 1957. C.A.S.V.A. IV.A.14l Appunti relativi al progetto di un padiglione alla Fiera di Milano, 1957. 46 47 C.A.S.V.A. IV.A.16a C.A.S.V.A. IV.A.16e C.A.S.V.A. IV.A.16l Contenente attrezzature di servizio e diversi padiglioni per la Fiera, il complesso – concepito con la collaborazione dell’architetto Maria Pia Matteotti e dell’ingegner Ernesto Saliva – sarebbe dovuto sorgere nell’area occupata dai padiglioni Breda e avrebbe assunto un carattere permanente. Intersecando «un libero gioco di volumi» insieme al «contrappunto di fantasiose pensiline»124, Baldessari ci pone di fronte alla inidoneità degli strumenti interpretativi a nostra disposizione. Nella sua arte l’architetto dimostra sempre grande attenzione e rispetto per le libere espressioni della fantasia. Per Baldessari il carattere, il linguaggio, i tipi compositivi e le convenzioni sono sempre fortemente radicati nella capacità di cogliere l’“invenzione”. Guardando i suoi disegni (e in particolare questi del 1957), non si percepisce mai un senso di inferiorità verso i maestri dell’architettura passata e presente, alla quale egli comunque si ispira, producendo opere basate non tanto sull’imitazione quanto sul dialogo. Nello specifico instaura un confronto dialettico con Le Corbusier. I disegni che Baldessari elabora nel 1957 sono un evidente segno di questo confronto: la chiesa di Notre Dame du Haut a Ronchamp – largamente illustrata sulle riviste di architettura (basti pensare che in un solo numero la «Casabella» di Rogers le dedica circa una trentina di pagine)125 – è più che evocata o semplicemente citata. Al pari di quella di Le Corbusier, la composizione che egli delinea per la Fiera è tutta un gioco di curve e controcurve, di concavità e di convessità, di ombre proprie e di ombre portate. Alcuni schizzi sembrano poi un dichiarato omaggio all’«enfiato lenzuolo della copertura» della cappella di Ronchamp, un manifesto atto di ossequio verso un architetto, che riconosce come maestro. D’altra parte, cercando un alleato capace di sostenerlo nella sua aspirazione a costruire una chiesa, nel 1959 Baldessari scrive a Franci: «Sa che fra quelli che ci hanno battuto (e lo dico con tristezza) c’è proprio un calvinista, un Le Corbusier?»126. Eppure, Baldessari aveva sempre nutrito un’ammirazione, sebbene conflittuale, verso l’architetto svizzero fin dagli anni trenta, fin da quando cioè ebbe modo di incontrarlo nel 1934 a Milano, e di accompagnarlo a visitare il palazzo per uffici De Angeli Frua. Una stima confermata nel 1946, quando ha l’opportunità di ascoltare a New York una conferenza tenuta presso l’American Society of Planners and Architects and the International Congress of Modern Architects: in quell’occasione scrive che: «La sua concezione della “Ville radieuse” ha colmato di entusiasmo la nostra generazione»127.Comunque, il progetto del 1957 non va in porto, ma Baldessari ha modo ugualmente di realizzare per la Fiera la trasformazione del sotterraneo del padiglione 19, con portali che denunciano il taglio luminoso inferto ai soffitti delle singole campate. Due anni dopo, due nuovi lavori impegnano l’architetto: nel 1959, sempre su richiesta di Franci, 48 concepisce la sistemazione della tribuna presidenziale e uno studio per l’ingresso del viale dell’Editoria con un arco parabolico nastriforme che anticipava, per certi versi, la soluzione per il padiglione barese del 1963128. In struttura metallica con pannelli rinforzati in graticcio Stauss, il grande arco, indipendente dai blocchi edilizi esistenti, si sarebbe aperto verso i negozi e verso il viale sistemato con un complesso di vetrine per esposizione di libri. Queste avrebbero permesso la doppia visione dei materiali esposti sia all’interno che all’esterno dei portici. Per proporzionare l’altezza delle due gallerie fiancheggianti i negozi, vengono studiate da Baldessari delle soffittature ribassate con gole luminose129. Inoltre, per movimentare la passeggiata si prevedono, per dieci campate, delle passerelle, a quota 2,4 metri, sospese a sbalzo verso l’esterno su pilastri portanti in ferro. In una relazione, datata 10 dicembre 1959, si evince come in corrispondenza di queste campate, previo smantellamento della parte a sbalzo, l’architetto abbia previsto l’inserimento di una pensilina trasparente130. Se l’ingresso al viale – ponendosi come fluente composizione, non priva di sfaccettature, dalla incontestabile espressività – era giustificato dalla volontà di creare un elemento distintivo tangibile, la sistemazione della tribuna presidenziale era motivata dal cambio della destinazione d’uso del padiglione curvilineo antistante l’emiciclo di Giuseppe De Finetti e Pier Luigi Nervi; si trattava, cioè, di trasformare la galleria degli “antiquari” al piano terra e il grande ambiente del primo piano che avrebbe dovuto ospitare mostre d’arte131. Elegante invito per la galleria, l’atrio avrebbe dovuto avere anche la funzione di accogliere le personalità che ogni anno avrebbero inaugurato la Fiera. A questo scopo, vengono aboliti i quattro pilastri centrali e alle pareti sono applicati pannelli di legno che fanno da quinta alle statue antiche collocate ai fianchi dell’ingresso e lungo la galleria, mentre al primo piano si realizza un gioco di soffitti a differenti quote con luce indiretta, per una migliore esposizione delle opere d’arte. Per quanto riguarda l’ampliamento, Baldessari studia soluzioni in armonia con lo spazio antistante, in modo che il blocco anteposto al padiglione di Nervi eviti di «invadere disarmonicamente la piazza danneggiandone le proporzioni», come egli stesso scrive nella relazione di progetto132, e di pregiudicare la funzionalità dei negozi frontali esistenti. Per questo motivo, il progetto viene ideato anche in perfetta sintonia con lo spirito delle forme strutturali; la grande sala prevista al primo piano viene immaginata come innestata all’interno fino ai pilastri a forcella lì presenti, per i quali vengono previsti dei rivestimenti con pannelli. A questo proposito, per ottenere superfici con un’inclinazione anche qui adatta all’esposizione dei quadri, l’architetto suggerisce di ricoprire anche le forcelle dei due bracci di galleria che sarebbero risultati esterni alla sala. All’esterno l’attacco tra il corpo addossato e la parte 49 Studi per un padiglione alla Fiera di Milano, 1957. Sistemazione del sotterraneo del padiglione 19 alla Fiera di Milano, 1958. Studi colore per la sistemazione del sotterraneo del padiglione 19 alla Fiera di Milano, 1957. C.A.S.V.A. IV.A.15m C.A.S.V.A. IV.A.15g C.A.S.V.A. IV.A.15n C.A.S.V.A. IV.A.15i Studi per l’avancorpo della tribuna presidenziale alla Fiera di Milano, 1959-60. Modello di studio del quarto progetto di ampliamento della tribuna presidenziale alla Fiera di Milano, 1959-60. Piante del progetto di ampliamento della tribuna presidenziale alla Fiera di Milano (prima versione, maggio giugno 1959; terza e quarta versione, settembre 1959). 50 51 C.A.S.V.A. IV.A.17a preesistente viene risolto con una parete curva, strutturalmente ipotizzata come trave portante della copertura del nuovo edificio. Sfondo per la piazza, e al contempo invito al padiglione, il blocco ideato avrebbe mascherato anche il volume retrostante, costituito dall’ascensore già esistente. Tutta la struttura viene prevista in cemento armato, con travi incrociate che avrebbero portato le solette del primo piano e della copertura, e che sarebbero state appoggiate solo perimetralmente, proprio perché sia la sala superiore sia la hall avrebbero dovuto essere libere dagli ingombri dei pilastri. I fianchi della costruzione vengono risolti con ampie vetrate. Ma se la sistemazione interna ha modo di concretizzarsi, la realizzazione dell’avancorpo della tribuna – per la quale Baldessari studia diverse soluzioni133, fino a coinvolgere nel quarto progetto anche Lucio Fontana – resta esclusivamente impressa sulla carta e immortalata nelle fotografie della maquette realizzata134. Così come del progetto per il viale dell’Editoria, nonostante il consenso di Franci135 e l’arrivo a un livello di definizione esecutivo136, restano soltanto i disegni, gli schizzi, il plastico e le immagini di frammenti di modelli in scala 1:1 (peraltro, alcune di quest’ultime ritraggono un assorto Baldessari che ammira pensieroso la sua opera). Al di là delle formidabili intuizioni leggibili nei mancati interventi, tanto ambiziosi quanto sfortunati per la Fiera, sta di fatto che i risultati ottenuti con l’ideazione dei primi quattro padiglioni, autentici capolavori, restano irraggiungibili. Con tali occasioni fornite dalla Breda, l’idea di architettura di Baldessari o, almeno, il punto di arrivo e la conclusione della sua ricerca, sono chiaramente delineati. Per le loro caratteristiche – il mettere in scena il fatto architettonico stesso, rivelandone la natura di “rappresentazione”; l’uso di forme, coreografie e “movimenti” spettacolari, prendendo ispirazione dal teatro; la riduzione dei messaggi pubblicitari a strutture fine a se stesse perché aggettivate della loro funzione commerciale – i padiglioni svuotano dall’interno le forme di libertà dall’architetto prese a prestito, le mantengono mentre ne dichiarano l’inadeguatezza. È una scelta decisiva che in Baldessari si è tradotta in una riduzione costante dei mezzi espressivi, tesa verso l’immobilità e il silenzio, verso l’impossibilità dell’architettura stessa. Ma l’architettura, come del resto quel teatro amato da Baldessari, trova altri modi e altre forme in cui realizzarsi, come abbiamo tentato sin qui di ricordare; oppure segue altri percorsi – magari avventurosi e misteriosi – a partire dalle stesse premesse. Quanto scritto da Baldessari appare dunque come qualcosa che non si può non condividere: «Questi monumenti antiretorici si guardano come si guardano le composizioni archimedee, come si guardano le Piramidi, la torre Eiffel. Non sono più scatole né padiglioni: sono spettacoli, sono paesaggi astratti carichi di suggestioni profonde. Lo scopo industriale-commerciale, “reclamistico” è raggiunto, e proprio con queste funzioni algebriche e trascendentali, che nello spazio si fondono in una tensione di avventura e di mistero»137. 52 53 Veduta della tribuna presidenziale e sistemazione della galleria degli antiquari e dell’atrio della tribuna presidenziale alla Fiera di Milano, 1959-60. Modello e studio per la sistemazione del viale dell’Editoria alla Fiera di Milano, 1959. note Veduta prospettica della sistemazione del viale dell’Editoria alla Fiera di Milano, 1959. a pagina 58 Luciano Baldessari e un modello in scala 1:1 di un frammento della sistemazione del viale dell’Editoria alla Fiera di Milano, 1959. 54 55 1 S. Polano, L’arte dell’allestimento temporaneo. Mostrario italiano, in F. Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il secondo Novecento, Electa, Milano 1997, p. 425. 2 C. de Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, Laterza, Roma-Bari 1972 (1989, p. 247). 3 G. Ballo, Designers italiani. Artisti del nostro tempo: Luciano Baldessari, in «Ideal-Standard», settembrenovembre 1964, p. 34. 4 Cfr. C. Giedion-Welcker, Plastik des XX Jahrhunderts Volumen und Raumgestaltung, Gerd Hatje, Stuttgart 1955, pp. 209, 258-259. 5 A. Pica, Organismi pubblicitari, in «Spazio», 7, dicembre 1952 - aprile 1953, pp. 58-60. 6 G. Dorfles, La mostra di Luciano Baldessari in Germania, in «Domus», 352, marzo 1959, pp. 35-36. 7 Si vedano gli studi recenti di Fulvio Irace, Graziella Leyla Ciagà e Anna Chiara Cimoli segnalati nelle indicazioni bibliografiche. 8 [E. Persico], Un alloggio a Milano, in «Casabella», 4, aprile 1933, p. 32. 9 Secondo Giulia Veronesi le enormi architetture pubblicitarie Breda sono «scene per l’uomo della strada». Cfr. G. Veronesi, Luciano Baldessari architetto, Collana di artisti trentini, Trento 1957, p. 13. 10 G.C. Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, Einaudi, Torino 1951 (si cita dalla II ed, del 1957, p. 117). 11 Sul periodo berlinese di Baldessari si veda A.C. Cimoli, Luciano Baldessari a Berlino e New York. Materiali dalle collezioni del Casva di Milano, in «Incontri in biblioteca», nuova serie 1, Comune di Milano, Milano 2008, pp. 5-38. 12 Intervista pubblicata in «Berliner Lokal-Anzeiger», 10 maggio 1914, e riportata, nella traduzione di Flavia Foradini, in M. Reinhardt, I sogni del mago, a cura di E. Fuhrich e G. Prossnitz, Guerini e Associati, Milano 1995, pp. 71-72. 13 [L. Sinisgalli], Architettura pubblicitaria, in «Civiltà delle Macchine», 1, gennaio 1954, p. 76. 14 Su sollecitazione di Baldessari, l’ingegner Giuseppe Dal Monte ricorda l’affidamento dell’incarico in una lettera, datata Sirtori 15 dicembre 1975, conservata presso il Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (d’ora in poi Mart), Fondo Luciano Baldessari, Cartella Dal Monte Mariola, in copia presso l’Archivio Luciano Baldessari, Dipartimento Indaco del Politecnico di Milano (d’ora in poi ALB), PBM 51-55, DM. 15 Sulla storia della Breda è possibile consultare i numerosi materiali documentari conservati presso l’Archivio storico Breda della Fondazione ISEC –Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – di Sesto San Giovanni (d’ora in poi Archivio storico Breda). Tra le fonti a stampa si veda Società Italiana Ernesto Breda per costruzioni, in Trevisani, Rossi e Fiori, L’Italie industrielle et artistique à Paris 1900, Capriolo & Massimino, Milano 1900; La Società Italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche dalle sue origini ad oggi 1886-1936, Mondadori, Verona-Milano 1936; Dal ferro all’acciaio. La Breda siderurgica, Aeda, Torino 1977. Per una storia economica aziendale si vedano i contributi pubblicati in La Breda. Dalla Società Italiana Ernesto Breda alla Finanziaria Ernesto Breda 18861986, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Milano) 1986. Mentre sull’attività svolta mediante accordi internazionali con le industrie estere cfr. F. Marcoaldi, F.M. Cataluccio, La Breda all’estero. Un secolo di lavoro nel mondo, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Milano) 1990. Manca allo stato una ricostruzione esaustiva dei rapporti dell’impresa, quale committente di architetture, con i professionisti del costruire. 16 Lo stabilimento a Milano fuori porta Nuova, lungo il naviglio della Martesana, sorge per iniziativa della Bouffier & C., a cui subentrano nel 1850 la Schlegel & C., nel 1860 la Rümmele & C., nel 1862 la Bauer & C., nel 1877 la Bamat & C., nel 1879 la Cerimedo e C. 17 Cfr. S. Licini, Dall’Elvetica alla Breda. Alle origini di una grande impresa milanese (1846-1918), in «Società e storia», 63, 1994, pp. 79-123. 18 Cfr. Società Italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche Milano, Per la millesima locomotiva, s.e., s.l. [ma Capriolo & Massimino, Milano] 1908, pp. 17-18. Si veda anche G. Petrillo, La Breda e Sesto San Giovanni fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in La Breda… cit., pp. 141-160. 19 Cfr. A. Bassi, Per una storia dell’architettura di fabbrica e dell’abitazione operaia a Sesto San Giovanni: ricostruzione documentaria e fonti iconografiche, tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, rel. F. Barbieri, a.a. 1982-83, pp. 136-140. 20 Cfr. Archivio storico Breda, Sezione FEB, b. 1149 bis, fasc. 2427, Istituto Scientifico-Tecnico Ernesto Breda, opuscolo datato 1924. 21 La letteratura dedicata all’industria italiana negli anni della Ricostruzione è assai vasta e, come si intuisce, eterogenea. Utile può risultare la lettura di G. Amato, Il governo dell’industria in Italia, Il Mulino, Bologna 1972; C. Daneo, La politica economica della ricostruzione. 19451949, Einaudi, Torino 1975; M. Salvati, Stato e industria nella ricostruzione. Alle origini del potere democristiano 1944-1949, Feltrinelli, Milano 1982. 22 Per un’analisi attenta della situazione difficile in cui versava la Breda nei primi anni del dopoguerra cfr. P. Viani, L’Industria metalmeccanica nella ricostruzione: il caso Fim-Breda, in «Economia pubblica», 1-2, gennaio-febbraio 1994, pp. 21-31. 23 Sulle vicende della Breda cfr. il fondamentale V. Castronovo, La Breda nella storia dell’industria italiana, in La Breda… cit., pp. 20-28. 24 Già allievo di Alberto Asquini, nel 1951 Sette ha trentasei anni e vanta una solida preparazione nel settore delle società e dei titoli di credito. In tal senso, cfr. G. Aliberti, La nascita della Finanziaria Ernesto Breda, in La Breda… cit., pp. 270-272. 25 Il rapporto è conservato nell’Archivio storico Breda, Sezione FEB. 26 Studiato a partire dal 1942 da Filippo Zappata, il quadrimotore civile BZ 308 “interamente metallico” per voli transatlantici e transcontinentali si libra in aria solo nel 1948. Sul fallimento dell’impresa si veda L. Ganapini, Perché non decollò quel quadrimotore, in G. Petrillo, A. Scalpelli (a cura di), Milano anni Cinquanta, Franco Angeli, Milano 1986, pp. 101-138; G. Bosoni, A. Nulli, Il viaggio abitato. Storia degli interni dei mezzi di trasporto del XIX e del XX secolo, Mondadori, Milano 1987, pp. 84-89. Si veda inoltre A. Bassi, Gli interni di Giulio Minoletti per i mezzi di trasporto Breda, in «Casabella», 695-696, dicembre 2001 - gennaio 2002, pp. 57-63. 27 Cfr. A. Varni, La ripresa economica e i problemi del lavoro nel secondo dopoguerra, in La Breda… cit., p. 215. 28 G. Aliberti, op. cit., pp. 274. 29 Cfr. Archivio storico Breda, Sezione FEB, b. 58, fasc. 490: Documentazione relativa al piano di ristrutturazione aziendale intrapreso nel 1951 dall’avv. Pietro Sette (19/11/1949 - 3/10/1952). 30 Cfr. A. Pica, L’arte moderna al servizio dell’industria, in «Le Arti», 11-12, dicembre 1961, pp. 132-136. 31 Su queste vicende si veda il bel libro di C. Vinti, Gli anni dello stile industriale 1948-1965. Immagine e politica culturale nella grande impresa italiana, Università Iuav di Venezia-Marsilio, Venezia 2007. 32 Cfr. V. Gregotti, Il disegno del prodotto industriale. Italia 1860-1980, a cura di M. De Giorgi, A. Nulli, G. Bosoni, Electa, Milano 1986, pp. 186, 213, 262-263; A. Bassi, L. Castagno, Giuseppe Pagano, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 96-97. 33 Cfr. ALB, EBS, 36, D. 34 Cfr. G. Tucci, La palazzina del Campo Voli a Bresso, in S. Van Riel, A. Ridolfi (a cura di), La conservazione dell’architettura moderna. Il caso Predappio: fra razionalismo e monumentalismo, Atti del convegno (2003), Comune di Predappio, Predappio-Firenze 2005, pp. 73-81. 35 Cfr. Archivio storico Breda, Sezione FEB, b. 13, fasc. 90: Breda Riservate – Segreto. Progetto del padiglione aziendale alla Fiera di Milano. 36 Cfr. Archivio storico Breda, Sezione FEB, b. 27, fasc. 326: Giulio Minoletti. Progetto BZ 308. 37 Cfr. Archivio storico Breda, Sezione FEB, b. 1153, fasc. 2441: Attestato di trascrizione di marchio (23/06/1941); brevetto per marchio d’impresa / Cavallo rampante realizzato da Araca (3/10/1949). Araca (in italiano “perbacco”) è lo pseudonimo del pittore e pubblicitario Enzo Forlivesi Montanari (1898-1989) – nato a Santiago (Cile) e formatosi a Parigi – che non poteva utilizzare il proprio nome per accordi contrattuali con stampatori francesi. Autore di numerosi lavori, realizza i manifesti per alcune fiere italiane (Milano 1930, Padova 1931, Bari 1931) e si occupa della pubblicità per la Ramazzotti, la Snia Viscosa e la Cirio. Cfr. Catalogo Bolaffi del Manifesto italiano. dizionario degli illustratori, Giulio Bolaffi editore, Torino 1995, p. 93; M.P. [M. Pigozzi], Araca (Enzo Forlivesi), scheda in Gli anni Trenta. Arte e cultura in Italia, catalogo della mostra, Comune di Milano - Mazzotta, Milano 1982, p. 543. Si veda anche G. Ginex, La fabbrica immaginata. La grafica, in G. Ginex, D. Bigazzi (a cura di), L’immagine dell’industria lombarda 1881-1945, Silvana Editoriale, Milano 1998, p. 98. I bozzetti pubblicitari originali per la Breda sono tutti conservati presso l’archivio di Sesto San Giovanni. 38 Mart, Fondo Luciano Baldessari, Annotazione manoscritta e firmata, in copia presso ALB, PBM 51-55, DM. 39 Cfr. Mart, Fondo Luciano Baldessari, ADB 29. 40 Si vedano i materiali in ALB, PD 36, D e DM. 41 F. Irace, “Uomini di uno strano destino”, in G.L. Ciagà (a cura di), Luciano Baldessari e Milano. Progetti e realizzazioni in Lombardia, C.A.S.V.A., Milano 2005, p. 17. 42 A.M. Mazzucchelli, Stile di una mostra, in «Casabella», 80, agosto 1934, p. 6. 43 E. Persico, Alla mostra dell’Aeronautica, in Catalogo della Mostra dell’Aeronautica, Milano 1934, rip. in G. Veronesi (a cura di), Edoardo Persico. Scritti d’architettura (19271935), Vallecchi editore, Firenze 1968, p. 134. 44 I. Cinti, Luciano Baldessari, architetto integrale, in «Economia Trentina», 5-6, 1959, p. 9. 45 Mart, Fondo Luciano Baldessari, PV 33. Baldessari usa le stesse parole per concludere la conferenza tenuta nel gennaio 1939 a Zurigo, Basilea e Berna, dietro invito dell’Associazione degli Ingegneri ed Architetti della 56 Federazione Svizzera. Il testo della conferenza è pubblicato in L. Baldessari, L’architettura moderna in Italia, Tipografia Mercurio, Rovereto 1939. 46 Cfr. J. Foot, Milan since the Miracle. City, Culture and Identity, Berg, New York 2001 (trad. it. Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, Feltrinelli, Milano 2003, p. 141). 47 Alla Fiera il terreno viene assegnato con una concessione nel febbraio 1947. Archivio storico Breda, Sezione FEB, b. 27, fasc. 323: Ente Fiera – Corrispondenza BaldassarreFranci 1949-50. 48 Sui padiglioni costruiti alla Fiera si veda A. Castellano, Modelli espositivi e architetture della Fiera di Milano, e G. Bosoni, Architetture provvisorie alla Fiera Campionaria, entrambi in Fiera Milano 1920-1995. Un percorso tra economia e architettura, Electa, Milano 1995, pp. 84-139; 172-195. 49 Archivio storico Breda, Sezione SIEB, b. 33, fasc. 383: Dettaglio Fiere Campionarie. 50 Cfr. S. Polano, Achille Castiglioni. Tutte le opere 1938-2000, Electa, Milano 2001, p. 59. 51 R. Guzman, La Fiera di Milano, paese delle meraviglie. Straordinari giocattoli per grandi ammirati con la serietà dei bimbi, in «Il Giornale di Sicilia», 20 aprile 1952. 52 G. Anceschi, Il campo della grafica italiana: storia e problemi, in «Rassegna», 6, aprile 1981, p. 16. 53 Si veda la sezione Come si fa la pubblicità della fiera? nell’inchiesta svolta da Vincenzo Buonassisi e Simonetta De Benedetti, apparsa con il titolo La tecnica delle fiere, in «Pirelli», a. VI, 2, aprile 1953, p. 11. 54 A. Bianchetti, C. Pea, Architettura pubblicitaria, in «Casabella», 159-160, marzo-aprile 1941, p. 96. 55 Cfr. A.R. [A. Rosselli], Renzo Zavanella. L’O.M. alla Fiera di Milano, in «Stile Industria», II, 3, gennaio 1955, pp. 29-31. 56 Su Depero e la comunicazione pubblicitaria futurista esiste un’ampia letteratura; si veda comunque P. Vetta, La tecnologia del cartone. Invenzione futurista di ambienti spettacolo, in «Rassegna», 10, giugno 1982, pp. 28-33; E. Godoli, Il Futurismo, Laterza, Roma-Bari 1983 (1989, pp. 151-153); Id., Padiglioni, allestimenti e reclame futuristi, in «Rassegna», 43, settembre 1990, pp. 38-45; e da ultimo G. Belli, B. Avanzi (a cura di), Depero Pubblicitario: dall’auto-reclame all’architettura pubblicitaria, catalogo della mostra, Skira, Milano 2007. 57 L. Sinisgalli, Plastica pubblicitaria, in «Pirelli», a. V, 3, maggio-giugno 1952, p. 42. 58 Ibid., pp. 42-43. 59 Ricordiamo che nel 1928 Baldessari progettava le uscite delle modelle durante le sfilate tenute al Teatro della Moda alla IX Fiera di Milano e al Teatro dell’Esposizione di Torino. Cfr. A.C. Cimoli, Luciano Baldessari a Berlino e New York… cit., p. 36. 60 G. Toti, La Fiera della pace, in «Vie nuove», 6 maggio 1951. 61 Il padiglione Sidercomit viene realizzato anche con la collaborazione di Lucio Fontana per il nastro zincato sulla testata e per il soffitto a lamiera con buchi piatti della saletta proiezioni, di Attilio Rossi per la decorazione delle pareti in alluminio della saletta e di Umberto Zimelli per lo schema del ciclo di produzione. Sul padiglione si vedano le numerose fotografie e la relazione tecnica conservate presso l’Archivio Marcello Grisotti. 62 A. Pica, Architettura pubblicitaria per la Sidercomit alla Fiera di Milano, in «Architettura Cantiere», 7, maggiogiugno 1955, p. 7. La contrapposizione tra linguaggio della tecnica e linguaggio dell’arte era rimarcata dal nastro arricciato di Fontana – srotolato lungo il possente muro sghembo di testa – su cui spiccavano le scritte Sidercomit-CornigalianoIlva-Dalmine-SIAC-Terni. Per la Sidercomit, divenuta poi Italsider, Baldessari allestisce i padiglioni fino al 1961 ed esegue nel 1962 e nel 1966 – in linea con le estetiche delle coeve “utopie” tecnologiche – degli studi che avrebbero previsto il riuso della struttura del 1953. Baldessari scrive: «Volevo rappresentare la forza della siderurgia, del suo celebre progredire con nuovi temi e nuovi materiali. Per questo, la parte nuova doveva intersecare ma non rivestire, non coprire quella precedente. Il traliccio, linguaggio strutturale comune da mezzo secolo, doveva essere integrato dagli esili montanti di sostegno nella nuova lega. Il pubblico doveva essere peso partecipe di quest’evolversi, nel contempo doveva far vivere, con la sua presenza, la sua struttura». Mart, Fondo Luciano Baldessari, PS 53-66. Il progetto viene alla fine affidato allo studio AlbiniHelg e risolto – come l’anno precedente dallo studio Gregotti, Meneghetti, Stoppino – come contenitore che, a differenza di quello di Baldessari, annulla, mascherandola verso l’esterno, l’immagine della struttura esistente. 63 V.B., Architettura pubblicitaria, in «Pirelli», a. IV, 2, marzo-aprile 1951, p. 22. È ragionevole ritenere l’articolo opera di Vittorio Bonicelli. Il poliedrico giornalista e critico firma altri pezzi sulla rivista; in particolare, si segnala quello – dedicato alla Breda – dal titolo Sulle rotaie corrono i salotti, a. IV, 3, maggio-giugno 1951, pp. 17-18. 64 G. Toti, Nei padiglioni dell’industria meccanica. Le Reggiane, la Breda e la Fiat nel “taccuino” del cronista alla Fiera, in «L’Unità», 19 aprile 1951. 65 Cfr. XXX edizione della Fiera di Milano. Volete fabbricare dischi volanti?, ritaglio di giornale in Archivio Marcello Grisotti. 66 Archivio Marcello Grisotti, La Breda ieri “una”, oggi “unitaria”: brochure pubblicitaria. 67 Mart, Fondo Luciano Baldessari, Distribuzione spaziale. Relazione tecnica, in copia presso ALB, PBM 5155, DM. 68 Mart, Fondo Luciano Baldessari, 1952 – Padiglione Breda, in copia presso ALB, PBM 51-55, DM. Il dattiloscritto conservato negli archivi costituisce il testo dato alle stampe in A. Rossi, Una moderna favola pubblicitaria, in «Linea Grafica», 3-4, marzo-aprile 1952, pp. 58-59. 69 Cfr. A.C. Cimoli, Musei effimeri. Allestimenti di mostre in Italia 19491963, Il Saggiatore, Milano 2007, pp. 14, 79-80. 70 Cfr. Sulle vie della Fiera tra i giganti dell’industria, in «L’Italia», 4 aprile 1952. 71 Archivio storico Breda, Sezione FEB, b. 1149, fasc. 2426: Depliant pubblicitario Breda. 72 Citazione tratta dall’editoriale di G. De Rossi Del Lion Nero, in «Relazioni pubbliche», 22, 1-15 dicembre 1959, riportata in C. Vinti, op. cit., p. 73. 73 Cfr. Uomini nel forno, in «Il Tempo», 14 aprile 1951. 74 Ivi. 75 Mart, Fondo Luciano Baldessari, 1951 Padiglione Breda, in copia presso il Politecnico di Milano, Archivio Luciano Baldessari, PBM 51-55, DM. 76 Cfr. Panorama della XXIX Fiera di Milano, in «La scienza illustrata», maggio 1951, p. 39. 77 Si vedano gli studi colore conservati presso il Politecnico di Milano, Archivio Luciano Baldessari, PBM 51-55, DM. 78 Cfr. G. Carrà, I lavoratori riprendono la lotta per la salvezza della Breda minacciata, in «Voce comunista», 18 aprile 1951; Fiera di Milano, in «L’Unità», 18 aprile 1951. Si vedano inoltre i documenti e gli articoli in Archivio storico Breda, Sezione FEB, b. 1149 bis, fasc. 2427. 79 Mart, Fondo Luciano Baldessari, Architettura pubblicitaria Breda 1951, in copia presso ALB, PBM 51-55, DM. 80 Cfr. Luciano Baldessari architetto, in «Trentino», 6 giugno 1951. 81 F. Irace, La difficile proporzione, in A.C. Cimoli, F. Irace (a cura di), La divina proporzione. Triennale 1951, Triennale-Electa, Milano 2007, p. 14. 82 G. Dorfles, Piccola guida per la IX Triennale, in «Pirelli», a. IV, 3, maggiogiugno 1951, pp. 40-42. 83 L’atrio fu definito da Carlo Doglio come un «trionfo hollywoodiano di luci al neon e di lusso». C. Doglio, Accademia e formalismo alla base della Nona Triennale, in «Metron», 43, settembre-dicembre 1951, p. 19. 84 Ad esempio, le opere di Soldati, Radice, Rossi contrastavano con i lavori di Spilimbergo e Del Bon, Milani e Fontana mal si affiancavano a Fabbri e Cappello, così come Pepe e Pancera stridevano con Rui e Galvano. 85 Su Fontana restano fondamentali gli studi di Enrico Crispolti; in particolare si veda Fontana. Catalogo generale, 2 voll., Electa, Milano 1986; Carriera “barocca” di Fontana. Taccuino critico 1959-2004 e Carteggio 1958-1967, a cura di P. Campiglio, Skira, Milano 2004. Si veda inoltre Cfr. J. De Sanna, Lucio Fontana. Materia Spazio Concetto, Mursia, Milano 1993, pp. 93-94. Sui rapporti tra Fontana e Baldessari si veda il carteggio pubblicato in P. Campiglio (a cura di), Lucio Fontana. Lettere 1919-1968, Skira, Milano 1999, passim; P. Campiglio (a cura di), Itinerari di Lucio Fontana a Milano e dintorni, Charta, Milano 1999, e Lucio Fontana 1947-1965, catalogo della mostra, Charta, Milano 2001. 86 Non è dato sapere se nel 1945, a New York, Baldessari abbia potuto vedere il modello, allora esposto, del noto museo che si sarebbe costruito di lì a poco sulla Fifth Avenue. 87 Il padiglione della Breda alla XXX Fiera Campionaria di Milano su progetto dell’architetto Luciano Baldessari, in «Trentino», marzo-aprile 1952, pp. 40-41. 88 L’impresa Morganti aveva già costruito, su disegno di Minoletti, il padiglione della Breda nel 1950. 89 Cfr. La Fiera si prepara, in «Il Popolo», 21 marzo 1952. 90 La Breda alla XXX Fiera Internazionale di Milano, in «Architettura-Cantiere», 2, 1953, s.n.p. Si veda anche C. Pagani, Padiglione alla Fiera di Milano, in Architettura italiana oggi, Hoepli, Milano 1955, p. 221. 91 Cfr. la documentazione relativa al graticcio Stauss conservata in ALB, PBM 51-55, DM. 92 Cfr. il publiredazionale A.D. Tirone, Materiali edilizi resistenti al fuoco, in «Antincendio e protezione civile», a. XXVI, novembre 1974. Per le informazioni fornite, ringrazio la Tirone Edilizia, fin dall’epoca agente di vendita per l’Italia del sistema Stauss. 93 La frase di Baldessari è riportata, talvolta con alcune variazioni, in numerosi annotazioni dattiloscritte e relazioni pervenute. Cfr. i documenti conservati al Mart, Fondo Luciano Baldessari, in copia presso ALB, PBM 51-55, DM. 94 Cfr. P. Campiglio, Lucio Fontana. La scultura architettonica negli anni Trenta, Ilisso, Nuoro 1995, p. 43. 95 Cfr. il numero doppio di «Costruzioni Casabella», 159-160, marzo-aprile 1941, dedicato al tema dell’Architettura delle mostre. Si veda inoltre T. Maldonado, Max Bill, ENV, Buenos Aires 1955, pp. 82-95. 57 96 Cfr. A. Belluzzi, C. Conforti, Architettura italiana 1944-1994, Laterza, Roma-Bari 1985 (1994, p. 27). 97 Non è ben chiaro se il progetto del grande arco per l’E 42 sia stato presentato all’esposizione di New York e quindi lì conosciuto da Baldessari. I legami tra la “World’s Fair” e la kermesse romana sono stati precisati in E. Godoli, L’E 42 e le esposizioni universali, in M. Calvesi, E. Guidoni, S. Lux, E 42 Utopia e scenario del regime. II Urbanistica, architettura, arte e decorazione, catalogo della mostra, Marsilio, Venezia 1987 (1992, pp. 147-155). 98 Cfr. G. Cagnoni, Pelléas e Mélisande, in «Casabella», 466, febbraio 1981, p. 7. 99 Cfr. E. Prampolini, Lineamenti di scenografia italiana dal Rinascimento ad oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1950, p. 14. Nella conferenza tenuta al Politecnico di Berlino nel maggio 1955 su invito della BDA, Baldessari usa la categoria di “architettura plastico-formale” per definire le proprie opere e quelle di Carlo Mollino. Cfr. il testo della conferenza in L. Baldessari, L’architettura contemporanea in Italia, Maestri Arti Grafiche, Milano 1955, pp. 6-7. 100 L. Sinisgalli, Plastica pubblicitaria cit. 101 Cfr. P.F. Barone, 1939-40. New York World’s Fair, in Le esposizioni del ’900 in Italia e nel Mondo, numero monografico di «Quaderni Di», 11, 1990, pp. 107-112. 102 Sulla “conquista del mondo con mezzi pacifici” da parte degli Stati Uniti, cfr. l’interessante V. de Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance through Twentieth-Century Europe, The Bell Knap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.)London 2005 (trad. it. L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006). 103 Sul periodo americano di Baldessari si veda A.C. Cimoli, Luciano Baldessari a New York, in «La rivista FMR Bianca», nuova serie, 24, marzoaprile 2008, pp. 87-99; e Ead., Luciano Baldessari a Berlino e New York… cit., pp. 41-62. 104 Baldessari conosce i due architetti americani grazie alla Callery. Sulle opere eseguite da Harrison & Fouilhoux alla fiera di New York cfr. V. Newhouse, Wallace K. Harrison Architect, Rizzoli, New York 1989, pp. 80-93. 105 E.D. Bona, Baldessari testimone e protagonista, in «Casabella», 342, novembre 1969, p. 15. 106 Cfr. G. Ballo, Designers italiani (4). Con Enrico Ciuti continua la galleria dei personaggi che hanno inciso sull’evoluzione del costume artistico italiano, in «Ideal-Standard», maggiogiugno 1965, pp. 35-44. 107 Mart, Fondo Luciano Baldessari, Struttura della “Breda”, in copia presso ALB, PBM 51-55, DM. 108 F. De Miranda, La “struttura delle Breda” alla 32a Fiera Campionaria di Milano, in «Costruzioni metalliche», 3, 1954 (estratto), p. 3. 109 F. Irace, Luci moderne. Muzio, Ponti e Baldessari e il progetto delle centrali, in R. Pavia (a cura di), Paesaggi elettrici. Territori, architetture, culture, Marsilio, Venezia 1998, p. 162. 110 Cfr. ALB, EBR 55-57, D. 111 M. Ballocco, La nuova estetica della tecnica espositiva facilita la migliore conoscenza dei prodotti, in «Fiera di Milano. Rassegna dell’Ente Autonomo Fiera», IX, marzo 1957, p. 94. 112 M.L. [M. Labò], Edifici pubblicitari alla Fiera di Milano, in «Casabella Costruzioni», 137, maggio 1939, p. 13. 113 Cfr. Allestimenti, in «Domus», 260, luglio-agosto 1961, p. 60. 114 Cfr. A. Pica, Difesa dell’architettura pubblicitaria, in «Suggestione Pubblicitaria», supplemento a «L’Ufficio Moderno – La Pubblicità», 8, agosto 1952, pp. 73-75. 115 Cfr. i materiali documentari conservati in Mart, Fondo Luciano Baldessari, PBB 63 e quelli in ALB, PBB 63, D e DM. 116 Cfr. G. Veronesi, Luciano Baldessari: tre progetti recenti, in «Domus», 425, aprile 1965, p. 4. 117 Cfr. ALB, PBB 63, DM: nota manoscritta. 118 ALB, PBB 63, DM: Lettera del 5 febbraio 1963, inviata da Baldessari a Sette. 119 Costruito nel viale Italo-Orientale di fronte alla palazzina della Cassa per il Mezzogiorno, il progetto “a metà” viene ribadito da Baldessari a Pietro Sette nel settembre del 1963, allorquando, nello scusarsi del mancato incontro a Bari con l’avvocato, rammenta di regolare i pagamenti secondo le due diverse soluzioni. 120 Cfr. “Vernice” ad alto livello per una Fiera tutta da vedere, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 settembre 1963, p. 4. 121 Mart, Fondo Luciano Baldessari, cartella Franci Michele Guido: Lettera, datata 25/7/51, inviata da Franci a Baldessari. 122 Il 24 maggio 1957 viene presentato il progetto con la relazione e il preventivo; il 28 luglio vengono consegnate le foto del modello. Cfr. la documentazione e la corrispondenza in ALB, PBF 57, DM e C. 123 ALB, PBF 57, C: minuta di lettera, datata fine luglio [s.a.], inviata da Baldessari a Franci. 124 Mart, Fondo Luciano Baldessari, PF 57. 125 Cfr. E.N. Rogers, Il metodo di Le Corbusier e la forma nella “Chappelle de Ronchamp”, in «Casabella Continuità», 207, settembre-ottobre 1955, pp. 2-29. 126 «Anch’io da anni agogno, penso, accumulo disegni, idee per il progetto di una Chiesa. Piccola, grande, dove non importa. Mi sento preparato al compito. La penso capace di sorreggermi in tale aspirazione, lo faccia!». Mart, Fondo Luciano Baldessari, cartella Franci Michele Guido, lettera, datata 8/10/59, inviata da Baldessari a Franci. 127 Dagli appunti redatti nel 1946 a New York, riportati in Z. Mosca Baldessari, Note biografiche, in G.L. Ciagà (a cura di), Luciano Baldessari nelle carte del suo archivio, Guerini, Milano 1997, p. 244. 128 L’incarico di sistemare il viale dell’Editoria viene affidato il primo luglio 1958, ma è nell’autunno-inverno del 1959 che il progetto viene presentato a Franci. Nello specifico, il 12 ottobre si discute il progetto complessivo, il 21 ottobre si ragiona sul disegno delle vetrine, il 24 novembre si realizza un primo modello al vero, il 9 dicembre si consegnano le tavole, il 4 gennaio 1960 si mette in piedi un altro modello in scala 1:1, il 12 febbraio si elaborano alcune modifiche e l’11 aprile si rilascia il progetto. 129 Cfr. ALB, PVE 59-60, DM: Relazione, datata aprile 1960, sul progetto di sistemazione del viale dell’Editoria. 130 Cfr. ALB, PVE 59-60, DM: Relazione datata 10 dicembre 1959. 131 Mart, Fondo Luciano Baldessari, PTP 59-60. 132 Cfr. ALB, PTP 59-60, DM: Relazioni, datate dicembre 1959 e aprile 1960, sul progetto di ampliamento della tribuna presidenziale. 133 Alcune soluzioni per la tribuna anticipano le forme della cappella Santa Lucia nel complesso di villa Letizia realizzata a Caravate a partire dal 1962. Si veda il volume realizzato con la collaborazione di Zita Mosca, Una casa e una chiesa, Banca Cesare Ponti, Milano 1968. 134 Il 15 aprile 1959 Baldessari ottiene l’incarico; nel maggio-giugno elabora il primo progetto di massima; nel luglio viene presentato il secondo progetto, nel settembre lavora alla terza ipotesi, nell’aprile del 1960 discute con Franci della quarta e ultima soluzione. Cfr. la documentazione in ALB, PTP 59-60, DM. 135 Cfr. ALB, PVE 59-60, C: Lettera, datata 15 novembre 1959, inviata da Baldessari a Franci. 136 Baldessari scrive: «La messa in scena del viale dell’Editoria è pronta». Cfr. ALB, PVE 59-60, C: Lettera, datata 21 ottobre 1959, inviata da Baldessari a Franci. 137 Mart, Fondo Luciano Baldessari, Breda 1951-52-53-54, in copia presso ALB, PBM 51-55, DM. 58 1951 C.A.S.V.A. IV.A.2e «Il progettista […] non ha pensato al solito scatolone, o padiglione. Ha creato qualcosa che nell’insieme, scena e personaggi, potesse dar l’idea di uno spettacolo, una processione, una sfilata, un corteo, una passeggiata è il termine giusto, une promenade architecturale et metallurgique […] Baldessari ha fatto recitare una parte ai visitatori, la parte appunto della massa, come in una pantomima, come in un balletto, ma senza imporre un ruolo obbligato né ai personaggi né alle macchine. Soltanto ha fissato un itinerario, un itinerario dentro un paesaggio, un paesaggio che ha una straordinaria eloquenza, un paesaggio astratto, ma carico di una suggestione profonda […] La novità di queste invenzioni viene dal fatto che l’architetto ha sposato in unità espressiva scultura e coreografia, funzionalità e fantasia.» (L. Sinisgalli, 1952) 61 C.A.S.V.A. IV.A.2a 62 C.A.S.V.A. IV.A.2b C.A.S.V.A. IV.A.2g 63 C.A.S.V.A. IV.A.2c 64 C.A.S.V.A. IV.A.2f C.A.S.V.A. IV.A.2d 65 66 C.A.S.V.A. IV.A.2h 67 68 69 71 72 73 74 75 80 81 83 86 87 88 89 90 91 1952 C.A.S.V.A. IV.A.3a «E teatro, scene per l’uomo della strada furono, da quell’anno stesso fino al 1956, le enormi architetture pubblicitarie Breda, smaglianti nel bianco e negli schietti colori, costruite alla Fiera di Milano. Insisteremo a chiamarle architetture anche se siano state le storie della scultura del secolo a farne conto, all’estero, prima delle storie dell’architettura. Erano,in realtà, puri fatti plastici, di classificazione opinabile per quanto non necessaria, e però senza alcun rapporto, fuor dalla tecnica, con l’edilizia: aperte “forme” modellanti un iperbolico spazio mediante la stessa visuale dinamica a cui si offrivano, così grandi, così “sproporzionate”all’uomo, quando l’uomo incantato le guardava passando e vi si lasciava attrarre, entrando docilmente nel loro giuoco, camminando sul filo fantastico di un bianco itinerario funzionalmente giustificato dal succedersi di scritte pubblicitarie lungo il percorso.» (G. Veronesi, 1957) 95 96 C.A.S.V.A. IV.A.3b 97 C.A.S.V.A. IV.A.3d 98 99 100 101 103 104 105 107 108 109 113 114 115 116 117 118 119 120 121 122 123 124 125 126 128 129 130 131 132 133 1953 C.A.S.V.A. IV.A.5g «Nell’opera di Baldessari ritroviamo proprio la storia rivissuta sinteticamente in termini ideali ed è per questo che può sembrare inutile rintracciarne punto per punto le derivazioni ora dall’espressionismo ora dal razionalismo in quanto le premesse enunciate ci portano a concludere come fatto fondamentale che Baldessari è al di fuori di uno stile linguisticamente configurato. Baldessari ha un “suo stile”, come atteggiamento personale e perciò irripetibile: la sua pertanto, più che di forma, è una lezione di contenuti. Derivano da questa situazione alcune immediate conseguenze, prima tra le quali la definizione dell’uomoartista inteso in senso classico con implicazioni di tipo umanistico. Ritroviamo infatti nell’opera di Baldessari le varie componenti del pittore, dello scultore, dello scenografo, dell’architetto.» (E.D. Bona, 1969) 137 138 C.A.S.V.A. IV.A.5c C.A.S.V.A. IV.A.5b C.A.S.V.A. IV.A.5e 139 C.A.S.V.A. IV.A.5f C.A.S.V.A. IV.A.5a 140 C.A.S.V.A. IV.A.5d 141 C.A.S.V.A. IV.A.5i C.A.S.V.A. IV.A.5h 142 143 144 145 146 147 149 150 151 152 153 154 155 157 158 159 1954 «L’architettura pubblicitaria risponde perfettamente, come genere, alle necessità espressive di Baldessari: in sostanza è una variante della scenografia, intesa nel senso più nuovo; è anch’essa provvisoria e implica l’esigenza di attrarre lo spettatore coinvolgendolo nella partecipazione attiva. In più, l’architettura pubblicitaria non può non partire dalla chiarezza funzionale: è spettacolo, ma deve colpire, e per coinvolgere il visitatore ha bisogno di attirarlo il più vicino possibile; a differenza dunque della scena che si svolge davanti agli spettatori, ma lontana, l’architettura pubblicitaria, per essere efficace, diventa ambiente spaziale dove penetra e si muove il visitatore […] Nei Padiglioni Breda la funzione pubblicitaria ha fatto scattare liberamente l’estro di questo singolare artista.» (G. Ballo, 1964) 163 164 165 166 167 168 169 172 173 176 177 178 179 180 182 183 Agnoldomenico Pica Organismi pubblicitari, in «Spazio», 7, dicembre 1952 - aprile 1953, pp. 58-60 Ojetti ebbe, una volta, una frase felice quando venne fuori a dire che la vita moderna, in definitiva, si sintetizza nella corsa automobilistica: «Si è eroici stando seduti». Se pensiamo qualcosa di simile trasferendolo all’architettura troveremo certo un bandolo di coerenza che lega, paradossalmente ma saldamente, il funzionalismo di Loos al “neobarocchismo” recente. Baldessari potrebbe essere indicato tra i più vivi rappresentanti di questa ardua, e assolutamente moderna, coerenza, se si pensi come dalle esperienze della Bauhaus e del “Gruppo 7”, sia giunto, senza rinnegarsi, alla libertà di oggi. E, forse, è proprio in queste sue ultime espressioni, attuate in collaborazione con Grisotti, che Baldessari giunge a realizzare pienamente quella che è la sua più vera vena di fantasioso immaginatore di impressionanti e perfino pirotecnici fondali. Infatti sembra appena utile ricordare che un certo piglio teatrale, una certa sonora eloquenza, una talquale compiacenza per il puro gioco plastico, un esaltato gusto del colore, pur nascendo da spunti scenografici e da sollecitazioni coreografiche, si trasferiscono, in queste costruzioni effimere e pubblicitarie, con assoluta aderenza non solo formale ma perfino funzionale, dacché è chiaro che, qui, un discorso impostato sui canoni consueti della utilitarietà e della economia costruttiva sarebbe del tutto falso. Qui si trattava di inventare macchine favolose a non altro fine se non quello di polarizzare l’attenzione della folla. Si può forse osservare che l’invenzione per la Fiera dell’anno scorso, il tubo sospeso e adattato a galleria, è stata pubblicitariamente più felice, o, almeno, di più immediata ed efficace accezione, e pur brillante era stata la sistemazione aerea, su cavalletti di cemento, della grande tubazione sospesa, alquanto discutibile, invece, ci era sembrata la pensilina, di cui non siamo riusciti a cogliere il nesso compositivo nell’economia generale dell’opera. Nel padiglione della “Breda” del ’52 l’architetto, abbandonato qualsiasi riferimento pratico, ha invece affidato l’efficacia del discorso pubblicitario unicamente al ritmo plastico. Il tentativo, da un punto di vista di purismo formale, è forse più interessante di quello precedente. La grande coclea, che si sviluppa e protrae elegantemente nel nastro che delimita lo spazio, si risolve apparentemente in una scultura astratta, che tuttavia rimane architettura in quanto crea e coordina spazi. L’atteggiamento neo-barocco di questa architettura può riferirsi, in Italia, alle opere di un Mollino, può legarsi, in un certo senso alle architetture di un Rudolf Steiner, o di un Eric Mendelsohn, o di un Niemeyer, o di un Burle Marx; con anche più aderenza può richiamare lo spirito di talune recenti esperienze scultoree, dalle “Due forme” di H. Moore (1934) al “Laocoonte” di Ossip Zadkine (1944) e dalle superfici involte di Max Bill a talune plastiche di I. Noguchi e di Barbara Hepworth. Citiamo codesti nomi per richiamare un clima che è oggi attuale nel mondo delle arti, non per stabilire analogie, che inutilmente si cercherebbero in un’opera alla quale tutto potrebbe esser negato, salvo una coraggiosa indipendenza. C.A.S.V.A. IV.A.9c C.A.S.V.A. IV.A.9e C.A.S.V.A. IV.A.9b C.A.S.V.A. IV.A.10a Scritti su Luciano Baldessari e i padiglioni alla Fiera di Milano Studi per il padiglione Sidercomit alla Fiera di Milano, 1953. a destra Studio per il padiglione Sidercomit alla Fiera di Milano, 1953. 189 C.A.S.V.A. IV.A.9d Studio per il padiglione Italsider alla Fiera di Milano, 1961. Agnoldomenico Pica Architettura pubblicitaria per la Sidercomit alla Fiera di Milano, in «Architettura Cantiere», 7, maggio-giugno 1955, p. 7 C.A.S.V.A. IV.A.10c C.A.S.V.A. IV.A.10b divisoria d’obbligo, hanno assai diminuito l’impaccio della pesante ipoteca. Va però anche detto che i progettisti stessi si sono poi creato un inutile vincolo con il muro pieno di fondo, il quale nella soluzione adottata svolge anche funzioni di ancoraggio, è vero, ma che si sarebbe certamente potuto evitare o sostituire, con il risultato indubbio di una struttura più libera, più schietta, più evidente e, anche, più coerente: codesta parete, in realtà, essendo, in tutta la struttura metallica, l’unico elemento murario, per di più non inevitabile, finisce per avere un poco il sapore di un anacoluto, tanto da ingenerare il senso di un certo ibridismo costruttivo. Diremo ancora, e questo a titolo di alto riconoscimento, che l’incongruenza è messa in rilievo proprio dalla stessa essenziale eleganza della struttura che è tale da non tollerare scarti. L’agganciamento delle due travi a ginocchio, che reggono le scale e il terrazzo a sbalzo, con il vertice inferiore delle due pensiline a V sopra il portale, determina una sorta di cerniera, di fuoco, di punto polare di tutta la composizione. La bellissima struttura a ponte, che racchiude la sala di proiezione, rappresenta invece un elemento divergente rispetto all’idea fondamentale, ma tuttavia si giustifica largamente e con la sua funzionalità, e con il suo valore esemplificativo. Sono in fine da notare la finezza di taluni partiti geometrici come la continuità della linea rampapensilina, l’impeto delle due grandi ali delle pensiline, l’estro che ha fatto divaricare le travi a traliccio esterne secondo un angolo diedro, che, interrompendo imprevedibilmente la ortogonalità del tessuto, induce nel rigore della composizione spaziale l’inaspettato impennarsi della fantasia e come l’ictus di una scattante dinamicità. Il teatro, allora, lo attrasse. È questo l’altro aspetto fondamentale della sua formazione di architetto. Baldessari non è partito dall’ingegneria, e neppure da intime sollecitazioni di ordine sociale […]; bensì dall’invenzione, dal fatto poetico puro e disinteressato, da visioni plastiche e cromatiche: come la solidificazione di immagini, come il farsi pietra e cemento di volumi ch’egli “vedeva”, prima, immateriali, se non irreali. Non è senza motivo ch’egli abbia lavorato per anni, come architetto, nel campo delle mostre, delle fiere, delle esposizioni, più che in quello dell’edilizia utilitaria. Pittore egli è rimasto; lo si riconosce non soltanto dalla superiore qualità grafica del suo disegno architettonico, ma proprio dal fatto che l’opera gli nasce così, dall’intimo, da una visione; è, cioè, d’essenza lirica, è prima di tutto una forma. L’idea strutturale (poiché, per converso, questo pittore è veramente architetto) v’è implicita e ne sgorga, chiara, logica, a sua volta implicando in modo naturale le ragioni e le premesse sociali, tecniche, economiche, e tutta la complessa e fondamentale “moralità” dell’architettura come ordine del vivere […] La guerra ricondusse Baldessari lontano dall’Italia, e lontano dalla pratica dell’architettura: questa volta, a New York. Furono anni duri, salvati però nel ritorno alla pittura, al teatro. Ed è ancora sul piano della “scena”, di un’astratta regia, che alla Triennale milanese del 1951 egli rientrerà nelle file dell’architettura con la trasformazione temporanea del grandioso ingresso del Palazzo dell’Arte. Il volume, già articolato verticalmente con scolastica monumentalità nelle tre componenti dell’atrio, dello scalone e del vestibolo superiore, fu ricostituito, ricreato come unità spaziale circoscritta in un’atmosfera di finissimi accordi tonali, tutti predisposti dall’architetto. Sui delicati passaggi dei grigi, sulle sospensioni, sulle ombre viola e sulle diffuse luminosità, ritmicamente dirompevano i colori e i rilievi delle pitture, delle sculture e delle irreali luci con cui l’architettura era idealmente integrata, secondo la classica concezione della collaborazione della arti in funzione architettonica, alla quale Baldessari C.A.S.V.A. IV.A.10e C.A.S.V.A. IV.A.10d Una certa meccanicità, una talquale enfasi strutturale, quel modo piuttosto risentito di modulare le due murature d’ambito, che svolgono, nei riguardi del padiglione, funzione di schermi esterni, hanno indotto taluno a qualche riserva di fronte a quest’opera di Baldessari e Grisotti. Sennonché la destinazione medesima dell’architettura, destinazione squisitamente pubblicitaria e cioè propriamente oratoria, non soltanto giustifica, ma pretende come strettamente “funzionali” codesti atteggiamenti che, in altra occasione, potrebbero apparire solamente magniloquenti, mentre qui sono rigorosamente pertinenti. Come tutte le architetture raggiunte, questa costruzione di Baldessari e Grisotti nasce da un’idea che è insieme un concetto costruttivo e un arabesco della fantasia: una grande V aperta, quasi come due immense ali, imperniata a terra con il suo vertice inferiore, o, diciamo, nel punto di sutura e di articolazione delle due ali battenti. La incisiva bellezza grafica del motivo riceve valore sostanziale dalla piena corrispondenza, e quasi consentaneità, con il comportamento delle forze in tensione proprio della struttura metallica. Alla radice l’idea costruttiva, anche se poi diversamente attuata, sorge dalla contrapposizione di due falconi metallici egualmente caricati e mutuamente reggentisi in vicendevole equilibrio. Disgraziatamente i gravissimi vincoli generati dalla ubicazione del padiglione, imponendo la coerenza con la costruzione confinante proprio su uno dei lati maggiori del nuovo padiglione, hanno vietato che l’architettura potesse giocare intero il suo gioco. Gli architetti, per la verità, hanno fatto quanto era possibile, ed è da riconoscere che sia le tinteggiature, sia il risentito frastagliamento della grande parete Giulia Veronesi Luciano Baldessari architetto, Collana di artisti trentini, Trento 1957 pp. 13-24 Palazzo per uffici De Angeli Frua, Milano 1931-32/1937-38. Bar Craja, Milano 1930. C.A.S.V.A. IV.A.11a Complesso Italcima, Milano 1932-39. Bar Craja, Milano 1930. Ricostruzione di G.R. Dradi su indicazioni di Enrica Craja, 1995-96. Studi per il Padiglione Italsider alla Fiera di Milano, 1966 e 1961. 190 191 aveva accennato già vent’anni prima nel Padiglione della Stampa; nell’allestimento di due memorabili mostre al Palazzo Reale di Milano (di Van Gogh nel 1952, della Civiltà Etrusca nel 1955) egli l’avrebbe ribadita valendosi delle stesse opere da esporre, con risultati splendidi, sebbene discussi. La bellezza di quelle superiori “composizioni” spaziali e cromatiche era, senza dubbio, fine a sé stessa; l’architetto proponeva però alla museografia un interessante problema di interpretazione e di orchestrazione espressioniste delle opere, in tal modo esaltate. Era ancora teatro. E teatro, scene per l’uomo della strada, furono, da quell’anno stesso fino al 1956, le enormi architetture pubblicitarie Breda, smaglianti nel bianco e negli schietti colori, costruite alla Fiera di Milano. Insisteremo a chiamarle architetture anche se siano state le storie della scultura del secolo a farne conto, all’estero, prima delle storie dell’architettura. Erano, in realtà, puri fatti plastici, di classificazione opinabile per quanto non necessaria, e però senza alcun rapporto, fuor dalla tecnica, con l’edilizia: aperte “forme” modellanti un iperbolico spazio mediante la stessa visuale dinamica a cui si offrivano, così grandi, così “sproporzionate” all’uomo, quando l’uomo incantato le guardava passando e vi si lasciava attrarre, entrando docilmente nel loro giuoco, camminando sul filo fantastico di un bianco itinerario funzionalmente giustificato dal succedersi di scritte pubblicitarie lungo il percorso simbolico, secondo date e fatti relativi all’industria Breda (come nel 1952), o dalla meta finale, l’interno di un forno vero, come nel 1951; ad ogni suo passo, il nastro fluente lo invitava alla scoperta dello spazio […] L’identificazione di queste plastiche animate con l’idea dello spettacolo è convalidata nella rielaborazione del progetto 1952, in cui la coclea diventa l’immensa scena di un vero teatro sull’acqua. Il bacino di una nuova costruzione destinata alla Mostra Nautica avrebbe dovuto fondersi plasticamente con la coclea già costruita, riprendendone e accentuandone l’elegante fluidità lineare, i valori fantastici: sorgendo dall’acqua, la bella forma doveva essere spazio scenico, luogo illusorio, teatro. Gillo Dorfles La mostra di Luciano Baldessari in Germania, in «Domus», 352, marzo 1959, pp. 35-36 La mostra di Luciano Baldessari – ordinata con estrema larghezza di spazio e di intenti nella galleria della Neue Sammlung di Monaco – ci offre l’occasione per riproporre all’attenzione del nostro pubblico un’opera assai complessa e multiforme di cui forse, in patria, non si è ancora tenuto sufficiente conto, anche se la mostra – più limitata – ordinata lo scorso anno in una galleria milanese, aveva già suscitato favorevoli echi e consensi. L’iniziativa della società monacense e del suo direttore Hans Eckstein di dare di quest’opera un quadro pressoché completo e analiticamente articolato merita d’essere sottolineata, e vorremmo, sia pure per sommi capi, ricordare alcune delle opere esposte, che comprendono non solo riproduzioni fotografiche e progetti architettonici, ma altresì: disegni originali risalenti al periodo futurista e numerose scenografie (quelle appunto che dettero all’artista la maggior fama soprattutto all’estero, nella stessa Germania – dove ebbe a risiedere negli anni dal ’22 al ’26 – e negli Stati Uniti dove soggiornò durante l’ultima guerra). Oltre a ciò la mostra presenta alcune interessanti e caustiche “tavole comparative” da cui risultano evidenti certe indiscutibili “priorità” dell’artista e di altri noti artisti contemporanei, rispetto a loto seguaci o involontari imitatori. È estremamente arduo per i contemporanei dire – o pre-dire – a quale opera sarà legata più intimamente nel futuro la fama di un artista: spesso opere che parvero secondarie e minori al momento della loro creazione, sono destinate ad assumere un’importanza decisiva in tempi successivi, magari assai lontani. Nel caso di Baldessari, questo quesito si presenta anche più arduo da risolvere data la latitudine del suo operare in campi diversi seppur affini, e data la molteplicità dei suoi interessi. Dovrà perciò esser considerato più decisivo il suo apporto nel settore dell’architettura, della scultura, del teatro? Potremmo, ricordare, a questo proposito come, nel suo ottimo volume sulla scultura moderna Carola Giedion abbia incluso, tra i pochissimi scultori italiani, per l’appunto Baldessari; ma potremmo, del pari, affermare che anche i disegni – spesso prestigiosi – risalenti al periodo futurista del ’15 meriterebbero da soli d’esser rammentati quali “documenti di un’epoca”. Oppure potremmo ribadire che costruzioni quali la fabbrica Frua de Angeli (’31), il Padiglione della stampa (del ’33), il bar Craja (’30), l’Italcima (del ’34), il chiosco Pensuti (’35), sono sempre architettoniche che, per la loro data precocissima, meritano d’esser considerate pedine essenziali nel cammino dell’architettura moderna in Italia. In effetti, in mezzo al gran parlare che si fa, da trent’anni a questa parte, di «synthèse des arts», molto spesso avallando esperimenti e tentativi quanto mai dubbi ed arbitrari – Baldessari, ha avuto, sin dai suoi inizi, il coraggio di realizzare codesta sintesi già nella concezione stessa di parecchie sue opere: il disegno infatti (concepito come atto creativo autonomo e non come mera indicazione esecutiva) è sempre alla base delle sue costruzioni, dei suoi scenari, dei suoi allestimenti. La componente plastica è, pur’essa, quasi sempre presenta che nelle opere architettoniche (almeno nelle migliori); sicché potremo parlare senza timore di equivoci, d’una “plastificazione dell’architettura” per i grandi padiglioni Breda, e d’una “architettonicità del disegno” per le sue scenografie e i suoi schizzi pre-esecutivi. È forse anche per colpa d questa interdipendenza tra le diverse categorie di arti visuali che non sempre la produzione dell’artista ha trovato l’accoglienza desiderata o non si è affermata come avrebbe meritato. Questa mostra – presentando accanto alle opere eseguite, i molti progetti mai realizzati (da quello per l’E 42 a quello per il centro di San Babila, da quello d’una centrale elettrica a quello per il grattacielo dell’Interbau a forma stellare tripartita) – ne offre una prova palmare e quanto mai impressionante, e permette di compiere quel “raddrizzamento” del giudizio critico che non è mai possibile davanti ad opere isolate. Ebbene: senza voler togliere a Baldessari il merito d’aver interpretato nel migliore dei modi il “clima futurista” coi suoi disegni, e l’impianto funzionalista con le sue architetture prebelliche e con alcuni arredamenti (Libreria Notari ’27, Calzaturificio Varese ’29) io ritengo che il momento decisamente significativo della sua arte, quello che dovrebbe bastare anche per gli anni futuri a costituire un piedistallo per l’importanza creativa e rinnovatrice dell’architetto trentino è la sua qualità di inventore di forme effimere, di quelle particolari architetture dell’istantaneo e del transeunte che sono tra le più tipiche espressioni di un’epoca, come la nostra, essa stessa effimera. I migliori monumenti della nostra età, infatti, sono, a mio avviso, quelli che furono concepiti per un’occasione transitoria ma di cui pure restano le documentazioni grafiche e fotografiche a testimoniare la continuità nel tempo. Gli allestimenti, dunque (come quelli per la mostra voltiana del ’27, come quello per l’ingresso della IX Triennale, come quelli per la mostra di Van Gogh, dell’Arte Etrusca), che abbiamo ancora negli occhi, pur a distanza di anni, valgono certo molte case, palazzi e stadi costruiti in più o meno solidi materiali da altri architetti coevi. E, soprattutto, rimangono quali testimonianze d’una capacità inventiva singolarissima: la serie dei padiglioni pubblicitari Breda alla Fiera di Milano del 1951, ’52, ’53, ’54 – specie quelli del ’51 e ’52 – il cui sinuoso dipanarsi nella grandiosità d’un impianto plastico e al tempo stesso d’un “percorso” architettonico, costituisce un esempio tra i più efficaci non solo di quella particolare arte fieristica ma di quel linguaggio architettonico che ha preso l’avvio da una rinascita di spiriti e umori barocchi e che ha visto negli ultimi anni moltiplicarsi i suoi adepti sino a dilagare nell’eccesso di alcune esemplificazioni brasiliane, venezuelane e tecnologiche. Non si dimentichi perciò che, per molti aspetti, i padiglioni Breda di Baldessari si possono considerare come i progenitori di parecchi edifici analoghi; e non si dimentichi che Baldessari ha saputo intendere l’importanza di una “rottura” con gli schemi funzionalistici con una precedenza di alcuni anni, così come aveva saputo accettarli nel 1930 quando ancora in Italia erano appena stati importati. L’importanza di questa mostra, in definitiva, ci sembra indubbia, specie se si tenga conto che viene ad inserire ed a proporre nel cuore d’una Germania oggi tesa verso una restaurazione del verbo funzionalista alquanto tradizionale, una varietà d’accenti quanto mai personali; forse particolarmente efficace per un pubblico come quello germanico perché crea una sorta di ideale ma anche tangibile trait d’union tra il “momento espressionista” che ebbe in quel paese il suo glorioso (e di cui Baldessari ha interpretato lo spirito nelle sue scenografie che la mostra esemplifica) e l’attuale momento di rinascita plastica da cui invece la Germania sembra essere ancora non tocca. L’influenza che queste opere, esposte a Monaco e a Francoforte sono destinate ad avere sull’ambiente architettonico e grafico mitteleuropeo è dunque, senza dubbio, rilevante; e ci è sembrato opportuno sottolinearlo anche sulle pagine di questa rivista. Padiglione della Stampa alla V Triennale di Milano, 1933. 192 193 Italo Cinti Luciano Baldessari, architetto integrale, in «Economia Trentina», 5-6, 1959, pp. 5-20 Luciano Baldessari è l’artista più completo fra i moderni, il più rinascimentale: colui che porta, insomma, ad espressione, con qualunque processo artistico intenda operare, e ne impiega diversi, l’integralità massima dell’uomo. È per questa esemplarità, valevole a portare chiarezza nel mondo dell’arte contemporanea, che da tempo ho posto attenzione su di lui; per giovarmene il più possibile (dato che cerco maestri e non allievi), e per giovare, potendo, a quanti lavorano su di sé per conseguire appunto questa benedetta chiarezza. Baldessari è pittore, scenografo, architetto, arredatore e allestitore di mostre; e invece di svolgere attività particolaristiche, proprio oggi che si cerca la pura pittura, la pura scultura, la pura architettura, arrivando nello smontaggio alle estreme amputazioni, egli è sempre unitario; nel senso che in ogni sua opera, se pure classificabile per l’estrinseco a una singola arte, ci sono gli elementi di tutte le altre. Come dev’essere, e come si arriverà ad intendere, dovendo por fine allo sperimentalismo particolaristico che ha già dato i suoi frutti, e molto cospicui, e che, continuando a vuoto, diverrebbe ozioso. Questa dell’unità dell’arte è la prima, la più fondamentale delle conferme che vi vengono da quella particolare e viva unica esperienza che è Baldessari. Ma noi dovremo cercare prove dialettiche. Metteremo quindi innanzi quella capitale delle epurazioni allo scopo di togliere davvero da un’arte quello che è delle altre; per vedere che cosa accade e per non far credito nemmeno a Baldessari, se prima non abbiamo vagliato criticamente la sua posizione integralista […] Nei tempi d’avvento delle nuove civiltà, v’è una prima fase, quella del distacco, in cui le nuove istanze sono confuse, mentre gli impulsi a tutto negare del passato sono quanto mai radicali e violenti. In questa fase non è difficile inserirsi, essendo che l’estremismo è più questione di carattere che di fantasia. Quando invece il nuovo ciclo si afferma con certezze vitali, occorrono al fine le doti creative. Oggi ci troviamo in questa fase, che è poi quella dell’ecatombe, non bastando più gridi o ingiurie per avanzare, ma occorrendo davvero valori positivi; e in questa fase Baldessari è passato in testa; è tra i pochi architetti moderni, infatti, a usare, quando occorre, un nuovo monumento; vale a dire ad esprimere un 194 contenuto poetico, al di là e al di sopra del fatto funzionale, che tuttavia non viene sacrificato. Dice Gropius nel suo libro Architettura integrata: «Lo slogan “funzionalità uguale bellezza” è vero solo a metà. Quando diciamo bello un viso umano? Ogni viso è funzionale, ma solo proporzioni e colori perfetti, in una contemporanea armonia, meritano quel titolo d’onore. Lo stesso è vero in architettura. Solo l’armonia perfetta delle sue funzioni tecniche come delle sue proporzioni può sfociare nel bello». Nel 1957 Baldessari stesso scriveva: «Credo fermamente ad un’etica di chiarezza e pertanto la mia attività è ancora legata, seppur libera, ai primi validi schemi del razionalismo». Che sia «libera» potremo sincerarcene con una ricerca volta a separare criticamente il razionale puro dagli innesti poetici che quel razionale traspongono in una zona superiore. Perché sta proprio in quel «libera», che riammette l’estro, la sua classificazione di architetto come artista […] Non mi dilungo, e potrei citare i tre meravigliosi complessi Breda alla Fiera di Milano. Avrò occasione più avanti di integrare l’argomento con altri collaterali, ma resta dimostrata la effettuazione della sintesi razionalismo-lirismo, fusi organicamente in un solo getto creativo per via analogica. Cos’è l’analogia? È appunto un processo squisito di integrazione: un’immagine si pone in movimento e si accomuna, si immerge in un’altra. Ne risulta una nuova immagine, che a sua volta può mescersi in una terza sulla via della partecipazione al tutto. La comunione mistica non è che presenza contemporanea in ogni parte del tutto. Perciò è gioia ineffabile. Perciò acquista significato particolare l’architettura di Baldessari. L’auspicio per una architettura integrata di Gropius, per la simultaneità delle tre arti figurative propugnata da Le Corbusier, in Baldessari è un fatto d’ogni giorno. Ho cercato di caratterizzare con la scoperta dell’idea analogica alcuni edifici di Baldessari. Non ci si meravigli della apparente sommarietà di queste caratterizzazioni. La realtà di un edificio, dopo un congruo esame, consiste nella capacità di vederlo “contemporaneamente” dentro, fuori, sopra e intorno nella sua integrale corporeità fisica e di comprenderne l’espressione spirituale, raggiunta nel suo nocciolo. Non sempre questa visione essenziale si rivela subito. Talvolta bisogna attenderla, si tratta di una intuizione che deve coincidere con quella dell’artista. Si tratta insomma di comunione. Solo che nella specie critica l’intuizione deve poi tramutarsi nella dialettica necessaria a scoprire se gli organi obietti vati nell’immagine sono tutti necessari, oppure se ve ne sono di superflui e se la forma esprime tutto il contenuto “antecedente” fino a renderlo concreto nella forma stessa, o se lo cela o disperde con intrusioni estranee. Ecco che allora il Padiglione Vesta, armadio a vetri monumentalizzato, ci riappare con un rigore e una purezza inattaccabili. Nulla da aggiungere e nulla da togliere: tale il contenuto e tale la forma, giusta la “scala”, il rapporto delle tre dimensioni snello e sottile, di una eleganza distinta e godibile. Allo stesso modo possiamo fare a ritroso, cioè dalla realizzazione all’idea, il cammino intuitivo per il Padiglione della Stampa, per trovare una conferma con maggiore consapevolezza di un ciclo compiuto e concluso di creatività […] Nella casa torre di Berlino, appena ultimata (è stato chiamato coi migliori architetti del mondo a segnare la presenza dell’Italia), imposta genialmente la pianta su due superfici separate per l’aerazione diretta. Le due superfici, legate da logge traverse (scenografia nobilissima), sono formate ciascuna da due rettangoli a contatto sulla mezzaria, ma divergenti, il che forma chiaroscuro a vasti campi e rende le viste indipendenti […] V’è una chiarezza così immediata, una logica così lampante e inoppugnabile, insieme ad una armonia così sottile, da raggiungere la poesia. Qui non si tratta peraltro di poesia gratuita, offerta di volta in volta dal mutare delle superfici secondo l’ordine elementare e causale dell’esistenza, qui si tratta di invenzione, cioè di pura e autentica creatività architettonica. Qui è l’uomo consapevole che ha impresso nella forma più semplice la significazione della serenità e della individualità appartata e fin segreta, pur nel complesso di un’ampia convivenza di centotrenta abitazioni, il che, tra l’altro, risolve un delicato problema sociale […] La critica è una sperimentazione che si avvale di quante verifiche è possibile effettuare. S’era parlato in Baldessari di razionalismo lirico e di integralismo rinascimentale che sorge da un’idea analogica. Non è dunque inopportuno saggiare come sorge l’idea in Baldessari. Non è mai “cercata” intellettualisticamente, è una veggenza istantanea che si conclude in uno schizzo. I suoi schizzi, tanto di quadri, che di scene e di architetture, sono di una velocità che ha del proiettile. Sono scariche che concretizzano l’immagine in un baleno, facendo sovvenire quelli di Mendelsohn e meglio ancora i disegni a rette radenti di Feininger. Certuni, appunto, sembrano sparati. Ora questa infallibilità senza pentimenti è garanzia in primo luogo di autenticità senza finzione alcuna, in secondo luogo dell’organicità del getto unico. Mi diceva in un incontro alla Galleria Kaldor “Casa Beust” in Torbole: «Nella scultura è necessario essere intorno all’immagine, nell’architettura bisogna essere fuori e dentro nello stesso istante. All’architettura è necessaria l’onnipresenza». Questo essere “fuori e dentro”, è proprio tutta la cosa permeata con al presenza di tutto lo spirito; il che abbiamo già osservato […] Non siamo peraltro giunti alla radice delle supreme eleganze, reperibili negli schizzi di Baldessari, senza di che, ad esempio, non potremo comprendere i tre miracoli dei Padiglioni Breda, in ispecie di quello del 1952, quel nastro che gira e nel girare si arrovescia e fa belle curve sfogate, poi si avvolge slargandosi e impennandosi in imbuti estrosi. La geometria ha estratto appunto con taluni movimenti linearistici, le eleganze dei moti astrali o degli itinerari delle forze che agiscono nella natura. Abbiamo così parabole, ellissi, ovali, spirali, iperboli, cerchi e poligoni; e l’architettura se n’è impossessata con tutti i possibili raccordi, impiegando altresì gole dritte e rovesce, scozie, “becchi di civetta”, concoidi, archi e volte. Con il Padiglione Breda 1952, con lo schizzo per un teatro sull’acqua (1952), che raccorda due concoidi una dentro l’altra, siamo alle origini del classicismo greco, nella condizione apollinea più perfetta, e però in uno stato inventivo nuovo, modernissimo, che aggiunge alla sublimazione della forma, l’espressività della forma stessa; siamo inoltre, come ognun vede, alla condizione della “geometria latente” di Bragdon, o meglio ancora alle idee primordiali di Goethe, nell’impulso continuo della metamorfosi, assunto dall’uomo come attività che conduce la stessa natura ad evolversi. A conclusione di questo ordine di concetti è bene avvertire, nondimeno, che gli schizzi non si possono gustare senza una autentica partecipazione spirituale al loro tesissimo impulso creativo. Perché se si è troppo calati nel piano del “tutto 195 sensibile”, non si può trovare l’apertura necessaria a comprenderli, dato che la linea, in sé, è l’elemento artistico più povero di corporeità, anche quando si fa germe determinato di visioni ampie e potenti. Oggi si parla di spazio. Si dà allo spazio architettonico un valore primario che non ha, in quanto lo spazio che contiene qualsiasi forma non è forma, è una costruzione mentale, sia pur derivata dall’intuizione sensibile che sorge da un “prima” e da un “dopo” e si congegna in seguito a infinite sperimentazioni di rapporti di distanze fra le cose per un bisogno di ordine e di chiarezza. In ogni atto creativo, il fatto primario è la forma, cioè l’idea che pone l’immagine con la sua particolare determinazione. Geoffrey Scott deduce la concezione spaziale dal fatto che per la conoscenza di una architettura bisogna muoversi, camminare intorno e dentro al monumento. E poiché a muoversi si percorre spazio, l’elemento fondamentale dell’architettura diviene automaticamente, per lui, lo spazio. Ma non ha pensato che a percorrere spazio si impiega tempo e che tempo e spazio sono sempre insieme. Sicché l’architettura è anche tempo. I due concetti infatti si sono dovuti unificare con una sola parola: “cronotopo”, talché se ne discorre in modo congiunto. Sarebbe qui fuor di luogo riandare alle concezioni di tempo e spazio più famose, da quelle di S. Agostino, di Kant, di Leibniz o di Newton, di chi li pone da matematico o da metafisico in assoluto; o chi li pone in modo individualistico o psicologico; qui importa riaffermare che l’immagine nasce come immagine, puramente e semplicemente. La paternità spirituale che la fa essere, bada a lei; la gestazione lunga o breve si applica solo su di lei. Certo dovrà poi collocarsi in un ambiente, ma questo è sempre implicito; e se dovrà collocarsi con sapienza urbanistica dovrà considerare non altri spazi, che sono astratti, ma altre forme con la loro concretissima corporeità. Perciò si comprende la netta posizione di Baldessari quando nella conferenza tenuta a Berlino nel 1955 per invito dell’Associazione architettonica di Germania, afferma che la sua corrente pone la istanza di una architettura «plastico-formale». Cioè plasticare, dar forma a un’idea, far essere in modo positivo corporeo-spirituale. Abbiamo già visto, d’altronde, che l’idea in Baldessari nasce dal puro impulso poetico dell’analogia, nasce quindi per visione diretta e immediata; il che ci sembra un’altra verifica della sua schiettezza. Sappiamo bene che con questo ci poniamo contro al già citato Scott, nonché a Wright, Zevi, William Newton, Ellis; in compenso, per Mendelsohn, Niemeyer, Aalto […] ha grande importanza la determinazione dell’involucro murario. Non vogliamo certo farne una questione di autorità, come nel medioevo, ci tratterremo perciò in sede ancora dialettica. Per Zevi […] l’architettura è solo lo spazio interno. Spazio interno, intendiamoci, non come “stampato” dalla cassa muraria, tirata via la quale risulterebbe la forma come risultato di una “colata”, ma come luogo amorfo, perché la cassa muraria per lui è monumento, vale a dire scultura, non architettura. Ecco, quindi, che in nome di uno spazio astratto (che ha, si è visto, l’incomoda presenza del tempo), è costretto ad abolire l’architettura, trasferendone tutta la creatività nella scultura. E l’unità delle arti? L’accetta in sede filosofica, non in sede critica, senza però dimostrare la validità di una simile affermazione. Perché se una verità agisce nell’ordine universale, penetra in ogni caso nel particolare; e dunque l’architettura è proprio scultura, ma è anche pittura, poesia e musica e, per identità, potendosi agevolmente chiudere il circolo, anche la scultura… è architettura. Baldessari ha dichiarato franco, a questo proposito, di avere abolito i limiti fra scultura e architettura, ha dunque consapevolezza per esperienza diretta dell’unità dell’arte. Non abbiamo peraltro ancora superato il concetto di spazio-tempo. Sono strumenti posseduti dallo spirito per un bisogno di ordine, come abbiamo rilevato. Compiuta perciò la loro funzione di strumenti, vengono messi da parte. Quand’è che tempo e spazio, nel giudizio estetico, hanno compiuto il loro ufficio preliminare? Quando per successive analisi e sintesi, la conoscenza dell’immagine è completa, quando la presenza delle sue parti è contemporanea e unificata, quando cioè si realizza, sia pure nei limiti umani, l’onnipresenza relativa all’oggetto in esame, e quindi, nel caso dell’architettura,quando si è superata la fase separativa dei momenti e dei luoghi diversi per giungere all’unità dello spirito, che, in sé, è onnipresente e onnisapiente. Ma allora abbiamo la forma; e appunto Baldessari bada alla forma. Guido Ballo Designers italiani. Artisti del nostro tempo: Luciano Baldessari, in «Ideal-Standard», settembre-novembre 1964, pp. 34-42 «Credo fermamente a un’etica di chiarezza… Mi accosto ai soggetti più disparati, agli esperimenti più nuovi, se sanno d’invenzione e valgono da messaggi; godo rasentare il pericolo dell’attuazione». Queste poche frasi danno già un acuto autoritratto psichico di Luciano Baldessari, una delle figure più rappresentative che hanno contribuito al rinnovamento del clima artistico italiano di oggi: in quella particolare e problematica zona d’incontri fra architettura, pittura, scultura, scenografia, grafica. Per renderne più veri nella loro complessità i tratti, bisogna però aggiungere che egli è di origine montanara: l’esigenza di chiarezza deriva dunque, fin dall’infanzia, dalla familiarità col nitore dei rapporti, con l’evidenza limpida. Ma sarebbe uno sbaglio definirlo, come è stato anche fatto, un semplice razionalista: la componente razionalista è senza dubbio fondamentale, ma non spiega questo suo bisogno di tensione, di colore, di nuovo, questa sua ansia continua di espressività, anche se dominata con rigore. Il fatto è che col razionalismo ha influito sulla sua evoluzione anche l’espressionismo: non quello gridato in modo esterno, ma il più teso astrattamente, quello cioè che porta il colore non ai valori di suffuse atmosfere, ma di accentuazioni strutturali, di rapporti cromatici esaltati nei timbri, di materie nuove, di tagli imprevedibili, di sorprendenti effetti dinamici. È ovvio che, su questa strada, la radice diventa addirittura scenografica: nel senso (ad evitare equivoci) non di semplice apparenza visiva, ma di colloquio sempre vario e mobile. L’aspirazione all’unità delle arti, tanto perseguita da Baldessari, trova così una ragione che non è ritorno al rinascimento, ormai lontano come clima da noi: è necessità d’intendere l’architettura nella sua evidenza plastica, di colore, di nitida luce; la scultura, nel criterio architettonico; la pittura e la grafica, in funzione di segno strutturalmente dinamico. Su tutto questo, è chiaro, la premessa futurista ha inciso come spinta morale, al di là degli stessi risultati delle opere. Siamo ancora nel 1912: Luciano Baldessari, a Rovereto, quando ha appena sedici anni, può frequentare Depero, anch’egli di quella città […] L’esperienza futurista rimane però una premessa, di ordine più morale che linguistica: il giovane pittore viene al Politecnico di Milano e si laurea in architettura nel ’22: ma non abbandona gli studi di pittura, di scultura, di scenografia. Dal ’22 al ’26 Baldessari si sposta a Parigi e poi a Berlino: soprattutto qui si dedica ai problemi del teatro e del cinema, entrando in rapporto con le scuole di Reinhardt e di Piscator. Proprio da questi registi apprende i principi, congeniali al suo temperamento, «della coordinazione di elementi multipli in una visione unitaria» […] Certamente queste esperienze teatrali, fatte nel clima rovente della Berlino degli anni del primo dopoguerra, hanno inciso sull’evoluzione di Baldessari: anche quando diventerà architetto razionalista, non potrà dimenticare certa evidenza di strutture e certo valore di immediatezza espressiva, in funzione dinamica. I suoi più recenti esempi di architettura pubblicitaria sono un altro conseguente sviluppo di tali esperienze. Due bozzetti di scenografia, per Giovanna d’Arco di Shaw, destinati al teatro Reinhardt a Berlino, indicano già in Baldessari una tendenza costruttiva, dove i suggerimenti di Adolfo Ampia, che fin dall’ultimo Ottocento ha contribuito a rinnovare la concezione scenica in Europa, fanno tendere alla terza dimensione plastica: è già, in questi bozzetti, il germe di un’architettura mossa nella luce e nel colore, affidata ai valori strutturali […] La prima opera attuata fuori del teatro è la Mostra della seta all’Esposizione Voltiana di Villa Olmo a Como, nel ’27: ed è una conseguenza delle precedenti esperienze sceniche. Lo spettatore non sta più in platea, ma si muove in questa nuova, nitida “scena” architettonica, dove l’espressionismo dei rapporti cromatici accentuati assume vigore e anche evidenza da tutta l’ambientazione spaziale purificata al massimo […] Nel ’33 Baldessari inventa con sottile fantasia una delle sue più estrose e limpide architetture pubblicitarie, il Padiglione Vesta per l’Industria tessile De Angeli Frua alla Fiera di Milano. Bisogna dire a questo punto che l’architettura pubblicitaria risponde perfettamente, come genere, alle necessità espressive di Baldessari: in sostanza è una variante della scenografia, intesa nel senso più nuovo; è anch’essa provvisoria e implica l’esigenza di attrarre lo spettatore coinvolgendolo nella partecipazione attiva. In più, l’architettura pubblicitaria non può non partire dalla chiarezza funzionale: è spettacolo, ma deve colpire, e per coinvolgere il visitatore ha bisogno di attirarlo il più vicino possibile; a differenza dunque della scena che si svolge davanti agli spettatori, ma lontana (ormai da tempo, tuttavia, il teatro – a pianta centrale o no – ha cercato di superare questo dualismo: da Gropius e Piscator, a Luigi Pirandello, che, come autore, identificava il personaggio con lo spettatore, abolendo idealmente la platea) l’architettura pubblicitaria, per essere efficace, diventa ambiente spaziale dove penetra e si muove il visitatore. Ebbene, Baldessari, fin da questo suo primo esempio del Padiglione Vesta, ha sentito tale necessità: rivelandosi architetto rigoroso, ma con estro fantastico, oltre che grafico nuovo (perché la sua architettura pubblicitaria è anche variante della grafica pubblicitaria) e scenografo: la serie degli allestimenti di mostre, fino a oggi, e gli altri suoi esempi in questo ramo sono indicativi. Il Padiglione Vesta è un esempio di puro razionalismo: nella semplicità strutturale del parallelepipedo […] il volume finiva col risolversi nella superficie, e questa a sua volta si annullava in un reticolato di sottili linee ortogonali, tutto a vetri: l’interno e l’esterno comunicavano con estrema chiarezza, per cui al visitatore non era nas costo nulla. È questa, senza dubbio, una delle opere più poetiche di Baldessari: lo stile è misura, ma anche chiarezza di funzione e di parola. Si giunge così al ’33, l’anno del Padiglione della Stampa alla V Triennale di Milano, considerato come il complesso più importante costruito da Baldessari tra le due guerre. due corpi distinti si integravano: un corpo formava la parte “rappresentativa”, risolvendosi in accenti monumentali; l’altro corpo, in ferro e vetro, con infissi in giallo tenue, costituiva la parte “utile”: su pannelli e diaframmi si susseguivano i documenti della mostra […] Per J.H. Harris di New York Baldessari progettò, sull’area occupata oggi parzialmente dallo sbocco della Racchetta, la costruzione di un grande “centro” di 4000 mq, che comprendeva un teatro, un cinematografo, un ristorante: ai piani superiori erano abitazioni e uffici per una costituenda società cinematografica. Il complesso della costruzione formava un blocco, reso più dinamico e teso – oltre che dalle proporzioni – dalle sottili nervature delle strutture portanti, lasciate in vista secondo i suggerimenti di Wright […] Altro progetto anteriore alla guerra, non realizzato ma ricco di interesse, è il Palazzo della Civiltà Italiana all’E 42 di Roma con la collaborazione di Saliva: i grandiosi parallelepipedi tutti a vetri, mentre accentuavano – per le regolari sequenze di elementi in travertino, per il basamento in granito scuro, per il corpo centrale in porfido rosso – il valore cromatico, erano un conseguente sviluppo dell’architettura razionalista, ma risolta con calda partecipazione espressiva […] Dopo l’allestimento della Mostra di Van Gogh (1952), cromaticamente esaltante, e quello più sobrio e funzionale per la Mostra della Civiltà Etrusca (1955) pure nel Palazzo reale di Milano, le architetture pubblicitarie, per i Padiglioni Breda alla Fiera internazionale di Milano (1951-55), con la collaborazione di Dal Monte, Grisotti e Gosso, sono un punto di arrivo di tutto il linguaggio di Baldessari. Anche il grattacielo all’Hansaviertel di Berlino (1955-57), con la collaborazione di Saliva, è la conclusione di tutte le altre sue architetture razionali: ma qui egli non ricorre ad alcuna soluzione scenografica; il risultato è pura architettura, che trae vigore dalle strutture e s’impone come vivo esempio razionalista, molto nitido e valido anche dal punto di vista sociale. Nei Padiglioni Breda invece la funzione pubblicitaria ha fatto scattare liberamente l’estro di questo singolare artista: il visitatore era coinvolto, penetrando nel mistero della tecnica di oggi, perché poteva vivere nel movimento ambientale di tutta la architettura dinamica della mostra, sempre nuova nelle varie rielaborazioni. Architettura pubblicitaria dunque veramente attiva, che ha stabilito un dialogo aperto col pubblico: per il movimento neobarocco, ma funzionale, delle strutture, per le parabole costruttive, le iperboli, gli scorci suggestivamente scenografici. Anche recentemente Baldessari ha raggiunto con coerenza il più vivo nitore di concezione architettonica: il suo progetto per la Fontana del Risparmio (concorso bandito dalla Cassa di Risparmio, Milano 1962 e chiusosi nullo) e l’altro per il Monumento per la Campana dei Caduti di Rovereto (concorso bandito dalla Reggenza per la Campana, 1964 e vinto in assoluto da Baldessari) indicano senza equivoci la sua inventiva, mentre risponde con dominio di forme plastiche alla particolare ambientazione, muove gli elementi architettonici con libertà nuova: l’architettura diventa scultura, regolata da un segreto ritmo di dinamica spaziale. Con queste opere Luciano Baldessari ha dato conferma della sua estrosa fantasia, della lucidità razionale, e dell’immediata, umana facoltà comunicativa: perché, come dicevo, alla radice del suo linguaggio è sempre la necessità d’una parola da comunicare con estrema chiarezza, da uomo schietto, di montagna. Casa della madre e del bambino, Brescia 1935-37. Progetto di villa alla Giudecca, Venezia 1936-37. Progetti per il concorso del palazzo della Civiltà Italiana all’E 42, Roma 1937. 196 197 Progetto per un complesso in piazza San Babila, Milano 1936-39. Enrico D. Bona Baldessari testimone e protagonista, in «Casabella», 342, novembre 1969, pp. 10-21 Su una rivista che si occupa fondamentalmente dell’architettura inserita nel mondo industriale, sia per quanto riguarda le metodologie di progettazione che i procedimenti di fabbricazione o di montaggio, sembrerebbe strano veder apparire periodicamente opere o personaggi scelti al di fuori di questo filone. Dato per scontato che gli strumenti della ricerca critica sono oggi in grado di correlare fra di loro anche gli episodi apparentemente più lontani, è pur sempre logico rivolgersi, e non solo per un semplice intento speculativo, a quelle fonti che non sono comprese per intrinseche caratteristiche formali o per suddivisione tipologica (la chiesa, il teatro, l’allestimento fieristico teatrale, il museo e molti altri edifici per la collettività) nel settore dell’edilizia industrializzata. In effetti, le posizioni opposte dell’architetto che lavora individualmente e del gruppo organizzato dovrebbero avere degli scambi a livello critico e culturale per integrare delle esperienze che rischierebbero di non esplicare completamente la loro potenzialità. Anzi, allo stato attuale, è quasi sempre l’individuo che dà al gruppo più di quanto da esso non riceva e questo perché chi ha la capacità di condurre un discorso autonomo ha in sé una ricchezza di contenuti che manca generalmente al lavoro organizzato dal team: il quale a sua volta elude volontariamente certi problemi per affrontarne altri. Ma finché è necessario rintracciare nell’opera dell’uomo una sua immagine ed una sua somiglianza (esigenza oggi non scomparsa e forse inalienabile) alla comunità saranno indispensabili – e su questo punto si batté con tutte le forze Sigfried Giedion – quegli individui generalmente chiamati artisti; ai quali oggi qualcuno – credendo così di fare qualche cosa di nuovo – ha cambiato il biglietto da visita in operatori plastici e visuali, senza accorgersi che l’uomo è sempre lo stesso ed ha semplicemente cambiato certi strumenti. In questi termini ci proponiamo di leggere l’opera di Luciano Baldessari. Il quale fin dai primi ani lasciò trasparire i segni di quanto dentro gli ribolliva, confermando che i così detti “meravigliosi incidenti” o presentimenti non è che accadano a tutti o per caso. Sarebbe sufficiente per questo ricordare che, sentendosi soffocare nell’ambiente ristretto e provinciale di quell’Italia che solo ora si accorge di aver rifiutato il futurismo (unico movimento che insieme a certe punte della pittura metafisica potrà reggere storicamente al confronto delle grandi correnti 198 dell’arte moderna), prese il treno e andò a Berlino per vivere, e rimeditare poi continuamente, una delle stagioni culturali più importanti del nostro secolo. Oltre questo, che potremmo definire dell’intuito, peraltro spiccato e sicuro, due altri tratti devono essere ricordati nella personalità di Baldessari: il superamento della idea politica di parte – e non idea dell’uomo, sull’uomo –, di fatti cronistici contingenti per i quali una idea viene gestita, amministrata, mortificata in compromessi; la libertà assoluta di pensiero e di azione, che lo ha portato a rifiutare l’accomodamento per evitare giri professionali, le millanterie propagandistiche (e per chi ha vissuto direttamente con gli altri protagonisti le origini dell’architettura dei nostri tempi non era certo difficile recitare una parte che molti altri con minore diritto hanno invece recitato). Su questo temperamento la storia europea intorno al secondo e terzo decennio aveva buon gioco; e fu proprio il futurismo che lo predispose ad incontrare espressionismo e razionalismo dai quali Baldessari assunse i temi che elaborò lungo la sua opera. Il futurismo agì su di lui probabilmente in due direzioni: formale e contenutistica. Diciamo formale nel senso che la sua non fu una adesione puramente esteriore ma una partecipazione diretta; prova ne è che dai primi disegni ai più recenti, pur passando attraverso diversi significati, la libertà del segno e la sua immediatezza, la dinamicità e l’impossibilità di rappresentare un oggetto per parti (o prospetti) ma in una unità che supera spesso i normali parametri percettivi, non sono mai venuti a mancare. Quanto ai contenuti, oltre a quelli già espressi (rottura degli schemi prospettici tradizionali, ricerca di un nuovo linguaggio) va ricordato che il futurismo combatté quello che oggi potremmo chiamare la sua contestazione su diversi canali ma fondamentalmente sul teatro. Cioè su una materia essenzialmente classica perché implica il concetto di rappresentazione, di essere e di recitare, di posizioni soggettive e oggettive; in definitiva – e ritorniamo su quanto detto per l’aspetto politico – implica una visione dell’uomo, attore della propria vita. Baldessari scenografo perciò, pur assumendo conseguentemente, ed anzi proprio qui con maggiore evidenza, i temi più caratteristici dell’espressionismo, non aderì solo casualmente ai motivi più umani dell’opera di Pirandello; e la sua scenografia non fu perciò a livello di semplice allestimento di uno spazio fisico per la scena, come a tutt’oggi ancora avviene per questo tipo di “spettacolo”. Probabilmente la differenza è tutta qua: fra “spettacolo” e rappresentazione. Pertanto il filone scenografico riemerge spesso nell’opera di Baldessari anche in manifestazioni di tipo non teatrale; essendo centrato su problemi di contenuto, di idee, di espressività, rimane disponibile e aperto anche per altri problemi: e non per nulla proprio negli allestimenti espositivi commerciali (quali le fiere campionarie) o culturali (quali le numerosissime mostre dalle quali emergono le sale per Van Gogh e per gli Etruschi) o comunque in quei fatti che, temporalmente provvisori, potremmo definire effimeri. Essi acquistano valore quanto più si esprimono in termini ideali, quanto più hanno capacità – superati i brevi termini della sopravvivenza fisica – di rimanere nella memoria; di svolgere cioè il proprio ruolo culturale allo stesso livello delle opere permanenti. Più da vicino consideriamo il padiglione Vesta alla Fiera di Milano del 1933 e lo scalone d’onore alla IX Triennale di Milano del 1951: il primo è un oggetto di arredo sentito in termini razionalisti ingrandito alla scala architettonica per acquistare uno spazio subito perso attraverso la grande vetrata –un autentico atteggiamento pop ante-litteram –; il secondo è l’intervento in un ambiente in sé inespressivo reso spazio architettonico con il semplice inserimento di un fondale ricurvo e inclinato. Il futurismo pertanto, che si pose come elemento di rottura in termini assoluti, quasi esclusivistici ed aprioristici, agì proprio sul teatro colpendo nel vivo del problema, optando per una rivoluzione in cui l’aspetto formale interviene come una delle componenti. E in termini umani, ideologici, la lezione più interiore del futurismo fu probabilmente di stabilire un’altra differenza (oltre quella di “spettacolo” e “rappresentazione”): fra avanguardia e avanguardismo; intendendo con il primo termine ogni vitale necessità di rinnovamento, con il secondo ogni rivalsa demagogica da sfruttare in termini propagandistici spesso legati a motivi politici contingenti (differenza che intercorre ad esempio fra Malevič e Guttuso). Con questo bagaglio, l’espressionismo e il razionalismo non sono stati assorbiti da Baldessari in termini puramente linguistici e formali ma al limite come momenti ideali (libertà e razionalità) che intervengono dialetticamente (e il discorso è ancora tutto crociano) nella creatività dell’opera d’arte. La definizione di Baldessari quale artista europeo, spesso enunciata ma forse mai a fondo verificata, va intesa in questo senso: proprio nell’aver capito che il razionalismo non è stato l’unico promotore dell’architettura moderna europea, ma che accanto ad esso, dialetticamente, va posto l’espressionismo […] Nell’opera di Baldessari ritroviamo proprio la storia rivissuta sinteticamente in termini ideali ed è per questo che può sembrare inutile rintracciarne punto per punto le derivazioni ora dall’espressionismo ora dal razionalismo in quanto le premesse enunciate ci portano a concludere come fatto fondamentale che Baldessari è al di fuori di uno stile linguisticamente configurato. Baldessari ha un “suo stile”, come atteggiamento personale e perciò irripetibile: la sua pertanto, più che di forma, è una lezione di contenuti. Derivano da questa situazione alcune immediate conseguenze, prima tra le quali la definizione dell’uomo-artista inteso in senso classico con implicazioni di tipo umanistico. Ritroviamo infatti nell’opera di Baldessari le varie componenti del pittore, dello scultore, dello scenografo, dell’architetto, ora in sé isolate ora saldamente integrate; ciò significa un’assoluta padronanza di questi linguaggi adoperati in funzione di quanto si vuole esprimere, conferendo perciò all’idea il valore fondamentale e primigenio nel processo di creatività (e con ciò è reso praticamente nullo il pericolo del formalismo); ma vuole anche dire unitarietà nella misura in cui ogni problema viene affrontato con quei mezzi che sono coerenti alla sua scala e immediatezza fra pensiero e azione. I disegni di Baldessari, sorretti da una tecnica formidabile, hanno la rapidità e la sicurezza di chi agisce senza ripensamenti e per puro intuito; il loro svolgimento nel tempo non ha perciò le caratteristiche della ricerca intesa in senso tecnico o scientifico ma quelle della meditazione continua ed interiore: ci corrispondono la libertà e il lirismo delle linee continue ed il bianco delle superfici (il simbolo della purezza e dei valori assoluti cui Fontana – che molto si giovò della collaborazione di Baldessari – dà il senso delle cose perdute con un semplice gesto). Specificatamente per l’architettura vorremmo esaminare più da vicino come si esprima questa unitarietà e che ruolo vi svolga lo spazio. Questo perché generalmente si indica lo spazio come uno dei componenti fondamentali dell’architettura. Ma due atteggiamenti almeno nei confronti dello spazio possono portare a due diverse concezioni dell’architettura: o lo si pone come elemento costitutivo in termini formali e funzionali, in un 199 certo senso già come idea architettonica, o come categoria di una figurazione possibile che non ha prevalenze particolari sulle linee, o i piani o i volumi o la luce o il colore. Nel primo caso l’architettura, pur potendo avere tutti i valori tipici delle opere d’arte, rimane più facilmente legata ad una destinazione funzionalistica in termini materialistici, nel secondo prevalgono i contenuti ideali e l’architettura, al limite, rimane essa stessa strumento, e non fine, per la espressione dell’idea. Si può pertanto riprendere, per approfondire, il concetto di classicità prima ribadito, in quanto proprio l’architettura può essere più disponibile alla sintesi dei vari linguaggi (senza che ciò comporti naturalmente una sua supremazia rispetto alle altre arti). Le capacità di Baldessari di essere ora pittore, ora scultore, ora scenografo gli consentono con una certa immediatezza di creare opere in cui lo spazio non è la matrice fondamentale avendo in sé anche i corrispondenti valori di luminosità, di plasticità, di disponibilità alla rappresentazione. Rispetto al problema della sintesi delle arti come viene oggi impostata, Baldessari occupa perciò un posto particolare: Le Corbusier ad esempio tende a configurarsi volta a volta come architetto o scultore o pittore, lasciando perciò alle relative opere una certa autonomia (un intervento pittorico rimane perciò essenzialmente tale anche quando è inserito in uno spazio architettonico e l’integrazione si risolve più spesso in un accostamento); i già citati operatori visuali o plastici, da parte loro, hanno impostato il problema sull’unitarietà del linguaggio (linguaggio come strumento per esprimersi) dando per scontato il superamento della pittura e della scultura in quanto tali. Vorremmo perciò definire quella di Baldessari una sintesi “ab initio”, una capacità di intuire il problema nella sua scala corretta con tutte le sue componenti necessarie per definirlo. E forse proprio in questo senso, superando il periodo storico della sua formazione, vorremmo limitare la prevalenza delle componenti espressionistiche nell’opera di Baldessari per accentuarne quelle razionali – non già semplicemente razionaliste. La definizione, da altri avanzata, di artista europeo, va oltre le sue esperienze nella Berlino del ’20 e del ’30 ma comprende quell’area di storia mediterranea che dalla Grecia, al Rinascimento italiano, all’Illuminismo francese ha sempre fatto perno sull’uomo creatore, che trae proprio dalla razionalità, in modi sempre diversi, i motivi più validi per esprimere la propria unitarietà ed individualità. Veduta e studio della cappella di Santa Lucia nel complesso di villa Letizia a Caravate, Varese 1962-68. Cenni biografici Sesto di nove figli, Luciano Giovanni Maria Baldessari nasce a Rovereto (Trento) il 10 dicembre 1896. Morto il padre nel 1906, viene accolto all’Istituto Orfanotrofio della sua città natale. Nel 1909 entra alla Scuola Reale Superiore Elisabettina (tra i suoi maestri ha il pittore Luigi Comel). Nel 1913, con Remo Costa, Ennio Valentinelli, Giovanni Tonini, Mario Maddalena, Remo Galvani, Tullio Trotter, frequenta il Circolo Futurista di Fortunato Depero, suo amico già dagli anni dell’orfanotrofio e che gli aveva insegnato i primi rudimenti di arte e disegno. Allo scoppio della prima guerra mondiale, viene deportato con la madre e le sorelle a Schardenberg-Schärding, e poi a Braunau am/Inn. Trasferita la Scuola Reale a Vienna, riprende le lezioni e si diploma il 31 luglio 1916. Subito dopo entra nell’esercito austroungarico e presta servizio in Galizia, Ucraina, Polonia e al confine russo. Al termine del conflitto, nel 1919 viene a Milano per studiare al Politecnico e all’Accademia di Brera. Nel capoluogo lombardo stringe subito amicizia con numerosi artisti (dal compositore Riccardo Zandonai all’architetto Giuseppe Pizzigoni). Il 14 dicembre 1922 consegue la laurea in architettura. Neanche un mese dopo, si trasferisce a Berlino, per restarvi fino al maggio 1926. Nella città tedesca lavora prevalentemente come pittore e scenografo, frequentando artisti del cinema, del teatro e della musica (Paul Wegener, Conrad Veidt, Werner Krauss, Carlo Aldini, Maria Jacobini, Ferruccio Busoni, Ignaz Friedman, Titta Ruffo, Mattia Battistini, Alessandro Moissi, Carletto Thieben); espone i suoi acquerelli in fortunate mostre, diventando amico di galleristi-editori (Wolfgang Gurlitt, Alfred Flechtheim, Bruno Cassirer) e collabora al film Kaddish. Edmund e Max Reinhardt si interessano alla sua attività scenografica. Tra gli altri, conosce Erwin Piscator, che influenzerà notevolmente il suo modo di concepire l’arte e l’architettura per il teatro. Negli anni berlinesi ha l’opportunità di frequentare anche pittori (Oskar Kokoschka, Otto Dix, Karl Hofer, Lovis Corinth), scultori (George Kolbe, Kähte Kollowitz, Ernest de Fiori), giornalisti (Magda Kluge, Edgar Ansel Mowrer, Julio Alvarez del Vayo), critici (Rom Landau), scrittori (Kurt Tucholsky), poeti (Ernst Toller, Leo Lania, Giorgio Vasari, Herwart Walden) e architetti (Mies van der Rohe, Walter Gropius, Hans Poelzig, Ernst Neufert). Nell’estate del 1925 trascorre alcuni mesi in Francia, dedicandosi alla pittura, per poi tornare a settembre in Germania, e nel maggio 1926 in Italia. Nel 1927 allestisce a Como la Mostra nazionale serica a Villa Olmo. Nello stesso anno realizza la Libreria Notari in via Montenapoleone a Milano. Continua il suo lavoro per il teatro, realizzando numerosi bozzetti per scene e costumi di opere quali Giuliano di Zandonai per il Teatro Sociale di Como, La vita è bella di Achard e Il vascello fantasma di Richter e Lothar entrambi per il teatro Olimpia di Milano, Quelle signore di Maugham per il teatro Eden di Milano. In questo periodo – dirà in un’intervista rilasciata a Cesare de Seta in occasione della Biennale di Venezia del 1976 – i suoi lavori sono influenzati dalla corrente espressionista di Kokoschka e di Corinth. Il carattere affabile e la disponibilità verso il prossimo sono doti che gli creano una rete di amicizie autorevoli: peraltro, artisti come i pittori Sironi, Garbari, Radice e gli scultori Marini, Fontana, Callery, sono, come lui, frequentatori del bar Craja. Per il noto locale di vicolo Santa Margherita esegue una completa sistemazione degli spazi con l’aiuto di Luigi Figini e Gino Pollini, insieme a Marcello Nizzoli (che realizza un manichino metallico) e a Fausto Melotti (autore di una fontana). Alla fine del 1928 apre il suo primo studio a Milano e inizia a lavorare per Carlo De Angeli Frua. Con l’industriale dei tessuti avvia un proficuo rapporto professionale e di amicizia: per lui realizza nel giro di pochi anni il palazzo per uffici in piazza De Angeli (1931-32, 1937-38), le sistemazioni di interni sia di appartamenti sia di negozi, gli stand DAF alla IV Triennale di Monza (1930), alla V Triennale di Milano (1933), alla Mostra nazionale della moda di Torino (1933). Sempre per De Angeli Frua crea anche il padiglione Vesta alla Fiera di Milano del 1933. Sebbene orientato verso una linea razionalista con chiare matrici internazionali – evidente, oltre che nei progetti per la De Angeli Frua, anche nel negozio del Calzaturificio di Varese (1929-33) – declina l’invito di Terragni, Bottoni e Vietti, e rinuncia a partecipare ai Ciam. Nel 1932 si iscrive all’Albo professionale di Trento. Su suggerimento dell’amico Lamberto Vitali, l’industriale Achille Levi affida a lui e a Gio Ponti (con cui aveva lavorato all’Esposizione di Barcellona, realizzando il manichino tubolare che diventerà in seguito il celebre Luminator) la costruzione a Milano della fabbrica di cioccolato Italcima. Per difficoltà di collaborazione, in seguito continua il lavoro da solo, avendogli Ponti ceduto progressivamente la responsabilità del progetto, riservandosi soltanto la direzione dei lavori. Per un gruppo formato da impresari teatrali e registi (Urievic, Pommer, Lang, Reinhardt, Pabst, Laemmle e Griffith), progetta a Milano una Città cinematografica (1932-33) da erigersi tra le vie Inganni, Lorenteggio e Chinotto; le tavole vengono esposte alla V Triennale di Milano. Nella medesima Triennale costruisce il Padiglione della Stampa, considerato da Giulia Veronesi la sua opera più importante fra quelle realizzate tra le due guerre (nel 1934 Raffaello Giolli scrive che il padiglione, insieme a quello Vesta edificato contemporaneamente nella Fiera di Milano, sono «segni non equivoci della sua personalità»). Ispirandosi agli spazi degli hangar per dirigibili, nel 1934 allestisce all’Esposizione dell’Aeronautica al palazzo dell’Arte di Milano le sale “Aviazione civile, turismo aereo, posta aerea” e “Fascismo e Aviazione”, quest’ultima definita da Edoardo Persico «una costruzione di propaganda, in cui tutti gli elementi hanno carattere di vivace e immediata illustrazione». Con il Padiglione Ortofrutticolo e Vinicolo, e con l’allestimento dello stand per la Montecatini, partecipa all’Esposizione internazionale di Bruxelles del 1935. L’anno successivo, su incarico di De Angeli Frua e della Breda avvia il progetto del complesso di piazza San Babila a Milano (nel gruppo finanziatore, oltre alla Metro Goldwin Meyer, vi è il costruttore John H. Harris, per il quale disegna una villa da costruirsi alla Giudecca in Venezia): guardando alle esperienze tedesche, per la centralissima piazza milanese studia un ardito complesso, in cui si esaspera – come scrive Fulvio Irace «la misura di magnete urbano». Mentre per l’Opera nazionale maternità e infanzia completa gli edifici di Brescia e di Roma (1935-37), con un’articolata composizione monumentale, nel 1937 partecipa, in collaborazione con l’ingegner Ernesto Saliva, al concorso per il Palazzo della Civiltà Italiana all’E 42. Nel 1938 trasferisce l’iscrizione all’Albo professionale di Milano. Nell’agosto del 1939 partecipa all’Esposizione nazionale svizzera di Zurigo, dove ha l’opportunità di diventare amico di Alfred Roth e di Max Bill. Per diversi motivi, non ultimo la situazione politica che stava diventando incandescente, nel dicembre Foto di gruppo al Politecnico di Milano 1920-21 (Baldessari è il secondo seduto in basso da sinistra). Luciano Baldessari, Braunau am Inn 1915. Foto di gruppo all’Accademia di Brera con i professori Mentessi e Cattaneo, Milano 1920-21 (Baldessari è il secondo in basso da destra). 200 Luciano Baldessari, Berlino 1923. Luciano Baldessari, Parigi 30 giugno 1925. 201 dello stesso anno lascia l’Italia e approda a New York, dove resta fino al 1948. Già compagno di Alma Griffith-Grey, il 20 dicembre 1941 inaugura uno “spaghetti-ristorante-self service” da lui progettato. Nel periodo americano svolge prevalentemente l’attività di pittore e di scenografo, che gli consente di vivere dignitosamente. Mentre continua ad avere legami con amici lontani (è in continuo rapporto epistolare con Lucio Fontana dall’Argentina), grazie a Mary Callery, seconda moglie di De Angeli Frua e all’ordine degli architetti, entra in contatto con numerosi architetti (J. André Fouilhoux, William Lescaze, Wallace K. Harrison, Andrew Reinhard, José Luis Sert, Paul Lester Wiener, Stamo Papadaki), artisti (Fernand Léger, Amedée Ozenfant, Alexander Calder), galleristi e collezionisti newyorkesi (Curt Valentin-Buchholz, Pierre Matisse, Alfred Barr, Alfred H. Frankfurter) e, in questi anni, diventa fervido amico di Milan ed Eleonor Petrovic. Venuta a mancare la compagna Alma, nell’estate del 1948 torna in Italia e riprende i legami con Carlo De Angeli Frua e con gli amici di un tempo.Il 1951 è un anno di grandi soddisfazioni: oltre a mettere in piedi, con la collaborazione di Marcello Grisotti, la prima delle sue realizzazioni per la Breda, è chiamato a far parte della giunta esecutiva della IX Triennale, dove ha la possibilità di rafforzare le sue relazioni e di coinvolgere nell’allestimento complessivo molti validi artisti (Fontana, Cappello, Cassinari, Greco, Fabbri, Milani, Dova, Rossi, Pepe, Tavernari, Soldati, Radice), portando un significativo contributo al dibattito in corso sulla sintesi delle arti. Per l’istituzione milanese predispone anche l’esposizione itinerante, che s’inaugura a Oslo il 15 gennaio 1952. In occasione del suo viaggio nordico stringe amicizia con Arne Korsmo, Alvar Aalto ed Erik Herlow. In primavera s’inaugura il secondo padiglione Breda alla Fiera internazionale di Milano. Nello stesso anno, con il pittore Attilio Rossi, allestisce magistralmente le mostre dedicate a Van Gogh (Palazzo Reale di Milano) e al Risorgimento mantovano (Casa del Mantegna, Mantova). L’attività di allestitore di padiglioni lo impegna nuovamente nel 1953, oltre che per la Breda, anche per la Sidercomit. La capacità di tessere reti di relazioni e la padronanza delle lingue contribuiscono a farlo nominare coordinatore per le sezioni straniere alla X Triennale del 1954. Nella kermesse milanese costruisce con Grisotti anche degli esempi di case prefabbricate nel parco. Continua ad allestire mostre, quali quella Nazionale di Pittura contemporanea e quelle dedicate a Rembrandt e al Seicento olandese, e all’Arte e alla Civiltà Etrusca, tutte tenutesi al Palazzo Reale di Milano. Con Gropius, Bill e Vordemberge-Gildewart, il 2 ottobre 1955 è presente all’inaugurazione della Hochschule für Gestaltung a Ulm-Donau. In occasione dell’Esposizione internazionale dell’edilizia di Berlino del 1957 realizza con la collaborazione dell’architetto Maria Pia Matteotti e dell’ingegner Ernesto Saliva il grattacielo all’Hansaviertel (1954-58). Per l’Istituto autonomo case popolari, nel 1957 avvia la realizzazione, con altri (Pollini, Bacciocchi, De Carlo, Gardella, Giordani, Mangiarotti, Terzaghi), del quartiere Feltre a Milano; è inoltre incaricato da Michele Guido Franci di studiare alcuni padiglioni per la Fiera di Milano. A Rovereto realizza alcuni lavori, tra i quali i condomini “Milano” (1960-61) e “Venezia” (196162), e l’Istituto Tecnico Fratelli Fontana (1962-66, 1967-73). Nel 1962 ottiene l’incarico di restaurare una villa e costruire una casa di riposo per ciechi a Caravate (Varese). Il suo sogno di edificare una chiesa si concretizza nella cappella Santa Lucia posta nei pressi della casa. Nel 1963 disegna l’ultimo progetto per la Breda, da erigersi alla Fiera del Levante di Bari. Al concorso per la Campana dei Caduti di Rovereto, chiusosi nel 1964, ottiene il primo premio. Nel settembre 1965 sposa a Basilea l’attrice di prosa Schifra Gorstein, conosciuta nel primo dopoguerra a Berlino, da cui si separa nel 1970. Nel 1967 conosce Zita Mosca che inizia, a partire da questo momento, a lavorare con lui come collaboratrice e co-progettista: nel 1971 il comune di Milano affida loro la sistemazione di Palazzo Reale; in tale ambito, nasce la spettacolare mostra su Lucio Fontana allestita nel 1972. Nel 1978 ottiene dal comune di Milano la medaglia d’oro per la sua attività artistica e dall’Accademia Nazionale dei Lincei il Premio Feltrinelli per l’architettura. Dopo il matrimonio con la compagna Zita, celebrato il 22 giugno 1982, si aggravano le sue condizioni fisiche. Muore a Milano il 26 settembre. Tumulata nella cappella di Santa Lucia di Caravate, da lui costruita, l’urna cineraria è in seguito traslata nel famedio del cimitero di San Marco a Rovereto. Luciano Baldessari con Le Corbusier ed Ernesto Nathan Rogers alla IX Triennale di Milano, 1951. Luciano Baldessari davanti alla cappella Santa Lucia di Caravate, Varese. Luciano Baldessari con il gallerista Bianda, Locarno 21 agosto 1981. Zita Mosca Baldessari in cantiere, marzo 1965. 203 Fonti d’archivio e indicazioni bibliografiche L’archivio di Luciano Baldessari è suddiviso tra il Centro di Alti Studi sulle Arti Visive (C.A.S.V.A.) del Comune di Milano, il Politecnico di Milano, Dipartimento Indaco, e il Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (Mart). Per informazioni circa i disegni della collezione Mosca Baldessari conservata al C.A.S.V.A. si veda il catalogo curato da Graziella Leyla Ciagà, Luciano Baldessari e Milano. Progetti e realizzazioni in Lombardia, C.A.S.V.A., Milano 2005. L’Archivio storico Breda è conservato presso la Fondazione ISEC – Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea di Sesto San Giovanni. Sono stati inoltre consultati i materiali conservati presso l’archivio privato di Zita Mosca Baldessari, l’archivio privato di Marcello Grisotti, l’Archivio storico della Fondazione La Triennale di Milano. La documentazione fotografica è conservata presso l’archivio privato Mosca Baldessari, l’archivio privato di Marcello Grisotti, l’Archivio storico Breda e l’Archivio storico della Fondazione Fiera di Milano. Per quanto riguarda le indicazioni bibliografiche si forniscono qui di seguito i riferimenti essenziali utili all’inquadramento storico di Luciano Baldessari e dei padiglioni alla Fiera di Milano. Tra gli strumenti che riportano esaurienti bibliografie vi sono il numero monografico Luciano Baldessari, «Controspazio», n. 2-3, marzo-giugno 1978, il catalogo della mostra curata da Zita Mosca Baldessari, Luciano Baldessari, Mondadori, Milano 1985, e il catalogo-inventario curato da Graziella Leyla Ciagà, Luciano Baldessari nelle carte del suo archivio, Guerini, Milano 1997. Esistono inoltre diverse tesi di laurea, di perfezionamento e di dottorato su Luciano Baldessari; tra queste si segnalano A.C. Cimoli, Luciano Baldessari, scenografie e architetture effimere, Università degli studi di Milano, rel. A. Negri, a.a. 1994-95; C. Caputo, La città e il cinema: due progetti di Luciano Baldessari per Milano, Politecnico di Milano, rel. F. Irace, a.a. 1996-97; G. Morganti, Luciano Baldessari 1896-1982, Politecnico di Milano, rel. F. Schiaffonati, a.a. 2002-03. Alcuni articoli apparsi in quotidiani e fonti a stampa d’epoca sono invece reperibili presso il Mart, Fondo Luciano Baldessari, e presso l’Archivio storico Breda (b. 1149 bis, fasc. 2427: Rassegna stampa). 205 Pubblicazioni di carattere generale e numeri monografici di riviste Pubblicazioni sui padiglioni Breda 1957 G. Veronesi, Luciano Baldessari architetto, Collana di artisti trentini, Trento 1957. 1950 P. 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Aalto, Alvar 195, 202 Dorfles, Gillo 8, 25, 32, 55-56, 192 Dova, Gianni 202 Le Corbusier 38, 48, 194, 199, 203 Pica, Agnoldomenico 8, 21, 55-57, 189-190 Vespignani, Giovanni 29 Achard, Marcel 200 Albini, Franco 41, 56 Ellis, Peter 195 Léger, Fernand 202 Pigozzi, Marinella 56 Visconti, Luchino 21 Aldini, Carlo 200 Fabbri, Agenore 57, 202 Leonardo 42 Pirandello, Luigi 196-198 Vitali, Lamberto 200 Alvarez del Vayo, Julio 200 Figini, Luigi 16, 200 Lescaze, William 202 Piscator, Erwin 9, 21, 196, 200 Ampia, Adolfo 196 Flechtheim, Alfred 200 Levi, Achille 200 Pizzigoni, Giuseppe 200 Vordemberge-Gildewart, Friedrich 200 Araca (Enzo Forlivesi Montanari) 11, 15, 56 Fontana, Lucio 23, 25, 29, 33-34, 37, 53, 56-57, 199, 200, 202 Libera, Adalberto 34 Poelzig, Hans 200 Walden, Herwart 200 Loos, Adolf 189 Polenta (grafico-illustratore) 15 Washington, George 35 Archipenko, Aleksandr 16 Fouilhoux, J. André 35, 37, 57, 202 Lothar 200 Pollini, Gino 16, 200, 202 Wegener, Paul 200 Ascione, Errico 20 Lux, Simonetta 57 Pommer, Erik 201 Wiener, Paul Lester 202 Asquini, Alberto 55 Franci, Michele Guido 45, 48, 53, 57, 202 Maddalena, Mario 200 Ponti, Gio 15, 200-201 Wright, Frank Lloyd 29, 195-196 Bacciocchi, Mario 18, 37, 202 Frankfurter, Alfred H. 202 Malevič, Kazimir 198 Pozzi, Roberto 12 Zadkine, Ossip 189 Baldassarre, Pietro 12 Friedman, Ignaz 200 Mangiarotti 202 Prampolini, Enrico 34, 57 Zandonai, Riccardo 200 Ballo, Guido 55, 57, 162, 196 Galvani, Remo 200 Marini, Marino 200 Radicati, Giuseppe 15 Zappata, Filippo 55 Barr, Alfred 202 Galvano, Albino 57 Martini, Alberto 33 Radice, Mario 57, 200, 202 Zavanella, Renzo 18, 20 Battistini, Mattia 200 Garbari, Tullio 200 Matisse, Pierre 202 Reinhard, Andrew 202 Zevi, Bruno 195 Bel Geddes, Norman 35 Gardella, Ignazio 202 Matteotti, Maria Pia 48, 202 Reinhardt, Edmund 200 Zimelli, Umberto 56 Bianchetti, Angelo 20, 41, 56 Gargantini, Luigi 41 Maugham, William Somerset 200 Bianda (gallerista) 203 Giedion, Sigfrid 198 Mauro, Francesco 12 Reinhardt, Max 9, 55, 196, 200-201 Bigazzi, Duccio 56 Ginex, Giovanna 56 Mazloun, Jennie 33 Richter, O. 200 Bill, Max 31, 33, 189, 201-202 Giolli, Raffaello 201 Melotti, Fausto 200 Bona, Enrico D. 37, 57, 136, 198 Giordani, Gianluigi 37, 202 Mendelsohn, Eric 189, 195 Rogers, Ernesto Nathan 48, 57, 203 Bonicelli, Vittorio 22, 56 Goldoni, Carlo 25, 34 Meneghetti, Lodovico 56 Bottoni, Piero 200 Gorstein, Schifra 202 Breda, Amalia 15 Gosso, Erminio 25, 29, 32, 197 Mies van der Rohe, Ludwig 18, 200 Breda, Ernesto 10-11 Graffi, C. 20 Milani, Umberto 23, 29, 57, 202 Broglio, Giovanni 11 Grandi, Giuseppe 33 Burle Marx, Roberto 189 Grando, Giorgio 25, 29 Minoletti, Giulio 11, 13, 15, 20, 35, 57 Busoni, Ferruccio 200 Greco, Emilio 202 Moissi, Alessandro 200 1969 E.D. Bona, Baldessari testimone e protagonista, in «Casabella», 342, novembre 1969, pp. 10-21. Calder, Alexander 25, 202 Gregotti, Vittorio 55-56 Molino, Walter 33 Callery, Mary 34, 57, 200, 202 Griffith, David 201 Mollino, Carlo 20, 57, 189 Campo, F. 20 Griffith-Grey, Alma 202 Montanaro, Gustavo 19 M. Cinotti, Razionalismo di Baldessari, in «Le Arti», 10, ottobre 1969, p. 32. Candela, Félix 38 Moore, Henri 189 1975 G. Cagnoni, Baldessari o il rapporto estetica-società, in «Immagini Technika», 12, 1975, pp. 22, 28. Cappello, Carmelo 57, 202 Grisotti, Marcello 21, 25, 29, 189, 190, 197, 202 Carboni, Erberto 20, 37 Gropius, Walter 9, 21, 194, 196, 200, 202 Mosca, Franco 41 1978 D. Baroni, Le architetture semipermanenti di Luciano Baldessari, in «Ottagono», 51, dicembre 1978, p. 26. Cassinari, Bruno 202 Guido Ballo 8 Cassirer, Bruno 200 Mowrer, Edgar Ansel 200 Gurlitt, Wolfgang 200 Sinisgalli, Leonardo 10, 20-21, 34-35, 55-57, 60 Castiglioni, Achille 19 Munari, Bruno 19 Guttuso, Renato 198 Sironi, Mario 200 Castiglioni, Pier Giacomo 19 Guzman, Raffaello 19, 56 Musaio Somma (dirigente Breda) 42 Soldati, Anastasio 57, 202 Cenni (dirigente Breda) 42 Harris, John H. 34, 196, 201 Nervi, Pier Luigi 49 Cinti, Italo 56, 194 Neufert, Ernst 200 1959 I. Cinti, Luciano Baldessari, architetto integrale, in «Economia Trentina», 5-6, 1959, pp. 5-20. G. De Carli, Luciano Baldessari, in «L’Adige», 30 dicembre 1959, p. 3. G. Dorfles, La mostra di Luciano Baldessari in Germania, in «Domus», 352, marzo 1959, pp. 35-36. A. Pica, Architettura italiana ultima, Edizioni del Milione, Milano 1959, p. XXXVIII, tavv. 131-133. 1960 U. Conrads, H.G. Sperlich, Phantastische Architektur, Ged Hatje, Stuttgart 1960, p. 71. G. Veronesi, La torre di Berlino e l’opera dell’architetto Luciano Baldessari, in «L’Architettura. Cronache e storia», agosto 1960, pp. 234-235. 1961 Per una storia dell’estetica, in «Fiera di Milano. Bollettino quotidiano d’informazioni delle Ente Fiera», 4, 15 aprile 1961, p. 4. 1962 L. Schauer, Phantasie in Glas, Stein und Beton, in «Die Welt», 207, 5 settembre 1962. 1963 I. Cinti, Luciano Baldessari architetto, Tamari, Bologna 1963, pp. 13, 27, 39-44, 55, figg. 18-21. 1964 G. Ballo, Designers italiani. Artisti del nostro tempo: Luciano Baldessari, in «Ideal-Standard», settembrenovembre 1964, pp. 34-42. G. Veronesi, L’architettura moderna in Italia. Dopo la guerra, in «Il nostro mondo. Rivista della Carlo Erba», 15-31 luglio 1964, pp. 3-4. 1965 G. Veronesi, Luciano Baldessari: tre progetti recenti, in «Domus», 425, aprile 1965, pp. 3-5. 1995 G. Contessi, “Une promenade architecturale et métallurgique”. Luciano Baldessari: i padiglioni Breda alla Fiera Campionaria di Milano, in A. Giorgi, R. Poletti (a cura di), Accoppiamenti giudiziosi. Storie di progettisti e costruttori, Skira, Milano 1995, pp. 66-99. Indice dei nomi 1996 Fiera Milano 1920-1995. Un percorso tra economia e architettura, Electa, Milano 1995, passim. L. Caramel (a cura di), Attilio Rossi. Le opere 1933-1994, Giunti, Milano 1996, p. 206. Lucio Fontana e Milano, catalogo della mostra, Electa, Milano 1996, pp. 67-68. 1997 G.L. Ciagà, L’archivio Luciano Baldessari, in A. Silvestri (a cura di), Per ricordare e conoscere: dai laboratori e dagli archivi del Politecnico, atti del convegno e catalogo della mostra, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1997, pp. 63-68. G. Curti, Luciano Baldessari 1896-1982. Il disegno di architettura tra regola e trasgressione, in «Controspazio», 1, gennaio-febbraio 1997, pp. 50-54. 2002 L. Bertolaccini, Luciano Baldessari, padiglioni Breda Milano 1951-1954, in «d’A», 18, settembre 2002, pp. 174-191. 2008 A.C. Cimoli, Luciano Baldessari a Berlino e New York. Materiali dalle collezioni del Casva di Milano, «Incontri in biblioteca», nuova serie 1, Comune di Milano, Milano 2008, pp. 43-47. R. Fabbri, All’infinito e ritorno. Spazi non euclidei fra Luciano Baldessari e Max Bill, in «D’architettura», 36, agosto 2008, pp. 172-175. Z. Mosca (a cura di), Il disegno di Luciano Baldessari 1915-1972, catalogo della mostra, Fondazione Corrente, Milano 1978, pp. 110, 122-123. Moro, Aldo 14 Mosca Baldessari, Zita 57, 202 Rossi, Attilio 22-23, 29, 37, 56-57, 202 Roth, Alfred 201 Ruffo, Titta 200 Rui, Romano 57 Saliva, Ernesto 48, 196-197, 201-202 Scalpelli, Adolfo 55 Scoccimarro, Cesare 20 Scott, Geoffrey 195 Sert, José Luis 202 Sette, Pietro 13-15, 42, 45, 55 Simoni, Vittorio 15 Spilimbergo, Adriano (di) 29, 57 Steiner, Rudolf 189 1979 G. Cagnoni, La funzionalità estetica, in «Casabella», 444, febbraio 1979, p. 5. Cirielli, Tonino 42 Harrison, Wallace K. 35, 37, 57, 202 Ciuti, Enrico 16, 18, 37 Hasek, Jaroslav 9 Niemeyer, Oscar 189, 195 1981 C. De Carli, Luciano Baldessari architetto artista, in «Città e Società», 2, aprile-giugno 1981, pp. 81, 87-88, 90. Comel, Luigi 200 Helg, Franca 56 Nizzoli, Marcello 41, 200 Corinth, Lovis 200 Hepworth, Barbara 189 Noguchi, I. 189 Costa, Remo 200 Herlow, Erik 202 Norsa, Luigi 12 Dal Monte, Giuseppe 10, 29, 55, 197 Hofer, Karl 200 Ojetti, Ugo 189 Huber, Max 15, 20 De Angeli Frua, Carlo 11, 15-16, 200-202 Ozenfant, Amedée 202 Irace, Fulvio 16, 25, 40, 55-57, 201 Pabst, Georg Wilhelm 201 Jacobini, Maria 200 Pagano, Giuseppe 15 Kluge, Magda 200 Pancera, Gastone 57 Kokoschka, Oskar 200 Papadaki, Stamo 202 Kolbe, George 200 Urievic (commercialista e impresario teatrale) 201 Paquet, Alfons 9 Kollowitz, Kähte 200 Valentin-Buchholz, Curt 202 Pea, Cesare 20, 41, 56 Korsmo, Arne 202 Valentinelli, Ennio 200 Pelizza (grafico-illustratore) 15 Krauss, Werner 200 Pella, Giuseppe 13 Van Gogh, Vincent 22, 191-192, 197-198, 202 Laemmle, Carl 201 Pepe, Lorenzo 57, 202 Vanoni, Ezio 14 Landau, Rom 200 Vasari, Giorgio 200 Veronesi, Giulia 55-57, 94, 191, 201 N. Lucarelli, Baldessari contro tutti, in «Casaviva», 95, novembre 1981, pp. 87-88. 1982 G.P. [G. Polin], Un libro su Luciano Baldessari. Il celibato degli schizzi, in «Casabella», 481, giugno 1982, p. 28. De Carlo, Giancarlo 202 De Finetti, Giuseppe 49 1984 G. Dorfles, Architetture ambigue (dal neobarocco al postmoderno), Dedalo, Bari 1984, pp. 76-77. de Fiori, Ernest 200 1988 S. Polano, Mostrare. L’allestimento in Italia dagli anni Venti agli anni Ottanta, Lybra Immagine, Milano 1988, p. 72. De Vita (ingegnere-architetto) 42 De Miranda, Fabrizio 38, 57 Debussy, Claude 25, 34 Del Bon, Angelo 57 Depero, Fortunato 8, 20, 56, 196, 200 Newton, William 195 Dieste, Eladio 38 Lang, Fritz 201 Persico, Edoardo 9, 18, 41, 55, 56, 201 Dix, Otto 200 Lania, Leo 200 Petrovic, Eleonor 202 Petrovic, Milan 202 206 Rognoni (grafico-illustratore) 15 207 Stoppino, Giotto 56 Tavernari, Vittorio 202 Terragni, Giuseppe 200 Terzaghi, Mario 202 Thieben, Carletto 200 Toller, Ernst 200 Tonini, Giovanni 200 Torroja, Edoardo 38 Trotter, Tullio 200 Tucholsky, Kurt 200 Veidt, Conrad 200 Vietti, Luigi 200 Referenze fotografiche Archivio Fotografico Mosca Baldessari pp. 15-18, 24 (al centro e a destra), 27 (in alto), 30, 35 (a destra), 36 (in alto al centro), 44-45, 49 (a sinistra), 50 (in basso), 52, 53 (a sinistra), 58, 65, 70, 87, 91, 98-99, 142-144, 163-165, 191, 193, 197, 200-203. Archivio Marcello Grisotti pp. 24 (a sinistra), 25 (a destra), 29 (a sinistra), 31 (in alto), 35 (a sinistra), 38-39, 40 (a sinistra), 42, 71, 74-79, 81, 83 (in basso), 86 (in basso), 88, 89 (in alto a destra), 90 (in alto e in basso a sinistra), 102-103, 106, 107 (in alto), 108, 112, 113 (in alto), 114-122, 124-133, 148 (prima, seconda e terza in alto; seconda al centro), 149, 151-152, 158-159, 170-171, 172 (in basso), 179, 180 (in basso), 181-184. Archivio storico Breda della Fondazione ISEC – Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea, Sesto San Giovanni pp. 11-13, 29 (a destra), 33, 40 (al centro), 80, 82, 83 (in alto), 84-85, 86 (in alto), 89 (in alto a sinistra), 90 (in alto e in basso a destra), 110-111, 113 (in basso), 123, 148 (prima e terza al centro; prima, seconda e terza in basso), 150, 153, 155-157, 174-176, 177 (a destra), 178 (in alto a destra), 180 (in alto), 186. 208 Archivio storico della Fondazione Fiera di Milano pp. 19-21, 28, 36 (in alto a sinistra), 43, 72-73, 89 (in basso), 104-105, 107 (in basso), 109, 154, 172 (in alto), 173, 177 (a sinistra), 178 (in alto a sinistra e in basso), 185. Ringraziamenti C.A.S.V.A. – Centro di Alti Studi sulle Arti Visive del Comune di Milano, Collezione Baldessari, Milano pp. 14, 41, 46, 49 (a destra), 50 (in alto e al centro), 53 (a destra), 61-64, 66 (in alto), 95-97, 137-141, 166 (in alto), 189-190. Politecnico di Milano, Archivio Luciano Baldessari / foto Robero Mascaroni, Milano pp. 26, 47 (a destra), 48, 51, 54, 66 (in basso), 67-69, 100-101, 145-147, 166 (al centro e in basso), 167-169. L’editore è a disposizione degli aventi diritto per quanto riguarda eventuali fonti iconografiche non individuate. 209 Il primo, più sentito ringraziamento va a Zita Mosca Baldessari; insieme a Ferruccio Crepaldi, mi ha accolto con affetto e amicizia, dandomi l’opportunità di studiare le opere di Luciano Baldessari. Tra una caramella al miele e l’altra, le lunghe chiacchierate con lei sono state foriere di stimoli e fonte di continue riflessioni sul fare del maestro; davvero senza il suo aiuto la compilazione di quest’opera non sarebbe stata possibile. Più che un semplice grazie lo devo poi a Marcello Grisotti: la straordinarietà delle sue fotografie è direttamente proporzionale alla disponibilità con cui ha acconsentito la riproduzione di un prezioso materiale documentario. Per l’Archivio storico Breda tengo a ringraziare Primo Ferrari, Alberto de Cristofari e tutto lo staff della Fondazione Isec di Sesto San Giovanni, che con rara professionalità mi hanno agevolato nel corso della ricerca. Cristina D’Adda responsabile del Fondo Luciano Baldessari conservato presso il C.A.S.V.A. del Comune di Milano è stata una eccellente interlocutrice; senza di lei, sicuramente, non avrei potuto studiare i disegni originali di Baldessari. Con lei ringrazio anche Rina Laguardia, direttrice del C.A.S.V.A., per la cortesia e per aver concesso la riproduzione di importanti disegni. Un doveroso ringraziamento va a Graziella Leyla Ciagà, che oltre a curare con grande competenza l’Archivio Luciano Baldessari conservato presso il Dipartimento Indaco del Politecnico di Milano, è stata sempre pronta alle mie richieste di consultazione. La mia gratitudine va inoltre ad Andrea Lovati, responsabile dell’Archivio storico della Fondazione Fiera di Milano: la sua tempestiva e valida collaborazione è stata impagabile nell’acquisire taluni materiali iconografici di estremo interesse. Ringrazio Paola Pettenella, chief-curator per gli archivi storici, e Carlo Prosser, conservatore, del Mart di Rovereto, dove è conservata una parte dell’archivio di Luciano Baldessari, per aver favorito lo studio dei documenti e della rassegna stampa relativi all’architetto; con loro ringrazio anche Flavia Fossa Margutti, responsabile del settore comunicazione, per l’amicizia e per la disponibilità dimostrate. La mia riconoscenza va inoltre a Tommaso Tofanetti dell’Archivio storico Fondazione La Triennale di Milano, per la gentilezza e per aver facilitato la consultazione dei materiali conservati presso la sua istituzione, e a Ferruccio Luppi della Fondazione Piero Portaluppi, per le segnalazioni ricevute. Insieme a loro, desidero anche ricordare la sollecitudine e la cordialità del personale di tutte le biblioteche del Politecnico di Milano, della Biblioteca comunale Sormani di Milano, della Biblioteca nazionale Braidense di Milano, della Biblioteca civica Carlo Negroni di Novara. Per le interessanti informazioni ringrazio poi l’Impresa di costruzioni ing. Alfonso Morganti s.p.a. e la Tirone Edilizia s.a.s. Un grazie speciale va a Camilla Miglio, a Daniele Sette e a tutta la famiglia Sette, per aver condiviso con me ricordi e memorie familiari. Ringrazio altresì Alberto Bassi per aver dato, all’inizio del lavoro, dritte basilari sul reperimento di alcuni materiali d’archivio. Un caloroso sentimento di gratitudine è rivolto a Fulvio Irace e alle sue illuminanti parole scritte su Luciano Baldessari, e a Claudia Conforti, generosa di indicazioni puntuali e di grande utilità. A Maria Luisa Scalvini devo più che un semplice grazie; attenta e impagabile consigliera è stata, come sempre del resto, insostituibile per le sue pregnanti osservazioni. La mia gratitudine va inoltre a Fabio Mangone, che mi ha sempre appoggiato e sostenuto: i suoi suggerimenti sono stati tutte le volte per me fondamentali. A Francesco Dal Co, infine, va tutta la mia riconoscenza per aver creduto sin dall’inizio nella fattibilità di questo mio progetto e per aver incoraggiato e voluto la pubblicazione del libro. In conclusione, ringrazio quanti in Electa si sono prodigati alla buona riuscita del lavoro: a partire da Gabriella Borsano, Stefania Colonna Preti, Giovanna Crespi, Silvia Gibelli, Alessandro Intra, Laura Maggioni, Virginia Ponciroli, fino a Paolo Tassinari, il cui contributo è stato essenziale per il valore aggiunto della “costruzione” grafica complessiva. Questo libro è nato per Chiara. O meglio. Questo libro fin dal principio è stato pensato per essere dedicato a Chiara. Ma lei non me ne vorrà, anzi – sono sicuro – sarà d’accordo con me, se dedico questo libro anche a quelle bambine del settimo piano dal destino crudele e dalla vita sofferta, e in alcuni casi troppo breve. Correggo dunque la mia dedica: questo libro è per Chiara, ma anche per tutte quelle bellissime bambine. coordinamento editoriale Giovanna Crespi coordinamento redazionale Virginia Ponciroli redazione Laura Maggioni progetto grafico e copertina Tassinari/Vetta impaginazione Francesco Nicoletti (Tassinari/Vetta) coordinamento ricerca iconografica Stefania Colonna-Preti ricerca iconografica Silvia Gibelli Questo volume è stato stampato per conto di Mondadori Electa spa presso lo stabilimento Mondadori Printing spa Verona nell’anno 2008