AI LETTORI
Terra di mezzo, FRONTIERA, luogo della transizione e
della trasformazione fisica e psichica, della tensione e della
possibilità, l'adolescenza è età complessa e a volte sofferta.
Il corpo è quello di un bambino e di un giovane adulto
insieme. La psiche è imbrigliata tra queste due condizioni:
da un lato affronta la perdita dell'infanzia e della sua
libertà; dall'altro sperimenta l'ingresso, contrassegnato
dalla negazione e dal rifiuto, nel mondo delle norme
sociali che premono sulla libertà individuale.
Da un lato il gruppo diventa il luogo della protezione,
del farsi coraggio l'un l'altro, ma anche della sfida e
dello stigma; dall'altro le istituzioni burocratizzate
rappresentano l'insieme dei “tu devi” che daranno
luogo al sentimento della fuga, all'uomo in rivolta.
L'adolescente, senza esserne ancora consapevole, si trova
ad essere “schiacciato tra una oggettività che lo opprime
e una soggettività che lo esilia”1, e in ciò si dischiude una
condizione esistenziale conflittuale che ha contrassegnato
molte pagine della storia individuale e collettiva della
modernità, non solo circoscritta ad un'età anagrafica, nelle
società a capitalismo avanzato.
Tra un'infanzia che precorre
i tempi e anela a trasformarsi in
adolescenza e una vita adulta
che vuole retrocedere ad una
adolescenza inappagata, questa
complicata età di mezzo si trova
suo malgrado ad essere al centro di
opere letterarie, cinematografiche,
progetti d'arte. La sua capacità
seduttiva risucchia le altre età
della vita e invita a vivere una
perenne insoddisfazione, una
perpetua incoscienza e una
volontà di perdersi. La tensione a
rischiare, desiderata con l'ardore
dei vent'anni, è il sintomo di una
abdicazione alla responsabilità del
vivere, percepita anziché come
una sfida come una rinuncia
a quell'inquietudine e a quel
sentimento dell'angoscia necessari
per sentirsi vivi e respingere il
conformismo dei padri.
L'adolescenza è, etimologicamente,
ad-olescere, tendere ad essere
tutto: è ardere, è quel fremito a
cui corrisponde un'età in cui la
forza biologica dell'individuo è al
suo massimo grado e si traduce in
una ribellione alla noia, alla falsità,
ad una vita monodimensionale
così lucidamente analizzata da
Herbert Marcuse ne L'uomo a una
1
ARK 25 / FRONTIERA
2 AI LETTORI
1
dimensione e nel romanzo
La noia di Alberto Moravia.
È una difesa di ciò che non si è
ancora perduto, l'infanzia, e che
non si vuole sia violato dalla viltà.
È pure terrore dell'esposizione
al giudizio dell'altro, è il lek, la
paura del palcoscenico descritta da
Clifford Geertz, a cui si oppone il
tiepido rifugio nel conformismo:
spesso ci si “veste” allo stesso
modo spegnendo gli irripetibili “io
sono” in una somiglianza che rende
gli uni irriconoscibili dagli altri.
Dai soldati ragazzini nati nel
1899, inebriati dalle promesse
di gloria profuse dalle gerarchie
militari, descritti da Francesco M.
Cataluccio nel saggio Immaturità.
La malattia del nostro tempo, al
giovanilismo dei quarantenni di
oggi, l'adolescenza ha attraversato
un secolo di mutazioni sociali che
hanno dilatato la sua ampiezza
anagrafica. Da età compressa
in una manciata d'anni e di
cui sbarazzarsi al più presto,
l'adolescenza si è presa uno spazio
e un tempo sempre più grandi
fino alla consacrazione che, dal
secondo dopoguerra, l'ha posta
al centro di qualunque campagna
pubblicitaria, forgiando un profilo
di consumatore (benché la storia
del consumo degli oggetti ci
riporti almeno al XV secolo) la
cui insoddisfazione - materiale,
affettiva, civile - è il carburante di
una produzione senza fine di feticci
e surrogati consolatori.
Nella rubrica Crossing gli
adolescenti, formidabili censori di
ogni ipocrisia, prendono la parola
ponendoci in ascolto rispetto alle
loro convinzioni e idee di futuro.
In Atlante e ne La città rimossa
intervengono in modo diretto e
tangibile nella trasformazione di
luoghi altrimenti negletti, di cui
rivendicano l'uso. In Fotografia
si misurano con le immagini
fotografiche come oggetti fisici,
fatti di luce, carta, reagenti chimici,
desiderio e attesa.
Di quali strumenti può disporre
l'architettura quando essa è
chiamata a relazionarsi con
l'adolescenza? Tra gli estremi
1 Il giovane Ninetto Davoli nel ruolo
Note
del postino in Teorema, girato nel 1968 da
Pier Paolo Pasolini.
1
della repressione - della volontà
di vivere, del desiderio, del
piacere - e della sua incitazione
fino al parossismo, come nella
città sopraelevata descritta da
Rem Koolhaas in Exodus or the
voluntary prisoners of architecture,
l'architettura è, insieme alle
tecnologie digitali, il più potente
strumento di condizionamento
del nostro corpo nello spazio:
ne determina le possibilità di
movimento e le frontiere, introduce
tabù attraverso la delimitazione di
spazi inaccessibili che nutriranno
tuttavia il desiderio della loro
violazione. Sottostimare il ruolo
educante dell'architettura, il
suo contrapporsi al corpo in
un dispiegarsi di possibilità
e di vincoli, preferendo ad
essa l'intangibilità di mondi
virtuali confina l'individuo alla
solitudine dei sensi e alla perdita
dell'esperienza, dell'imprevisto,
dell'incontro con il mondo.
I progetti individuati da Ark
in questo numero dedicato
al rapporto tra adolescenza e
frontiera oscillano allora tra l'atto
del contenere, del dar forma, del
circoscrivere a quello opposto del
distendere la mano allentando la
presa, fino alla scomparsa dell'idea
di ambiente confinato e alla sua
mutazione in un intorno aperto,
da esplorare e percorrere per
conoscere se stessi. L'esplorazione
di ciò che è sconosciuto fa
insorgere in noi la paura, un
sentimento che ridimensiona le
possibilità di azione dell'individuo
conformato, mentre espande la
libertà dell'adolescente, proiettato
nella ricerca della propria identità.
Così tra le pagine di questo
numero si dispiegano i racconti di
un raffinato collegio urbano che fa
un uso virtuoso del laterizio e del
calcestruzzo a vista (900 Bergamo),
di un rifugio alpino modulato
sulla geometria cristallina di un
minerale (900 lombardo), di aggetti
e sbalzi strutturali che sfidano la
gravità (Enciclopedia del saper
fare), di una piccola rimessa per
le canoe e di un padiglione per il
raccoglimento e l'ascolto del bosco
(Contemporaneo lombardo), di
una dimora solitaria sospesa tra
le querce e i pioppi nel parco del
Ticino (Incontri ravvicinati), di
trincee e torri di avvistamento
progettate da giovani architetti
e ingegneri arruolati nel primo
conflitto mondiale (Land). Tratto
comune a queste architetture è la
ricerca di una sincerità costruttiva,
di una condotta etica, di una
consonanza ambientale priva di
mistificazioni. Nella scultura,
sincera (dal latino sine-, senza,
e cera) è la statua autentica, non
contraffatta, priva della cera che
veniva colata nelle imperfezioni e
coperta di polvere di marmo con
lo scopo di nascondere i difetti
dell'opera.
Ad essere raccontate in Ark sono
architetture che sorgono sulle
Jean-Luc Godard, Due o tre cose
che so di lei, 1967.
3
frontiere, che tracciano limiti, che
desiderano oltrepassarli. I margini
delle città, i confini tra il mondo
civilizzato e quello selvatico
e disabitato sono il terreno di
prova dell'adolescenza, che qui
cerca risposte e anela a misurarsi,
mettendo in atto usi non servili,
preludio a quella disobbedienza
civile formulata da Henry David
Thoreau. Le architetture che
sorgono su una frontiera hanno
una responsabilità grandissima:
circoscrivono lo spazio abitato
dall'uomo civilizzato, ponendo
un argine all'urbanizzazione per
preservare il mistero dell'incolto
e la sacralità della foresta; si
proiettano verso le terre indecise,
che non sono ancora territori, per
coglierne il senso senza violarle
o distruggerle. Sulle frontiere si
è posti nella condizione di non
appartenere a nulla e allo stesso
tempo a tutto, si è il bersaglio e
l'osservatorio insieme, si è l'oggetto
della contesa e il suo moderatore,
talvolta il suo capro espiatorio
(dall'uso degli antichi ebrei di
allontanare un capro nel deserto
dopo averlo caricato delle colpe del
popolo). Le architetture che stanno
su una frontiera portano i segni
di questa ambivalenza, accolgono
i conflitti e ne sono testimoni,
esplicitandoli e lasciandosene così
consumare o mettendoli a tacere,
certo non rammendandoli.
La riflessione su adolescenza e
frontiera non può non rimandare
ai movimenti e ai gruppi
riunitisi attorno alla categoria
dell'Architettura Radicale, che
ebbe la sua fortuna critica durante
gli anni della contestazione
politica del '68, quando l'idea
di poter rovesciare lo stato delle
cose si misurava nelle opere
costruite e non solo immaginate.
L'adolescenza di allora, la sua
attrazione per ciò che era nuovo,
trovava nell'architettura radicale,
nelle sperimentazioni di matrice
technoid, nelle fibre sintetiche, nei
materiali compositi brevettati nel
corso di quegli anni un orizzonte
liberatorio. L'adolescenza di oggi,
con la sua inesauribile tensione alla
verità, attraversa con circospezione
i ritorni all'ordine, gli ambienti
formali e artificiosi che riabilitano
vecchie e nuove liturgie urbane,
terreni comuni solo in apparenza
liberati dai conflitti. L'adolescenza
guarda altrove, intraprende
visionari viaggi iniziatici, alla ricerca
della propria voce interiore, di quel
giardino in cui abitiamo e che James
Hillman chiamava anima, delle
consonanze con la voce di singoli
maestri, di esperienze autentiche,
vissute al prezzo dell'isolamento,
incuranti di un riconoscimento
tardivo e involontario.
L'autorevolezza di un maestro non
va cercata nella fama, nella doxa,
nella reputazione (ciò che gli altri
pensano del suo lavoro). Questo gli
adolescenti lo sanno da sé.
Davide Pagliarini
ARK 25/ FRONTIERA
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01
06
EDITORIALE ANNA CHIARA CIMOLI
SPROPORZIONATA ADOLESCENZA
09
CROSSING INCONTRO CON MANUELA BANDINI E
GLI STUDENTI DEL LICEO F. LUSSANA DI BERGAMO
L'ABITARE PER L'ADOLESCENZA IN 5 PAROLE
14
900 BERGAMO EZIO AGAZZI, ENRICO SESTI, GIORGIO SESTI
GRAVISSIMUM EDUCATIONIS E ARCHITETTURA
23
900 LOMBARDO LEONARDO FIORI
RIFUGIO PIROVANO, PASSO DELLO STELVIO
32
ENCICLOPEDIA DEL SAPER FARE
ARCHITETTURE SOSPESE SUL LIMITE
39
RESTAURO ARS RESTAURI
CONSERVAZIONE È INNOVAZIONE
44
CONTEMPORANEO LOMBARDO
STUDIO MARC, STUDIO ASSOCIATES
AVAMPOSTI DEL SÉ
50
ATLANTE SPAZIO PUBBLICO E
PARTECIPAZIONE GIOVANILE A BERGAMO
I RAGAZZI E LA CITTÀ
58
INCONTRI RAVVICINATI GUGLIELMO MOZZONI
CASA DEL QUAC
66
LAND IL GENIO MILITARE DURANTE LA GRANDE GUERRA
IL PAESAGGIO FERITO
74
FOTOGRAFIA CONSERVATORIO DELLA FOTOGRAFIA
OCCHI CHE VEDONO
83
LA CITTÀ RIMOSSA PIAZZALE G. MARCONI E
PIAZZALE ALPINI A BERGAMO
CORPO, CITTÀ, CONFLITTO
Registrazione Tribunale di Bergamo n. 11 del 03/12/2017 –
Trimestrale - Anno 7 n° 25
90
92
© S.E.S.A.A.B. S.p.a. 2018
Riproduzione Riservata
94
In copertina
Guglielmo Mozzoni, Villa alla Zelata, Bereguardo (Pavia),
9 febbraio 2018 (fotografia di Davide Pagliarini).
AI LETTORI
WUNDERKAMMER
LEMMARIO
NOTE BIOGRAFICHE
ARK 25 / FRONTIERA
1 La copertina di 50 Years Bauhaus.
German Exhibition, Royal Academy
of Arts, Londra, 1968 (biblioteca
di Giotto Stoppino).
6 EDITORIALE
1
SPROPORZIONATA
ADOLESCENZA
Anna Chiara Cimoli
Kontakthof è uno spettacolo tenero
e tremendo di Pina Bausch del
1978. I complessi, le debolezze, i
modi buffi e tristi che inventiamo
per camuffarli vi escono allo
scoperto, diventano i protagonisti.
Trent’anni più tardi, poco prima di
morire, la coreografa lo ha voluto
danzato da ragazzi fra i 14 e i 18
anni. Vederlo è un’esperienza
straniante: le goffaggini, i piedi
lunghissimi rispetto al corpo,
la difficoltà a stare sui tacchi, la
camminata a scatti, il gioco astruso
e ingovernabile del desiderio sono
lì autentici, puri. Non c’è sollievo,
però, non c’è distanza critica nel
guardarlo: in quel “loro” vediamo
noi adulti, diventati solo più abili
a dissimulare le nostre insicurezze.
Rileggiamo noi bambini, e
prefiguriamo noi anziani.
Non ci separiamo, ma forse
ri-capiamo, assorbiamo.
L’adolescenza è un altrove per
eccellenza, nella nostra lettura
corrente: possiamo parlare con
tenerezza della nostra infanzia, ma
pochi sono quelli che ricordano
con allegria quell’età. Per questo
non c’è derisione, non c’è
voyeurismo nella lettura di Pina
Bausch. È quella che Claudio
Magris definisce “la stagione della
teoria, inesorabile e rigida, perché
in essa confluisce tutta l’indicibile e
tesa nostalgia della vita”.
Mi è sempre piaciuto pensarla,
seguendo Magris, come una
stagione di rigidità, contro
un’adultità che richiede invece
di essere flessibili, resilienti,
pazienti. Mi sembra una lettura
anticonformista, visto che nel
discorso comune pare, invece,
prevalere un’idea di mollezza,
di eccessiva adattabilità degli
adolescenti, esseri in formazione
plasmabili e adattabili come
barbapapà.
Si misura il mondo: con il proprio
corpo, prima di tutto. Si misura il
limite: del lecito, del possibile, del
plausibile. Si misura la frontiera:
fra me e gli altri, fra quello che
vorrei essere e quello che sono,
fra quello che mi piace e quello
che posso davvero fare. Per farlo
bisogna essere rigidi come un
metro di legno, altrimenti non
funziona.
Scriveva Ernesto Nathan
Rogers nella piccola, preziosa
mostra alla Triennale del 1951
Architettura, misura dell’uomo
(con Vittorio Gregotti e Giotto
Stoppino): "Questa sala è dedicata
all’architettura, espressione
concreta dell’uomo, sintesi della
sua misura fisica e spirituale.
La misura fisica dell’uomo
determina le dimensioni
necessarie dell’architettura: è
la misura costante dovuta alle
nostre condizioni anatomiche e
fisiologiche. Ma infinite variazioni
subisce la misura necessaria nel
soddisfare le complete attività
dell’uomo e le sue aspirazioni.
Lo spirito creativo, mentre la
interpreta, le conferisce diverse
grandezze. Uomo, architettura,
uomo, ecco il ciclo continuo
dell’origine, dei mezzi e dei fini.
Aggiratevi liberamente per la sala:
i documenti disposti nello spazio
suggeriscono il tema: architettura,
misura dell’uomo. Essi acquistano
pieno significato quando vi inserite
con i vostri sentimenti ed i vostri
pensieri, poiché siete, anche qui, i
protagonisti dell’architettura".
Giotto Stoppino, che anni fa ero
andata a cercare per chiedergli
di questa mostra, mi diceva che
l’allestimento - all’apparenza
misurato, elegante, tanto da
volervi cercare una sezione aurea,
una legge proporzionale - era
governato dall’idea che, citando
Mallarmé, chiamava il “colpo di
dadi”: l’immagine era quella delle
pagine strappate da un libro e
lanciate per aria.
Caos e cosmo si tenevano stretti,
in quella mostra, e Rogers aveva
voluto un ghiaietto per terra in
modo tale che i passi facessero
rumore e ci ricordassero di avere
un corpo: lo stesso che nella
locandina della mostra apriva le
persiane, e la misura delle braccia
e la distanza fra le persiane erano
commisurate, erano armonizzate.
Questo a dire che rigidità e colpo
di dadi possono convivere, e
perfino essere funzionali l’uno
all’altro. Che l’esplorazione della
frontiera giustifica la rigidità,
richiede calzature adatte e vestiti
comodi: da qui le scarpe progettate
dall’artista Judi Werthein per
aiutare i migranti messicani che
oltrepassano il confine con gli Stati
Uniti, al cui interno ci sono una
bussola e degli analgesici. Non è
una metafora appropriata?
Siamo al museo. Adesso, ragazzi,
sdraiatevi per terra, dico io. E loro
ma davvero? Si può fare? Questo
mi fa sorridere, perché fanno cose
ben più fuori luogo. Ma poi il
piacere di stare lì, lo sguardo che
pian piano si dilata, il gusto di
sostare, ed ecco che poi arrivano
le parole, le osservazioni acute,
il contatto con lo spazio e le sue
opere.
Penso sempre alla mostra di
Rogers, Gregotti e Stoppino
quando li vedo lì, sdraiati,
7
adolescenti ad circulum et
ad quadratum. La perfetta
proporzione delle loro braccia che
aprono le persiane e il peso del
loro corpo sul ghiaietto. Quante
frontiere da tenere sotto controllo.
E regole da infrangere, con
intelligenza.
Ripenso anche a una poesia
di Wisława Szymborska,
Un’adolescente, che parla di un
respiro lungo che a un certo punto
ri-comprende anche l’adolescenza,
la addomestica, la rende funzionale.
Ecco l’adolescente che la poetessa
incontra: una diversa se stessa.
La riconosce
[...] solo quando sparisce
e nella fretta dimentica la sciarpa
- Una sciarpa di pura lana,
a righe colorate,
che nostra madre
ha fatto per lei all’uncinetto.
La conservo ancora.
ARK 25 / FRONTIERA
Liceo F. Lussana,
Bergamo, 2018
(fotografia di
Andrea Fabbri).
L’ABITARE PER
L’ADOLESCENZA
IN 5 PAROLE
Incontro con gli studenti
della classe IV B del Liceo Scientifico
F. Lussana di Bergamo e con Manuela Bandini,
architetto e docente.
A cura di Maria Claudia Peretti
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Gli adolescenti che vivono a
Bergamo, compresi nella fascia tra
i 15 e i 19 anni, sono 5.702, 2.990
maschi e 2.712 femmine. Sul totale
della popolazione che ammonta a
120.518 abitanti, rappresentano il
4,73%.
Allargando lo sguardo alla fascia
d’età immediatamente precedente,
quella compresa tra i 10 e i 14
anni, il numero diminuisce a 5.422
(2.792 maschi e 2.630 femmine),
mentre nella fascia immediatamente
successiva, tra i 20 e i 24 anni, il
numero aumenta fino a 5.825, 2.994
maschi e 2.831 femmine: il fenomeno
dell’invecchiamento sociale viene
ben reso dalla forma grafica della
‘piramide d’età’ che, contraddicendo
il suo stesso nome, tende più ad
assomigliare a un fungo, con uno
stelo via via sempre più esile sul
quale si appoggia un cappello via via
sempre più pesante.
CROSSING / 9
ARK 25 / FRONTIERA
10 / CROSSING
È lo stelo su cui fondiamo il futuro
del nostro sistema sociale, della sua
organizzazione, del suo modello di
sviluppo e di welfare, delle sue regole
e valori. Della città e della sua forma.
In questo numero di Ark, Crossing
si sposta nella classe IV B del Liceo
Scientifico Lussana di Bergamo
per mettersi all’ascolto delle voci
di un gruppo di studenti raccolte e
commentate da Manuela Bandini,
architetto e loro docente di storia
dell’arte: è un breve viaggio
attraverso i frammenti dei pensieri
elaborati e scritti da questo gruppo
di adolescenti attorno a 5 parole
chiave proposte da Manuela - città,
casa, strada, architettura, progetto.
Ne esce un quadro composito e
denso, che incuriosisce e fa riflettere.
Maria Claudia Peretti
È la fotografia di un’adolescenza
sentimentale e poetica, consapevole
e disincantata, ma non visionaria, né
rivoluzionaria, comunque alla ricerca
di sicurezza, quella rivelata dalle
riflessioni di una classe di liceali
sui temi dell’abitare
Se in prima battuta molti ragazzi
hanno associato ai concetti di ‘città’,
‘casa’ e ‘strada’ la definizione
trovata nel dizionario scientifico,
dato acquisito e garanzia di certezza,
nel corso del confronto è emerso il
grande valore emozionale evocato
dai concetti proposti. Non diversa,
anche se più riferita in termini
disciplinari, è stata la reazione ai
termini ‘architettura’ e ‘progetto’.
Non è comunque ‘questa città’,
non la ‘loro’ casa, non la strada che
percorrono ogni mattina per andare
a scuola ad esercitare un qualsivoglia
potere su di loro: è ciò che essi
provano - attaccamento,
protezione, perplessità, distacco,
fastidio - a dare senso e valore a
quegli spazi. È al più ampio senso
11
del vivere che questi adolescenti
associano l’idea di abitare.
Manuela Bandini
CASA
La casa, prima di essere spazio fisico,
luogo in cui rappresentarsi e da
immaginare, è soprattutto famiglia,
affettività, per molti ancora “nido”;
è ricordo, memoria e storia, oltre che
un tempo presente avvertito nella sua
instabilità e un futuro affidato alla
connessione globale del web. (MB)
La casa è molto importante nella
vita di tutti noi, è un ambiente in
cui cresciamo ed è il nostro rifugio,
dove possiamo stare al sicuro. Inoltre
casa può anche assumere il significato
di famiglia, poiché è proprio lì che
sviluppiamo le nostre relazioni più
strette e personali. Volodymyr
La casa rappresenta un luogo sicuro,
una certezza. Ma è ancora così in
una società sempre più “nomade”?
Per nomade intendo obbligata dalla
situazione economica a cambiare
spesso luogo abitativo, rompendo
il rapporto di reciproca identità
che le persone costruiscono con le
proprie abitazioni. Esiste ancora il
concetto di “casa ideale” o ci basta
semplicemente avere un tetto?
La casa ha perso il suo valore di
“nido”. Nido nell’accezione non solo
di luogo protetto e protettivo, ma
anche di differente ed espressivo del
suo inquilino - così come gli uccelli
creano specifiche forme o utilizzano
particolari materiali -. Ma la vera
domanda è se un concetto di casa
come quello avuto finora sia ancora
pertinente al nostro modo ‘precario’
di vivere. In un futuro sarà possibile
che il mondo intero si riduca ad
essere un enorme ‘bed&breakfast’.
NON È COMUNQUE
‘QUESTA CITTÀ’, NON
LA ‘LORO’ CASA,
NON LA STRADA
CHE PERCORRONO
OGNI MATTINA PER
ANDARE A SCUOLA
AD ESERCITARE
UN QUALSIVOGLIA
POTERE SU DI
LORO: È CIÒ CHE
ESSI PROVANO ATTACCAMENTO,
PROTEZIONE,
PERPLESSITÀ,
DISTACCO, FASTIDIO
- A DARE SENSO E
VALORE A QUEGLI
SPAZI. È AL PIÙ
AMPIO SENSO DEL
VIVERE CHE QUESTI
ADOLESCENTI
ASSOCIANO L’IDEA DI
ABITARE.
E se le città diventassero ovunque
come le attuali periferie, dormitori
spersonalizzanti, agglomerati
privi di centro, organizzazione e
anima? Marta
Se mi chiedessero cosa non può
mancare a casa mia, direi la
connessione internet. È il modo per
essere connessa con il mondo, il modo
di poter essere da un’altra parte,
quando in realtà sono sempre nello
stesso posto. Tuttavia, vorrei una casa
che sia connessa ad uno spazio verde;
una casa che abbia grandi finestre,
per sentirsi meno chiusi, in un mondo
dove vogliamo sempre essere da
un’altra parte. Oumaima
CITTÀ
La città è uno scenario di
molteplicità e differenze, da
molti analizzata con lucida
consapevolezza, da alcuni percepita
con distacco e disincanto, di cui si
coglie maggiormente l’implicazione
emozionale e critica rispetto agli
effetti che la forma e la qualità degli
spazi possono produrre. (MB)
La città ai miei occhi rappresenta
un insieme infinito di possibilità,
(...) la città è l’insieme aperto di
molteplici opportunità. Opportunità
di cambiare, opportunità di
migliorare, opportunità di diventare
cittadini più consapevoli. Anna
La città è il cuore pulsante della
società, è il luogo in cui si concentrano
le attività e le funzioni vitali di essa.
La città è lo scenario di quel groviglio
di vite e di storie che ogni giorno la
attraversano, ma è anche identità, è
dove possiamo respirare l’odore del
passato, delle tradizioni, ed essere al
contempo testimoni di una continua
innovazione. Alessio
In questo mondo così grande,
vorrei una città che dia le stesse
opportunità a tutti. Una città dove
ognuno possa coltivare le proprie
passioni, dove bambini, adolescenti,
adulti, e anziani trovino ciò di
cui hanno bisogno. Un luogo che
rispecchi la cultura e le tradizioni del
paese, ma che accolga anche quelle
nuove. Oumaima
Città come insieme di edifici, come
insieme non circoscritto di persone.
Alcuni vanno, altri vengono. Come
un bambino, la città si allunga,
si alza, si allarga. Spuntano case,
farmacie, scuole, ospedali, teatri,
supermercati, negozi, biblioteche.
La città è costretta a crescere,
per questo si trova in costante
mutamento. Città è movimento.
È la corsa dei pendolari al lavoro,
dei ragazzi che vanno a scuola, dei
treni sulle rotaie, delle serrande grigie
sulle vetrine dei negozi. Città è una
scatola. Un grande contenitore di
culture, di differenze, di case, luoghi,
strade, arte, musica. Città è una
storia che attraversa anni, secoli,
millenni. Città è una famiglia dove
ci sono bimbi, adolescenti, adulti
ed anziani. Dove nascono grandi
palestre e muoiono prati, dove
giovani muri si tatuano di murales,
dove invecchiano i teatri e crescono
imponenti cinema multisala. Federica
STRADA
E della strada il significato più
avvertito è ancora quello affettivo e
persino lirico, anche se non mancano
accenti consapevoli ai temi più
laceranti del nostro tempo. (MB)
le mani di un vasaio. Abbracciano la
terra, la vestono. Che siano in salita
o in discesa, lunghe o brevi, rettilinee
o intricate, nascono per unire.
Nascono per collegare. Alcune sono
vecchie, altre nuove. Alcune sono
attraversate da piedi, altre da ruote.
Ci accompagnano lontano, ma poi ci
riportano a casa. Federica
Una strada è in grado di unire
una città ad un'altra, e gli uomini
ad altri uomini. Con l’inizio delle
grandi migrazioni dell’uomo, ha
preso inizio la costruzione di strade.
Oggi, il concetto di strada è diverso
da quello che si aveva in passato:
dal sentiero che gli uomini facevano
semplicemente camminando si è
arrivati alle grandi autostrade.
Ma ancora oggi, la strada può
rappresentare la libertà. Nicolò
Le strade del futuro sono
collegamenti in cui ogni individuo
rappresenta una meta capace di
condividere un sapere capace di
arricchire e creare una cultura meno
orientata all’individualismo e più
verso la globalità. Davide
ARCHITETTURA E PROGETTO
La strada può anche simboleggiare la
vita, in quanto ogni momento vissuto
e ogni esperienza, positiva o negativa,
è un passo avanti, un insegnamento
in più che contribuisce a formare
ciascuno di noi, rendendolo unico e
diverso ogni giorno che passa. Eva
Penso sia difficile chiedersi cosa sia in
realtà una strada, definirla. Le strade
che siamo abituati a percorrere spesso
stanno nel rimorchio di un camion
sotto forma di denso liquido nero,
come un bimbo nella pancia di sua
madre. Nascono dalle braccia degli
uomini, modellate come l’argilla tra
Le ultime due parole proposte
sono state architettura e progetto:
se l’architettura è stata per lo più
ricollocata tra l’apprendimento
scolastico e il vissuto turistico, tra
oggetto di conoscenza e valore
estetico, il concetto di progetto è
stato colto nei suoi significati ampi
ed estesi, con chiare implicazioni
esistenziali. Affermazioni e
sensazioni hanno lasciato il posto
ad interrogativi: domande di ragazzi
nati nel 2000 che rischiano di essere
disattese da un mondo adulto sempre
più connesso, ma distante; domande
12 / CROSSING
che possono mettere in crisi
toccando con intuito e sensibilità
alcuni dei temi sempre attuali del
dibattito sul valore dell’architettura e
delle sue pratiche. (MB)
Solitamente associamo al termine
progetto concetti come proporzioni,
equilibrio, stabilità e durevolezza.
Città come Roma, Firenze e Venezia,
con le loro architetture classiche
e/o rinascimentali, ci evocano
tradizionalmente la bellezza con
i suoi canoni armonici. Eppure, a
pochi chilometri da edifici come il
Foro romano o la Basilica di San
Marco, troviamo palazzi decisamente
meno affascinanti, sedi di uffici o di
abitazioni, che ignoriamo. A volte
sono edifici fatiscenti. Nel mondo,
esistono posti come le favelas, con
case di lamiera: anche questa è
architettura? Francesca
L’architettura è la maggior parte di
ciò che ci circonda. È innanzitutto
la nostra casa, il primo spazio con
cui entriamo a contatto. È il primo
aspetto che cerco in una città, e
quello che più ricordo. Ciò che
affascina, rendendola unica e grande.
L’architettura ha riempito lo spazio
che l’uomo ha fatto suo, con l’intento
di essere ricordato. Oggi però
l’uomo fa architettura più per essere
ricordato o per necessità? Oumaima
Penso all’architettura come ad un
lavoro che non sarà mai il mio, ma
penso anche che senza gli architetti
non ci sarebbero case né città.
Architettura mi ricorda impegno,
precisione e dedizione, qualcosa che
non è per tutti. Ci sono persone che
ce l’hanno nel sangue, che dietro ad
ogni costruzione vedono il progetto,
che dietro al Pantheon vedono
la perfezione, che ammirano la
prospettiva, che si innervosiscono per
un quadro appeso storto.
Architettura è precisione e libertà.
Benedetta
Un progetto è un’idea, un guizzo
della mente. È un confronto tra chi
lo immagina e chi lo riceve,
per realizzarlo o trasmetterlo.
Un progetto prevede attenzione, è
entrare in punta di piedi in qualcosa
che c’è già, che non deve essere
sconvolto o rovinato. Francesco
Progetto come insieme di quelle
infinite idee che sorgono nella mente
umana e vengono poi assemblate
e scelte nel modo migliore per
creare e portare alla vera e propria
realizzazione di un elemento. Spesso
si traducono per iscritto, con un
disegno che riproduce quella che poi
sarà effettivamente la realtà.
Quelli più importanti però non
trovano posto su un foglio, perché
basta tenerli nella mente e nel cuore:
sono i progetti di vita, quelli che ogni
uomo possiede e a cui, con il passare
del tempo, egli cerca di attribuire una
propria forma, soprattutto grazie alla
dedizione, alla passione a al sacrificio
che ci mette. Solo in questo modo
infatti ogni progetto può diventare
realtà. Ma se non avessimo progetti,
che cosa ne faremmo della nostra
vita? Giulia
Il progetto può essere architettonico,
di vita, lavorativo, scolastico. Tutti
i tipi di progetto girano tuttavia
intorno al più importante: il progetto
di vita, che li comprende tutti.
Se penso alla parola progetto mi viene
in mente il disegno, che sta alla base
non solo del progetto architettonico,
ma di qualsiasi tipo di progetto.
È possibile fare un progetto senza un
disegno? Sofia
L’ARCHITETTURA HA
RIEMPITO LO SPAZIO
CHE L’UOMO HA
FATTO SUO, CON
L’INTENTO DI ESSERE
RICORDATO. OGGI
PERÒ L’UOMO FA
ARCHITETTURA
PIÙ PER ESSERE
RICORDATO O PER
NECESSITÀ?
PUBBLICITÀ
Gli studenti della classe IV B, sezione Esabac,
del Liceo Scientifico F. Lussana Eva Agazzi,
Francesca Bettinelli, Davide Bronco, Giulia
Caprioli, Volodymyr Ciocca Makidon, Anna De
Amici, Alessio Dogadi Bratti, Nicolò Gambarini,
Oumaima Kamrzamane, Benedetta Marossi,
Sofia Milesi, Marta Naldi, Francesco Perini,
Federica Vitali.
ARK 25 / FRONTIERA
14 / 900 BERGAMO
Collegio S. Alessandro,
vista del fronte lungo
via Garibaldi.
15
GRAVISSIMUM
EDUCATIONIS
E ARCHITETTURA.
VENUSTAS DEL
COLLEGIO
S. ALESSANDRO
DI BERGAMO
1
Ezio Agazzi, Enrico Sesti, Giorgio Sesti,
Collegio S. Alessandro, Bergamo, 1968-1973
Testo di Stefano A. Poli
Fotografie a colori di Davide Pagliarini
Documenti d'archivio di Studio Sesti - Studio Agazzi
Immaginatevi adolescenti, nella
penombra di una sala teatrale gremita
da cinquecento ragazzi.
Immaginate il brusio e l’eccitazione
di una giornata speciale, trascorsa
lontano dalle aule. Infine,
immaginate il silenzio calare con
l’oscurità e all’improvviso la voce di
un attore, incredibilmente potente,
vi stupisce e vi inchioda alla sedia.
Potenza del teatro.
Trascorsi oltre trenta anni, questo
ricordo riaffiora nitido accanto alla
memoria più vaga, eppure tangibile,
ARK 25 / FRONTIERA
16 / 900 BERGAMO
di uno spazio architettonico
confortevole ma severo, ampio ma
dall’acustica eccellente. Correvano
gli anni ’80 e l’auditorium del
collegio S. Alessandro di Bergamo
spalancava le porte agli allievi
delle scuole medie della provincia.
Potenza del teatro, ma anche
pregio di un’educazione scolastica
che lo aveva incorporato nei piani
didattici, e venustas di una singolare
architettura, adeguata al ruolo
dell’istituto privato, ma accessibile
alla comunità2.
Erano infatti trascorsi poco
più di dieci anni dalla radicale
riforma edilizia del collegio, che
in quell’occasione aveva ampliato
e rinnovato l’offerta didattica,
sottolineando anche nella veste
architettonica il proprio ruolo
culturale di riferimento e di apertura
verso la città.
Un breve opuscolo, probabilmente
dato alle stampe nel 1973, anno di
inaugurazione del nuovo complesso,
associava il rinnovamento edilizio
alla riforma dei contenuti educativi
e formativi: “Il collegio approfitta
del nuovo abito per rinnovarsi
ed aggiornarsi anche dentro”3.
I riferimenti alla Gravissimum
Educationis, la dichiarazione
sull’educazione cristiana del
Concilio Vaticano II, licenziata
nell’ottobre 1965, ricorrevano nella
Il complesso prima
del rifacimento e la
sovrapposizione fra i
volumi storici e i nuovi.
breve introduzione di Tarcisio
Fornoni, vice presidente della
commissione di studio per la
ricostruzione del collegio, nominata
dall’arcivescovo Clemente Gaddi il
13 settembre 1967, poche settimane
prima che fosse inaugurato il nuovo
seminario sul colle di S. Giovanni.
La commissione, aderendo al
clima di apertura del Concilio,
poneva il concetto di comunità
alla base dell’organizzazione
edilizia e didattica di un “ambiente
comunitario scolastico permeato
di libertà e carità”, volto alla
conciliazione tra cultura umana e
messaggio evangelico: “Il nuovo
collegio favorirà la maturazione di
creature libere e responsabili […]
attraverso educatori aperti al dialogo,
in un clima di serena collaborazione
con le famiglie [e grazie a] insegnanti
esperti nell’arte pedagogica,
aggiornata con le scoperte del
progresso contemporaneo […].”
Al di là del tono pacatamente
propagandistico dell’opuscolo,
che terminava con una cedola per
sottoscrizione aperta alla generosità
di eventuali finanziatori, quali
furono i protagonisti del programma
edilizio e della costruzione?
La commissione, diretta emanazione
della curia arcivescovile, era
presieduta dall’avvocato Lorenzo
Suardi, presidente della Banca
17
Popolare di Bergamo e già a
capo della commissione per la
ricostruzione del seminario,
nominata nel 1961 dopo la grave
battuta di arresto subita dal cantiere4.
Costituita da undici membri,
tra i quali il rettore e preside del
collegio, monsignor Paolo Carrara,
don Giuseppe Bellini, insegnante
e vice preside, don Erminio Brasi,
amministratore, ex alunni ed ex
insegnanti, il 6 febbraio 1968 la
commissione del collegio incaricò
dell’esecuzione del progetto gli
architetti Enrico Sesti, il figlio
Giorgio Sesti ed Ezio Agazzi,
disegnatore di comprovata abilità
progettuale che, seppur privo di
titolo accademico, si era distinto per
Planivolumetrico del
complesso edilizio
(sotto). Prospetti lungo
via Garibaldi e lungo
la via privata di accesso
alle scuole, versione
preliminare, disegno di
E. Agazzi, E. Sesti, G.
Sesti (a destra).
aver condotto a termine il progetto e
i complessi lavori del seminario.
Per comprendere la scelta della curia
occorre ricordare che l’accidentato
progetto del seminario, affidato in
primis a Giovanni Muzio e poi a un
consesso di noti architetti tra cui Vito
Sonzogni e Pino Pizzigoni, conobbe
numerose battute d’arresto e
revisioni, schiacciato da opposizioni
disciplinari e politiche dilagate in
un acceso dibattito nazionale. I
NEGLI SPAZI
INTERSTIZIALI
FRA I DUE CORPI
IN ELEVAZIONE
I PROGETTISTI
COLLOCANO
SPAZI ALL’APERTO
E SEMI IPOGEI
CHE ALLOGANO
LA CHIESA E
L’AUDITORIUM E CHE
CORRISPONDONO
A UNA PIASTRA DAL
COMPATTO E BASSO
FRONTE URBANO.
lavori ebbero inizio sulla base del
secondo progetto di Muzio, che con
riluttanza aveva adottato un nuovo
impianto funzionale e volumetrico,
disegnato nel marzo 1960 proprio
da Ezio Agazzi su incarico di don
Labindo Serughetti, il volitivo
economo del seminario. In seguito
a ulteriori gravi difficoltà, segnate
dalle dimissioni di Muzio e degli
altri architetti, nel 1963 Serughetti
si rivolse di nuovo ad Agazzi,
invitandolo ad installare il proprio
studio nei locali del seminario
per dedicarsi esclusivamente alla
progettazione esecutiva e alla
costruzione del secondo lotto,
insieme al direttore dei lavori Enrico
Sesti. Nei quattro anni seguenti i
due portarono a termine i lavori,
affiancati dall’ingegnere Angelo
Cortesi, giovane collaboratore di
Agazzi5.
Erano trascorsi quindi poco più
di tre mesi dalla inaugurazione del
nuovo seminario quando, all’inizio
del 1968, i Sesti e Agazzi fondavano
lo studio professionale P68, il
cui logo campeggia sulle tavole
conservate negli archivi6.
Rilevando una situazione di
estrema carenza e inadeguatezza
delle antiche strutture e dopo
una fase di analisi e confronto, la
commissione aveva scartato l’ipotesi
di spostare in una zona decentrata
il collegio, decidendo di mantenerne
la sede nel lotto contermine
all’antica via S. Alessandro, presso
l’omonimo Borgo, a costo di
sacrificare buona parte degli edifici
sette-ottocenteschi7. La decisione
era giustificata da “motivi di ordine
urbanistico, storico ambientale,
affettivo” ed appare chiaro l’intento
di potenziare la presenza del collegio,
tradizionalmente rivolto alle élites
urbane, al centro del tessuto
storico della città8.
L’imponente programma funzionale
richiedeva di allogare nei nuovi
fabbricati un liceo classico, un
liceo scientifico, un liceo tecnico
e le medie inferiori. Una chiesa
da trecento posti, una biblioteca
e un auditorium da cinquecento
completavano le dotazioni,
condivise con un convitto maschile
per duecentoventicinque persone,
alloggiate in circa novanta camere
singole e in due dormitori. Il
convitto sarebbe stato a sua volta
fornito di aule studio e spazi per
la ricreazione, mentre un’area
autonoma avrebbe ospitato i locali
dell’amministrazione, del rettorato,
gli appartamenti per i superiori e i
professori, oltre che gli alloggi per
le suore e il personale di servizio.
Infine alcuni locali destinati alla
FUCI, un centro culturale intitolato
ad Adriano Bernareggi, dotato
di piccolo auditorium, oltre a un
piccolo centro giovanile, avrebbero
completato l’articolato abaco delle
destinazioni. Per ogni scuola fu
definito l’esatto numero di aule
nonché la quantità di uffici e servizi
necessari, tra i quali una palestra e
due sale per educazione fisica.
Infine i refettori avrebbero servito
oltre trecento coperti, essendo
destinati anche agli esterni.
La necessità di dividere nettamente
la scuola dal convitto detta la
configurazione volumetrica del
complesso. Negli spazi interstiziali
fra i due corpi in elevazione i
progettisti collocano spazi all’aperto
e semi ipogei che allogano la chiesa
e l’auditorium e che corrispondono
a una piastra dal compatto e basso
fronte urbano, adagiato lungo il
tratto iniziale di via Garibaldi.
Sulla copertura della chiesa insiste
una piazza interna sopraelevata,
destinata allo sport, fiancheggiata
dal rilevato del convitto a ovest e
ARK 25 / FRONTIERA
Sezione generale parallela alla via
Garibaldi (in alto a destra). Facciata del
fronte ovest delle scuole, ripresa dalla piazza
interna sopraelevata (in basso a sinistra).
IL CORPO DELLA
PIASTRA, AFFACCIATO
A SUD, FUNGE SIA
FUNZIONALMENTE
CHE VISIVAMENTE
DA COLLEGAMENTO
FRA LA SCUOLA E IL
CONVITTO, ENTRAMBI
SVETTANTI PER SEI
PIANI FUORI TERRA,
MA SENSIBILMENTE
ARRETRATI E
INCUNEATI IN
PROFONDITÀ VERSO
IL COLLE.
dall’edificio scolastico a est. L’intero
fabbricato è realizzato con strutture
portanti in calcestruzzo armato,
parzialmente lasciate a vista, mentre
le partizioni verticali esterne sono
rivestite in mattoni bruni prodotti
dalla Pica di Pesaro. Lo stesso
materiale, in una tonalità più chiara,
è utilizzato per le pareti interne,
mentre i pavimenti sono interamente
rivestiti da diverse pezzature di
mattonelle appositamente prodotte
dalla Società del Grès dell’ingegner
Sala di Sorisole (Bergamo).
I serramenti in metallo, tra i primi ad
adottare la tecnica della verniciatura
preventiva in fabbrica, sono realizzati
dalla ditta Secco di Treviso.
Il corpo della piastra, affacciato a
sud, funge sia funzionalmente che
visivamente da collegamento fra
la scuola e il convitto, entrambi
svettanti per sei piani fuori terra, ma
sensibilmente arretrati e incuneati in
profondità verso il colle.
La scelta asseconda il compatto
fronte preesistente della via, e si
avvale del virtuosismo costruttivo
di una grande trave a sbalzo che
solleva la facciata orizzontale sopra
un lungo porticato a negozi. Proprio
Studio delle
piante delle camere
del convitto con
esempio di arredo.
Stefano Poli
18 / 900 BERGAMO
Planimetria generale alla
quota di ingresso alle scuole
e piante dei livelli superiori
del convitto (a sinistra) e delle
scuole (a destra).
19
all’ombra dell’accogliente porticato
si aprono gli ingressi dell’auditorium,
accessibile contemporaneamente
dalla città e dagli utenti interni grazie
a un doppio foyer intercomunicante.
Lungo via Garibaldi, il principio
musicale del contrappunto sembra
giustificare il contrasto con
l’improvviso esplodere verticale
del blocco angolare a est, che
sfaccettandosi nell’alternanza
chiaroscurata di piccoli volumi
sincopati e di materiali diversi,
è coperto dalla grande vela aggettante
del tetto poligonale. Sobrietà e
robustezza da un lato, ritmo e
varietà dall’altro, cedono al delicato
compiacimento formale della gronda,
che riprende in diagonale il vertice
della copertura e invita il visitatore
a rivolgere lo sguardo verso la via
privata e la scalinata di accesso alle
scuole.
La chiesa, collocata al centro
dell’impianto, assume nella forma
sinuosa e organica della pianta un
aspetto affatto diverso rispetto ai
profili ora massicci, ora aguzzi
degli altri episodi architettonici.
Il valore simbolico delle forme
curvilinee della chiesa, sorta di cuore
pulsante dell’intero organismo
edilizio, ma anche snodo dei
percorsi di collegamento interno
dell’insediamento, è sottolineato
dalla luce naturale, che penetra
nell’invaso ipogeo calando
esclusivamente da due lucernai
nascosti al di sopra della cappella
battesimale e dell’altare. All’esterno,
l’unico segno tangibile della presenza
della chiesa, è la scultorea torre
troncoconica in cemento armato
posta sul fondo della soprastante
piazza aperta, in corrispondenza del
presbiterio. I rilievi astratti impressi
ARK 25 / FRONTIERA
20 / 900 BERGAMO
21
Dettagli della facciata su via Garibaldi.
Stefano Poli
Sezioni trasversali
della chiesa con il
prospetto del convitto
rivolto alla piazza
sopraelevata.
Il lampadario sonoro
dell'atrio delle scuole (Ezio
Agazzi) e il tondo bronzeo
raffigurante Cristo (Lucio
Agazzi).
Stefano Poli
Note
dai casseri nel calcestruzzo della
torre e le opere d’arte sacra
collocate all’interno della chiesa il tabernacolo decorato con rilievi
fusi in bronzo, un tondo in bronzo
con il bassorilievo del Cristo e una
maternità in cemento - sono opera
di Lucio Agazzi, allora giovane
studente di architettura.
I calcoli dei calcestruzzi armati
sono dovuti all’ingegner Vittorio
Dell’Acqua e accanto alla trave
a sbalzo della facciata principale,
numerose altre soluzioni di raffinato
disegno assumono una valenza
espressiva oltre che strutturale.
In particolare il grande atrio che
distribuisce le aule delle scuole,
aperto da un invaso centrale a doppia
altezza e illuminato da un fantasioso
lampadario sonoro disegnato da
Agazzi, è retto da una doppia coppia
di travi-parete parallele, che si
ripetono ai diversi piani liberando
dai pilastri verticali l’area centrale
della pianta.
Planimetria della
chiesa ipogea.
Particolare cura è riservata dai
progettisti alla qualità esecutiva,
affidata all’impresa di Felice
Cattaneo, e agli arredi, ai quali è
dedicata una sezione dell’opuscolo.
In particolare i banchi per gli alunni e
le robustissime sedie furono adottate
per arredare le aule del seminario
arcivescovile e reimpiegate, senza
modifiche, per l’arredo del collegio.
La sedia degli alunni è realizzata con
una scocca ergonomica in speciale
multistrato di legno fortemente
pressato e curvato, prodotto dalla
ditta tedesca Pagholz, rivettato su un
castello di base in fusione di ghisa
nel quale sono incastrate le quattro
gambe in tubolare di acciaio inox.
La pressoché perfetta conservazione
di questi arredi, che dopo cinquanta
anni continuano a svolgere la
propria funzione originaria, stupisce
il visitatore degli spazi scolastici,
tutt’oggi immutati nei volumi,
nei serramenti e nelle finiture
superficiali.
Il legame fra la ricostruzione
del seminario arcivescovile e il
rifacimento del collegio
S. Alessandro appare ben più
stretto di quanto suggeriscano le
geografie umane dei protagonisti.
Infatti, pur con le dovute differenze
di scala e complessità, risulta evidente
l’affinità fra i due impianti funzionali
e volumetrici, entrambi assimilabili
a una cittadella caratterizzata da
blocchi distinti emergenti da uno
zoccolo parzialmente ipogeo, dove
alcuni vitali spazi collettivi sono
allogati in posizione baricentrica.
I due fabbricati riecheggiano
peraltro soluzioni simili, adottate
in precedenza da Ezio Agazzi nel
progetto di complessi scolastici e
religiosi. A differenza del seminario,
nel collegio lo zoccolo della piastra
è permeabile e rivolto alla città,
inverando il proposito che la
commissione auspicava nell’opuscolo
del 1973.
1
2
3
4
5
6
7
8
Questo articolo è la prima, provvisoria
tappa di una ricerca ancora in corso.
Desidero ringraziare per il sostegno offerto
a diverso titolo: gli architetti Lucio e Nicola
Agazzi, Giorgio Sesti e Michela Bassanelli;
don Luciano Manenti, rettore delle scuole
dell’opera S. Alessandro; il preside e il
personale delle scuole e in particolare il prof.
Massimo Castellozzi; il geometra Nicoli
dell’ufficio tecnico; il bibliotecario Sig.
Eugenio Donadoni; Davide Pagliarini, per
avermi proposto di affrontare lo studio di
questo progetto.
Un teatro era già presente negli antichi locali
del collegio, risalenti al XVIII e XIX secolo.
Il nuovo S. Alessandro, s.e., s.l., s.d. [1973],
s.p.
A. Bellini, Il colle di S. Giovanni. Le vicende
della ricostruzione, SESAAB, Bergamo,
1996, pp. 106-107.
Il seminario sarà inaugurato nel novembre
1967. Cfr, P. Frattini, R. Ravanelli, Il
Novecento a Bergamo. Cronache di un
secolo, Utet, Torino 2013; A. Bellini, Il
colle di S. Giovanni. Le vicende della
ricostruzione, SESAAB, Bergamo, 1996, pp.
82-85; 94-95; 210-213.
La serie completa di oltre settanta tavole su
carta da lucido è conservata presso l’archivio
dell’architetto Giorgio Sesti a Bergamo.
Sarà infatti mantenuto il corpo di fabbrica
lungo l’antica via S. Alessandro, salvando la
facciata neoclassica disegnata da Giacomo
Bianconi. Cfr. G. Labaa, Il collegio vescovile
S. Alessandro, in “La Rivista di Bergamo”,
maggio 1978, pp. 3-4.
Il nuovo S. Alessandro, s.e., s.l., s.d. [1973],
s.p.
ARK 25 / FRONTIERA
LEONARDO FIORI
PUBBLICITÀ
Il rifugio Pirovano
in costruzione:
prefabbricazione e
assemblaggio in quota.
900 LOMBARDO / 23
NON
COSTRUIRE
PITTORESCO.
LASCIA QUESTO
EFFETTO AI MURI,
AI MONTI E AL
SOLE
1
Leonardo Fiori con Claudio Conte, rifugio Pirovano,
Passo dello Stelvio (Sondrio), 1964-66
Testo di Francesca Acerboni
Ugo Allegri
COSTRUIRE SULLE ALPI.
DALL’IDEALE ROMANTICO
ALPINO AL TURISMO DI
MONTAGNA DEL NOVECENTO.
La scoperta delle Alpi, la loro
invenzione culturale, è storia
relativamente recente: fino alla metà
del Settecento, l’arco alpino è una
zona bianca, ignota e misteriosa sulle
carte europee.2 Sono poi scienziati,
geografi, naturalisti, scrittori e pittori
ARK 25 / FRONTIERA
24 / 900 LOMBARDO
25
Cartoline d’epoca.
"NON PENSARE AL
TETTO, MA ALLA
PIOGGIA E ALLA
NEVE. LA NATURA
SOPPORTA1 SOLTANTO
LA VERITÀ”.
a scoprire, studiare e documentare le
montagne. Non gli architetti.
L’estetica romantica e la poetica del
sublime - sintetizzata nel dipinto di
Caspar David Friedrich Il Viandante
sul mare di nebbia (1818) - sono
il simbolo di un’epoca, l’allegoria
occidentale del dominio sul mondo.
Più tardi, a fine Ottocento, Violletle-Duc si occuperà di rilevare e
documentare il massiccio del Monte
Bianco, in un’imponente opera
(1876)3 che restituisce l’ambiente
esistente, senza modificarlo o
progettarlo in alcun modo. Negli
stessi anni, la scrittrice svizzera
Johanna Spiri contrappone nel suo
romanzo le differenze tra città e
montagna, in una visione duale
ancora molto idealizzata: Heidi
incarna, in fondo, la metafora del
bon sauvage, funzionale all’alta
borghesia per rivalutare l’idea di
purezza e salute dell’ambiente alpino
incontaminato opposto alla città
industriale.4
John Ruskin - grande conoscitore
e frequentatore delle Alpi contribuisce, in epoca vittoriana, a
delineare l’immagine moderna delle
montagna, evocando un’affinità
tra le Alpi e l’architettura: sono le
cattedrali della terra e, tra queste, il
Cervino spicca come “il più nobile
scoglio d’Europa”.
Si apre, d’ora in avanti, la strada
verso una moderna estetica della
montagna, rinforzata - in parallelo,
ma su un piano molto diverso - dallo
sviluppo crescente dell’alpinismo
internazionale e dal nascere dei
primi sodalizi alpinistici europei5 - il
Club Alpino Italiano viene fondato
nel 1863. Questo fenomeno dà
un forte impulso alla costruzione
dei rifugi alpini in alta quota,
utilizzati pochi decenni più tardi
anche per scopi militari e bellici:
le Alpi si trasformano tristemente
in un’infinita linea di guerra, lunga
centinaia di chilometri, scavata da
trincee, camminamenti, feritoie
visibili ancora oggi.
Nel 1919 Bruno Taut pubblica il
volume L’Architettura Alpina corredata da trenta splendide tavole
acquarellate - dove “prefigura
un’idea di paesaggio e di territorio
come entità operabile tout
court”. Proiezione di una nuova
dimensione del progetto, le Alpi
sono “trasformate in oggetto,
vengono sottratte agli sguardi e alle
connotazioni culturali che si erano
progressivamente stratificate tra
fine Settecento e inizio Novecento,
per presentarsi come uno spazio
nuovamente vergine, portatore di
inediti caratteri e valori”6.
Ma sarà solo dopo il secondo
dopoguerra che gli architetti
scopriranno davvero le Alpi,
occupandosi della relazione
tra montagna e architettura e
sperimentando il costruire in alta
quota; porteranno avanti da qui in
poi una ricerca tipologica, formale e
tecnologica che va ben oltre l’icona
dello chalet tradizionale.
Piero Portaluppi e Carlo Riva nel
rifugio Città di Milano sull’Ortles
(1925), sembrano semplicemente
traslare in alta quota l’“hotel
di montagna”, pensato per il
fondovalle, "senza particolari
declinazioni"5. Più radicale e
coraggioso, il torinese Armando
Melis de Villa progetta il nuovo
rifugio Vittorio Emanuele II al
Gran Paradiso (progetto: 1931,
realizzazione: 1961): è un hangar, che
nega apertamente ogni riferimento
alla baita con il tetto a falde.
Intanto le Alpi diventano - lungo
la prima metà del Novecento - un
vero e proprio salotto invernale
internazionale, e luoghi come
Chamonix, St. Moritz o Cortina
sono sempre più mondani centri
cosmopoliti. Lo sci da discesa
diventa emblema di giovinezza, sport
e modernismo: un architetto come
Carlo Mollino non solo progetta
rifugi e alberghi da Sestrière a
Cervinia, ma è anche uno spericolato
campione di sci e autore del manuale
Ugo Allegri
Il rifugio Pirovano al passo dello
Stelvio, durante la stagione sciistica.
"Introduzione al discesismo"
(1951). Numerose foto di Mollino
immortalato in acrobatici salti sugli
sci, contribuiranno alla costruzione
della sua fama e della sua fortuna
critica.
Anche grazie alle Olimpiadi
invernali, le località del turismo
montano “mostrano un’immagine
delle Alpi pienamente avviate
verso le forme contemporanee del
consumismo”7. Le cartoline d’epoca
e i manifesti pubblicitari degli anni
Cinquanta testimoniano ampiamente
questa nuova visione della montagna,
più appariscente e alla moda della
montagna sobriamente elitaria degli
alpinisti che frequentano invece i
rifugi e i bivacchi d’alta quota, di cui
Charlotte Perriand è un’antesignana
ARK 25 / FRONTIERA
Piante del rifugio, da sinistra a destra: quota
-3,35 m, pianta del piano con soggiorno,
pianta del piano intermedio, pianta del piano
camere, quota + 8,00 m.
26 / 900 LOMBARDO
“QUALCOSA M’HAN DETTO
LA SERA E LA MONTAGNA.
MA L’HO PERDUTO”.
Jorge Luis Borges, Diciassette haiku, 1982.
Ugo Allegri
Ugo Allegri
L’angolo di ingresso al
bar-ristorante e la finitura
in legno dei pannelli
prefabbricati in facciata.
La copertura rivestita in
acciaio inox liscio
facilita lo slittamento
della neve.
progettista: alle sperimentazioni
sulla prefabbricazione, mutuate da
Jean Prouvé, Perriand aggiunge la
sua consolidata e diretta esperienza
del tema che conosce come alpinista
esperta. Le strutture della Perriand
sono leggere e indispensabili, il
design degli spazi interni è essenziale,
ma sempre accuratissimo. Ma
soprattutto l’architetto francese
affronta il tema della reversibilità
del costruito in contesto alpino, con
molti decenni d’anticipo.
Le Alpi vedranno dunque sorgere,
al fianco dei rifugi d’alta quota,
molti rifugi-alberghi, dal comfort
decisamente più cittadino e spesso
raggiungibili in automobile, per
soddisfare le necessità di un crescente
turismo di montagna sempre più
diffuso in parallelo allo sviluppo
degli impianti meccanici di risalita.
L’impatto ambientale di queste
costruzioni e infrastrutture, sparse
lungo tutto l’arco alpino, è stato
27
spesso invadente e irreversibile,
e proprio a partire dagli anni
Cinquanta “la produzione di edifici
di qualità nell’ambiente alpino
italiano si è progressivamente
ridotta” a causa del “modificarsi
della abitudini sociali e turistiche dei
fruitori della montagna”8.
GIUSEPPE PIROVANO E LA
SCUOLA DI SCI DELLO STELVIO
Negli anni Quaranta, la guida alpina
Giuseppe Pirovano - che durante la
guerra collabora con la Resistenza
aiutando i partigiani sul fronte
alpino - fonda una pionieristica
scuola di sci a Cervinia, che
successivamente decide di spostare
in una zona dove la stagione sciistica
possa prolungarsi oltre il periodo
invernale: Pirovano vaglia allora
diversi ghiacciai dell’arco alpino e
sceglie infine quello del Livrio allo
Stelvio, facilmente accessibile grazie
alla famosa strada che svalica il passo:
impressionante opera ingegneristica,
costruita da Carlo Donegani per gli
Austriaci in soli 5 anni (1820-1825).
Il leggendario passo dello Stelvio,
nel gruppo dell’Ortles Cevedale
sulle Alpi Retiche, è un crocevia in
alta quota tra Lombardia, TrentinoAlto Adige e il cantone svizzero dei
Grigioni, e la strada che lo valica
- nata come collegamento militare e
commerciale tra Austria e Lombardia
- si snoda lungo tornanti tortuosi,
raggiungendo quota 2800 mt. in una
conca di cime che raggiungono quasi
i 4000 metri di altezza. In questo
ambiente spettacolare, Pirovano
decide di installare la scuola di sci
estivo su ghiacciaio, unica nel suo
genere, immaginandola anche e
soprattutto come un percorso di
iniziazione giovanile alle discipline
agonistiche e sostenibili in alta
montagna. Dopo aver utilizzato
come primo punto di appoggio
la Capanna Nagler, Pirovano e la
moglie Giuliana Boerchio - direttrice
del quotidiano La provincia Pavese
- decidono di far costruire due rifugialbergo, che ampliassero le capacità
ricettive legate alla loro attività.
Nel 1955, affidano un primo
incarico allo studio degli architetti
Franco Albini e Franca Helg:
Albini aveva appena progettato, nel
1949, il rifugio-albergo Pirovano a
Cervinia, insuperato capolavoro di
architettura moderna sulle Alpi. Ma
il progetto per lo Stelvio - previsto
vicino alla stazione di arrivo della
funivia a 3000 metri di quota resterà solo su carta e l'opera non
sarà compiuta. Nel 1960 l’incarico
viene allora dato all’architetto
milanese Attilio Mariani, che
costruisce l'Albergo-Rifugio Grande
Pirovano, un edificio lineare, con
struttura in acciaio e calcestruzzo,
ARK 25 / FRONTIERA
La caratteristica forma “a fungo” del rifugio,
come venne poi comunemente chiamato.
29
Ugo Allegri
28 / 900 LOMBARDO
e rifinito a intonaco. Infine, nel
1964, l’instancabile Pirovano decide
di costruire un nuovo rifugio
accanto a quello esistente, dando
l'incarico a Leonardo Fiori insieme
a Claudio Conte, che dieci anni
prima avevano progettato la Colonia
montana Olivetti a Brusson, in
Valle d'Aosta: un’architettura che
ha saputo interpretare i caratteri del
luogo, sedimentando le memorie
della cultura regionale attraverso un
linguaggio essenzialmente moderno.
IL RIFUGIO PIROVANO ALLO
STELVIO DI LEONARDO FIORI
L’edificio viene realizzato in
brevissimo tempo - soltanto 3
mesi - a 3200 metri di quota,
su uno sperone di roccia su cui
appoggiano le fondamenta. Sia per le
caratteristiche peculiari di un cantiere
in alta montagna, sia per una scelta
formale e tipologica contemporanea,
Leonardo Fiori sceglie di utilizzare
tecniche di prefabbricazione e
sistemi di industrializzazione
edilizia, che permettono un
trasporto più agevole dei materiali e
l’assemblaggio in situ degli elementi.
Solamente le fondazioni e alcuni
muri del basamento sono realizzati
in calcestruzzo.
Il progetto è basato su una griglia
modulare di 150 cm, ripresa anche
nei pannelli di rivestimento esterno
di 100 x 50 cm, e si articola attorno
a una pianta centrale, ricavata da un
ottagono con lati slittati tra loro, che
generano un volume molto articolato
anche all’interno. Al centro, una scala
distribuisce i piani principali e i livelli
intermedi, sfalsati, che ospitano le
zone per la vendita di attrezzature da
IL RIFUGIO PIROVANO
RESTA UN ESEMPIO
DI EQUILIBRIO TRA
SCELTE COMPOSITIVE
E TECNOLOGICHE
MODERNE E
RIFERIMENTI NON
BANALI ALLA
TRADIZIONE - DAL
TETTO A FALDE,
ALLA STRUTTURA DEL
MASO ALTOATESINO,
AI MATERIALI
AUTOCTONI IN UN CONTESTO
COMPLESSO, FRAGILE
E NATURALE COME
È QUELLO ALPINO IN
ALTA QUOTA.
Sezione dell’edificio,
dove è visibile il corpo
scale centrale, che
disimpegna i vari livelli.
montagna. La scala è dunque la spina
dorsale di un percorso che attraversa
l’edificio in verticale: dal ristorante,
posto al piano terreno, fino ai piani
superiori dedicati alla zona notte.
Il rifugio dispone di 90 posti letto,
collocati in gruppi di 3 o 4 camere da 2 o 3 letti ciascuna - collegate da
un disimpegno comune e da servizi
igienici, secondo uno schema molto
preciso che al livello superiore si
adatta alla superficie ridotta del
sottotetto. Il tetto a falde composte
è rivestito da lastre di acciaio
inossidabile, unite con il sistema
della grappatura, per evitare i giunti
e compensare la dilatazione dovuta
alle forti escursioni termiche. La
pendenza delle falde e la scivolosità
dell’acciaio consentono inoltre lo
slittamento della neve al suolo.
La struttura è realizzata con elementi
metallici prefabbricati e solai in
lamiera grecata, montati a secco
e impostati su un modulo di 50
centimetri, che dà la misura anche ai
serramenti in legno e ai pannelli di
facciata. Questi ultimi presentano
differenti finiture tra dentro e fuori:
al piano terra, il pannello esterno
è in Petralit verniciato, mentre al
piano superiore ha perline di abete di
Douglas naturale; i lati del pannello
rivolti all’interno del rifugio, invece,
sono in perline di abete naturale
lucidato a tutti i piani. Leonardo
Fiori presta molta attenzione anche
ai materiali interni, sempre coerenti
e adatti alle funzioni del rifugio: al
piano terra, di grande passaggio, il
pavimento è in beola grigia levigata;
nel soggiorno e nelle camere, sono
previsti listoni di mogano, grès rosso
per i servizi al piano terreno, e pvc
nei servizi delle camere da letto.
Il rifugio Pirovano di Leonardo
Fiori, resta un esempio di equilibrio
tra scelte compositive e tecnologiche
moderne e riferimenti non banali
alla tradizione - dal tetto a falde, alla
struttura del maso altoatesino, ai
materiali autoctoni - in un contesto
complesso, fragile e naturale come è
quello alpino in alta quota.
Come per la colonia estiva di
Brusson in Val d’Aosta, anche
nel Rifugio Pirovano sembra
emergere quel processo progettuale
che Kenneth Frampton definisce
regionalismo critico9. L’inserimento
nel paesaggio non si piega solamente
al luogo, non asseconda l’immagine
iconica e vernacolare della baita, né
ingloba l’elemento naturale - come
talvolta in Wright o in Le Corbusier
- ma trattiene il “valore delle cose
nella loro essenza e nella loro
immagine, come in alcune opere di
Aalto”10.
Dal 2005 il rifugio Pirovano è chiuso,
Sezione del serramento,
del solaio in lamiera
grecata, e del pannello
sandwich.
30 / 900 LOMBARDO
Interno del rifugio-albergo al piano
del soggiorno, con pavimento in legno
e finiture dai colori caldi.
strutture poste in contesti tanto
delicati e che non presentino le stesse
qualità architettoniche dell'opera
di Fiori. Da un altro punto di vista,
l’ipotesi di un riuso e riutilizzo del
rifugio Pirovano sembra più consona
a un’idea di sviluppo sostenibile
del costruito e dell’esistente,
in un contesto prezioso come
quello alpino. Un intervento in
questa direzione potrebbe allora
incoraggiare e sostenere un tipo di
turismo e di architettura alpina che
non depauperino l’imponente risorsa
naturale delle Alpi, oggi sempre più
a rischio.
Note
1
inutilizzato, e in stato di degrado:
alcuni pannelli sono divelti dalle
intemperie ma la struttura e il tetto
sono tuttavia ancora in buono stato.
A causa dei cambiamenti climatici,
il ghiacciaio del Livrio si è ritirato,
molte altre strutture alberghiere sono
sorte allo Stelvio, senza però che sia
stata fatta una corretta ripulitura del
territorio: la zona si sta trasformando
quindi in una vergognosa “discarica
di rottami del Novecento”11, tra
piloni arrugginiti, rifugi abbandonati
e morene di ghiacciai che si ritirano.
Una riflessione critica è
indispensabile. La prefabbricazione
potrebbe condurre all’idea dello
smontaggio del rifugio, relativamente
semplice, una volta terminato il suo
ciclo di vita relativamente breve e
potrebbe rappresentare un orizzonte
reversibile per la progettazione di
Adolf Loos, Regole per chi costruisce in
montagna, in Parole nel vuoto, Adelphi,
Milano, 1972.
2 Antonio De Rossi, La costruzione delle Alpi.
Il Novecento e il modernismo alpino (19172017), Donzelli Editore, Roma, 2016.
3 Eugène-Emmanuel Viollet-Le-Duc,
Le massif du Mont Blanc, étude sur sa
consitution géodésique et gèologique, sur
ses transformations et sur l’état ancien et
moderne de ses glaciers, J. Baudry, Parigi,
1876.
4 Thomas Demetz, Industrializzazione del
paesaggio in Callegari, De Rossi, Pace,
Paesaggi in verticale. Storia, progetto e
valorizzazione del patrimonio alpino,
Marsilio, 2007.
5 Luca Gibello (a cura di), Progettare al limite.
I rifugi alpini di G Studio, Segnidartos, 2017.
6 Antonio De Rossi, op.cit.
7 Da una conferenza di Luisa Bonesio,
L'evoluzione del sentimento estetico delle
Alpi tra Settecento e Novecento, Varese,
giugno 2002.
8 Luciano Bolzoni, Architettura moderna nelle
Alpi italiane dagli anni Sessanta alla fine del
XX secolo, Priuli e Verlucca, Ivrea, 2001.
9 Maria Pia Belski, L'architettura di Leonardo
Fiori, Abitare Segesta, Milano, 2000.
10 M. P. Belski, op.cit.
11 Giacomo Menini, Architetture al valico, i
rifugi Pirovano allo Stelvio, Ananke, n. 83,
gennaio 2018.
Fonti delle illustrazioni
Le fotografie e i disegni provengono
dall'Archivio Fiori e sono tratte dal volume di
Maria Pia Belski, L'architettura di Leonardo
Fiori, Abitare Segesta, Milano, 2000. Le cartoline
d’epoca provengono da ricerche on line.
PUBBLICITÀ
ARK 25 / FRONTIERA
Ettore Sottsass senior e Willy Weyhenmeyer,
Lido di Bolzano, trampolini in cemento armato
della piscina, 1929-31 (archivio Mart, Rovereto).
32
ARCHITETTURE
SOSPESE SUL LIMITE
A cura di Gianluca Gelmini
ENCICLOPEDIA DEL SAPER FARE / 33
Il tema del limite costituisce da
sempre un aspetto basilare nello
sviluppo del progetto di architettura.
Lo spazio, inteso come entità fisica
e misurabile dall’uomo nella sua
esperienza di abitare il mondo, è
contenuto e marginato all’interno
di oggetti più o meno grandi che
costruiscono i luoghi. Limite,
frontiera, confine ovvero spazio
delle differenze, terreno d’incontroscontro tra realtà fisiche e concettuali
diverse come dentro e fuori, natura
e artificio, montagna e pianura, terra
e acqua, terra e cielo, città antica e
città moderna. Appare interessante
approfondire il tema del limite
soprattutto ponendolo in rapporto
ad artefatti creati per tentarne il
superamento o per viverne da vicino
le contradizioni.
Tra le diverse esperienze in cui si
è cercato un confronto dialettico
e costruttivo lungo il complicato
confine tra modernità e tradizione è
sicuramente da ricordare il progetto
per il Lido di Bolzano, costruito tra
il 1929 e il 1931, in cui il sodalizio
progettuale tra Ettore Sottsass
senior e Willy Weyhenmeyer ha
generato, forse, il più importante
tentativo di costituire, in
epoca fascista, un’architettura
di carattere marcatamente
mitteleuropeo. Si tratta di uno fra
i maggiori stabilimenti balneari
del periodo, concepito secondo
un’organizzazione distributiva e
architettonica di grande modernità,
con attrezzature tecnologiche
innovative e di notevole funzionalità.
Ispirato al radicalismo della
Neue Sachlichkeit - la Nuova
Oggettività di matrice tedesca - il
lido di Bolzano rappresenta uno
tra i più interessanti esperimenti
di architettura paesaggistica del
primo Novecento in Italia. Si tratta
di un’architettura che oppone al
monumentalismo vicino al regime
un linguaggio antiretorico che,
riprendendo la poetica razionalista,
cerca di stabilire un dialogo con le
forme della tradizione architettonica
regionale e del paesaggio circostante.
I trampolini in cemento armato della
piscina di Sottsass si elevano leggeri
nel vuoto disegnando movimenti
eleganti di masse e nervature sottili.
La struttura minimale si staglia sullo
sfondo della montagna ridefinendo il
limite tra la linea di terra e il cielo.
I limiti imposti dal tradizionale
concetto di casa vengono stravolti
e messi in discussione dalla ricerca
di uno dei più importanti maestri
dell’Architettura Moderna. Quando
Frank Lloyd Wright lavora alla
“Casa sulla cascata” intuisce che
il tema dominante del progetto
è quello di trovare una nuova
dimensione dell’abitare superando
il limite tra natura e architettura.
“La scatola è completamente
distrutta. Non esistono più
pareti, né schemi geometrici, né
simmetrie, né consonanze, ne punti
prospettici privilegiati, né leggi
che non siano quelle della libertà
e del mutamento”. Con queste
parole Bruno Zevi commentava
l’opera più conosciuta di Wright,
sicuramente la più celebrata tra i
capolavori dell’architettura moderna,
divenuta nel tempo sinonimo
dell’equilibrio tra architettura e
natura. Fallingwater viene costruita,
tra il 1936 e il 1939, in prossimità di
un salto d’acqua sul torrente Bear
Run nei boschi della Pennsylvania,
per Edgar J. Kaufmann, proprietario
dell’omonima catena di grandi
magazzini. Nel suo disegno la casa
sulla cascata è stata identificata
come “l’apoteosi dell’orizzontalità”.
Alla sequenza dei tre piani in
cemento armato protesi nel
vuoto, si contrappongono i setti
Frank Lloyd Wright,
Fallingwater, Bear Run,
Pennsylvania, 1936-39.
verticali rivestiti in lastre di pietra
che, posti a sostegno dell’intero
edificio, rimangono arretrati sul
versante del torrente. Le lunghe
vetrate racchiudono lo spazio
interno annullando il concetto
tradizionalmente inteso di finestra e
liberando la visuale verso la natura
circostante. La continuità tra interno
ed esterno è rimarcata dall’impiego
dei medesimi materiali. I percorsi
lavorano sul tema del rapporto tra lo
spazio e la modulazione della luce,
procedono fra il retro della casa e la
scarpata tra il buio e la ristrettezza
della sezione per sfociare negli
ambienti, dilatati e colmi di luce,
affacciati sul torrente.
Ma il limite può essere anche interno
alle differenti parti di una città,
traducendosi in un’architettura
che lavora sul limite di scala tra
infrastruttura e tessuto minuto della
città compatta. È il caso del progetto
ARK 25 / FRONTIERA
34 / ENCICLOPEDIA DEL SAPER FARE
Giulio Minoletti, Eugenio Gentili Tedeschi,
stazione di Porta Garibaldi, Milano, 1956-59
(fotografia di Gianluca Gelmini).
Pino Pizzigoni, Casa Nani,
Parre (Bergamo), 1964-65
(fotografia di Gianluca Gelmini).
35
I TRE CRISTALLI
SOSPESI DI
CEMENTO BIANCO
DELLA CASA NANI
DISEGNANO OMBRE
E LUCI NELLO SPAZIO,
PROIETTANDO
LA DIMENSIONE
DOMESTICA
DELL’ABITARE AL
CENTRO DEL
PAESAGGIO.
di Giulio Minoletti ed Eugenio
gentili Tedeschi per la Stazione di
Porta Garibaldi a Milano, un edificio
costruito in un contesto urbano
segnato da profonde trasformazioni.
Il primo progetto risale al 1956, la
costruzione si conclude tra il 1958 e
il 1959. L’edificio è essenzialmente
costituito da un grande tetto a
sbalzo, che collega i treni e la
città, i viaggiatori e i cittadini. La
costruzione è essenziale: una galleria
coperta da lunghe travi di acciaio che
escono a sbalzo dal corpo centrale
per 24 metri coprendo da un lato le
piattaforme e dall’altro l'ingresso.
L'idea alla base del progetto è di
concepire una costruzione in acciaio
in cui la struttura è architettura.
L'edificio, oggi trasformato,
originariamente si articolava su
due livelli principali: il piano terra
che fungeva da tramite fra la città e
i binari era connotato dalle ampie
sale vetrate della biglietteria della
sala d'attesa e del ristorante. Al
primo piano si sviluppava una lunga
galleria di negozi e un giardino
d’inverno posto in prossimità della
zona degli arrivi. Quest’ultimo
elemento rappresenta una citazione
della poetica minolettiana: un
luogo che richiama la natura e
il concetto di casa dentro una
stazione. In questo senso lo spazio
dell’infrastruttura con la sua scala
fuori dall’ordinario diviene un
luogo del quotidiano, minuto e
accogliente, quasi domestico per le
persone che viaggiano. Il tetto ha
una configurazione particolare che
consente alla luce e all'aria fresca di
entrare nella galleria.
Nel progetto per la Stazione
ferroviaria di Porta Garibaldi sono
evidenti i riferimenti al pragmatismo
che permea tutta la cultura milanese
rispetto al tema delle professioni.
L'approccio di Minoletti è
poliedrico: l’architetto deve
affrontare e risolvere molti aspetti
della vita e della realtà. La stazione di
Minoletti è una costruzione raffinata,
un edificio funzionale e uno spazio
piacevole in una soluzione semplice e
chiara, in armonia con la città e il suo
tempo.
Questo edificio intrattiene una
relazione complessa tra la serialità
della sua struttura industriale e la
varietà di spazio che può creare.
La griglia dei pilastri principali,
ogni quattordici metri, sembra
un divisorio monotono e sterile.
Ma Minoletti riesce a creare una
varietà di spazi in sezione come la
doppia altezza nei passaggi o le sale
d'attesa basse e inattese fonti di luce
zenitale nella galleria commerciale,
che permettono al viaggiatore di
orientarsi sempre.
Ritornando al tema della casa
è interessante la ricerca di
Pino Pizzigoni per l’abitare in
montagna e il limite tra pendio
e piano orizzontale. Molti dei
progetti di Pizzigoni, costruiti o
soltanto disegnati, costituiscono
sperimentazioni aperte, delle ‘prove’
sul tema dell’abitare spinte sempre
alla ricerca del limite sia strutturale,
sia spaziale, come nella casa per il
pittore-scultore Claudio Nani dove
Pizzigoni continua la sua ricerca
di nuovi modi d’immaginare lo
spazio attraverso gli strumenti della
prospettiva, della tecnica e della
forma.
Il progetto definitivo è del 1964; la
costruzione si conclude nel 1965.
La casa è situata in Valle Seriana, in
località Sant’Alberto, nel territorio
di Parre, poco al di sopra della strada
di fondovalle diretta verso Ardesio.
La costruzione sorge all’estremità di
un prato allungato. Senza apportare
sostanziali modifiche al naturale
andamento del terreno, essa è si
dispone come un blocco incastrato
nel pendio. Il volume compatto
si protende verso valle attraverso
tre grandi aperture, in forma di
volumi aggettanti orientati su visuali
privilegiate del paesaggio. Queste
tre grandi finestre diventano il tema
principale del progetto: non sono
semplici aperture, ma spazi abitabili
che definiscono e organizzano gli
ambienti principali della casa.
Il progetto è parte della ricerca che
Pizzigoni compie in quest’ultimo
periodo della sua vita - morirà
nel 1967 - sull’equilibrio della
costruzione e sulle possibili
coincidenze tra struttura e
Pino Pizzigoni, cantiere di Casa Nani,
Parre (Bergamo), 1964-65 (archivio Pino
Pizzigoni, Biblioteca Angelo Mai).
architettura. Secondo Pizzigoni, la
gravità - il peso delle masse - non
rappresenta tanto un problema da
risolvere, quanto piuttosto una
risorsa per creare nuovi meccanismi
strutturali e, dunque, nuovi modi
di costruire lo spazio. Nella casa
Nani, la scala, chiusa all’interno di
murature, oltre a essere elemento
ARK 25 / FRONTIERA
36 / ENCICLOPEDIA DEL SAPER FARE
37
Pierluigi Nervi,
magazzino di stoccaggio
Montedison, Porto
Recanati (Macerata),
(fotografie di Gianluca
Gelmini).
distributivo è anche elemento
strutturale in forma di grosso
pilastro cavo. Insieme con altri
due pilastri, essa forma un sistema
bilanciato in grado di contrastare
le forze generate dagli sbalzi con
l’ausilio di travi che disegnano un
traliccio tridimensionale fatto di
triangoli isostatici.
Casa Nani è un’architettura
singolare, nella quale convivono
pensieri e tensioni contrapposti.
A elementi propri della tradizione
locale - come la tipologia della
casa a blocco in muratura a secco,
le finestre a sporto delle case di
montagna - si sovrappongono altri
temi desunti dalla contemporaneità,
come la struttura a traliccio in
cemento armato e le ampie vetrate
che si trasformano in stanze sospese.
Verso monte, la casa appare dura e
impenetrabile: un alto muro in sassi
a vista è bucato da piccole finestre
quadrate. L’immagine del retro è
quella di un edificio fortificato,
mentre a valle, verso il sole, il volume
perde il guscio di pietre aprendosi e
manifestando la sua parte più molle,
la sua pancia. Su questo lato, tre
cristalli sospesi di cemento bianco
disegnano ombre e luci nello spazio,
proiettando la dimensione domestica
IL MAGAZZINO DI
STOCCAGGIO DI
PIERLUIGI NERVI È
UN’ARCHITETTURA
SOSPESA TRA
TERRA E ACQUA IN
CUI I TEMI DELLA
SEMPLIFICAZIONE
COSTRUTTIVA E DEL
VALORE SEMANTICO
DELLA STRUTTURA
INTESA COME
RAPPRESENTAZIONE
DELL’EQUILIBRIO
DI FORZE E
MASSE DIVIENE
EMBLEMATICO.
dell’abitare al centro del paesaggio.
Infine lungo il limite tra terra e
acqua possiamo rintracciare un
caso interessante nell’edificio
progettato da Pierluigi Nervi a
Porto Recanati per Montedison
(primi anni Cinquanta). Situato
lungo il tratto di costa a nord
dell’abitato in prossimità della linea
ferroviaria l’edificio, parte di un più
vasto complesso oggi scomparso,
era destinato a magazzino di
stoccaggio di materiali e prodotti.
Si tratta di un’architettura inusuale
per scala e tipologia rispetto
al contesto circostante in cui il
disegno della sezione è l’elemento
determinante e chiarificatore. Una
grande aula voltata in forma di
navata, costruita interamente in
cemento armato con una sequenza
di archi parabolici autoportanti che
coprono una luce di trenta metri.
L’edificio si dispone parallelamente
alla linea di costa, lungo i lati verso
terra e verso l’arenile si presenta
con due generosi tetti a sbalzo
protesi nel vuoto a copertura della
banchina dove fermavano i treni
per il carico e scarico delle merci.
Si tratta di un’architettura sospesa
tra terra e acqua in cui i temi della
semplificazione costruttiva e del
valore semantico della struttura
intesa come rappresentazione
dell’equilibrio di forze e masse
diviene emblematico. Sono evidenti
i legami con la ricerca di Nervi sulle
grandi coperture voltate e i rimandi
ad altri edifici realizzati da Nervi, in
particolare agli hangar aeroportuali
di Orvieto e Orbetello.
L’architettura costruita sul limite
in questo senso svolge il suo
primordiale ruolo di definizione
e interpretazione di realtà e spazi
contrapposti. Strutture sospese a
sbalzo lungo linee di demarcazione
più o meno apparenti, divengono
oggetti in grado di ridefinire il
carattere e l’immagine dei luoghi,
creando nuove tensioni tra le parti,
spostando o annullando il confine tra
le cose.
ARK 25 / FRONTIERA
ARS RESTAURI / 39
CONSERVAZIONE È
INNOVAZIONE
Incontro con Ars Restauri
A cura di Maria Claudia Peretti
e Marco Mazzola
PUBBLICITÀ
Monastero Domenicano
Matris Domini, Bergamo,
restauro conservativo dell'impianto
decorativo della Chiesa.
UN DELICATO EQUILIBRIO
TRA PASSATO E FUTURO
Nel dibattito attuale, i termini
conservazione e innovazione
identificano spesso fazioni opposte
che vedono schierati da una parte
i fautori del “no”, sempre pronti
a porre veti e anatemi, e dall’altra
i paladini del cambiamento, del
progresso. Gli innovatori accusano
ARK 25 / FRONTIERA
40 / ARS RESTAURI
i conservatori di impedire alla
contemporaneità di esprimersi
con gli strumenti che le sono
propri: i conservatori ricambiano
mostrando la bruttezza e l’avidità di
un approccio che, per la gran parte,
ha lasciato sul territorio cicatrici
e lacerazioni. Considerare i due
termini opposti tra loro è però un
errore che alimenta la sottocultura
alla base di molti dei risultati negativi
che possiamo verificare intorno a
noi. Il progetto del futuro è possibile
soltanto a partire dalla lettura attenta
del presente e dalla conoscenza del
passato che lo ha generato.
La modernità non è un dogma
immodificabile, rigido e assoluto,
non lo è neppure un approccio volto
a una rievocazione nostalgica del
passato: l'una e l'altro sono percorsi
che devono essere continuamente
riprogettati alla luce di quello
che ci circonda e degli esiti di
cui dobbiamo prendere atto. Se
osserviamo il presente ci rendiamo
conto che, in questo momento
Padiglione 3, ex Fiera di Milano,
restauro conservativo delle facciate,
dettaglio, 2017.
Padiglione 3, ex Fiera di Milano, restauro
conservativo delle facciate, 2017.
storico, conservare è la grande
sfida dei territori contemporanei:
l’innovazione velocissima e per molti
versi violenta degli ultimi decenni
ha travolto il pianeta generando
problemi enormi che riguardano
questioni centrali per la nostra
sopravvivenza, l’uso delle risorse,
la distruzione dei paesaggi e delle
comunità sociali, dentro una crisi che
è contemporaneamente ambientale,
economica, antropologica e sociale.
Ma davvero alla luce di un’analisi
approfondita della realtà attuale,
possiamo sostenere che conservare
è sinonimo di arretratezza e di
negazione della modernità?
Non è forse più evidente il contrario
e cioè che sia proprio il tema
della conservazione a suggerire le
politiche più innovative e urgenti
per far fronte alla crisi che stiamo
attraversando? Mai come ora è
necessario ristabilire un equilibrio
tra passato e futuro e intrecciare
un rapporto positivo di sinergia
e convergenza tra i due termini
conservazione e innovazione.
Le nostre città e i nostri paesaggi
hanno bisogno di tutela, di cura, di
manutenzione, di consapevolezza
della storia, di rispetto delle
differenze e degli ecosistemi locali,
ambientali e sociali. Un’azione
politica seria e sistematica che
si ponga l’obbiettivo della
conservazione del territorio non
solo è del tutto compatibile con gli
obbiettivi dello sviluppo economico,
ma, alla luce dei fallimenti di
cui non possiamo non prendere
atto, è probabilmente l’unica
strada immaginabile per uscire
positivamente dalla situazione in
cui ci troviamo. Forse, in questo
momento, essere “conservatori” è
il modo migliore e più avanzato per
fare innovazione.
CULTURA E TECNICA
DELLA CONSERVAZIONE
Arte, professione, mestiere, perizia,
conoscenza teorica e abilità pratica.
I diversi significati che assume in
italiano la parola latina ars (ars, artis)
sintetizzano con efficacia l'attività
svolta dall'impresa bergamasca ARS
Restauri, specializzata nel restauro
conservativo dell'architettura e dei
suoi apparati decorativi.
Giosuè Tribbia, artigiano
restauratore, aprì il proprio
laboratorio nel 1958. Oggi, la ditta
è diretta dal figlio Simone e dai
nipoti Matteo, Marie, Massimiliano
e Mirko, ha raggiunto la terza
generazione e i 60 anni di attività.
Da allora, l'attività familiare si è
sviluppata e ampliata: da laboratorio
artigiano è diventata un organismo
strutturato che si avvale di diverse
équipe di professionisti e di
maestranze qualificate.
Attorno al tema della conservazione
e della cura del patrimonio edificato
e paesaggistico, infatti, si sviluppano
tecnologie sofisticate e livelli di
ricerca molto avanzati, sia nelle
fasi di analisi e diagnostica dei
problemi, sia nella messa a punto
41
e nell’attuazione delle soluzioni:
curare un edificio o un ambiente
dissestato significa far riferimento ad
approcci innovativi nelle modalità
di cantierizzazione, significa
puntare sull’evoluzione e sulla
specializzazione della manodopera
impiegata, sulle competenze
specialistiche di varie discipline,
sulla qualificazione dei mestieri e dei
sistemi produttivi. Conservazione
è quindi sinonimo di conoscenza,
di cultura, di tecnica, di produzione
avanzata.
L'insieme di significative
competenze, acquisite nel corso degli
anni, ha consentito ad Ars Restauri
di raccogliere un rilevante portfolio
di lavori, tra cui emergono interventi
su alcuni dei più importanti
monumenti bergamaschi e dell'Italia
settentrionale.
A Bergamo, l'impresa ha realizzato il
restauro della Biblioteca Angelo Maj,
delle facciate della Banca d'Italia,
della Camera di Commercio ed è
intervenuta nelle chiese di Santa
Maria Maggiore, Sant'Agostino e
Matris Domini.
Fuori città, restauri importanti
sono stati realizzati al Castello
Sforzesco e a Palazzo Dugnani a
Milano, al monastero di Santa Giulia
a Brescia, al Castello di Vigevano
e all'Hotel Ausonia Hungaria a
Venezia, quest'ultimo con un grande
intervento su facciate maiolicate
uniche nel loro genere. Ognuno di
questi lavori è nato dalla sinergia tra
progetto e cantiere di restauro.
Un'approfondita fase di rilievo,
di ricerca storica e d'archivio e di
diagnostica eseguita in sito e in
laboratorio, seguite da un progetto
accurato e confezionata su misura
sono condizioni necessarie alla
buona riuscita di un restauro.
Tuttavia, in questo specifico ambito
dell'architettura, possiamo affermare
che è il cantiere il cuore del processo.
È solo quando si inizia a metter
mano ad un'opera da restaurare che
il progetto inizia per davvero.
Se nell'ambito delle nuove
costruzioni, la tendenza è quella
di cercare una riduzione allo zero
dell'imprevisto, dell'errore e delle
modifiche in opera, nel cantiere di
restauro l'inatteso e la variazione
sono la norma.
Solo mettendo mano all'opera
da restaurare possono emergere
elementi nuovi, ricercati o
inaspettati, che comportano una
verifica e un aggiornamento continui
del progetto. L'imprevisto è una
condizione costante del cantiere
di restauro; elasticità mentale e
duttilità sono quindi caratteriste
indispensabili per un restauratore,
perché possono trasformare una
criticità in un'opportunità.
Ovviamente, data la delicatezza
della materia su cui si interviene,
anche nell'ambito del restauro il
processo è quanto più possibile
A sinistra: Reggia di Racconigi.
A destra: Castello Sforzesco di Milano.
42 / ARS RESTAURI
controllato e rigoroso; sono però la
sensibilità e la “capacita di ascolto”
di un'opera, unite a un bagaglio di
esperienza decennale, le doti speciali
che consentono a imprese come Ars
Restauri di portare avanti cantieri
su architetture monumentali con
l'obiettivo costante di riportarle al
loro originario splendore.
È possibile ritrovare prova di questa
aspirazione anche in uno degli ultimi
lavori dell'impresa, il restauro dell'ex
padiglione 3 della storica Fiera di
Milano, concluso a novembre 2017
dopo 9 mesi di cantiere.
L'ex padiglione fieristico, edificato
nel 1923 su progetto dell'architetto
Paolo Vietti Violi, fu il primo
“Palazzo dello Sport” cittadino e,
insieme alle “Palazzine degli Orafi”
e alla Fontana Liberty di Piazza
Giulio Cesare, è uno degli unici
tre manufatti mantenuti durante la
radicale trasformazione urbanistica
che ha ridisegnato l'area della ex fiera
negli ultimi anni. L'edificio di Vietti
Violi, dichiarato di interesse storico
artistico e vincolato con decreto della
Direzione Regionale Beni Culturali
e Paesaggistici della Lombardia,
è stato liberato dai manufatti che
lo avevano inglobato ed è tornato
leggibile nella sua completezza e
nella sua originaria condizione di
monumentale padiglione isolato.
In questo processo, ad Ars Restauri
è stato affidato il restauro delle
facciate, che hanno un'estensione di
circa 4.000 mq. Date le dimensioni,
questo lavoro rappresenta un
esempio notevole di restauro di
un'architettura moderna.
L'intervento, svolto con la
collaborazione dell'impresa Vitali
di Zogno (Bergamo), si è mosso
su tre linee principali. Il primo
obiettivo è stato il recupero dei
profili architettonici che negli anni
erano andati persi e poter così ridare
una lettura dell'aspetto delle facciate,
operazione sostenuta da un lavoro di
ricerca documentale che ha permesso
di decidere quali parti andassero
rimosse per riportare alla luce parti
originali dell'edificio.
Il secondo grande intervento è stato
svolto sugli apparati decorativi in
cemento, che in gran parte erano
andati perduti. Questa fase, che
è stata una delle più difficoltose
da affrontare, ha comportato la
ricostruzione dei cementi decorativi
sulla base della ricerca documentale e
degli originali superstiti.
Il terzo tema, forse quello più
decisivo sull'impatto finale del
restauro, è stata la colorazione
delle facciate. Partendo dal
progetto e da alcune indicazioni
della Sovrintendenza, l'abilità e
l'esperienza del restauratore sono
state poi decisive: la storia del
colore dell'edificio è stata ripercorsa
studiando le stratigrafie mentre la
nuova tinta è stata applicata per
velature, come fosse una tela di
un'opera pittorica. Questa tecnica
ha consentito di dosare il colore
a seconda dell'esposizione della
facciata, per ottenere una vibrazione
diversa a seconda della diversa
provenienza della luce. Questa
raffinata trasformazione, che da un
piatto codice cromatico introduce
una delicata vibrazione di velature
dosate a seconda della loro risposta
alla luce naturale, ci consente di
cogliere la maestria, l'esperienza e la
passione che contraddistinguono un
bravo restauratore.
PUBBLICITÀ
ARK 25 / FRONTIERA
Studio MARC, Club
nautico Giulio Pagani,
Torno, Como, 2004-2006.
Vedute dalla riva del lago,
sezione (fotografie di
Beppe Giardino).
44 / CONTEMPORANEO LOMBARDO
AVAMPOSTI
DEL SÉ
Studio Marc, Club nautico
Giulio Pagani, Torno, Como, 2004-2006
Studio Associates, Cappella del Silenzio,
Botticino, Brescia, 2017
Testo di Giulia Ricci
IN FONDO, QUANDO
SI È GIOVANI,
SENZA SAPERLO
CHIARAMENTE SI È
IN PREDA A DUE
POSSIBILI
ORIENTAMENTI
DELL’ESISTENZA,
CONTRADDITTORI E
A VOLTE MESCOLATI.
POTREI RIASSUMERE
COSÌ QUESTE
DUE TENTAZIONI:
LA PASSIONE DI
BRUCIARSI LA VITA,
LA PASSIONE DI
COSTRUIRLA. (…)
SONO QUESTE LE
DUE VIRTUALITÀ
SEMPRE PRESENTI
NEL SEMPLICE
FATTO DI ESSERE
GIOVANI, DI DOVER
COMINCIARE, E
DUNQUE ORIENTARE,
LA PROPRIA
ESISTENZA. BRUCIARE
O COSTRUIRE.
Alain Badiou, La vita vera: appello alla
corruzione dei giovani, Ponte alle Grazie,
2016.
La giovinezza è il tumulto del sé,
di ciò che è in divenire, che brucia
o che prende forma. La dimensione
epica che connota quest’età ha
generato un immaginario vero e
proprio, che comprende il romanzo
di formazione, merito del senso di
ingovernabilità che emana.
Per questo motivo, i progetti scelti
per Contemporaneo Lombardo
di questo numero sono opere
giovanili di due diversi studi. Oltre
alla scala degli edifici e al confronto
con l’ambiente naturale, i due
progetti hanno in comune una
evidente volontà di costituirsi come
45
dichiarazioni d’intenti. Visti in tale
cornice, il processo che ha portato
alla definizione dei loro caratteri,
la scelta dei materiali e i loro
orientamenti formali, implica due
posizioni specifiche nei confronti
del mondo. Non a caso questi
progetti rappresentano il momento
di reciproco riconoscimento,
nell’adesione a valori affini,
dei membri dei due studi, e la
conseguente decisione di proseguire
in un percorso di ricerca condiviso.
L’associazione sportiva Plinio è
il committente del club nautico
Giulio Pagani; situata nel piccolo
comune di Torno, sulle rive del
lago di Como. Negli anni in cui il
progetto ha inizio, l’associazione ha
per soci più della metà degli abitanti
del paese, condizione che ha reso
la costruzione del club nautico
estremamente sentita dalla comunità
locale. Nel 2004 Michele Bonino,
tra i titolari dello studio MARC,
riceve l’incarico dal committente
per realizzare la struttura in un lotto
dato in concessione dal comune di
Torno e situato in corrispondenza di
una piccola piazza, che si crea
dove la via carrabile Torrazza
scende verso il lago.
ARK 25 / FRONTIERA
Studio Associates, Cappella del Silenzio,
veduta del prospetto a valle, dettaglio del catino
in marmo di Botticino (fotografie di Studio
Associates).
46 / CONTEMPORANEO LOMBARDO
Se inizialmente il committente
aveva previsto che il club dovesse
sorgere su tale piazza, i progettisti
decidono di proporre lo spostamento
del lotto nella piccola cala in pietra
sul lato ovest della piazza stessa,
una scelta che consente di lasciare
intatto lo spazio pubblico e agevolare
lo spostamento delle barche dal
ricovero all’acqua. Con il cambio
del lotto, confinante con una
residenza progettata negli anni
Cinquanta da Attilio e Carlo
Terragni - nipoti di Giuseppe MARC manifesta la volontà di
confrontarsi con la morfologia del
luogo e con le sue architetture. Il
corpo dell’edificio si trova vicino
allo zero idrometrico del lago,
facendo sì che parte dell’edificio sia
programmaticamente sommerso
dalle sue acque.
Il complesso è accessibile dalla piazza
ed è parzialmente ipogeo; le altezze
dei corpi che lo compongono variano
conferendo dinamicità alla sezione
e sono pensate rispetto alle quote
tipiche delle acque del lago di Como.
Attraverso una rampa si sale di un
metro per raggiungere la copertura
calpestabile dello spogliatoio, che
permette una vista panoramica sul
lago. Sempre dalla piazza, si scende
verso il corpo degli spogliatoi, quasi
completamente interrato e contenuto
nell’elemento controterra definito
da una sezione monolitica a C in
calcestruzzo armato. Tale struttura
ha la funzione di controbilanciare
lo sbalzo di uno dei due corpi atti
al rimessaggio delle barche, che
è elemento caratterizzante della
facciata sul lago.
Entrambi i corpi per il ricovero
- che contengono imbarcazioni
di lunghezza variabile fra i 16 e
gli 8 metri - si affacciano sulla
rampa che discende verso il lago. Il
secondo corpo è adiacente alla villa
47
QUESTI PROGETTI
RAPPRESENTANO
IL MOMENTO
DI RECIPROCO
RICONOSCIMENTO,
NELL’ADESIONE A
VALORI AFFINI, DEI
MEMBRI DEI DUE STUDI,
E LA CONSEGUENTE
DECISIONE DI
PROSEGUIRE IN UN
PERCORSO DI RICERCA
CONDIVISO.
Studio MARC, Club
nautico Giulio Pagani,
interni del corpo per il
rimessaggio delle canoe,
pianta, sezione trasversale
(fotografie di Beppe
Giardino).
e mantiene l’altezza del bastione
di pietra confinante. L’acciaio e il
policarbonato azzurro caratterizzano
i corpi del ricovero che sono
chiusi da teli in pvc bianco, dello
stesso tipo di quelli usati per i
camion. I materiali impiegati sono
stati imposti da una disponibilità
economica limitata per il progetto,
la cui costruzione ha visto la
partecipazione volontaria di diversi
soci dell’associazione sportiva Plinio.
Come per il club nautico Giulio
Pagani, la Cappella del Silenzio di
STUDIO è stata commissionata
da un’associazione, stavolta della
provincia bresciana, che si occupa di
promuovere attività atte a incentivare
le relazioni sociali fra adolescenti
con disabilità mentali. La necessità
della realizzazione di un luogo laico,
dedicato alla contemplazione e al
silenzio immerso tra i boschi e i
coltivi della valle, è legata alle attività
e alle diverse fedi presenti all’interno
dell’associazione.
Il percorso che conduce alla
cappella parte da fondo valle, dove
si trova la sede dell’associazione,
e sale costeggiando un vigneto. Il
manufatto si trova proprio al confine
fra il vigneto ed il bosco, in una
posizione elevata rispetto alla valle.
La cappella è un corpo in legno
d’abete dipinto di nero alto 5,20
metri, ha una pianta rettangolare
ed una copertura a spioventi. Essa
poggia su una platea in calcestruzzo
armato leggermente arretrata
ARK 25 / FRONTIERA
48 / CONTEMPORANEO LOMBARDO
B
Maniglioneinferrobattuto2,5x2,5x120cm
Imbotteinferrobattuto30x30x0,5cm
Ingresso
A2,82m
h200m
+0.00
2
Montantelibreriainlegnodiabete6x8x210cm
Scalainferrobattutoh240cm
A
A
Montanteinlegnodiabete16x12x270cm
Rivestimentoinassidilegnodiabete12x2,5x400cm
Navata
A14,58m
h467m
+0.43
Portaleinlegnodiabeteperbinariotenda16x12x600cm
B
TravettotipoBinlegnodiabete16x12x190cm
Rivestimentoinassidilegnodiabete12x2,5cm
TravettotipoAinlegnodiabete16x12x340cm
ravettotipoAinlegnodiabete16x12x340cm
ravettotipo
Ainlegnodiabete16x12x340cm
Montantelibreriainlegnodiabete6x8x210cm
Imbotteinferrobattuto30x30x0,5cm
Scalainferrobattutoh240cm
Montanteinlegnodiabete16x12x270cm
Montanteinlegnodiabete16x12x270cm
Navata
A14,58m
h467m
Foglioquadratodineoprenesez.10x10cm
Traviinlegnodiabetesez.12x16cm
Travettoinlegnodiabetesez.10x10cm
TravettoKVHsez.12x20cm
Piastrainacciaio"L1"-S235
Plateaincalcestruzzoarmatocon
doppiareteelettrosaldata50cm
Studio Associates,
Cappella del Silenzio,
pianta, sezione.
rispetto al perimetro: il risultato di
questa prima scelta progettuale è
un’impressione come di fluttuazione
del corpo dell’edificio. Questi
elementi contribuiscono a conferire
alla cappella un’auratica spiritualità,
quella di una presenza arcana che
dimora fra il verde e le fronde delle
giovani querce che la circondano.
La Cappella del Silenzio è stata
concepita a partire dagli studi sul
modello architettonico, un processo
che i giovani progettisti apprendono
osservando il lavoro dell'architetto
cileno Smiljian Radic; ad esempio,
la Cappella del Silenzio presenta
un'assonanza con la Casa A, situata
nella foresta di San Clemente vicino
a Santiago del Cile (2009).
L’ingresso si trova su uno dei lati
lunghi della cappella ed è preceduto
da un monolite cavo in marmo di
Botticino per la raccolta dell’acqua
piovana, un oggetto al tempo stesso
laico e mistico. Lo spazio interno
è suddiviso in due ambienti. Il
primo spazio che incontriamo dà
la sensazione di compressione e
ha per punto di fuga una cornice
in ferro che traguarda il paesaggio
rivelandone un frammento intimo.
Questo atrio oscuro prepara l’occhio
ad essere colto di sorpresa nel
secondo ambiente, dove inizialmente
si ha quasi l’impressione che
l’architettura scompaia, proiettando
lo sguardo del visitatore verso il
paesaggio ed un secondo monolite in
marmo di Botticino. Per effetto del
conseguente adattamento pupillare,
l’occhio scopre gradualmente gli
interni neri, rigati dal cadenzato
ritmo dei montanti in legno. Gli
ultimi montanti verso il bosco
reggono una tenda - che permette
di modulare l’intimità dello spazio
interno - e si protendono a sbalzo sul
bosco, creando così un portale.
Provenendo dalla vigna, dal
IN ENTRAMBI
GLI INTERVENTI, I
PAESAGGI RISULTANO
TRASFORMATI DA
UN SENTIMENTO
CONTEMPLATIVO
CHE I PROGETTISTI
HANNO TRADOTTO
NELLA TANGIBILE
CONCRETEZZA
DELLA MATERIA. UN
PAESAGGIO CHE NON
È MAI SUBLIME NEL
SENSO ROMANTICO
DEL TERMINE, MA È
INVECE COMUNE E
VISSUTO; LA NATURA
È OSSERVABILE ED
ESPLORABILE, E
PERMETTE ALL’UOMO
DI RITORNARE ALLA
VITA ASSOCIATA,
RINNOVANDONE IL
SENSO.
paesaggio antropizzato, la cappella
introduce il visitatore ad un
paesaggio più selvatico. Allo stesso
modo, il club canottieri di Marc si
adagia sulla riva del lago, facendosi
il mezzo di relazione con l’acqua.
La dimensione ridotta di entrambi i
manufatti non è ragione sufficiente
a giustificare il rapporto che
permette al visitatore di relazionarsi
intimamente con il paesaggio.
Entrambi gli interventi, uno a pelo
d’acqua e l’altro posto al margine
fra vigna e bosco, diventano
luoghi di mezzo, dispositivi di
distensione verso l’orizzonte. I
paesaggi risultano trasformati da
49
un sentimento contemplativo che
i progettisti hanno tradotto nella
tangibile concretezza della materia.
Si potrebbe dire che i progetti
promuovono una dilatazione della
coscienza del visitatore verso una
dimensione più grande che possa
accogliere la singolarità dell'io
nel più vasto intorno selvaggio
della natura. Un paesaggio che
non isola, non è mai sublime nel
senso romantico del termine, ma è
invece comune e vissuto; la natura è
osservabile ed esplorabile, e permette
all’uomo di ritornare alla vita
associata, rinnovandone il senso.
Studio Associates, Cappella
del Silenzio, veduta del
prospetto aperto sul bosco,
dettaglio degli interni
(fotografie di Studio
Associates).
ARK 25 / FRONTIERA
50 / ATLANTE
I RAGAZZI
E LA CITTÀ
Spazio pubblico e partecipazione giovanile a Bergamo
Testo di Elena Turetti
Illustrazioni di Marco Mazzola
51
GUARDIAMO
ALLA CITTÀ COME
ALLA LORO PRIMA
SCENA PUBBLICA,
TRANSITORIA O
LONGEVA, LO
SCOPRIRANNO
VIVENDO, IL
LUOGO IN CUI LE
LORO OPINIONI
DIVENTERANNO
POLITICA, IL LUOGO
DEL DISSENSO E
DEL CONSENSO, IL
LUOGO IN CUI L'IDEA
DI UN RAGAZZO
PUÒ TROVARE
ESPRESSIONE IN
UN GRUPPO CHE
SI COALIZZA E SI
EMANCIPA.
I ragazzi. I ragazzi, quelli che ci
immaginiamo, non hanno un'età
precisa, stanno tra i 14 e i 30 anni,
che sono molti anni se commisurati
ad una vita. A guardarli da lontano
sono quelli che lo smartphone è tutto
ma anche no, gli amici sono tutto ma
anche no, la scuola è tutto ma anche
no, il mio corpo è tutto ma anche
no, io sono tutto ma anche no. Che
è come dire che la contraddizione è
un terreno di vita felice, l'incertezza
la misura del quotidiano agire,
la sfida uno dei migliori modi di
iniziare un dialogo. Poi però ci viene
voglia di conoscerli ad uno ad uno,
attirati dall'energia e dalla presunta
spensieratezza e allora ci mettiamo
per qualche istante nei panni di un
padre che guarda sua figlia crescere,
di un amico copywriter che ne
anticipa ogni giorno i bisogni per
tramutarli in storie, di un insegnante
che li guarda ogni mattina a scuola
e ce li racconta come specchio del
mondo che sta fuori, ma soprattutto
vorremmo metterci nei panni di una
sua compagna di banco e sentire
davvero cosa succede là dentro quel
corpo, quando tutto cambia.
La città. Guardiamo alla città come
alla loro prima scena pubblica,
transitoria o longeva, lo scopriranno
vivendo, il luogo in cui le loro
opinioni diventeranno politica, il
luogo del dissenso e del consenso,
il luogo in cui l'idea di un ragazzo
può trovare espressione in un
gruppo che si coalizza e si emancipa.
È una conquista, non è un diritto
naturale ma legiferato e ordito da
ARK 25 / FRONTIERA
52 / ATLANTE
regole e provvedimenti, da diritti e
doveri. È una banco di prova, e nella
migliore delle ipotesi un luogo di
affermazione della propria identità o
almeno di una delle proprie identità.
È un pulpito o proscenio in cui
pronunciare il proprio discorso e
dare voce alla propria condizione
di membro di una società. È la
collettività dove assumere una
forma diversa dimentica del
propria solitudine e dello statuto di
essere unico. È la forma esteriore
non dicotomica rispetto a quella
interiore ma senz'altro più manifesta.
È il tempo degli incontri, che
cambieranno il corso di una vita,
è il tempo della condivisione, del
coinvolgimento, della partecipazione.
È il tempo libero, della ricreazione,
dello svago e della festa.
Ma come si compie questa
conquista della scena pubblica
oggi? Non si tratta oggi di
agire in contrapposizione
all'amministrazione pubblica, di
protestare, di alzare la voce, di
scrivere manifesti e presentarli nel
corso di grandi discorsi pubblici, di
usare la città come pulpito e i suoi
spazi più rappresentativi del potere
come luoghi eletti di scontro.
Ma di interloquire.
Con la legge n. 241 del 1990 i
cittadini possono partecipare
all'azione amministrativa, non
solo i diretti interessati di un
provvedimento amministrativo,
ma anche i titolari di un interesse
diffuso,purché costituiti in comitato.
Intervenire nel procedimento
significa, accedere agli atti,
presentare memorie e documenti
che l’amministrazione è tenuta a
valutare, visionare le informazioni
che ha assunte prima di decidere.
Si entra così in interlocuzione
con l’amministrazione, le cui
azioni oggi sono sottoposte al
53
controllo diffuso dei cittadini.
Il principio della trasparenza,
inteso come accessibilità totale
alle informazioni che riguardano
l'organizzazione e l'attività delle
pubbliche amministrazioni, è stato
affermato con il decreto legislativo
14 marzo 2013, n. 33 e riaffermato
ed esteso dal decreto legislativo 25
maggio 2016, n. 97, il cosiddetto
Freedom Of Information Act
(Foia), come "accessibilità totale"
ai dati e ai documenti gestiti dalle
pubbliche amministrazioni con
un ampliamento dell’istituto
dell’accesso civico finalizzati a
favorire ulteriormente forme
diffuse di controllo sulle attività
delle istituzioni e sull'utilizzo delle
risorse pubbliche, promuovere
la partecipazione degli interessati
all’attività amministrativa e tutelare i
diritti dei cittadini.
Nel caso specifico del disegno
della città, dell'urbanistica, la
partecipazione implica che le
istituzioni si orientino verso un
nuovo concetto di governo del
territorio che tende a coinvolgerne
tutti gli attori (governance) seguendo
un modello di sistema aperto,
adattivo e reversibile. Alle sedi
tradizionali degli eletti quali consigli
comunali, regionali, circoscrizionali,
si possono affiancare sedi formali
ed informali di confronto e
orientamento come tavoli sociali,
laboratori di quartiere, cabine di
regia, piani strategici, che hanno
lo scopo di mettere a confronto in
forma diretta gli interessi territoriali
in gioco, delegando successivamente
alla democrazia rappresentativa il
compito di recepire o respingere
le indicazioni assunte bottom up.
Un ragazzo che oggi abita nel
Quartiere Redona di Bergamo
in cui si sperimenta dal 2006 il
bilancio partecipativo ha potuto
LA PAROLA
CHIAVE È QUINDI
DISGIUNZIONE,
PERCHÉ INSIEME
SUGGERISCE
APERTURA,
CONTAMINAZIONE
CON ALTRI
LINGUAGGI COME
QUELLO DEL CINEMA
IN "MANHATTAN
TRANSCRIPTS",
CONTRADDIZIONE INSITA E POSSIBILE IN
OGNI ARCHITETTURA
- E DECOSTRUZIONE
- CHE È QUINDI
QUALCOSA IN PIÙ
CHE UN SEMPLICE
ESERCIZIO STILISTICO
MA UNA PRASSI DI
RIAPPROPRIAZIONE,
DI DECONTESTUALIZZAZIONE, DI
RISIGNIFICAZIONE.
partecipare e partecipa attivamente
alla definizione delle priorità del
quartiere e dei modi con cui dare
risposta a tali bisogni, ha partecipato
ad un tavolo di progettazione
partecipata per la realizzazione di
un centro di aggregazione giovanile
composto dalla rete sociale del
quartiere, dalla V Circoscrizione,
dall'Ufficio Giovani, dall'Ufficio
tempi e orari, dall'Assessorato ai
Lavori Pubblici, dall'Assessorato
al Verde, dall'Assessorato alla
Mobilità e coordinato dall’Ufficio
Partecipazione. Da questo lungo
lavoro è nato Edonè, quale
espressione dei giovani e della rete
sociale del quartiere per permettere
loro di diventare protagonisti
attraverso la programmazione e la
produzione di cultura in un
luogo loro dedicato. Edonè è
aperto dal marzo 2010.
Quali spazi registrano questa
conquista della scena urbana da parte
dei ragazzi? Lo spazio della città può
essere disegnato e riprogrammato
per accompagnare un cambiamento
sociale in corso? Può l'architettura
far nascere questi cambiamenti?
Quale rapporto c'è tra architettura e
evento, tra architettura e programma,
ARK 25 / FRONTIERA
54 / ATLANTE
tra architettura e deriva?
Se ripercorriamo dall'inizio il
percorso teorico critico di Bernard
Tschumi e l'origine della sua tesi
sulla disgiunzione tra spazio e evento
possiamo comprendere più a fondo
la natura transitoria, temporale,
residuale di alcuni fatti urbani.
Nel 1968 Bernard Tschumi partecipa
alla contestazione studentesca;
negli anni Settanta tiene corsi
alla Architectural Association
di Londra intitolati "Urban
Politics” e "The Politics of Space”;
contemporaneamente allaccia
contatti clandestini con l’IRA,
recandosi diverse volte a Belfast e
a Derry per preparare un numero
dell’Architectural Design, dedicato
alle rivolte urbane. Tschumi arriva a
sostenere: "quando vi è disgiunzione
tra spazio e evento tale disgiunzione
trasforma lo spazio nel milieu della
pratica sociale; quando trasformiamo
in materia d'architettura l'incertezza
derivante dall'uso, dall'azione
discontinua, dal movimento dei
corpi; quando l'architettura reagisce
alla complessità derivante dalla
fenomenologia del vivere quotidiano
diventa fatto urbano". La parola
chiave è quindi disgiunzione,
perché insieme suggerisce
apertura, contaminazione con
altri linguaggi come quello del
cinema in "Manhattan transcripts",
contraddizione - insita e possibile in
ogni architettura - e decostruzione
- che è quindi qualcosa in più che
un semplice esercizio stilistico ma
una prassi di riappropriazione,
di decontestualizzazione, di
risignificazione. Da qui la proposta
di sostituire la triade vitruviana
di venustas, firmitas, utilitas con
una nuova più cruda: linguaggio,
materia, corpo. E anche di rivalutare
gli eventi e il programma, nel senso
che la progettazione degli eventi
55
MA ALLORA COSA
CI INSEGNANO
I RAGAZZI
SULLA CITTÀ E
SULL'ARCHITETTURA?
che si svolgeranno nello spazio
ne determineranno l’aspetto, il
significato e l’apertura. Progettare gli
eventi vuol dire, infatti, introiettare
lo shock del flaneur che distingue la
nostra città moderna da quelle che ci
hanno preceduto. Ma anche aprire
la progettazione alle sollecitazioni
esterne, abbandonando una volta per
tutte il mito dell’autonomia, questa
sorta di araba fenice che per un
trentennio ha ossessionato il pensiero
architettonico.
Disgiunzione si tradurrà nella
città in molte scritture diverse dello
spazio pubblico aperto e chiuso,
grande o piccolo che sia. Vi potremo
riconoscere una grammatica, basata
sulla definizione e composizione
degli elementi primari di un
linguaggio, singoli e associati
metteranno in crisi la scala e l'uso
di uno spazio, si giocherà con il
tempo come variabile fondamentale
per trasformarla in una grande
possibilità di immaginarsi assetti
diversi dello spazio di notte o di
giorno, d'estate, nel corso di una
manifestazione politica o di una
grande calamità naturale. Si troverà
nella giustapposizione e nella
contrapposizione di elementi un
terreno di sperimentazione ricercato
e fertile. Quella stessa grammatica
che possiamo riconoscere nell'azione
di colonizzazione, di uso della città,
nella pratica quotidiana dello spazio
urbano dei ragazzi. Ma allora cosa
ci insegnano i ragazzi sulla città e
sull'architettura?
Ci insegnano a considerare la
capacità di un solo elemento singolo,
un'attrezzatura minima ma ben
installata, supportata dalla presenza
di luce artificiale e del giusto
spazio vuoto attorno, di compiere
un'azione aggregante fortissima.
Il Pilo, un canestro, delle regole
minime di convivenza civile, una
zona a libero accesso dove praticare
il basket in modo informale, fuori
dai club e dall'adesione obbligatoria
ad una società sportiva o dal sentirsi
un giocatore a tutti gli effetti e
un movimento di ragazzi che
programmano ogni anno un torneo
di street basket che attira lì una
miriade di ragazzini.
Un fuori scala, un'infrastruttura
urbana, il cavalcavia Boccaleone che
si offre come tetto o tettoia fuori
scala e per questo riconoscibile, e
grazie alla sua riconoscibilità e forza
colonizzabile, prima solo spazio per
il parcheggio delle automobili oggi
come spazio sottratto al parcheggio
in cui innestare una programmazione
minima di attività che lo trasformano
in spazio in cui stare, magari solo
nelle sere d'estate, ma stare anziché
andar oltre e distogliere lo sguardo.
L'allestimento temporaneo permette
di sedersi e di sdraiarsi all'aperto,
le nuove scansioni di colore ne
ridefiniscono proporzioni e ritmo,
il suono emesso dalle altoparlanti
profitta della sua geometria per
propagarsi, la programmazione
cadenzata di appuntamenti lo
trasforma in un luogo in cui
incontrare gli amici. Tutto questo
grazie all'intenzione e poi all'azione
concreta di un'associazione che ha
deciso si prendersi cura di questo
residuo e di restituirlo a tutti.
A Bergamo ce ne sono moltissimi
di spazi, piccoli o grandi, che per
56 / ATLANTE
PUBBLICITÀ
ragioni diverse si sono offerti
all'azione di riuso da parte di un
gruppo di ragazzi, nella scelta del
luogo c'è sempre una leva che
fa perno sul significato, in cui
posizione, scala e riconoscibilità
la fanno da padroni. Ma se
tutta la città fosse riscrivibile o
ridiscutibile? Se come ci insegnano
i traceurs ogni ostacolo potesse
diventare un'opportunità, se si tratta
semplicemente come nel parkour
di cambiare posizione e assetto del
corpo e sguardo sulla città, cosa ci
trattiene dal considerare una pratica
dello spazio così estrema una pratica
che ci insegna qualcosa sulla forma
della città?
ARK 25 / FRONTIERA
58 / INCONTRI RAVVICINATI
GUGLIELMO MOZZONI
CASA
DEL QUAC
Guglielmo Mozzoni e
Luigi Ghidini, Villa alla Zelata,
Bereguardo (Pavia), 1960
Testo e fotografie a colori di Davide Pagliarini
Conversazioni con i testimoni a cura di
Michela Facchinetti
La villa che Guglielmo Mozzoni
progetta e fa edificare per sé e la
moglie Giulia Maria Crespi alla
Zelata è una palafitta sospesa tra i
boschi di querce e pioppi, a pochi
passi da una scarpata che discende
alla quota dell'alveo del Ticino.
“Casa del Quac”, così la villa è
chiamata, è un'espressione della
lingua dialettale lombarda: indica
Guglielmo Mozzoni e Luigi
Ghidini, Villa alla Zelata,
Bereguardo, 1960, veduta
dell'ingresso (a sinistra) e della
terrazza perimetrale (sopra),
pianta (pagina a fronte).
59
la casa di colui che sta acquattato,
accovacciato, quatto, zitto, taciturno.
È il primo requisito di chi, come
Guglielmo Mozzoni, pratica la
caccia. Acquattati, per non essere
scorti, stanno i cacciatori e i
segugi che li accompagnano.
Eppure la villa si mostra da subito
nella sua sontuosa grandezza, tanto
da rivaleggiare con gli imponenti
fusti degli alberi centenari che la
circondano e che essa, nella sua
giacitura, rispetta.
La vicinanza del corso d'acqua
e delle sue aree umide, dei suoi
terrazzi fluviali periodicamente
esondabili, determina le regole
dell'insediamento. Innalzarsi,
sollevarsi da terra per conquistare
un orizzonte visibile più vasto,
ma anche per disporre di una
superficie asciutta, per determinare
un impalcato lontano tanto
LA CASA È UN
OSSERVATORIO
ELEVATO SUL
DIVENIRE, UN
PALCO E UN TETTO
ATTRAVERSATI DAI
VENTI, DAI RAGGI
SOLARI AL
TRAMONTO,
DALLE OMBRE
PRONUNCIATE
DEI RAMI DEGLI
ALBERI, DAI
PROFUMI DELLE
INFIORESCENZE.
dall'umidità quanto dalla presenza
degli animali selvatici che vivono
nel bosco, ci porta a compiere
un viaggio a rebours nella storia,
alle costruzioni neolitiche che nel
distacco dalla terra trovavano una
ragione utilitaria - difendersi, porsi al
sicuro - e simbolica - contrassegnare
l'alterità, l'autonomia, la conquistata
indipendenza della specie umana
dalle forze della natura.
Guglielmo Mozzoni amava la
natura, vi trascorreva il tempo
lento, talvolta immobile, della
caccia, dell'osservazione minuziosa,
dell'attesa, del cammino e della
raccolta di indizi e tracce, di orme
e segnali lasciati sul terreno e
sulle cortecce degli alberi. Eppure
quell'amore incondizionato
si traduce alla Zelata in una
casa che si congeda dalla terra
allontanandosene, seppur di pochi
metri. È il segno di una cultura che
per nascita, nel suo sorgere e nel
suo farsi azione, possiede la forza di
ARK 25 / FRONTIERA
Una delle speciali 'bocchette'
apribili per favorire la
ventilazione naturale delle
stanze nei mesi caldi.
60 / INCONTRI RAVVICINATI
una rivelazione, di un'immagine (da
imago, apparizione). Ad apparire
dinanzi all'uomo primitivo, che
indomito abita ancora la psiche
dell'uomo moderno, è la coscienza
della cultura. Nel 1800 il geografo ed
enciclopedico Élisée Reclus scrisse
che “l'uomo è la natura che prende
coscienza di se stessa”. L'uomo
è natura e ad essa, cioè alla radice
che nutre i suoi desideri, rivolge le
proprie più intime interrogazioni,
le proprie inquietudini, a cui la
cultura tenta di fornire, se non una
risposta, una interpretazione e una
rappresentazione.
La villa alla Zelata è una risposta,
certamente non l'unica, a quelle
interrogazioni primordiali. Dimora
di frontiera, soglia tra terra e cielo
accessibile per via di sorprendenti
scale retrattili, essa nasconde una
natura ambigua e doppia.
Radicata al suolo alla maniera di
una specie lianosa, come una vitalba
conquista un mondo aereo, mobile
e provvisorio, ospite di altre specie
a cui si aggrappa caparbiamente.
Così le sue numerose stanze, gli
organismi ospiti, crescono sulle
nervature della struttura in acciaio,
l'organismo ospitante. Sono abitacoli
che annunciano nell'andamento
poligonale dei fronti le proprie
geometrie frattali, dissimulando
la dimensione di un manufatto
imponente.
Pur adottando materiali e un
registro cromatico intonati con
il luogo, la villa sopraelevata
rifugge il mimetismo che vorrebbe
mascherarne la presenza rispetto
all'intorno boschivo. Negli anni
Sessanta l'economia è florida
e l'estetica del camouflage con
connotazioni ecologiste è ancora
lontana dall'esercitare un diffuso
fascino seduttivo. Altra ambiguità,
altra contraddizione. Il vernacolo
della palafitta, del capanno di caccia,
del ricovero dei pescatori, della casa
sull'albero che noi tutti avremmo
voluto costruire durante l'infanzia,
assume le forme e i comfort di una
villa, un tema tutt'altro che episodico
e che impegnerà Mozzoni in
molteplici commesse per una agiata
committenza borghese.
La sua doppia natura è coglibile
nel rapporto tra le sue dimensioni,
l'arditezza strutturale, la raffinatezza
di alcuni suoi particolari costruttivi
da un lato e i rinvii alle modeste
costruzioni spontanee e provvisorie
che punteggiano gli argini dei
fiumi dall'altro. Fu forse questa
ambivalenza, tra la ricercatezza
propria di una dimora agiata e il
carattere transitorio, leggero, di
natante ormeggiato tra gli alberi
a fare di essa il set per una scena
di Teorema, il vitreo film girato
nel 1968 da Pier Paolo Pasolini?
Teorema, ma dovremmo dire tutto
il cinema pasoliniano, ha rivendicato
l'urgenza della ricerca della libertà e
della purezza dell'anima, ha cantato
con lirica poesia la bellezza del gioco,
ha nutrito il desiderio e respinto il
godimento, quel godimento vuoto
ed effimero a cui, nel film, ci si
abbandona proprio nella villa di
Bereguardo.
La sfida alla gravità che la villa
dispiega non si fonda sulla ricerca
di un effimero svuotato di senso,
che nel film di Pier Paolo Pasolini
è annientato con risolutezza
geometrica dal misterioso “ospite”
adolescente, ma sulla volontà di
predisporre una casa come un
osservatorio elevato sul divenire,
un palco e un tetto attraversati dai
venti, dai raggi solari al tramonto,
dalle ombre pronunciate dei rami
61
OGNI MINUTO
MUTAMENTO DELLA
LUCE NATURALE
È PERCEPIBILE
E FA CAMBIARE
L'ATMOSFERA DELLA
CASA. AL TRAMONTO
LA CASA 'BRUCIA' DI
LUCE CHE ACCENDE
I SUOI COLORI. SI HA
LA PERCEZIONE VIVA
DI ESSERE UN TUTTO
ARMONIOSO CON SÉ
STESSI E LA NATURA
CHE CIRCONDA LA
CASA.
degli alberi, dai profumi delle
infiorescenze. Un rifugio per sentirsi
parte fra le parti.
La gioia di vivere vissuta dal
progettista e da egli stesso narrata
nel suo libro L'architetto Mozzoni
e i mulini a vento (Milano, 1985)
tuttavia è di segno diverso rispetto
a quella del giovane Ninetto Davoli
nel ruolo del postino in Teorema.
La prima ci è più familiare perché
sorge da circostanze privilegiate e si
è temprata nella guerra e da essa ha
appreso l'essenza dell'impegno civile
e della lealtà, valori cavallereschi
(Mozzoni fu ufficiale durante la
Resistenza). La seconda ci appare
incomprensibile, perché nasce
dalla miseria, perché il suo candore
e la sua innocenza non hanno
conosciuto offese, duelli, rivincite,
trofei. Riflettere sulla radicalità del
pensiero di Pasolini e sulla lealtà
umana e professionale di Mozzoni
non ci portano lontano dai temi a
cui Ark dedica le proprie pagine.
L'architettura è tanto intrisa
di istanze esistenziali ed etiche
da non potersi sottrarre ad un
esame profondo delle ragioni che
determinano la sua costruzione.
Così di Guglielmo Mozzoni si
colgono nelle opere costruite o
soltanto disegnate i sentimenti
che animarono la sua vita, i suoi
ideali, il suo vitalismo, la fisicità
delle sue avventure, il calore delle
sue collaborazioni con gli artigiani,
custodito nel tempo dai materiali che
portano con sé le tracce del lavoro
manuale e la patina prodotta dall'uso.
Nello scrutare le geometrie
della villa alla Zelata la storia
dell'architettura andrebbe alla ricerca
degli echi wrightiani, dei rimandi al
vernacolare, delle assonanze con i
coevi lavori dei BBPR (si pensi alla
villa Jucker a Roncaro di Baveno,
del 1964), delle parentele con le
istanze, moderne, che hanno spinto
molti architetti del XX secolo a
librarsi da terra e a sfidare la gravità.
Qui si è voluta percorrere una via
diversa, più vicina alle vicende che
si agitano nell'animo umano e di
cui l'architettura è un contraltare e,
qualche volta, una proiezione nella
inorganica fisicità della materia.
MICHELA FACCHINETTI
Zelata, Bereguardo, 9 febbraio 2018
Per raggiungere la Villa alla Zelata
occorre immergersi tra le risaie,
i campi coltivati e i pioppeti del
Parco del Ticino, attraversando
la tenuta dell’Azienda Agricola
Biodinamica Cascine Orsine,
fondata da Giulia Maria Crespi nel
1976 e condotta con il figlio Aldo
Paravicini Crespi che ci accoglie
e ci accompagna alla villa, nella
quale avremo modo di trascorrere
alcune ore del pomeriggio, sino
all’imbrunire.
Il giorno della nostra visita il tempo
è sereno e la casa risulta così invasa
dalla luce. Guglielmo Mozzoni
dispiega una sorta di abecedario di
aperture: la casa ha infatti affacci,
quali ampi serramenti di legno e
vetro, piccole aperture, feritoie
orizzontali e verticali, o ancora una
finestra dagli imbotti svasati nella
camera padronale, tutti rivolti sul
bosco esterno.
Per le grandi aperture gli scuri
sono esterni, con ante a libro in
tavole di legno con le specchiature
dipinte di turchese; le sottili feritoie
orizzontali (nel soggiorno) e verticali
(in alcune camere da letto) sono
oscurabili dall'interno con semplici
sportelli di legno a ribalta. Le tende,
quando sono presenti, sono semplici
avvolgibili in stuoia di canna.
Ogni minuto mutamento della luce
naturale è percepibile e fa cambiare
l'atmosfera della casa. Al tramonto
la casa 'brucia' di luce che accende i
suoi colori. Si ha la percezione viva
di essere un tutto armonioso con sé
stessi e la natura che circonda la casa.
Gli arredi interni sono tutti di legno
massiccio così come il pavimento,
gli infissi e le mensole (alcune delle
quali ricavate in vani tra le pareti) ed
hanno tutti colori caldi: gradazioni
di marrone, giallo, arancio e rosso
terracotta e questo contribuisce a
mantenere costantemente, anche
quando la luce è flebile, un'atmosfera
accogliente e calda. Vi sono diverse
collezioni di oggetti e suppellettili
in legno e pure numerosi accessori
in terracotta: vasi, lumi, brocche,
forme antropomorfe e animali, pesci,
anatre, rane. In cucina si trovano
piatti e scodelle di legno, ceste di
vimini piatte e larghe di varie misure.
Un grande camino accoglie gli ospiti
all'ingresso e un altro nel soggiorno
abbraccia la stanza e al contempo si
proietta nel paesaggio attraverso le
ARK 25 / FRONTIERA
Dettaglio del soggiorno
(a sinistra). Dettaglio dei volumi
poligonali delle camere (sotto).
62 / INCONTRI RAVVICINATI
63
MI HA SEMPRE
AFFASCINATO
QUESTA CASA
PERCHÉ È UNA
SORTA DI PALAFITTA
MODERNA, MA
CON UN LESSICO
VERNACOLARE.
QUANDO LA SI VEDE
PER LA PRIMA VOLTA
IL SUO ASPETTO
È ABBASTANZA
DIROMPENTE.
precisa, nascendo sì da un ordine
pratico e funzionale - ventilazione,
illuminazione, irraggiamento solare ma pure, ci piace pensare, da
un'attitudine poetica.
Le due testimonianze che riportiamo
in seguito le abbiamo raccolte in
un secondo momento, attraverso
uno scambio via posta elettronica
con Giulia Maria Crespi, moglie
dell’architetto Guglielmo Mozzoni,
e nell’incontro con l’architetto
Lorenzo Degli Esposti, che in anni
più recenti si è avvicinato a Mozzoni
e ha condiviso con lui un percorso e
un vivace scambio intellettuale.
LORENZO DEGLI ESPOSTI
Milano, 19 febbraio 2018
feritoie orizzontali che tagliano le
pareti che lo delimitano.
I soffitti sono bassi, all'ingresso con
tavelle di laterizio a vista, negli altri
ambienti rivestiti di tavole di legno
e sono punteggiati in ogni stanza
di speciali 'bocchette' apribili per
favorire la ventilazione naturale delle
stanze nei mesi caldi.
Le porte interne in legno hanno
una cura nel disegno che le vuole
alleggerire nonostante la loro
massa. Tutte le maniglie sono in
legno lavorato dal pieno. La cura
artigianale del saper fare emerge in
tutti questi dettagli.
Le due scale esterne ai lati opposti
della villa sono mobili: possono
essere fatte scorrere dall'alto al basso
o viceversa. Sono retrattili, un'altra
invenzione straordinaria: rampe che
possono essere issate quasi la casa
fosse un natante pronto a salpare
per iniziare un viaggio.
Tutti questi elementi dimostrano
la grande libertà dell'architetto
Mozzoni di inventare ogni volta un
dispostivo diverso come se questo
dovesse assolvere e rispondere
a una funzione o una necessità
Mi ha sempre affascinato questa
casa perché è una sorta di palafitta
moderna, ma con un lessico
vernacolare. Quando la si vede
per la prima volta il suo aspetto è
abbastanza dirompente.
È frattale, la sua pianta ricorda un
quadrifoglio o un fiore. È molto
calda, molto ben abitabile, molto
accogliente: le boiserie, i balconi, il
piccolo ingresso centrale che ricorda
la Casa de vidro di Lina Bo Bardi.
Sebbene quella sia del tutto moderna,
la casa di Guglielmo Mozzoni
invece è una commistione tra
diverse concezioni: tutto è costruito
secondo una perizia artigianale ed
uno sfruttamento delle possibilità
tecniche che l'industria di allora
poteva mettere a disposizione.
Mozzoni aveva un'attenzione e
curiosità per tutto ciò che era nuovo:
anche internet. Io l'ho conosciuto tra
il 2009 e il 2010 ed il nostro primo
contatto è avvenuto via e-mail, una
circostanza abbastanza bizzarra
per una persona che aveva più di
novant'anni. Leggeva ed interagiva
via e-mail tutti i giorni, così come
però scriveva e spediva lettere: non
si lasciava sfuggire nessuna delle
varie attrezzature e tecnologie a
disposizione, fino alle più recenti,
che combinava in maniera anche
eclettica. Come nella sua Città
Ideale, un progetto a cui lavorò
per 50 anni, intitolandolo all'inizio
La città per istruire divertendosi.
Si trattava di una sorta di "città
volante": in uno schizzo preliminare
venivano raffigurate "nuvole" su
cui si poteva stare per imparare,
ad indicare più una concezione
esistenziale che progettuale, utopica
ma costruibile.
Da soldato sabaudo che va a chiedere
ai fasci la resa, a partigiano poi, si fa
paracadutare su Milano nell'aprile
del '45 con l'aviazione americana; ha
continuato a dire quello che pensava
fino a tempi recentissimi. Si è sempre
battuto, oltre che per un'architettura
disegnata, di grande valore, e per
un'architettura ideale, sebbene lui
la intendesse in modo pragmatico,
ARK 25 / FRONTIERA
Vedute dello spazio porticato.
Sono visibili le figure disegnate da
Gugliemo Mozzoni e tagliate nel legno
dal suo falegname Carlo Sacchi.
64 / INCONTRI RAVVICINATI
La scala di accesso al patio
situato al centro della casa.
65
IO AVEVO CHIESTO
A GUGLIELMO
DI COSTRUIRMI
UNA CASCINA
TRADIZIONALE SU
MODELLO DI
QUELLE DELLA
BASSA PADANA,
LUI INVECE MI FECE
UNA PROPOSTA
COMPLETAMENTE
DIVERSA.
a lui non sembrava razionale, con
qualsiasi forma di mascheramento
delle cose, così come devono essere
nella loro semplicità e onestà. Un
giovane oggi può ancora trarre un
grande giovamento dalla lezione di
Guglielmo Mozzoni, guardando i
suoi progetti e leggendo i suoi libri.
GIULIA MARIA CRESPI
Milano, 26 febbraio 2018
La scala di accesso alla casa
e il grande camino in mattoni e
lamiera di ferro.
per battaglie civili, sui temi
dell'urbanistica. Era assolutamente
un protagonista del suo tempo.
Mozzoni era questo: un'animo puro,
libero sicuramente e questo si sente
nelle sue opere. Questo suo coraggio
e spregiudicatezza determinavano
negli altri un'iniezione di fiducia.
Sicuramente chi lo ha frequentato
ha preso coraggio. In questo senso
l'incontro con lui è stato un rapporto
assolutamente formativo.
La sua ironia era una modalità che
accompagnava da sempre anche
gli atteggiamenti più seri. Aveva
una grande fiducia nel possibile.
Anche all'idea più visionaria,
impossibile o improbabile lui
riusciva a dare una prospettiva di
possibilità e concretezza. Con questa
sua estrema poliedricità e questo
suo temperamento che possiamo
definire assolutamente non allineato,
irrequieto in un senso positivo,
andava a bersagliare qualsiasi forma
di immobilismo o qualsiasi tentativo
di costringere il pensiero. Se la
prendeva con qualsiasi questione che
Quando entro nella casa alla Zelata
sento subito un grande senso di pace,
di armonia e di letizia.
L’abbiamo chiamata “Casa del
Quac” perché nei dintorni abitava
un airone che sovente si appollaiava
sulla grande quercia attorno a cui era
costruita la casa.
Lo spazio esterno alla casa era tutto
coltivato e circondato dai boschi,
io lo trasformai in un grande prato,
vi piantai migliaia di giunchiglie,
che ogni anno riportano una scia
dorata al limitare del bosco, ed un
lungo fiume di blu bels, quei bulbi
di campanule azzurre che crescono
nei boschi inglesi. Questo grande
prato divenne il fulcro di feste
pomeridiane, partite di palla a volo e
sede di chiacchiere e conversazioni,
sdraiati sull’erba.
L’idea delle scale laterali retrattili,
forse nel subconscio, era quella di
voler rendere la casa più sicura,
sollevando le scale che avrebbero
potuto venir rese mobili, di fatto
però questo non è mai avvenuto.
Pasolini ed io eravamo abbastanza
amici, talvolta egli veniva a trovarmi
e passeggiavamo nei boschi.
Lui filosofeggiava sulle terre della
Padania, gli ricordavano tempi
lontani, parlava di sua madre e
mi diceva che le donne di queste
terre avevano un volto un po’
diverso da tutte le altre donne, ma
io non ho mai capito il perché. Un
giorno mi chiese se avrebbe potuto
adoperare la casa della Zelata per un
film e se avesse potuto includervi
anche Barbino, il famoso cane di
Guglielmo, ed io acconsentii, ma non
lo dissi a mio marito, che quando se
ne accorse fu molto adirato.
Io avevo chiesto a Guglielmo di
costruirmi una cascina tradizionale
su modello di quelle della Bassa
Padana, lui invece mi fece una
proposta completamente diversa e mi
portò un modellino minuziosamente
costruito della casa attuale,
adducendo la necessità di sollevare
l’abitazione al di sopra dello sciame
di zanzare ed in questa maniera
di offrire una maggiore possibilità
per avere una veduta più ampia
sui dintorni. All’inizio io rimasi
interdetta data la totale divergenza
con una cascina lombarda, ma
poi la possibilità di avere la
casa perfettamente incorporata
nell’ambiente costruita intorno a una
enorme quercia, una casa aerea quasi
come un nido appollaiato sull’albero,
mi convinse ed io sposai pienamente
questo progetto pur ricevendo totale
riprovazione da parte della famiglia e
dai loro amici, scandalizzati.
ARK 25 / FRONTIERA
Operazioni del Genio
Lanciafiamme, 1917
(collezione privata Alberto
Griffini, Milano).
66 / LAND
IL PAESAGGIO
FERITO
Il Genio Militare durante la Grande Guerra
Testo di Massimiliano Savorra
Fotografie di Alberto Griffini
Collezione privata, Milano
Sveglia alle 6, caffè. Mi reco sulla
strada. Alle 9 parto per Persici
staccandomi al buio dalla ex
mulattiera. Salgo sino al ponte.
Si cammina sui caricatori, schegge,
baionette, caschi, coperte, nastri di
mitragliatrici, razzi, scatole.
Bombe da ogni parte, sino a
mezza costa 76 morti in attesa di
sepoltura. Soldati di fanteria che
vengono sepolti in due grandi
fosse. Il Cappellano li benedice.
Più su altre trincee sconvolte, le
pontali scomparse, la lunga laterale
fronteggiante il Pressolan ancora
visibile. Pieno di bombe, caricatori,
picconi, badili, pagnotte, elmetti.
Più su altri molti morti. Poi la vetta
ridotta in mucchi di terriccio friabile
e dietro, verso la valle, un convulso
inferno di onde di terreno abraso,
arato, sconvolto ferocemente.
Morti visibili, morti semisepolti.
Nel segnare le trincee ultime (solchi)
il Genio trova cadaveri sepolti.
Un trionfo orrendo di morte.
Dal diario di guerra di Luigi Angelini,
4 novembre 19181.
67
All’indomani della fine del primo
conflitto mondiale, l’Italia si rese
conto che la guerra aveva lasciato
nelle valli, sulle colline e sui monti
solo ruderi di casolari, campagne
e pascoli invasi di filo spinato,
foreste bruciate, campi trasformati
in cimiteri, terreni invasi da eserciti
di croci, fabbriche distrutte,
chiese devastate, e soprattutto
una costellazione incalcolabile di
trincee e crateri. Il paesaggio ferito
faceva rivivere a tutti l’orrore della
guerra e il ricordo dei compagni
morenti sui campi di battaglia, nel
fango e sulle pietraie; incubi che
avrebbero accompagnato a lungo
i soldati sopravvissuti. Tra questi,
molti furono architetti e ingegneri:
Giovanni Greppi, Gio Ponti, Paolo
Mezzanotte, Piero Portaluppi,
Giovani Muzio, Alberto Alpago
Novello, Pier Luigi Nervi, Saverio
Dioguardi, Piero Aschieri, i fratelli
Alberto ed Enrico Agostino Griffini,
Paolo Caccia Dominioni, Mino
Fiocchi, Tomaso Buzzi, Luigi
Angelini, Luigi Caneva, Giovanni
Michelucci, Antonio Carminati
e molti altri vissero la comune
esperienza bellica, alcuni addirittura
nelle medesime postazioni al fronte,
lavorando nel Genio militare alla
realizzazione di strutture difensive,
trincee, strade, opere infrastrutturali.
Si trattava di una élite di ufficiali
e sottoufficiali istruiti, il più delle
volte volontari, uniti dai saperi
dell’architettura e dell’ingegneria,
oltre che dalla comune fede
nella nazione. Se ancora poco
si conoscono le forme e i modi
di elaborazione del lutto e della
memoria da parte di questa élite,
purtuttavia è possibile, da un lato,
rintracciare le loro opere al fronte,
al di là di quella che fu definita da
Marc Bloch come «psicologia della
testimonianza» applicata alla Grande
Guerra, dall’altro, analizzare “i
lavori legati al conflitto” che essi
realizzarono durante e subito dopo
gli anni di combattimento.
Formatisi talvolta velocemente in
accademie militari prima di partire
per il fronte, gli architetti e gli
ingegneri prestarono i loro servizi
nel Genio minatori o nel Genio
ferrovieri, nel Genio pontieri o nel
Genio lanciafiamme. Quest’ultimo,
composto da molti giovani ingegneri,
entrò in azione il 20 aprile 1916 sul
Carso. Constatata l’efficacia di tale
arma, venne ampliata la dotazione
in uomini e mezzi, estendendone
l’impiego in vari punti del fronte.
Michelucci ad esempio passò dai
minatori ai lanciafiamme (le squadre
lanciafiamme dipendevano dai
comandi delle Divisioni; alla vigilia
della battaglia di Vittorio Veneto
erano attive 9 compagnie).
Paolo Mezzanotte, cartolina
postale d'epoca (collezione privata
Alberto Griffini, Milano).
IL PAESAGGIO FERITO
FACEVA RIVIVERE
A TUTTI L’ORRORE
DELLA GUERRA
E IL RICORDO
DEI COMPAGNI
MORENTI SUI CAMPI
DI BATTAGLIA, NEL
FANGO E SULLE
PIETRAIE; INCUBI
CHE AVREBBERO
ACCOMPAGNATO
A LUNGO I SOLDATI
SOPRAVVISSUTI.
TRA QUESTI, MOLTI
FURONO ARCHITETTI
E INGEGNERI.
ARK 25 / FRONTIERA
68 / LAND
Il Genio pontieri, anche questo
formato in larga parte da ingegneri
e architetti, era costituito nel 1915
da 12 compagnie che divennero
ben presto 16. Esse si occuparono
delle operazioni di attraversamento
dei fiumi, soprattutto il Piave, il
Tagliamento e l’Isonzo. Al momento
della battaglia di Vittorio Veneto,
erano operative 26 compagnie
pontieri, raggruppate in 6 battaglioni.
Molti giovani laureati ai politecnici
di Torino o di Milano - o solo iscritti
che avevano interrotto gli studi
per arruolarsi, come Gio Ponti lavorarono nel Genio pontieri, ma
soprattutto molti di loro fecero parte
del Genio zappatori e del Genio
minatori, occupandosi dello scavo
delle trincee e delle gallerie, oltre
che del trasporto di materiale per
la costruzione e il rafforzamento
di strade e di posizioni avanzate in
prima linea. Basti pensare che dalle
iniziali 43 compagnie del maggio
1915, si passò a 236 compagnie
nel novembre del 1918, impiegate
sia nelle linee difensive arretrate,
che in quelle più avanzate, dalla
sistemazione dei reticolati alla
costruzione di opere di difesa, come
l’intricata e imponente “galleria
Vittorio Emanuele” sotto la cima
Militari del Genio in osservazione
del paesaggio, Ufficio Staccato Tapogliano,
1917; cartolina postale d'epoca (collezione
privata Alberto Griffini, Milano).
Ritratto di Giovanni Michelucci.
Ritratto di Giovanni Muzio.
del Grappa, progettata dall’ingegnere
Nicola Gavotta, che si estendeva
per 5 km e in grado di ospitare
oltre 15.000 soldati. Vale la pena
rammentare che anche Pier Luigi
Nervi, prima di entrare a far parte del
Battaglione Dirigibilisti col grado di
sottotenente del Genio, fece parte dal
1° marzo 1916 della 69a Compagnia
zappatori a Bologna per essere in
seguito mobilitato in zona di guerra.
Peraltro, la guerra di mina, e di
conseguenza quella di contromina,
era ancora considerata una valida
strategia per la conquista o la
distruzione di postazioni nemiche.
In tal senso, va ricordato che i
minatori del Genio con le loro azioni
trasformarono irrimediabilmente
la morfologia dei monti, come nei
casi del Col di Lana che perse la
cima2, della parete sud del Lagazuoi
che fu completamente devastata, o
del Colbricon che vide abbattuto
uno dei suoi tre denti. In effetti,
le montagne furono ampiamente
modificate, non solo sulla superficie,
ma anche - se non soprattutto - nel
sottosuolo (a volte anche sotto i
ghiacciai) con chilometri e chilometri
di trincee e camminamenti, e con
gallerie - in cui trovarono posto
centrali elettriche, laboratori,
NEI MOMENTI DI
RIPOSO TRASCORSI
NELLE RETROVIE, MA
ANCHE AL FRONTE
TRA UN’AZIONE E
L’ALTRA, GLI ARCHITETTI
E GLI INGEGNERI,
COME MOLTI ARTISTI,
DISEGNAVANO LUOGHI
E ARCHITETTURE,
REALIZZAVANO
BOZZETTI, SCATTAVANO
FOTOGRAFIE,
TRATTEGGIAVANO
AUTENTICI RACCONTI
PER IMMAGINI SU
CARTOLINE POSTALI
INDIRIZZATE A MOGLI,
MADRI, AMICI E
PARENTI LONTANI,
IN CUI EMERGEVA, A
VOLTE SULLO SFONDO
A VOLTE IN PRIMO
PIANO, IL PAESAGGIO
OSSERVATO, RILEVATO,
MODIFICATO,
VIOLENTATO.
officine, cucine e magazzini spesso utilizzate per schierare
lanciabombe, lanciagranate,
lanciafiamme e postazioni per
mitragliatrici.
Tali gallerie svilupparono nuovi
paesaggi sotterranei, che si
affiancarono alle fortificazioni permanenti, campali o provvisorie e ai sistemi di trincee e reticolati.
Impegnati nelle opere di
infrastrutturazione del territorio,
considerate fondamentali per gli
spostamenti di uomini e mezzi,
i genieri si occuparono così di
realizzare strade fondamentali per
l’organizzazione e il rifornimento
delle linee italiane: basti ricordare
la “strada Cadorna” tra Romano
d’Ezzelino e Cima Grappa
progettata nell’autunno del 1916
e terminata nell’ottobre 1917, la
cosiddetta “strada degli Eroi”
sul massiccio del Pasubio, e la
celeberrima “strada delle 52 gallerie”
- progettata dall’ingegnere Giuseppe
Zappa e scavata nell’inverno del
1916 dalla 33a compagnia minatori
del 5° reggimento del Genio che si articolava per quasi 700
m di dislivello, alternata a tratti
di camminamento all’aperto a
strapiombo, da Bocchetta Campiglia
alla cima del Pasubio.
Altri ingegneri e architetti
lavorarono nel Genio motoristi e
nel Genio telegrafisti (come
69
Alessandro Rimini), mentre durante
la guerra sorse anche la specialità
dei teleferisti, reparto strategico
capace di stendere, in meno di
una settimana, teleferiche che
superavano i mille metri di dislivello,
come ricorda Marco Mondini,
nell’episodio dell’esercito accampato
tra il passo Paradiso e la vedretta
del Mondrone, in cui grazie alle
competenze dei tecnici - in alcuni
casi coadiuvati da aziende come la
Ceretti e Tanfani - furono create
vere e proprie “cittadelle”: tra queste
si segnalava quella realizzata sul
Pasubio, nota come “El Milanin”,
un piccolo centro formato da
baracche e ricoveri in grado di
ospitare fino a un migliaio di uomini.
Nei momenti di riposo trascorsi
nelle retrovie, ma anche al fronte
tra un’azione e l’altra, gli architetti
e gli ingegneri, come molti artisti,
disegnavano, raffiguravano luoghi
e architetture, realizzavano
bozzetti per medaglie e gagliardetti,
scattavano fotografie, schizzavano
caricature dei superiori e ritratti di
compagni d’arme, tratteggiavano
autentici racconti per immagini su
cartoline postali indirizzate a mogli,
madri, amici e parenti lontani, in
cui emergeva, a volte sullo sfondo
a volte in primo piano, il paesaggio
osservato, rilevato, modificato,
violentato. I disegni - come quelli
straordinari di Paolo Caccia
Dominioni - mostravano rovine,
campi di filo spinato, terre fumanti
e alberi in fiamme. Oltre che per
le azioni del nemico, va ricordato
che le foreste e i boschi vennero
distrutti per costruire i sistemi
difensivi; il botanico Lino Vaccari
calcolava che furono annientati
almeno due milioni di metri cubi
di legname, sia prima dei conflitti
che durante le battaglie. Peraltro,
il legname - come si sa - fu uno
dei materiali di base, ampiamente
ARK 25 / FRONTIERA
70 / LAND
usato, della tecnologia bellica, dalle
baracche ai pali telegrafici ai ponti di
attraversamento.
Spesso le raffigurazioni degli
architetti e degli artisti costituivano
una vera documentazione, come
scrisse Arturo Lancellotti, «dei
monti aspri da cui i nostri alpini si
appostano per sorprendere il nemico,
delle strade spaventevoli attraverso le
quali si riescono a far transitare interi
convogli di camions, della pietà dei
soldati che ascoltano la messa a 2700
Modello di Batteria e Batteria realizzata,
Direzione Genio II Zona, III Armata, Rovescio
linea difensiva, sponda destra del Torre a Tapogliano, 1917
(collezione privata Alberto Griffini, Milano).
Postazioni d'artiglieria e batterie
di cannoni, 1917 (collezione privata
Alberto Griffini, Milano).
metri […] della rapidità con la quale
i nostri combattenti costruiscono
ponti militari o baraccamenti, di
tutto, insomma, quel complesso di
azioni e di servizii militari e logistici
di cui si anima il nostro fronte»3.
Nel periodo precedente la partenza
per le aree calde del fronte, sovente
i giovani architetti e ingegneri
erano istruiti al “disegno funzionale
alla guerra”. Docente alla Regia
accademia militare e all’Accademia
albertina di Torino, Mario Ceradini,
ad esempio, professava le sue idee
sul “disegno panoramico militare”,
definito come una comunicazione
fatta dall’ufficiale esploratore al suo
comandante. In tal senso, il disegno
era chiamato “comunicazione”
poiché la parte grafica risultava
preponderante, sebbene integrata da
indicazioni scritte: secondo Ceradini,
si riferiva non tanto quello che si
vedeva, quanto piuttosto ciò che era
ritenuto interessante dal punto di
vista militare. Tale comunicazione
scritta e disegnata doveva essere
eseguita sul posto, nel minor tempo
possibile «rapida, sicura, concisa»4.
Era fondamentale avere cognizioni di
disegno dal vero e conoscenze della
geometria applicata. Tali osservazioni
“disegnate” erano riprese spesso
dall’alto dei campanili, oltre che
dalle trincee e dai ricoveri. Le torri
e i campanili furono usati come
punti privilegiati per la conoscenza
del territorio, o come punto di
osservazione delle operazioni
militari, come nel caso del campanile
di Campolongo, strategico per le
operazioni sull’Isonzo (laddove era
necessario, si era pronti a costruire
anche torrette di osservazione in
legno).
Il paesaggio fu ampiamente
rimodellato dai ricoveri per i rincalzi
e per le riserve, come nel caso
delle strutture di tipo seminterrato
con osservatorio realizzate sulla
linea di Tapogliano, una cintura
di trinceramenti aggiuntiva della
“Linea degli abitati a difesa del
centro abitato”5, mentre sul rovescio
delle linee trincerate, a un centinaio
di metri, i genieri costruirono
a intervalli regolari postazioni
d’artiglieria e ricoveri blindati per
le truppe di rincalzo, rimpiazzi
necessari in particolare per
il mattatoio del Carso. Il paesaggio
venne così profondamente
modificato, ancora prima delle
grandi battaglie combattute in
pochi teatri ben definiti, dalla linea
dell’Adige fino a quella dell’Isonzo.
La militarizzazione dell’arco
alpino, già avviata a inizio secolo
con i forti dell’altopiano dei Sette
Comuni, ebbe una svolta decisiva
nell’estate del 1914 quando, in
previsione dell’accendersi delle
ostilità, si accelerarono i lavori
del Genio per l’apprestamento
difensivo. Considerati dai vertici
militari capolavori dell’ingegneria
difensiva, il forte Verena a picco sulla
val d’Assa, il forte Campolongo
che dominava la val d’Astico, e
il forte Corbin con le sue cupole
corazzate girevoli, contraddistinsero
incontrovertibilmente il paesaggio
fin dal loro apparire, ancora di più
quando vennero attaccati, occupati
o distrutti, lasciando il panorama
segnato da ferite desolanti.
Va ricordato che tali forti risultarono
obsoleti già alle prime avvisaglie
della battaglia, visto che le strutture
in cemento semplice non furono in
grado di resistere ai mortai Škoda
di recente acquisiti dall’esercito
imperiale austriaco (costruito tra
il 1910 e il 1914, il forte Verena, ad
esempio, fu distrutto il 12 giugno
1915, dopo nemmeno un mese
di vita operativa).
Sicché, i lavori del Genio
riguardarono le vaste aree di
confine che - si capì fin dall’inizio
- sarebbero state interessate da
una guerra di trincea, anche se i
bombardieri utilizzati dal nemico
colpirono città, talvolta perfino
relativamente distanti dalla prima
linea. Le numerose frazioni di tanti
paesini, le campagne, le cittadine
che sorgevano sulla linea del fronte
furono abbandonate, bombardate,
71
Ricovero per riserve a Campolongo e
Trincea coperta, 1917 (collezione privata
Alberto Griffini, Milano).
72
Ho presentato alcune parti delle mie ricerche
sul tema del paesaggio della guerra in convegni
e in diversi incontri seminariali con studenti e
colleghi. Fra questi, vorrei ricordare la lezione
- dal titolo I paesaggi della memoria. Sacrari
militari, monumenti ai caduti e cimiteri di guerra
tra l’Unità d’Italia e la Ricostruzione - tenuta
il 20 novembre 2014 al Master di II livello in
“Progettazione e promozione del paesaggio
culturale” dell’Università degli studi del Molise,
e la relazione - dal titolo I paesaggi della guerra:
ingegneri, architetti e artisti in trincea - tenuta
il 29 giugno 2016 al convegno “L’architettura
e l’urbanistica alla svolta della prima guerra
mondiale. Da Bologna all’Europa” presso
l’Archiginnasio di Bologna. Ringrazio dunque,
l’Istituto per i beni artistici culturali e naturali, e il
suo presidente Angelo Varni, così come ringrazio
Giuliano Gresleri e Beatrice Bettazzi per
avermi offerto l’opportunità, con l’incontro di
Bologna, di proporre l’avanzamento di tali studi;
ringrazio inoltre la rivista Ark che mi ha fornito
l’occasione, con questo articolo, di anticipare
uno studio più ampio di prossima pubblicazione
negli atti del convegno bolognese, al quale si
rimanda per l’apparato completo delle note e dei
riferimenti bibliografici, qui limitati, per ragioni
di spazio, al minimo indispensabile.
Note
1
occupate, a volte completamente
distrutte e rase al suolo. San Donà di
Piave e Asiago, ad esempio, furono
completamente devastate nel corso
della Strafexpedtion, mentre San
Martino fu ridotta a un cumulo di
macerie e trasformata in avamposto
trincerato dagli austro-ungarici. Non
bastarono le batterie di medio o
grosso calibro realizzate dai genieri
a colmare le gravi carenze nelle
dotazioni d’armamento dell’esercito
italiano. Le campagne, disboscate da
mesi di cannoneggiamenti, le colline
e i rilievi montuosi talvolta livellati
dalle mine furono invasi da opere
militari, come le lunette, elementi
di un sistema difensivo che partiva
dalla campagna per arrivare alle zone
collinari, e che doveva assolvere
la funzione di testa di ponte.
Celeberrima la lunetta dedicata
a Cesare Battisti, la quale, oltre a
sorvegliare l’importante ponte di
Versa, costituiva un perno difensivo
tra la linea degli argini del Torre e
quella degli abitati6.
Non di rado gli architetti e gli
ingegneri furono fautori anche di
opere destinate alla popolazione
civile, che nelle intenzioni avrebbero
dovuto contribuire alla guarigione
delle ferite inferte con le distruzioni,
e soprattutto - terminata la guerra
- alla costruzione della tanto
desiderata coesione nazionale.
2
3
4
5
6
Luigi Angelini collaborò con il Comitato
bergamasco della Mobilitazione Civile,
per il quale realizzò cartoline e altre
immagini grafiche, destinate a sollecitare
la partecipazione della cittadinanza. Nei
primi mesi del conflitto fu impegnato nella
protezione dei monumenti dal pericolo delle
incursioni aeree, mentre in seguito fece parte
della III compagnia del II genio zappatori.
Il suo diario di guerra è in parte pubblicato
in Piervaleriano Angelini, Tra guerra e
dopoguerra: il caso dell’ingegnere Luigi
Angelini, in Sembrava tutto grigioverde.
Bergamo e il suo territorio negli anni della
Grande Guerra, a cura di Maria Mencaroni
Zoppetti, Sestante Edizioni, Bergamo 2015,
pp. 843-861. Il brano estratto dal diario
è a p. 852.
Cfr. La conquista di Col di Lana, 16 aprile
1916: considerazioni sulla guerra di mina,
diagramma per la distruzione di gallerie, a
cura della Scuola all. uff. Genio [di] Pavia,
Cucchi, Pavia 1934.
Arturo Lancellotti, La guerra vista dagli
artisti italiani, in Emporium, 275, XLVI,
1917, p. 276.
Mario Ceradini, Il disegno panoramico
militare, Libreria F. Casanova & C., Torino
1916 (la prima edizione era del 1912), p. 4.
Presso gli eredi di Alberto Griffini è
conservato un prezioso album fotografico
che documenta i numerosi lavori eseguiti
dal Genio militare nell’area di Campolongo
Tapogliano sulla linea difensiva tra Torre e
Isonzo.
Le cosiddette “vestigia della Grande Guerra”
avrebbero offerto in futuro molteplici
occasioni di riflettere sulla valorizzazione
del Patrimonio storico nazionale, come sarà
indicato dalla Legge 78 del 2001.
PUBBLICITÀ
ARK 25 / FRONTIERA
Giovanni Scotti, Nuova Luce
(dal progetto Napoli Nuova Luce).
74 / FOTOGRAFIA
75
OCCHI
CHE VEDONO
Conservatorio della Fotografia
Il Conservatorio della Fotografia
di Simone Casetta e Martina Biondi
Testo di Elena Turetti
Fotografie di Presente Infinito
Il Conservatorio della fotografia
di Simone Casetta e Martina Biondi
è una cascina. La compongono
due edifizi distinti, l'uno più alto,
arcuato, ad L, ti chiude la vista, ti
accoglie e ti guarda dalle diverse
quote delle logge, l'altro è un corpo
a sé, quasi cubico ma non proprio,
isolato ma anch'esso cinto sul fondo
dal versante della collina. Il versante
è striato da terrazzamenti curvi, li
attorno c'è chi coltiva la terra per
vivere. Qui un giardino e un cortile
ma appena fuori il bosco che rende
L'EDIFICIO STESSO
DEL CONSERVATORIO
DIVENTA UNA RISPOSTA
INTRANSIGENTE ALLA
NECESSITÀ DI COSTRUIRE UNA FOTOGRAFIA.
tutto meno disegnabile e più forte il
loro modo di porvi un confine con
un muro oppure semplicemente una
scarpata.
Sono qui in visita, l'idea è quella di
trovarsi davanti un laboratorio, ma
già appena scesa dall'automobile, nel
cortile, le bucature delle finestre, le
vetrate, le soglie, i mille modi con cui
si intuisce si possa percorre la cascina
come un corpo, le maniere con cui ci
si prefigura di poter entrare, uscire,
scendere sotto terra per penetrare
nelle stanze ci fanno presagire che
ARK 25 / FRONTIERA
76 / FOTOGRAFIA
Luigi Fiano, Nuova Luce
(dal progetto Napoli Nuova Luce).
Lorenzo Martelli, Sacro Suolo
(dal progetto Napoli Nuova Luce).
diversi, uno spazio per articolarle in
una sequenza e capirne la capacità
espressiva, la pregnanza, l'urgenza.
E tutte queste stanze non sono che
la mappa del pensiero concreto
di Simone. Mi viene in mente per
analogia il sapere dei liutai cremonesi
e la difficoltà di raccontare i confini
della loro maestria muovendosi
avanti e indietro dall'immaterialità
del suono alla durezza del legno
scolpito, dal repertorio musicale alla
lama dello scalpello, così come in
Simone pare esserci dialogo tra retina
e sguardo, tra chimica e linguaggio.
Ci soccorre Benjamin e ancora
una volta questa sua definizione
non completamente attingibile di
immagine: "Non è che il passato
getti la sua luce sul presente o il
presente la sua luce sul passato, ma
immagine è ciò in cui quel che è
stato si unisce fulmineamente con
l'ora in una costellazione. In altre
parole: immagine è la dialettica
nell'immobilità. Poiché mentre la
relazione del presente con il passato
è puramente temporale, continua,
la relazione tra ciò che è stato e
l'ora è dialettica: non è un decorso
77
AVREI VOLUTO STARE
AL CONSERVATORIO
PER UN PO' DI TEMPO
PER RIACQUISIRE
QUELLA CAPACITÀ
DI VEDERE, DI DARE
PROFONDITÀ E AL
TEMPO STESSO
SUPERFICIALITÀ
ALLO SGUARDO,
DI VIGILARE
SULL'IMMAGINE.
l'incontro con Simone e Martina
ci riserverà delle sorprese.
Mi accolgono, mi sento davvero
ospite, sarà una visita breve, di
poche ore, ma ad ogni passo una
scoperta, ad ogni scoperta un nugolo
di domande e di riflessioni mi si
assieparono in testa e ora che ne
scrivo, spero allargheranno il nostro
modo di pensare la fotografia.
Di lì a poco capirò come questo
andare da una stanza all'altra sia
anche spostare l'attenzione su una
porzione diversa del costruire una
fotografia, come se l'edificio stesso
sia ad un certo punto diventato una
risposta intransigente alla necessità di
costruire una fotografia.
Per metter a fuoco la questione,
non mi sono trovata in un
laboratorio artigianale tout court,
certo fotografare è scrivere con la
luce, e Simone pare giungere dopo,
al momento della stampa, agisce
sicuramente in quel sottile spessore
d'aria che sta tra la carta e la luce,
le macchine che ha raccolto, salvato
e rimesso in moto sono diverse e
bellissime: apparecchi di ripresa
analogici, stampatrici, ingranditori,
sviluppatrici e ciascuna risponde ad
una funzione precisa. I procedimenti
sono inscritti nell'organizzazione
degli spazi e raccontano una
porzione importante del fascino
chimico di questo mestiere.
Ma poi ti accorgi che Simone sta
prima e dopo, incontra i suoi autori
e ne capisce la ricerca o il progetto,
sta dentro e fuori dalle fotografie,
e che nella cascina c'è uno spazio
per stare solo ad un palmo dalla
superficie della stampa e discernerne
la trama per punti, c'è uno spazio
per incorniciare ed esporre le
fotografie, per guardarle con occhi
ma un'immagine discontinua, a
salti. Solo le immagini dialettiche
sono autentiche immagini, (cioè
non arcaiche); e il luogo in cui le si
incontra è il linguaggio".
Mi sono chiesta perché questo
suo modo di fare non mi è parso
arcaico, perché quelle stanze non
puzzavano di nostalgia, perché quelle
macchine non parevano desuete e
pronte ad entrare nella collezione
di un museo di scienze, perché non
sono lì per salvare una tecnologia
in via d'estinzione ma per produrre
ARK 25 / FRONTIERA
Marcello De Masi, Città Madre
(dal progetto Napoli Nuova Luce).
78 / FOTOGRAFIA
immagini dialettiche. Dicono
cose che muovono la nostra
coscienza oggi, che interrogano il
mondo che viviamo, vedono.
Simone vede per noi, avrei voluto
stare al Conservatorio per un po'
di tempo per riacquisire quella
capacità di vedere, di dare profondità
e al tempo stesso superficialità allo
sguardo, di vigilare sull'immagine.
Ho avvertito come un fastidio la
disattenzione del mio sguardo.
Condotta da Simone a guardare una
stampa al platino palladio e alcuni
dettagli ma non minuzie, del ritratto
di Franco Loi realizzato da Simone
stesso nel 2012 per il suo progetto
"Poeti italiani" ho sentito forte
l'incapacità del mio sguardo.
Ma avrei potuto davvero stare e
Sebastiano
Raimondo,
Le Sirende dentro.
Dalla finestra
allo specchio (dal
progetto Napoli
Nuova Luce).
imparare da ogni cosa.
E qui si scopre un altro grande
pregio del Conservatorio. È una
sorta di crocevia. Se vuoi stare puoi
stare, ospite della casina Brugo,
se vuoi imparare puoi partecipare
ad una giornata di lavoro o ad un
laboratorio, se devi cercare il centro
della tua ricerca fotografica puoi
passare lì tutto il tempo che ti serve
per capire con Simone quale sarà
la risposta perfetta a quel lavoro,
se torni più volte inizierà a crearsi
un rapporto reciproco tra le tue
fotografie e il laboratorio, tra la tua
ricerca e quella di Simone, e non
solo per te ma per tutti quelli che
passeranno. Perché ogni passaggio
lascia una traccia, ogni traccia
parla di un diverso modo di fare
fotografia e l'esperienza si trasforma
in conoscenza. E se sei un ragazzo,
non importa, non basta essere dei
grandi autori per stampare qui, ma è
sufficiente essere dei ragazzi in cerca
di un proprio modo di fare e di dire
attraverso la fotografia.
Vi stanno il grande autore e il
ragazzo, alla stessa stregua, in
cerca del proprio sguardo. Succede
sempre e spesso al Conservatorio.
Allora pare che questo modo di
fare, di educare lo sguardo non sia
che la risposta più appropriata per
trasformare un'esperienza stratificata
e profonda in una scuola e in una
intensa occasione di formazione.
È in un delicato equilibrio tra il
fare e il riflettere che si gioca al
Conservatorio l'educazione dello
79
È IN UN DELICATO
EQUILIBRIO TRA IL
FARE E IL RIFLETTERE
CHE SI GIOCA AL
CONSERVATORIO
L'EDUCAZIONE DELLO
SGUARDO.
sguardo. Poi capita che Simone
insegni anche all'ISIA di Urbino
e che alcuni progetti di ragazzi
abbiano le gambe per diventare
ricerche critiche sul ruolo della
fotografia e sulla contemporaneità
della fotografia. E allora succede che
il Conservatorio in qualche modo
questi progetti li adotti, li segua
e talvolta li sostenga. C'è spazio
ovvero apertura qui al Conservatorio
e tempo, tutto quel che serve ad un
giovane fotografo per capire cosa sta
facendo e perché.
“Cercavamo uno stampatore che
utilizzasse la camera oscura per
stampe a colori”, mi racconta
Marcello De Masi. Così è nato
l’incontro con Simone ed il
Conservatorio: “abbiamo incontrato
un amico fraterno ed un grande
artista: da anni fianco a fianco”.
Presente Infinito è il nome della
prima mostra e del primo libro
realizzati, manifesti poetici del
gruppo; è un gruppo di amici, di
autori, è un associazione culturale
no profit. È mettere insieme le forze:
ognuno con la propria poetica.
Riconoscere un punto di incontro
a partire dalle proprie solitudini e
formazioni diverse. È tante persone
- al di là dei sei fondatori - che nei
progetti e nella vita condividono
sguardi, passioni. Simone Casetta
è una di queste.
80 / FOTOGRAFIA
Alvise Raimondi, Erta
(dal progetto Napoli Nuova Luce).
PUBBLICITÀ
In Napoli Nuova Luce, che qui presentiamo,
ideato e curato da Marcello De Masi e realizzato
dall’associazione, gli autori si riconoscono in
una sensibilità comune: lo studio delle ricerche
passate di rappresentazione del paesaggio italiano
diviene il tentativo di restituire un’immagine della
città di Napoli, attraverso fotografia, cinema,
letteratura, musica.
ARK 25 / FRONTIERA
LA CITTÀ RIMOSSA / 83
PUBBLICITÀ
Arriva un momento nella
giovinezza in cui emerge, tanto in
noi quanto agli occhi del mondo,
la consapevolezza di esistere: per
quanto esistiamo già da tempo, deve
trascorrere un certo periodo prima
di esserne consapevoli, prima di
percepirci come esseri distinti, dai
genitori in particolare ma anche dalla
natura, e così di percepire l’Altro1.
Questa acquisizione coincide con il
momento del conflitto, in termini
non necessariamente negativi: il
nostro corpo è in conflitto, poiché in
trasformazione; la nostra mente è in
conflitto, poiché si apre alle domande
e all'incertezza; le relazioni sono
conflittuali, poiché gli altri non ci
comprendono mentre cerchiamo di
identificarci con qualcuno o qualcosa
che possa essere riconoscibile; lo
spazio è conflitto, poiché il mondo
è ora un territorio che possiamo
esplorare in autonomia e nel
quale dobbiamo perciò lottare per
costruire il nostro universo.
Nel tentativo di definire noi stessi e i
luoghi ai quali appartenere sentiamo
la necessità di tracciare radicalmente i
limiti che ci separano da ciò che non
siamo, da ciò in cui non crediamo, da
ciò che è l’Altro.
Vi sono nella città “zone calde” che
incarnano questa separazione tra l’Io
e l’Altro, margini che determinano
una transizione tra modalità di
espressione differenti e lungo i quali
si generano tensioni 2.
In alcuni casi un luogo è una
frontiera quando ospita molteplici
manifestazioni in maniera imprevista.
Lo spazio come frontiera può essere
una linea che si sposta, un presidio
solido o un campo di battaglia
ciclicamente conteso ed azzerato.
Nella città contemporanea le
dinamiche di confronto-scontro fra
dimensioni diverse sono frequenti,
poiché cresce la complessità della
CORPO, CITTÀ,
CONFLITTO
Piazzale Guglielmo Marconi e Piazzale Alpini, Bergamo
Testo e illustrazioni di Francesca Gotti
Fotografie di Giovanni Emilio Galanello
comunicazione all’interno della
struttura sociale, da un punto
di vista non solo generazionale,
politico, culturale ma anche etnico
e mediatico3. La frammentazione
della società non è silenziosa: si
riversa nelle strade, si imprime nello
spazio con i propri codici e riti;
al tempo stesso le espressioni di
questa frammentazione continuano
a essere ridefinite, oscillando tra
l'integrazione e la negazione.
“La città infatti è il luogo della
esternazione del dissenso e del
conflitto” e “anche di recente alcuni
studi insistono sul peso dello
spazio urbano nella genesi delle
proteste pubbliche”4.
ARK 25 / FRONTIERA
84 / LA CITTÀ RIMOSSA
85
CORPO
Le piazze sono in forme diverse
spazi di convergenza e di narrazione,
luoghi dibattuti e di dibattito:
unitamente ai monumenti sono
simboli del paesaggio urbano,
rappresentano le singole identità
cittadine per storia e usi (iconiche in
Italia sono Piazza del Campo a Siena,
Piazza del Popolo a Roma, Piazza
San Marco a Venezia) e talvolta
specifici avvenimenti (Piazza della
Stazione a Bologna, Piazzale
Loreto a Milano).
In quanto luoghi pubblici
significativamente esposti al giudizio
collettivo, le piazze esistenti sono
spesso oggetto di ri-progettazione,
nel tentativo di accrescerne o
ridefinirne il valore estetico senza
talvolta dare sufficientemente peso
ai suoi usi, o diversamente nel caso
di espansioni urbane non godono di
adeguata rilevanza al momento della
pianificazione5.
Il dialogo sulla rigenerazione
dello spazio pubblico nelle città
contemporanee si concentra sulla
mancanza di corrispondenza tra
“dimensione sociale pubblica” e
“città pubblica”, come se l’aspetto
relazionale della società non trovasse
adeguatamente corpo e spazio per
esprimersi6, una riflessione che ha
orientato molteplici tentativi di riprogettazione e pianificazione.
Si è assistito a numerosi interventi
di riqualificazione sperimentale
che hanno saputo coniugare una
riconfigurazione formale efficace a
funzioni partecipative, restituendo
purtroppo la piazza ai cittadini
solo per periodi limitati.
Un caso interessante è rappresentato
da Escaravox, un’installazione
temporanea realizzata nel 2012
nella Piazza del Matadero di
Madrid dallo studio Office for
Political Innovation: riutilizzando
strutture agricole per l’irrigazione,
elementi scenografici e semplici
moduli di arredo, lo studio ha
saputo reinterpretare con un’unica
infrastruttura la spazialità del luogo
integrando una pluralità di funzioni
(il cui cuore è un palco disponibile
ad essere affittato per performance e
concerti).
Un esempio virtuoso e permanente
recente è invece il Superkilen di
Copenhagen, progettato nel 2012
da Topotek 1, BIG Architects
e Superflux, un intervento di
risanamento di 30.000 mq di piazza
lineare che si estende attraverso uno
dei quartieri periferici più multietnici
e problematici della capitale danese
(Norrebro). Il progetto è concepito
come un grande esperimento di
condivisione di pratiche urbane, dove
esaltare la molteplicità di simboli,
linguaggi e culture; organizzato
per segmenti, le diverse aree di
Superkilen sono state realizzate come
estensione delle attività esistenti (il
mercato, il centro sportivo, gli edifici
residenziali) spostando l’accento
sull’aspetto ludico e collettivo e sulla
potenzialità del luogo di essere un
manifesto. Attraverso radio, internet,
posta, i progettisti hanno coinvolto
le 57 comunità etniche del quartiere
per scegliere oggetti che avrebbero
voluto veder installati nella nuova
piazza, generando un collage di
elementi dissonanti per provenienza
e funzione.
CITTÀ
Il carattere di una piazza è
innanzitutto definito dal tessuto
urbano al quale appartiene
storicamente, e che ne definisce i
caratteri morfologici principali: così
Bergamo ospita in ognuna delle
sue zone storicamente definite (il
nucleo medievale, la città veneziana,
l’espansione ottocentesca e la città
moderna) spazi pubblici con qualità
differenti. Alcune aree secondarie
si prestano a essere vissute con
maggiore conflittualità e utilizzate
per manifestazioni e raduni,
trasformandosi però inevitabilmente
in spazi problematici e frequentati
da gruppi marginalizzati. Il fulcro
più sintomatico di questa condizione
è il sistema di Piazza Guglielmo
Marconi (Piazzale della Stazione) e
Piazzale Alpini.
Costellato di istituti scolastici di
secondo grado (Piazzale Alpini è
infatti adiacente ai Licei Vittorio
Emanuele II, Lussana e Secco
Suardo, mentre a sud della stazione è
dislocato il nodo degli Istituti tecnici
Natta, Quarenghi, Paleocapa, Galli,
Pesenti e il Patronato San Vincenzo),
è il punto di arrivo e di passaggio
di migliaia di adolescenti che dalla
provincia raggiungono la città ogni
giorno, ed è al contempo lo spazio
pubblico più critico della scena
urbana.
La Stazione di Bergamo viene
inaugurata nel 1857 definendo
con un intervento netto il nuovo
ingresso alla città, in asse rispetto ai
Propilei neoclassici che delimitano
la porta del centro urbano di
pianura: dal piazzale antistante si
sviluppa un cono prospettico che
si apre sul colle della Città Alta,
circondato all’epoca della sua
costruzione prevalentemente da
coltivi. L’urbanizzazione dell’area si
intensifica nei decenni successivi: nel
1906 viene costruita la stazione della
linea ferroviaria che collega la città
con la valle Brembana; intorno al
1910 viene realizzato un progetto di
ridisegno del Piazzale (con l’aggiunta
di una fontana per commemorare
l’inaugurazione dell’acquedotto
che da Algua giunge a Bergamo)
definendo anche la circolazione delle
automobili; nel 1958 viene infine
ARK 25 / FRONTIERA
86 / LA CITTÀ RIMOSSA
costruita la stazione delle autolinee.
Durante gli anni ‘80 gli interventi
di urbanizzazione si interrompono
e incrementa il degrado dell’area: è
solo all’inizio del 2000 che si iniziano
tuttavia ad attuare programmi di
riqualificazione sostanziali per
il piazzale, rendendo la piazza
pedonale; nel 2008 viene inaugurata
la Ciclostazione 42, un punto
per affittare, riparare e depositare
biciclette, gestito dalle Associazioni
Pedalopolis e Lottovolante, che
nel 2016 viene trasferito all’interno
della Stazione Ferroviaria; nel 2013
viene realizzato il ridisegno della
pavimentazione, delle sedute, che
3 anni dopo viene cancellato e
nuovamente aggiornato secondo un
progetto dell’architetto Ines Lobo.
Piazzale Alpini nasce storicamente
come sito per il Mercato del
Bestiame (Foro Boario) e nel primo
decennio del 1900 viene scelto per
la costruzione dell’Istituto Vittorio
Emanuele II: secondo un progetto
elaborato da Michele Astori il nuovo
edificio scolastico avrebbe avuto un
giardino alberato condiviso con la
città, progetto al quale si aggiunse
il disegno della facciata ad opera di
Marcello Piacentini e l’intervento
di Luigi Angelini. È solo nel 1962
che il Foro viene dedicato al corpo
degli Alpini, acquisendo il nome che
porta oggi, dopo due concorsi (dei
quali il primo annullato) che vedono
vincitore il progetto disegnato
dallo scultore Peppino Marzot in
collaborazione con gli architetti
Giuseppe Gambirasio, Aurelio
Cortesi e Nevio Parmeggiani.
La prossimità con la stazione
ferroviaria e delle autolinee e lo
sviluppo dell’area nei decenni
successivi trascinano la piazza in un
processo di esclusione e degrado:
nonostante la realizzazione di
altri due istituzioni scolastiche e il
87
progetto vincitore, tornando nella,
ormai cronica, condizione di oblio
propria di un caso irrisolvibile.
Nel 2017 l'Amministrazione
comunale annuncia l’apertura di un
nuovo bando per affidare l’incarico
di riprogettare il piazzale in due
diverse fasi, riaprendo così nuove
possibilità e un nuovo dibattito.
CONFLITTO
Cosa determina i caratteri di una
piazza? Gli usi che di essa si fanno
possono essere pianificati al pari dei
suoi elementi solidi?
Le Piazze si definiscono attraverso
segni progettati e segni acquisiti nel
transito di migliaia di studenti verso
le scuole a sud della stazione, la
piazza perde valore, diviene meno
sicura e sottoutilizzata, non solo dai
cittadini ma dagli stessi studenti, che
sostano unicamente sul lato contiguo
all’Istituto tecnico negli orari di
ingresso e uscita dalle lezioni,
mentre per il resto del giorno è
semi-deserta e frequentata da gruppi
marginalizzati.
Negli ultimi decenni si è tentato
di risolvere il problema del
piazzale organizzando festival e
sagre, che hanno purtroppo avuto
ricadute positive circoscritte alla
sola durata degli eventi. Nel 2016
Piazzale Alpini è stato oggetto di
un Concorso di Riqualificazione
insieme alle piazze Carrara e
Risorgimento, ma a differenza di
queste ultime non ha visto alcun
IL DIALOGO SULLA
RIGENERAZIONE
DELLO SPAZIO
PUBBLICO
NELLE CITTÀ
CONTEMPORANEE
SI CONCENTRA
SULLA MANCANZA DI
CORRISPONDENZA
TRA “DIMENSIONE
SOCIALE PUBBLICA”
E “CITTÀ PUBBLICA”,
COME SE L’ASPETTO
RELAZIONALE
DELLA SOCIETÀ
NON TROVASSE
ADEGUATAMENTE
CORPO E SPAZIO
PER ESPRIMERSI.
tempo, evolvono nella quotidianità
manipolate dagli abitanti, ciascun
bordo che le delimita è una frontiera.
Le piazze sono corpi combattuti,
sono lo spazio del costante dialogo
con l’Altro, con ciò che non siamo
e ciò in cui non crediamo, e così
più fortemente la città si riversa
nelle piazze per rivendicare la sua
frammentazione, le sue diversità.
Nell’ultimo decennio le piazze di
tutto il mondo sono diventate icone
dei movimenti di protesta, in Europa
e nel Medio Oriente in particolare
per la crisi del sistema economico
e durante la primavera araba: gli
strumenti mediatici e gli interventi
informali hanno trasformato i luoghi
in incarnazioni delle cause sociali,
riportando al centro dell’attenzione
il valore dello spazio pubblico e della
sua riappropriazione dal basso7.
A Madrid nel 2010 la popolazione
riunita nel movimento degli
Indignados ha occupato Plaza del
Sol per settimane per provocare le
istituzioni riguardo la situazione
socio-economica del Paese e con
risvolti ancora più eclatanti ha
dato vita al progetto El Campo
de Cebada: la riappropriazione
di un’area pubblica degradata
trasformata in luogo per lo sport
e il ritrovo, realizzata da gruppi di
associazioni e volontari che hanno
costruito un’agorà con attrezzature
per il tempo libero e infrastrutture
per eventi. Il movimento di protesta
economico e sociale riversatosi nelle
piazze si è identificato quindi come
il fenomeno globale sovversivo
Occupy8, che negli anni si è evoluto
in forme legalizzate di occupazione
dello spazio pubblico, promosse
da molteplici micro realtà locali,
associazioni e laboratori urbani con
progetti prevalentemente reversibili.
Tra questi interventi alcuni sono
diventati modelli di riferimento,
come le infrastrutture temporanee
mobili di Frame Colectivo a
Lisbona, che nel 2013 ha realizzato
Patio Ambulante9: un insieme di
elementi trasportabili con funzione
di sedute, punto ristoro, palco per
concerti, utilizzati durante alcuni
giorni di attività e successivamente
trasportati in diverse piazze della
città, riadattandosi di volta in volta a
nuove funzioni e nuovi spazi.
Il Collettivo Orizzontale a Roma
si occupa similmente di interventi
temporanei o permanenti di
valorizzazione dello spazio pubblico,
88 / LA CITTÀ RIMOSSA
IMPARANDO
DAI CONFLITTI,
AFFRONTARE UNA
SITUAZIONE DI
DISAGIO PUÒ A
VOLTE SIGNIFICARE
ESTREMIZZARLA,
ACCETTARLA
ATTRAVERSO LA SUA
ENFATIZZAZIONE,
INVENTANDO
LINGUAGGI, SIMBOLI
E RITI CHE PARTONO
PROPRIO DA QUEL
DISAGIO PER
TRASFORMARLO
IN UNA NUOVA
CONSAPEVOLEZZA.
che vedono coinvolta la cittadinanza
tanto nella ri-definizione delle
forme quanto degli usi, come nel
progetto per la piazza di Perestrello
(2011): la trasformazione di un
luogo comune anonimo attraverso
la reinterpretazione di oggetti
urbani dimenticati (materiali
semplici e facilmente utilizzabili)
che rispondono all’interazione delle
persone con lo spazio.
Ridisegnare il sistema di Piazzale
Alpini-Piazzale della Stazione
significa ripensare questi luoghi
pubblici in una prospettiva
inclusiva rispetto al sistema sociale
del quale fanno parte, rendendoli
più accessibili quotidianamente
e permeabili ad usi più intensivi
ed espressivi. Riprogettare non
deve comportare la risoluzione di
problemi, bensì il potenziamento di
pratiche non sempre convenzionali
ed ovvie: il conflitto della città
va ascoltato e veicolato; negare
e reprimere le incomprensioni,
marginalizzare o banalizzare le
differenze, genera violenza anziché
evitarla. Imparando dai conflitti,
affrontare una situazione di disagio
può a volte significare estremizzarla,
accettarla attraverso la sua
enfatizzazione, inventando linguaggi,
simboli e riti che partono proprio
da quel disagio per esorcizzarlo
trasformandolo in una nuova
consapevolezza.
Gli spazi pubblici devono diventare
teatri del confronto, esaltare la
convivenza delle diversità. Una città
che non accetta la conflittualità è una
città incapace di evolvere.
Note
1
2
3
4
5
6
7
8
9
Vittorino Andreoli, Lettere al Futuro: per
un’educazione dei sentimenti, Ed. BURextra,
2008.
Tommaso Vitale, In nome di chi?
Mobilitazione e rappresentanza nelle
mobilitazioni locali, 2007, p. 19.
Carlo Cellamare, Fare città. Conflitti e luoghi
nella città multietnica, in La città degli altri.
Spazio pubblico e vita urbana nella città dei
migranti, a cura di Marco Guerzoni, Urban
Center Bologna 2006, p. 11-14.
AA.VV, Nuove società urbane, a cura di
Valerio Corradi e Enrico Maria Tacchi, Ed.
FrancoAngeli, 2013, p. 161-162.
Marco Romano, La piazza europea, Marsilio
Editori, Venezia 2015.
Judit Bodnar, Reclaiming Public Space,
Urban Studies Journal, vol. 52, SAGE
Publisher, 2015.
Gianpiero Venturini, Carlo Venegani, REACT tools for urban reactivation, Deleyva
Editore, 2016.
Renee Guarriello Heath, Courtney Vail
Fletcher, Ricardo Munoz, a cura di,
Understanding Occupy from Wall Street to
Portland, Lexington Books, 2013.
Framecolectivo.com
PUBBLICITÀ
ARK 25 / FRONTIERA
90 / WUNDERKAMMER
91
“Son rimasto io da solo al bar /
gli altri sono tutti quanti a casa /
e quest'oggi verso le tre son
venuti quattro ragazzini / son
seduti lì vicino a me con davanti
due coche e due caffè / li sentivo
chiacchierare, han deciso di
cambiare / tutto questo mondo
che non va. / Sono qui con
quattro amici al bar / che hanno
voglia di cambiare il mondo.”
Gino Paoli, Quattro Amici (dall’album Matto
come un gatto, Warner Music Group, 1991).
A cura di Giulia Ricci
Lo storico pezzo di Gino Paoli
è il racconto dell’avvicendarsi
delle generazioni attraverso il
passaggio fra adolescenza ed età
adulta. Visto come il momento in
cui si ambisce cambiare il mondo,
“tutto questo mondo che non va”,
come un coacervo di speranze e
possibilità, quest’età rappresenta
una frontiera.
LE OTTO MONTAGNE
CALL ME BY YOUR NAME
Paolo Cognetti,
Einaudi, 2016
Luca Guadagnino,
Italia, Stati Uniti d’America, Brasile,
Francia, 2017
Le Dolomiti sono il luogo dove
i genitori di Pietro si incontrano,
si innamorano e si sposano, ai
piedi delle Tre Cime di Lavaredo.
Pietro però nasce a Milano,
dove nel 1972 si era trasferita la
famiglia. La nostalgia dei genitori
per la montagna rimane fino
alla scoperta di un paesino alle
pendici del Monte Rosa, dove
Pietro passa le sue estati con
Bruno, un ragazzo di montagna.
Il libro racconta dell’amicizia e
delle avventure dei due ragazzi
fra i paesaggi montani, fra
scoperta della montagna e la
scoperta di sé. Nel 2017 il libro di
Cognetti è vincitore del premio
Strega.
Tratto dal libro omonimo di
André Aciman, il film diretto
da Guadagnino racconta della
relazione amorosa fra due
ragazzi, Elio ed Oliver. I due si
incontrano a casa della famiglia
di Elio, dove Oliver è invitato
dal padre di Elio, professore di
archeologia, a trascorrere un
periodo di studio. Le vicende
si svolgono nell’estate del 1983,
principalmente nella cittadina
di Crema, in un’Italia per lo più
sconosciuta ai non italiani. Il film
rende giustizia a una storia al
tempo stesso semplice e preziosa:
stupefacente e disarmante perché
estremamente umana.
THE GREAT NEW YORK
SUBWAY MAP
Emiliano Ponzi,
Abrams Books, 2018
Un italiano racconta,
attraverso le sue illustrazioni,
la storia della mappa della
metropolitana newyorkese,
ideata e disegnata nel 1972 da
un altro italiano, il designer
grafico Massimo Vignelli. La
mappa, che ha segnato la storia
dell’infografica, ancora oggi
parla ai milioni di utenti che
utilizzano la metropolitana di
New York. Ponzi si rivolge ai
giovani lettori per trasmettere
loro la sua fiducia nel graphic
design come strumento di
soluzione di problemi al tempo
della sovrapproduzione di
informazioni.
L’ARTE DELLA GIOIA
Goliarda Sapienza,
Einaudi, 2014
Il libro racconta della vita di una
bambina, ragazza, e poi donna
anticonvenzionale, che nasce in
Sicilia il primo gennaio 1900.
Modesta è una carusa tosta, un
personaggio in grado di educarsi
attraverso i libri e attraverso
la sensualità, di scombinare le
regole di una società patriarcale
negli anni del fascismo. La
formazione sentimentale è
contestualmente politica, in un
indissolubile rapporto fra la
dimensione carnale e intellettuale
dell’esistenza. Il libro è stato
un caso editoriale: inizialmente
rifiutato in Italia, è stato prima
pubblicato in Francia. Oggi
è finalmente considerato un
capolavoro della letteratura
italiana.
POST ZANG TUMB TUUUM.
ART LIFE POLITICS:
ITALIA 1918–1943
Una mostra a cura di Germano
Celant, Fondazione Prada, dal
18 febbraio al 25 giugno 2018
La grande mostra è dedicata
all’Italia nel periodo fra i due
grandi conflitti mondiali.
Le oltre 500 opere esposte
raccontano di questo periodo di
produzione febbrile nel contesto
dell’arte italiana, delineando
relazioni precise fra, politica,
società e cultura. Attraverso
opere e documenti, il tentativo
è quello di individuare, negli
anni dell’avvento del fascismo,
come artisti, architetti e designer
interpretassero il proprio ruolo
nella società, in bilico fra libertà
espressiva e attivismo politico.
ARK 25 / FRONTIERA
92 / LEMMARIO
93
A cura di Elena Turetti
31 LEMMI TRATTI DALLE RUBRICHE DI ARK 24
Ambivalenza
Radical design / Guido Drocco,
Franco Mello, Cactus, 1972.
Coalizzazione
Collettivo
Haus-Rucker-Co, Gelbes herz, Wien, 1968.
Conquista
Convitto
Corpo
Esplorazione
Michelangelo Antonioni, La notte, 1961.
Partecipazione
Ragazzo
Jimmy Liao, Incontri disincontri, Ed. Terre di
mezzo, 2017.
Alexander Rodchenko,
Jump into Water, Astafyev, 1934.
Sfida
Charles Eames, Kazam machine, una delle
prime sperimentazioni nella produzione di
componenti in legno multistrato curvato,
1942.
Fluttuazione
Philippe Parreno, Hypothesis, Hangar
Bicocca, Milano, 2015.
Riappropriazione
Scuola
Vittoriano Viganò, Istituto Marchiondi
Spagliardi, Milano, 1953-1958 (fotografia di
Daniele-Zerbi).
Colonizzazione
Agnoldomenico Pica, Adolescenza
dell'Architettura, Emporium, LXXXI, 481,
p. 12.
Ardere
Ardire
Desiderio
Dinamicità
Conflitto
Jacques Herzog e Pierre De Meuron,
Magazzino Ricola, Laufen: studio delle
immagini serigrafiche prodotte a partire dalle
fotografie di Karl Blossfeldt, 1987.
Carlo Mollino, Bisiluro, copertina della rivista
Quaderns d'Arquitectura I Urbanisme, n. 174,
1987.
Emancipazione
Seduzione
Sensualità
Francesca Woodman, Self potrait II, 1976.
Triennale di Milano, Giancarlo de Carlo
discute con Gianemilio Simonetti, protesta
studentesca del maggio 1968.
Attesa
Biologia
Campo da gioco
Strada
Transizione
Viaggio
Frontiera
Yves Klein, Firewall, giardino del Museo
Haus Lange, Krefeld, 14 gennaio 1961.
Incoscienza
Iniziazione
Pag. 9
Pag. 44
Si laurea in architettura nel 1938.
Ha progettato numerosi edifici
privati e pubblici a Bergamo, tra
i quali la “casa della rotonda”
(1938-1939), la casa Torre Rinaldi
in via Camozzi (1954). È l’unico
architetto, fra i molti coinvolti, a
seguire l’intera vicenda progettuale
della ricostruzione del Seminario
Arcivescovile di Bergamo,
dall’incarico a Giovanni Muzio
fino alla chiusura del cantiere, di cui
seguì la direzione lavori.
Enrico Sesti
Pag. 58
Si laurea in architettura nel 1967.
Nel 1968 fonda con il padre e
con Ezio Agazzi lo studio P68 e
si occupa della progettazione del
nuovo Collegio S. Alessandro.
Nel corso della sua attività
professionale si segnalano il
progetto del parcheggio sotterraneo
di Piazza della Libertà (1988),
diversi incarichi per la Camera
di Commercio di Bergamo e per
committenti privati.
Pag. 14
ARK 25 / FRONTIERA
Pag. 44
Pag. 14
Giorgio Sesti
Pag. 6
Studio Associates è una pratica
d’architettura fondata a Brescia,
nel 2017, da Marco Formenti
(Bergamo, 1990), Nicolò Galeazzi
(Brescia, 1987) e Martina
Salvaneschi (Johannesburg,
1989). Studio Associates lavora
nel campo della ricerca e della
progettazione architettonica
con particolare interesse al
processo, al luogo (storia del
luogo), alla costruzione (materia) e
all'artigianato, accostando alla pratica
professionale classica un approccio
più sperimentale tramite laboratori di
costruzione partecipata con piccole
comunità (spesso, in situazioni
sociali critiche). Studio Associates
ha realizzato progetti in Italia, in
Portogallo e in Messico.
STUDIO Associates
(1915-2014) Nato a Milano
da nobili Varesini, si laurea
in Architettura al Politecnico
di Milano nel 1939, avendo
come maestri Gio Ponti,
Piero Portaluppi e Giovanni
Muzio tra gli altri. Partigiano
attivo nella Resistenza, avvia la
propria attività professionale
assieme ai colleghi Bruno
Ravasi, Luigi Vermi e Luigi
Ghidini, con i quali realizza il
primo progetto, un’abitazione
privata a Casorate Sempione, nel
1945, che verrà presentata in una
copertina di Domus del 1947.
Contribuisce alla ricostruzione
postbellica del Milanese, con
importanti realizzazioni tra le quali
i palazzi di via Fatebenefratelli, via
Corridoni e via Sforza. Negli anni
Sessanta incentra la propria ricerca
compositiva sulla compenetrazione
di architettura e paesaggio, con
realizzazioni significative ad
Alberese (1961) e in Sardegna
(1964). Sono sempre degli anni
Sessanta i primi modelli di città
ideale, ricerca che riprenderà negli
anni Duemila, con il progetto di una
Città Ideale per 25.000 abitanti.
Guglielmo Mozzoni
Anna Chiara Cimoli
Manuela Bandini
Storica dell’Arte, specializzata
in Museologia, si occupa di
inclusione sociale nei musei,
di progetti di co-curatela e
di partecipazione ai processi
culturali. Ha lavorato come
ricercatrice per diverse
istituzioni, tra cui Politecnico di
Milano e MUDEC, e collabora
con l’Università Cattolica e
l’Università Statale di Milano.
Per ABCittà si occupa di musei e
diversità culturale. Ha progettato il
laboratorio interculturale del Museo
del 900 di Milano. Nel 2007 ha
pubblicato il libro ‘Musei Effimeri,
Allestimenti di Mostre in Italia tra
1947-1963’.
MARC è stato fondato nel 2006
da Michele Bonino e Subhash
Mukerjee e ha proseguito la
sua attività fino al 2016. Lo
studio ha realizzato progetti
di architettura, riuso e interior
design in Italia, India e Cina. Il
lavoro di MARC è stato esposto
al Padiglione Italia alla Biennale
di Venezia 2010, ad Artissima
Fair (Torino, 2010), alla Royal
Academy of Arts (Londra, 2009),
al London Festival of Architecture
(2008). MARC è stato finalista alla
Medaglia d'oro per l'architettura
italiana (Triennale di Milano,
2009) e ha vinto tre volte il premio
Architetture Rivelate (Torino,
2009, 2010 e 2012). MARC è
stato relatore al XXIII World
Architecture Congress (UIA 2008)
e ha tenuto conferenze in Italia e
all'estero.
Studio MARC
Pag. 74
Pag. 74
Pag. 14
Architetto, docente di storia
dell’arte, ha maturato esperienze
nella progettazione architettonica
e urbana, occupandosi
prevalentemente dei temi della
riqualificazione dei contesti
urbani e ambientali. È autrice
di lavori pubblici e privati, di
concorsi, di pubblicazioni in testi
e riviste di settore. Relatore invitato
a diversi convegni, consigliere
dell’Ordine e di IN/ARCH, è
stata membro di Commissione
Edilizia e coordinatore di progetti
di Educazione ambientale in rete
con l’Università di Bergamo e
la Regione Lombardia. Dal ‘99
collabora con i Servizi Educativi
della GAMeC, occupandosi
Pag. 23
È un’associazione culturale nata
nel 2014 fondata da Marcello
De Masi, Luigi Fiano, Lorenzo
Martelli, Alvise Raimondi,
Sebastiano Raimondo e
Giovanni Scotti. Si occupa di
produrre, curare e promuovere
incontri, mostre, pubblicazioni
e attività di collaborazione con
persone ed enti, pubblici e privati,
in ambito artistico/culturale. Tra
le varie attività, frutto di questi
primi anni di lavoro sono la mostra
ed il libro omonimi, i progetti
5 - A celebration of the Senses di
Stefano di Lorenzo, Napoli Nuova
Luce, Stati di Fatto, Per Milano
il Giardino e la città. Progetti
realizzati tra l’Italia, la Francia, il
Portogallo e gli Stati Uniti.
Presente Infinito
Simone Casetta
(1961) Nato a Milano, inizia
molto giovane a frequentare gli
studi fotografici dei fotografi
milanesi Gianni Greguoli e
Luciano Ferri. Inizia la sua
carriera professionale nel 1980,
lavorando per alcune testate
giornalistiche. Si appassiona alle
tematiche sociali globali, come
l’inegualità della distribuzione
delle risorse alimentari, temi che
diventano fondamentali in tutta la
sua opera. Professore di Fotografia
all’ISIA di Urbino, nel 2010 fonda
il Conservatorio di Fotografia,
un centro di cultura fotografica
pre-digitale impegnato nella
pratica delle tradizionali tecniche
di stampa dirette da negativo.
Oltre ai riconoscimenti ricevuti, ha
pubblicato diversi libri monografici,
e partecipato a numerose mostre
italiane e internazionali sia
personali che collettive.
(1926-2008) Architetto,
ingegnere, docente presso la
facoltà di Architettura del
Politecnico di Milano, è stato
inoltre fondatore e direttore per
20 anni della rivista Costruire,
fondatore dell’Inu Lombardia e
dell’ADI. Testimone dei fermenti
culturali che hanno caratterizzato
l’architettura del XX secolo - è stato
a contatto con Le Corbusier nello
studio parigino, e protagonista del
mecenatismo di Adriano Olivetti -,
Fiori ha intuito con largo anticipo
la necessità di integrare tutti
gli aspetti della produzione
edilizia, e l’importanza di porre
la tutela ambientale alla base della
progettazione.
Leonardo Fiori
Ezio Agazzi
Progettista, durante la seconda
guerra mondiale interrompe gli
studi in disegno presso la scuola
Esperia di Bergamo e viene
militarizzato come disegnatore
presso la Caproni aeronautica.
Collabora per diversi anni con gli
architetti Luigi e Sandro Angelini.
Pur non avendo conseguito il
titolo di architetto, apre un proprio
studio di progettazione e licenzia
numerosi progetti, avvalendosi
della collaborazione degli ingegneri
Domenico Deleidi e Angelo
Cortesi. Fra le opere principali: il
complesso scolastico delle Suore del
Sacro Cuore a Bergamo, con Sandro
Angelini (1958-1959); l’istituto
Cesare Pesenti di Bergamo, con
l’architetto Aldo Piantanida (vince
il concorso nel 1963); la casa di
riposo di Verolanuova (Brescia, anni
’60); l’istituto dei padri Monfortani
a Negrar in Valpolicella (Verona,
anni ’60). Interviene nel progetto
e nella costruzione del seminario
arcivescovile di Bergamo, che
conduce a termine nel novembre
1967 con la direzione lavori di
Enrico Sesti e Angelo Cortesi. È tra
gli autori del volume Il colle di S.
Giovanni. Storia e arte, SASAAB,
Bergamo, 1996.
94 / NOTE BIOGRAFICHE
prevalentemente del rapporto tra
espressione artistica contemporanea
e architettura.
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