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AI LETTORI Terra di mezzo, FRONTIERA, luogo della transizione e della trasformazione fisica e psichica, della tensione e della possibilità, l'adolescenza è età complessa e a volte sofferta. Il corpo è quello di un bambino e di un giovane adulto insieme. La psiche è imbrigliata tra queste due condizioni: da un lato affronta la perdita dell'infanzia e della sua libertà; dall'altro sperimenta l'ingresso, contrassegnato dalla negazione e dal rifiuto, nel mondo delle norme sociali che premono sulla libertà individuale. Da un lato il gruppo diventa il luogo della protezione, del farsi coraggio l'un l'altro, ma anche della sfida e dello stigma; dall'altro le istituzioni burocratizzate rappresentano l'insieme dei “tu devi” che daranno luogo al sentimento della fuga, all'uomo in rivolta. L'adolescente, senza esserne ancora consapevole, si trova ad essere “schiacciato tra una oggettività che lo opprime e una soggettività che lo esilia”1, e in ciò si dischiude una condizione esistenziale conflittuale che ha contrassegnato molte pagine della storia individuale e collettiva della modernità, non solo circoscritta ad un'età anagrafica, nelle società a capitalismo avanzato. Tra un'infanzia che precorre i tempi e anela a trasformarsi in adolescenza e una vita adulta che vuole retrocedere ad una adolescenza inappagata, questa complicata età di mezzo si trova suo malgrado ad essere al centro di opere letterarie, cinematografiche, progetti d'arte. La sua capacità seduttiva risucchia le altre età della vita e invita a vivere una perenne insoddisfazione, una perpetua incoscienza e una volontà di perdersi. La tensione a rischiare, desiderata con l'ardore dei vent'anni, è il sintomo di una abdicazione alla responsabilità del vivere, percepita anziché come una sfida come una rinuncia a quell'inquietudine e a quel sentimento dell'angoscia necessari per sentirsi vivi e respingere il conformismo dei padri. L'adolescenza è, etimologicamente, ad-olescere, tendere ad essere tutto: è ardere, è quel fremito a cui corrisponde un'età in cui la forza biologica dell'individuo è al suo massimo grado e si traduce in una ribellione alla noia, alla falsità, ad una vita monodimensionale così lucidamente analizzata da Herbert Marcuse ne L'uomo a una 1 ARK 25 / FRONTIERA 2 AI LETTORI 1 dimensione e nel romanzo La noia di Alberto Moravia. È una difesa di ciò che non si è ancora perduto, l'infanzia, e che non si vuole sia violato dalla viltà. È pure terrore dell'esposizione al giudizio dell'altro, è il lek, la paura del palcoscenico descritta da Clifford Geertz, a cui si oppone il tiepido rifugio nel conformismo: spesso ci si “veste” allo stesso modo spegnendo gli irripetibili “io sono” in una somiglianza che rende gli uni irriconoscibili dagli altri. Dai soldati ragazzini nati nel 1899, inebriati dalle promesse di gloria profuse dalle gerarchie militari, descritti da Francesco M. Cataluccio nel saggio Immaturità. La malattia del nostro tempo, al giovanilismo dei quarantenni di oggi, l'adolescenza ha attraversato un secolo di mutazioni sociali che hanno dilatato la sua ampiezza anagrafica. Da età compressa in una manciata d'anni e di cui sbarazzarsi al più presto, l'adolescenza si è presa uno spazio e un tempo sempre più grandi fino alla consacrazione che, dal secondo dopoguerra, l'ha posta al centro di qualunque campagna pubblicitaria, forgiando un profilo di consumatore (benché la storia del consumo degli oggetti ci riporti almeno al XV secolo) la cui insoddisfazione - materiale, affettiva, civile - è il carburante di una produzione senza fine di feticci e surrogati consolatori. Nella rubrica Crossing gli adolescenti, formidabili censori di ogni ipocrisia, prendono la parola ponendoci in ascolto rispetto alle loro convinzioni e idee di futuro. In Atlante e ne La città rimossa intervengono in modo diretto e tangibile nella trasformazione di luoghi altrimenti negletti, di cui rivendicano l'uso. In Fotografia si misurano con le immagini fotografiche come oggetti fisici, fatti di luce, carta, reagenti chimici, desiderio e attesa. Di quali strumenti può disporre l'architettura quando essa è chiamata a relazionarsi con l'adolescenza? Tra gli estremi 1 Il giovane Ninetto Davoli nel ruolo Note del postino in Teorema, girato nel 1968 da Pier Paolo Pasolini. 1 della repressione - della volontà di vivere, del desiderio, del piacere - e della sua incitazione fino al parossismo, come nella città sopraelevata descritta da Rem Koolhaas in Exodus or the voluntary prisoners of architecture, l'architettura è, insieme alle tecnologie digitali, il più potente strumento di condizionamento del nostro corpo nello spazio: ne determina le possibilità di movimento e le frontiere, introduce tabù attraverso la delimitazione di spazi inaccessibili che nutriranno tuttavia il desiderio della loro violazione. Sottostimare il ruolo educante dell'architettura, il suo contrapporsi al corpo in un dispiegarsi di possibilità e di vincoli, preferendo ad essa l'intangibilità di mondi virtuali confina l'individuo alla solitudine dei sensi e alla perdita dell'esperienza, dell'imprevisto, dell'incontro con il mondo. I progetti individuati da Ark in questo numero dedicato al rapporto tra adolescenza e frontiera oscillano allora tra l'atto del contenere, del dar forma, del circoscrivere a quello opposto del distendere la mano allentando la presa, fino alla scomparsa dell'idea di ambiente confinato e alla sua mutazione in un intorno aperto, da esplorare e percorrere per conoscere se stessi. L'esplorazione di ciò che è sconosciuto fa insorgere in noi la paura, un sentimento che ridimensiona le possibilità di azione dell'individuo conformato, mentre espande la libertà dell'adolescente, proiettato nella ricerca della propria identità. Così tra le pagine di questo numero si dispiegano i racconti di un raffinato collegio urbano che fa un uso virtuoso del laterizio e del calcestruzzo a vista (900 Bergamo), di un rifugio alpino modulato sulla geometria cristallina di un minerale (900 lombardo), di aggetti e sbalzi strutturali che sfidano la gravità (Enciclopedia del saper fare), di una piccola rimessa per le canoe e di un padiglione per il raccoglimento e l'ascolto del bosco (Contemporaneo lombardo), di una dimora solitaria sospesa tra le querce e i pioppi nel parco del Ticino (Incontri ravvicinati), di trincee e torri di avvistamento progettate da giovani architetti e ingegneri arruolati nel primo conflitto mondiale (Land). Tratto comune a queste architetture è la ricerca di una sincerità costruttiva, di una condotta etica, di una consonanza ambientale priva di mistificazioni. Nella scultura, sincera (dal latino sine-, senza, e cera) è la statua autentica, non contraffatta, priva della cera che veniva colata nelle imperfezioni e coperta di polvere di marmo con lo scopo di nascondere i difetti dell'opera. Ad essere raccontate in Ark sono architetture che sorgono sulle Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di lei, 1967. 3 frontiere, che tracciano limiti, che desiderano oltrepassarli. I margini delle città, i confini tra il mondo civilizzato e quello selvatico e disabitato sono il terreno di prova dell'adolescenza, che qui cerca risposte e anela a misurarsi, mettendo in atto usi non servili, preludio a quella disobbedienza civile formulata da Henry David Thoreau. Le architetture che sorgono su una frontiera hanno una responsabilità grandissima: circoscrivono lo spazio abitato dall'uomo civilizzato, ponendo un argine all'urbanizzazione per preservare il mistero dell'incolto e la sacralità della foresta; si proiettano verso le terre indecise, che non sono ancora territori, per coglierne il senso senza violarle o distruggerle. Sulle frontiere si è posti nella condizione di non appartenere a nulla e allo stesso tempo a tutto, si è il bersaglio e l'osservatorio insieme, si è l'oggetto della contesa e il suo moderatore, talvolta il suo capro espiatorio (dall'uso degli antichi ebrei di allontanare un capro nel deserto dopo averlo caricato delle colpe del popolo). Le architetture che stanno su una frontiera portano i segni di questa ambivalenza, accolgono i conflitti e ne sono testimoni, esplicitandoli e lasciandosene così consumare o mettendoli a tacere, certo non rammendandoli. La riflessione su adolescenza e frontiera non può non rimandare ai movimenti e ai gruppi riunitisi attorno alla categoria dell'Architettura Radicale, che ebbe la sua fortuna critica durante gli anni della contestazione politica del '68, quando l'idea di poter rovesciare lo stato delle cose si misurava nelle opere costruite e non solo immaginate. L'adolescenza di allora, la sua attrazione per ciò che era nuovo, trovava nell'architettura radicale, nelle sperimentazioni di matrice technoid, nelle fibre sintetiche, nei materiali compositi brevettati nel corso di quegli anni un orizzonte liberatorio. L'adolescenza di oggi, con la sua inesauribile tensione alla verità, attraversa con circospezione i ritorni all'ordine, gli ambienti formali e artificiosi che riabilitano vecchie e nuove liturgie urbane, terreni comuni solo in apparenza liberati dai conflitti. L'adolescenza guarda altrove, intraprende visionari viaggi iniziatici, alla ricerca della propria voce interiore, di quel giardino in cui abitiamo e che James Hillman chiamava anima, delle consonanze con la voce di singoli maestri, di esperienze autentiche, vissute al prezzo dell'isolamento, incuranti di un riconoscimento tardivo e involontario. L'autorevolezza di un maestro non va cercata nella fama, nella doxa, nella reputazione (ciò che gli altri pensano del suo lavoro). Questo gli adolescenti lo sanno da sé. Davide Pagliarini ARK 25/ FRONTIERA S.E.S.A.A.B. S.p.a. Viale Papa Giovanni XXIII, 118 - 24121 - Bergamo CF e P.IVA 01873990160 Direttore responsabile Alberto Ceresoli Direttore scientifico Davide Pagliarini PUBBLICITÀ Comitato scientifico Federico Bucci Imma Forino Renata Meazza Franco Farinelli Silvia Loddo Massimiliano Savorra Comitato di redazione Francesca Acerboni Francesca Gotti Maria Claudia Peretti Elena Turetti Gianluca Gelmini Marco Mazzola Giulia Ricci Articoli e contributi di Manuela Bandini Giulia Maria Crespi Michela Facchinetti Massimiliano Savorra Anna Chiara Cimoli Lorenzo Degli Esposti Stefano A. Poli Fotografie Ugo Allegri Marcello De Masi Luigi Fiano Beppe Giardino Lorenzo Martelli Pier Paolo Pasolini Alvise Raimondi Giovanni Scotti Martina Biondi Andrea Fabbri Giovanni Emilio Galanello Gianluca Gelmini Davide Pagliarini Stefano A. Poli Sebastiano Raimondo Studio Associates Disegni e illustrazioni di Ezio Agazzi Francesca Gotti Paolo Mezzanotte Enrico Sesti Studio Associates Leonardo Fiori Marco Mazzola Davide Pagliarini Giorgio Sesti Studio Marc Archivi Archivio Ars Restauri, Bergamo Archivio Leonardo Fiori Archivio Mart, Rovereto Archivio Pino Pizzigoni, Biblioteca Angelo Mai, Bergamo Archivio Giorgio Sesti, Bergamo Archivio Giotto Stoppino, Milano Archivio Studio Agazzi, Bergamo Collezione privata Alberto Griffini, Milano Pubblicità Sesaab Servizi S.r.l. – Divisone SPM Viale Papa Giovanni XXIII, 124 – 24121 Bergamo tel. +39.035.358888 Progetto grafico e impaginazione Moma Comunicazione S.r.l. – Bergamo tel. +39.035.358853 Stampa Litostampa Istituto Grafico S.r.l. – Bergamo 01 06 EDITORIALE ANNA CHIARA CIMOLI SPROPORZIONATA ADOLESCENZA 09 CROSSING INCONTRO CON MANUELA BANDINI E GLI STUDENTI DEL LICEO F. LUSSANA DI BERGAMO L'ABITARE PER L'ADOLESCENZA IN 5 PAROLE 14 900 BERGAMO EZIO AGAZZI, ENRICO SESTI, GIORGIO SESTI GRAVISSIMUM EDUCATIONIS E ARCHITETTURA 23 900 LOMBARDO LEONARDO FIORI RIFUGIO PIROVANO, PASSO DELLO STELVIO 32 ENCICLOPEDIA DEL SAPER FARE ARCHITETTURE SOSPESE SUL LIMITE 39 RESTAURO ARS RESTAURI CONSERVAZIONE È INNOVAZIONE 44 CONTEMPORANEO LOMBARDO STUDIO MARC, STUDIO ASSOCIATES AVAMPOSTI DEL SÉ 50 ATLANTE SPAZIO PUBBLICO E PARTECIPAZIONE GIOVANILE A BERGAMO I RAGAZZI E LA CITTÀ 58 INCONTRI RAVVICINATI GUGLIELMO MOZZONI CASA DEL QUAC 66 LAND IL GENIO MILITARE DURANTE LA GRANDE GUERRA IL PAESAGGIO FERITO 74 FOTOGRAFIA CONSERVATORIO DELLA FOTOGRAFIA OCCHI CHE VEDONO 83 LA CITTÀ RIMOSSA PIAZZALE G. MARCONI E PIAZZALE ALPINI A BERGAMO CORPO, CITTÀ, CONFLITTO Registrazione Tribunale di Bergamo n. 11 del 03/12/2017 – Trimestrale - Anno 7 n° 25 90 92 © S.E.S.A.A.B. S.p.a. 2018 Riproduzione Riservata 94 In copertina Guglielmo Mozzoni, Villa alla Zelata, Bereguardo (Pavia), 9 febbraio 2018 (fotografia di Davide Pagliarini). AI LETTORI WUNDERKAMMER LEMMARIO NOTE BIOGRAFICHE ARK 25 / FRONTIERA 1 La copertina di 50 Years Bauhaus. German Exhibition, Royal Academy of Arts, Londra, 1968 (biblioteca di Giotto Stoppino). 6 EDITORIALE 1 SPROPORZIONATA ADOLESCENZA Anna Chiara Cimoli Kontakthof è uno spettacolo tenero e tremendo di Pina Bausch del 1978. I complessi, le debolezze, i modi buffi e tristi che inventiamo per camuffarli vi escono allo scoperto, diventano i protagonisti. Trent’anni più tardi, poco prima di morire, la coreografa lo ha voluto danzato da ragazzi fra i 14 e i 18 anni. Vederlo è un’esperienza straniante: le goffaggini, i piedi lunghissimi rispetto al corpo, la difficoltà a stare sui tacchi, la camminata a scatti, il gioco astruso e ingovernabile del desiderio sono lì autentici, puri. Non c’è sollievo, però, non c’è distanza critica nel guardarlo: in quel “loro” vediamo noi adulti, diventati solo più abili a dissimulare le nostre insicurezze. Rileggiamo noi bambini, e prefiguriamo noi anziani. Non ci separiamo, ma forse ri-capiamo, assorbiamo. L’adolescenza è un altrove per eccellenza, nella nostra lettura corrente: possiamo parlare con tenerezza della nostra infanzia, ma pochi sono quelli che ricordano con allegria quell’età. Per questo non c’è derisione, non c’è voyeurismo nella lettura di Pina Bausch. È quella che Claudio Magris definisce “la stagione della teoria, inesorabile e rigida, perché in essa confluisce tutta l’indicibile e tesa nostalgia della vita”. Mi è sempre piaciuto pensarla, seguendo Magris, come una stagione di rigidità, contro un’adultità che richiede invece di essere flessibili, resilienti, pazienti. Mi sembra una lettura anticonformista, visto che nel discorso comune pare, invece, prevalere un’idea di mollezza, di eccessiva adattabilità degli adolescenti, esseri in formazione plasmabili e adattabili come barbapapà. Si misura il mondo: con il proprio corpo, prima di tutto. Si misura il limite: del lecito, del possibile, del plausibile. Si misura la frontiera: fra me e gli altri, fra quello che vorrei essere e quello che sono, fra quello che mi piace e quello che posso davvero fare. Per farlo bisogna essere rigidi come un metro di legno, altrimenti non funziona. Scriveva Ernesto Nathan Rogers nella piccola, preziosa mostra alla Triennale del 1951 Architettura, misura dell’uomo (con Vittorio Gregotti e Giotto Stoppino): "Questa sala è dedicata all’architettura, espressione concreta dell’uomo, sintesi della sua misura fisica e spirituale. La misura fisica dell’uomo determina le dimensioni necessarie dell’architettura: è la misura costante dovuta alle nostre condizioni anatomiche e fisiologiche. Ma infinite variazioni subisce la misura necessaria nel soddisfare le complete attività dell’uomo e le sue aspirazioni. Lo spirito creativo, mentre la interpreta, le conferisce diverse grandezze. Uomo, architettura, uomo, ecco il ciclo continuo dell’origine, dei mezzi e dei fini. Aggiratevi liberamente per la sala: i documenti disposti nello spazio suggeriscono il tema: architettura, misura dell’uomo. Essi acquistano pieno significato quando vi inserite con i vostri sentimenti ed i vostri pensieri, poiché siete, anche qui, i protagonisti dell’architettura". Giotto Stoppino, che anni fa ero andata a cercare per chiedergli di questa mostra, mi diceva che l’allestimento - all’apparenza misurato, elegante, tanto da volervi cercare una sezione aurea, una legge proporzionale - era governato dall’idea che, citando Mallarmé, chiamava il “colpo di dadi”: l’immagine era quella delle pagine strappate da un libro e lanciate per aria. Caos e cosmo si tenevano stretti, in quella mostra, e Rogers aveva voluto un ghiaietto per terra in modo tale che i passi facessero rumore e ci ricordassero di avere un corpo: lo stesso che nella locandina della mostra apriva le persiane, e la misura delle braccia e la distanza fra le persiane erano commisurate, erano armonizzate. Questo a dire che rigidità e colpo di dadi possono convivere, e perfino essere funzionali l’uno all’altro. Che l’esplorazione della frontiera giustifica la rigidità, richiede calzature adatte e vestiti comodi: da qui le scarpe progettate dall’artista Judi Werthein per aiutare i migranti messicani che oltrepassano il confine con gli Stati Uniti, al cui interno ci sono una bussola e degli analgesici. Non è una metafora appropriata? Siamo al museo. Adesso, ragazzi, sdraiatevi per terra, dico io. E loro ma davvero? Si può fare? Questo mi fa sorridere, perché fanno cose ben più fuori luogo. Ma poi il piacere di stare lì, lo sguardo che pian piano si dilata, il gusto di sostare, ed ecco che poi arrivano le parole, le osservazioni acute, il contatto con lo spazio e le sue opere. Penso sempre alla mostra di Rogers, Gregotti e Stoppino quando li vedo lì, sdraiati, 7 adolescenti ad circulum et ad quadratum. La perfetta proporzione delle loro braccia che aprono le persiane e il peso del loro corpo sul ghiaietto. Quante frontiere da tenere sotto controllo. E regole da infrangere, con intelligenza. Ripenso anche a una poesia di Wisława Szymborska, Un’adolescente, che parla di un respiro lungo che a un certo punto ri-comprende anche l’adolescenza, la addomestica, la rende funzionale. Ecco l’adolescente che la poetessa incontra: una diversa se stessa. La riconosce [...] solo quando sparisce e nella fretta dimentica la sciarpa - Una sciarpa di pura lana, a righe colorate, che nostra madre ha fatto per lei all’uncinetto. La conservo ancora. ARK 25 / FRONTIERA Liceo F. Lussana, Bergamo, 2018 (fotografia di Andrea Fabbri). L’ABITARE PER L’ADOLESCENZA IN 5 PAROLE Incontro con gli studenti della classe IV B del Liceo Scientifico F. Lussana di Bergamo e con Manuela Bandini, architetto e docente. A cura di Maria Claudia Peretti PUBBLICITÀ Gli adolescenti che vivono a Bergamo, compresi nella fascia tra i 15 e i 19 anni, sono 5.702, 2.990 maschi e 2.712 femmine. Sul totale della popolazione che ammonta a 120.518 abitanti, rappresentano il 4,73%. Allargando lo sguardo alla fascia d’età immediatamente precedente, quella compresa tra i 10 e i 14 anni, il numero diminuisce a 5.422 (2.792 maschi e 2.630 femmine), mentre nella fascia immediatamente successiva, tra i 20 e i 24 anni, il numero aumenta fino a 5.825, 2.994 maschi e 2.831 femmine: il fenomeno dell’invecchiamento sociale viene ben reso dalla forma grafica della ‘piramide d’età’ che, contraddicendo il suo stesso nome, tende più ad assomigliare a un fungo, con uno stelo via via sempre più esile sul quale si appoggia un cappello via via sempre più pesante. CROSSING / 9 ARK 25 / FRONTIERA 10 / CROSSING È lo stelo su cui fondiamo il futuro del nostro sistema sociale, della sua organizzazione, del suo modello di sviluppo e di welfare, delle sue regole e valori. Della città e della sua forma. In questo numero di Ark, Crossing si sposta nella classe IV B del Liceo Scientifico Lussana di Bergamo per mettersi all’ascolto delle voci di un gruppo di studenti raccolte e commentate da Manuela Bandini, architetto e loro docente di storia dell’arte: è un breve viaggio attraverso i frammenti dei pensieri elaborati e scritti da questo gruppo di adolescenti attorno a 5 parole chiave proposte da Manuela - città, casa, strada, architettura, progetto. Ne esce un quadro composito e denso, che incuriosisce e fa riflettere. Maria Claudia Peretti È la fotografia di un’adolescenza sentimentale e poetica, consapevole e disincantata, ma non visionaria, né rivoluzionaria, comunque alla ricerca di sicurezza, quella rivelata dalle riflessioni di una classe di liceali sui temi dell’abitare Se in prima battuta molti ragazzi hanno associato ai concetti di ‘città’, ‘casa’ e ‘strada’ la definizione trovata nel dizionario scientifico, dato acquisito e garanzia di certezza, nel corso del confronto è emerso il grande valore emozionale evocato dai concetti proposti. Non diversa, anche se più riferita in termini disciplinari, è stata la reazione ai termini ‘architettura’ e ‘progetto’. Non è comunque ‘questa città’, non la ‘loro’ casa, non la strada che percorrono ogni mattina per andare a scuola ad esercitare un qualsivoglia potere su di loro: è ciò che essi provano - attaccamento, protezione, perplessità, distacco, fastidio - a dare senso e valore a quegli spazi. È al più ampio senso 11 del vivere che questi adolescenti associano l’idea di abitare. Manuela Bandini CASA La casa, prima di essere spazio fisico, luogo in cui rappresentarsi e da immaginare, è soprattutto famiglia, affettività, per molti ancora “nido”; è ricordo, memoria e storia, oltre che un tempo presente avvertito nella sua instabilità e un futuro affidato alla connessione globale del web. (MB) La casa è molto importante nella vita di tutti noi, è un ambiente in cui cresciamo ed è il nostro rifugio, dove possiamo stare al sicuro. Inoltre casa può anche assumere il significato di famiglia, poiché è proprio lì che sviluppiamo le nostre relazioni più strette e personali. Volodymyr La casa rappresenta un luogo sicuro, una certezza. Ma è ancora così in una società sempre più “nomade”? Per nomade intendo obbligata dalla situazione economica a cambiare spesso luogo abitativo, rompendo il rapporto di reciproca identità che le persone costruiscono con le proprie abitazioni. Esiste ancora il concetto di “casa ideale” o ci basta semplicemente avere un tetto? La casa ha perso il suo valore di “nido”. Nido nell’accezione non solo di luogo protetto e protettivo, ma anche di differente ed espressivo del suo inquilino - così come gli uccelli creano specifiche forme o utilizzano particolari materiali -. Ma la vera domanda è se un concetto di casa come quello avuto finora sia ancora pertinente al nostro modo ‘precario’ di vivere. In un futuro sarà possibile che il mondo intero si riduca ad essere un enorme ‘bed&breakfast’. NON È COMUNQUE ‘QUESTA CITTÀ’, NON LA ‘LORO’ CASA, NON LA STRADA CHE PERCORRONO OGNI MATTINA PER ANDARE A SCUOLA AD ESERCITARE UN QUALSIVOGLIA POTERE SU DI LORO: È CIÒ CHE ESSI PROVANO ATTACCAMENTO, PROTEZIONE, PERPLESSITÀ, DISTACCO, FASTIDIO - A DARE SENSO E VALORE A QUEGLI SPAZI. È AL PIÙ AMPIO SENSO DEL VIVERE CHE QUESTI ADOLESCENTI ASSOCIANO L’IDEA DI ABITARE. E se le città diventassero ovunque come le attuali periferie, dormitori spersonalizzanti, agglomerati privi di centro, organizzazione e anima? Marta Se mi chiedessero cosa non può mancare a casa mia, direi la connessione internet. È il modo per essere connessa con il mondo, il modo di poter essere da un’altra parte, quando in realtà sono sempre nello stesso posto. Tuttavia, vorrei una casa che sia connessa ad uno spazio verde; una casa che abbia grandi finestre, per sentirsi meno chiusi, in un mondo dove vogliamo sempre essere da un’altra parte. Oumaima CITTÀ La città è uno scenario di molteplicità e differenze, da molti analizzata con lucida consapevolezza, da alcuni percepita con distacco e disincanto, di cui si coglie maggiormente l’implicazione emozionale e critica rispetto agli effetti che la forma e la qualità degli spazi possono produrre. (MB) La città ai miei occhi rappresenta un insieme infinito di possibilità, (...) la città è l’insieme aperto di molteplici opportunità. Opportunità di cambiare, opportunità di migliorare, opportunità di diventare cittadini più consapevoli. Anna La città è il cuore pulsante della società, è il luogo in cui si concentrano le attività e le funzioni vitali di essa. La città è lo scenario di quel groviglio di vite e di storie che ogni giorno la attraversano, ma è anche identità, è dove possiamo respirare l’odore del passato, delle tradizioni, ed essere al contempo testimoni di una continua innovazione. Alessio In questo mondo così grande, vorrei una città che dia le stesse opportunità a tutti. Una città dove ognuno possa coltivare le proprie passioni, dove bambini, adolescenti, adulti, e anziani trovino ciò di cui hanno bisogno. Un luogo che rispecchi la cultura e le tradizioni del paese, ma che accolga anche quelle nuove. Oumaima Città come insieme di edifici, come insieme non circoscritto di persone. Alcuni vanno, altri vengono. Come un bambino, la città si allunga, si alza, si allarga. Spuntano case, farmacie, scuole, ospedali, teatri, supermercati, negozi, biblioteche. La città è costretta a crescere, per questo si trova in costante mutamento. Città è movimento. È la corsa dei pendolari al lavoro, dei ragazzi che vanno a scuola, dei treni sulle rotaie, delle serrande grigie sulle vetrine dei negozi. Città è una scatola. Un grande contenitore di culture, di differenze, di case, luoghi, strade, arte, musica. Città è una storia che attraversa anni, secoli, millenni. Città è una famiglia dove ci sono bimbi, adolescenti, adulti ed anziani. Dove nascono grandi palestre e muoiono prati, dove giovani muri si tatuano di murales, dove invecchiano i teatri e crescono imponenti cinema multisala. Federica STRADA E della strada il significato più avvertito è ancora quello affettivo e persino lirico, anche se non mancano accenti consapevoli ai temi più laceranti del nostro tempo. (MB) le mani di un vasaio. Abbracciano la terra, la vestono. Che siano in salita o in discesa, lunghe o brevi, rettilinee o intricate, nascono per unire. Nascono per collegare. Alcune sono vecchie, altre nuove. Alcune sono attraversate da piedi, altre da ruote. Ci accompagnano lontano, ma poi ci riportano a casa. Federica Una strada è in grado di unire una città ad un'altra, e gli uomini ad altri uomini. Con l’inizio delle grandi migrazioni dell’uomo, ha preso inizio la costruzione di strade. Oggi, il concetto di strada è diverso da quello che si aveva in passato: dal sentiero che gli uomini facevano semplicemente camminando si è arrivati alle grandi autostrade. Ma ancora oggi, la strada può rappresentare la libertà. Nicolò Le strade del futuro sono collegamenti in cui ogni individuo rappresenta una meta capace di condividere un sapere capace di arricchire e creare una cultura meno orientata all’individualismo e più verso la globalità. Davide ARCHITETTURA E PROGETTO La strada può anche simboleggiare la vita, in quanto ogni momento vissuto e ogni esperienza, positiva o negativa, è un passo avanti, un insegnamento in più che contribuisce a formare ciascuno di noi, rendendolo unico e diverso ogni giorno che passa. Eva Penso sia difficile chiedersi cosa sia in realtà una strada, definirla. Le strade che siamo abituati a percorrere spesso stanno nel rimorchio di un camion sotto forma di denso liquido nero, come un bimbo nella pancia di sua madre. Nascono dalle braccia degli uomini, modellate come l’argilla tra Le ultime due parole proposte sono state architettura e progetto: se l’architettura è stata per lo più ricollocata tra l’apprendimento scolastico e il vissuto turistico, tra oggetto di conoscenza e valore estetico, il concetto di progetto è stato colto nei suoi significati ampi ed estesi, con chiare implicazioni esistenziali. Affermazioni e sensazioni hanno lasciato il posto ad interrogativi: domande di ragazzi nati nel 2000 che rischiano di essere disattese da un mondo adulto sempre più connesso, ma distante; domande 12 / CROSSING che possono mettere in crisi toccando con intuito e sensibilità alcuni dei temi sempre attuali del dibattito sul valore dell’architettura e delle sue pratiche. (MB) Solitamente associamo al termine progetto concetti come proporzioni, equilibrio, stabilità e durevolezza. Città come Roma, Firenze e Venezia, con le loro architetture classiche e/o rinascimentali, ci evocano tradizionalmente la bellezza con i suoi canoni armonici. Eppure, a pochi chilometri da edifici come il Foro romano o la Basilica di San Marco, troviamo palazzi decisamente meno affascinanti, sedi di uffici o di abitazioni, che ignoriamo. A volte sono edifici fatiscenti. Nel mondo, esistono posti come le favelas, con case di lamiera: anche questa è architettura? Francesca L’architettura è la maggior parte di ciò che ci circonda. È innanzitutto la nostra casa, il primo spazio con cui entriamo a contatto. È il primo aspetto che cerco in una città, e quello che più ricordo. Ciò che affascina, rendendola unica e grande. L’architettura ha riempito lo spazio che l’uomo ha fatto suo, con l’intento di essere ricordato. Oggi però l’uomo fa architettura più per essere ricordato o per necessità? Oumaima Penso all’architettura come ad un lavoro che non sarà mai il mio, ma penso anche che senza gli architetti non ci sarebbero case né città. Architettura mi ricorda impegno, precisione e dedizione, qualcosa che non è per tutti. Ci sono persone che ce l’hanno nel sangue, che dietro ad ogni costruzione vedono il progetto, che dietro al Pantheon vedono la perfezione, che ammirano la prospettiva, che si innervosiscono per un quadro appeso storto. Architettura è precisione e libertà. Benedetta Un progetto è un’idea, un guizzo della mente. È un confronto tra chi lo immagina e chi lo riceve, per realizzarlo o trasmetterlo. Un progetto prevede attenzione, è entrare in punta di piedi in qualcosa che c’è già, che non deve essere sconvolto o rovinato. Francesco Progetto come insieme di quelle infinite idee che sorgono nella mente umana e vengono poi assemblate e scelte nel modo migliore per creare e portare alla vera e propria realizzazione di un elemento. Spesso si traducono per iscritto, con un disegno che riproduce quella che poi sarà effettivamente la realtà. Quelli più importanti però non trovano posto su un foglio, perché basta tenerli nella mente e nel cuore: sono i progetti di vita, quelli che ogni uomo possiede e a cui, con il passare del tempo, egli cerca di attribuire una propria forma, soprattutto grazie alla dedizione, alla passione a al sacrificio che ci mette. Solo in questo modo infatti ogni progetto può diventare realtà. Ma se non avessimo progetti, che cosa ne faremmo della nostra vita? Giulia Il progetto può essere architettonico, di vita, lavorativo, scolastico. Tutti i tipi di progetto girano tuttavia intorno al più importante: il progetto di vita, che li comprende tutti. Se penso alla parola progetto mi viene in mente il disegno, che sta alla base non solo del progetto architettonico, ma di qualsiasi tipo di progetto. È possibile fare un progetto senza un disegno? Sofia L’ARCHITETTURA HA RIEMPITO LO SPAZIO CHE L’UOMO HA FATTO SUO, CON L’INTENTO DI ESSERE RICORDATO. OGGI PERÒ L’UOMO FA ARCHITETTURA PIÙ PER ESSERE RICORDATO O PER NECESSITÀ? PUBBLICITÀ Gli studenti della classe IV B, sezione Esabac, del Liceo Scientifico F. Lussana Eva Agazzi, Francesca Bettinelli, Davide Bronco, Giulia Caprioli, Volodymyr Ciocca Makidon, Anna De Amici, Alessio Dogadi Bratti, Nicolò Gambarini, Oumaima Kamrzamane, Benedetta Marossi, Sofia Milesi, Marta Naldi, Francesco Perini, Federica Vitali. ARK 25 / FRONTIERA 14 / 900 BERGAMO Collegio S. Alessandro, vista del fronte lungo via Garibaldi. 15 GRAVISSIMUM EDUCATIONIS E ARCHITETTURA. VENUSTAS DEL COLLEGIO S. ALESSANDRO DI BERGAMO 1 Ezio Agazzi, Enrico Sesti, Giorgio Sesti, Collegio S. Alessandro, Bergamo, 1968-1973 Testo di Stefano A. Poli Fotografie a colori di Davide Pagliarini Documenti d'archivio di Studio Sesti - Studio Agazzi Immaginatevi adolescenti, nella penombra di una sala teatrale gremita da cinquecento ragazzi. Immaginate il brusio e l’eccitazione di una giornata speciale, trascorsa lontano dalle aule. Infine, immaginate il silenzio calare con l’oscurità e all’improvviso la voce di un attore, incredibilmente potente, vi stupisce e vi inchioda alla sedia. Potenza del teatro. Trascorsi oltre trenta anni, questo ricordo riaffiora nitido accanto alla memoria più vaga, eppure tangibile, ARK 25 / FRONTIERA 16 / 900 BERGAMO di uno spazio architettonico confortevole ma severo, ampio ma dall’acustica eccellente. Correvano gli anni ’80 e l’auditorium del collegio S. Alessandro di Bergamo spalancava le porte agli allievi delle scuole medie della provincia. Potenza del teatro, ma anche pregio di un’educazione scolastica che lo aveva incorporato nei piani didattici, e venustas di una singolare architettura, adeguata al ruolo dell’istituto privato, ma accessibile alla comunità2. Erano infatti trascorsi poco più di dieci anni dalla radicale riforma edilizia del collegio, che in quell’occasione aveva ampliato e rinnovato l’offerta didattica, sottolineando anche nella veste architettonica il proprio ruolo culturale di riferimento e di apertura verso la città. Un breve opuscolo, probabilmente dato alle stampe nel 1973, anno di inaugurazione del nuovo complesso, associava il rinnovamento edilizio alla riforma dei contenuti educativi e formativi: “Il collegio approfitta del nuovo abito per rinnovarsi ed aggiornarsi anche dentro”3. I riferimenti alla Gravissimum Educationis, la dichiarazione sull’educazione cristiana del Concilio Vaticano II, licenziata nell’ottobre 1965, ricorrevano nella Il complesso prima del rifacimento e la sovrapposizione fra i volumi storici e i nuovi. breve introduzione di Tarcisio Fornoni, vice presidente della commissione di studio per la ricostruzione del collegio, nominata dall’arcivescovo Clemente Gaddi il 13 settembre 1967, poche settimane prima che fosse inaugurato il nuovo seminario sul colle di S. Giovanni. La commissione, aderendo al clima di apertura del Concilio, poneva il concetto di comunità alla base dell’organizzazione edilizia e didattica di un “ambiente comunitario scolastico permeato di libertà e carità”, volto alla conciliazione tra cultura umana e messaggio evangelico: “Il nuovo collegio favorirà la maturazione di creature libere e responsabili […] attraverso educatori aperti al dialogo, in un clima di serena collaborazione con le famiglie [e grazie a] insegnanti esperti nell’arte pedagogica, aggiornata con le scoperte del progresso contemporaneo […].” Al di là del tono pacatamente propagandistico dell’opuscolo, che terminava con una cedola per sottoscrizione aperta alla generosità di eventuali finanziatori, quali furono i protagonisti del programma edilizio e della costruzione? La commissione, diretta emanazione della curia arcivescovile, era presieduta dall’avvocato Lorenzo Suardi, presidente della Banca 17 Popolare di Bergamo e già a capo della commissione per la ricostruzione del seminario, nominata nel 1961 dopo la grave battuta di arresto subita dal cantiere4. Costituita da undici membri, tra i quali il rettore e preside del collegio, monsignor Paolo Carrara, don Giuseppe Bellini, insegnante e vice preside, don Erminio Brasi, amministratore, ex alunni ed ex insegnanti, il 6 febbraio 1968 la commissione del collegio incaricò dell’esecuzione del progetto gli architetti Enrico Sesti, il figlio Giorgio Sesti ed Ezio Agazzi, disegnatore di comprovata abilità progettuale che, seppur privo di titolo accademico, si era distinto per Planivolumetrico del complesso edilizio (sotto). Prospetti lungo via Garibaldi e lungo la via privata di accesso alle scuole, versione preliminare, disegno di E. Agazzi, E. Sesti, G. Sesti (a destra). aver condotto a termine il progetto e i complessi lavori del seminario. Per comprendere la scelta della curia occorre ricordare che l’accidentato progetto del seminario, affidato in primis a Giovanni Muzio e poi a un consesso di noti architetti tra cui Vito Sonzogni e Pino Pizzigoni, conobbe numerose battute d’arresto e revisioni, schiacciato da opposizioni disciplinari e politiche dilagate in un acceso dibattito nazionale. I NEGLI SPAZI INTERSTIZIALI FRA I DUE CORPI IN ELEVAZIONE I PROGETTISTI COLLOCANO SPAZI ALL’APERTO E SEMI IPOGEI CHE ALLOGANO LA CHIESA E L’AUDITORIUM E CHE CORRISPONDONO A UNA PIASTRA DAL COMPATTO E BASSO FRONTE URBANO. lavori ebbero inizio sulla base del secondo progetto di Muzio, che con riluttanza aveva adottato un nuovo impianto funzionale e volumetrico, disegnato nel marzo 1960 proprio da Ezio Agazzi su incarico di don Labindo Serughetti, il volitivo economo del seminario. In seguito a ulteriori gravi difficoltà, segnate dalle dimissioni di Muzio e degli altri architetti, nel 1963 Serughetti si rivolse di nuovo ad Agazzi, invitandolo ad installare il proprio studio nei locali del seminario per dedicarsi esclusivamente alla progettazione esecutiva e alla costruzione del secondo lotto, insieme al direttore dei lavori Enrico Sesti. Nei quattro anni seguenti i due portarono a termine i lavori, affiancati dall’ingegnere Angelo Cortesi, giovane collaboratore di Agazzi5. Erano trascorsi quindi poco più di tre mesi dalla inaugurazione del nuovo seminario quando, all’inizio del 1968, i Sesti e Agazzi fondavano lo studio professionale P68, il cui logo campeggia sulle tavole conservate negli archivi6. Rilevando una situazione di estrema carenza e inadeguatezza delle antiche strutture e dopo una fase di analisi e confronto, la commissione aveva scartato l’ipotesi di spostare in una zona decentrata il collegio, decidendo di mantenerne la sede nel lotto contermine all’antica via S. Alessandro, presso l’omonimo Borgo, a costo di sacrificare buona parte degli edifici sette-ottocenteschi7. La decisione era giustificata da “motivi di ordine urbanistico, storico ambientale, affettivo” ed appare chiaro l’intento di potenziare la presenza del collegio, tradizionalmente rivolto alle élites urbane, al centro del tessuto storico della città8. L’imponente programma funzionale richiedeva di allogare nei nuovi fabbricati un liceo classico, un liceo scientifico, un liceo tecnico e le medie inferiori. Una chiesa da trecento posti, una biblioteca e un auditorium da cinquecento completavano le dotazioni, condivise con un convitto maschile per duecentoventicinque persone, alloggiate in circa novanta camere singole e in due dormitori. Il convitto sarebbe stato a sua volta fornito di aule studio e spazi per la ricreazione, mentre un’area autonoma avrebbe ospitato i locali dell’amministrazione, del rettorato, gli appartamenti per i superiori e i professori, oltre che gli alloggi per le suore e il personale di servizio. Infine alcuni locali destinati alla FUCI, un centro culturale intitolato ad Adriano Bernareggi, dotato di piccolo auditorium, oltre a un piccolo centro giovanile, avrebbero completato l’articolato abaco delle destinazioni. Per ogni scuola fu definito l’esatto numero di aule nonché la quantità di uffici e servizi necessari, tra i quali una palestra e due sale per educazione fisica. Infine i refettori avrebbero servito oltre trecento coperti, essendo destinati anche agli esterni. La necessità di dividere nettamente la scuola dal convitto detta la configurazione volumetrica del complesso. Negli spazi interstiziali fra i due corpi in elevazione i progettisti collocano spazi all’aperto e semi ipogei che allogano la chiesa e l’auditorium e che corrispondono a una piastra dal compatto e basso fronte urbano, adagiato lungo il tratto iniziale di via Garibaldi. Sulla copertura della chiesa insiste una piazza interna sopraelevata, destinata allo sport, fiancheggiata dal rilevato del convitto a ovest e ARK 25 / FRONTIERA Sezione generale parallela alla via Garibaldi (in alto a destra). Facciata del fronte ovest delle scuole, ripresa dalla piazza interna sopraelevata (in basso a sinistra). IL CORPO DELLA PIASTRA, AFFACCIATO A SUD, FUNGE SIA FUNZIONALMENTE CHE VISIVAMENTE DA COLLEGAMENTO FRA LA SCUOLA E IL CONVITTO, ENTRAMBI SVETTANTI PER SEI PIANI FUORI TERRA, MA SENSIBILMENTE ARRETRATI E INCUNEATI IN PROFONDITÀ VERSO IL COLLE. dall’edificio scolastico a est. L’intero fabbricato è realizzato con strutture portanti in calcestruzzo armato, parzialmente lasciate a vista, mentre le partizioni verticali esterne sono rivestite in mattoni bruni prodotti dalla Pica di Pesaro. Lo stesso materiale, in una tonalità più chiara, è utilizzato per le pareti interne, mentre i pavimenti sono interamente rivestiti da diverse pezzature di mattonelle appositamente prodotte dalla Società del Grès dell’ingegner Sala di Sorisole (Bergamo). I serramenti in metallo, tra i primi ad adottare la tecnica della verniciatura preventiva in fabbrica, sono realizzati dalla ditta Secco di Treviso. Il corpo della piastra, affacciato a sud, funge sia funzionalmente che visivamente da collegamento fra la scuola e il convitto, entrambi svettanti per sei piani fuori terra, ma sensibilmente arretrati e incuneati in profondità verso il colle. La scelta asseconda il compatto fronte preesistente della via, e si avvale del virtuosismo costruttivo di una grande trave a sbalzo che solleva la facciata orizzontale sopra un lungo porticato a negozi. Proprio Studio delle piante delle camere del convitto con esempio di arredo. Stefano Poli 18 / 900 BERGAMO Planimetria generale alla quota di ingresso alle scuole e piante dei livelli superiori del convitto (a sinistra) e delle scuole (a destra). 19 all’ombra dell’accogliente porticato si aprono gli ingressi dell’auditorium, accessibile contemporaneamente dalla città e dagli utenti interni grazie a un doppio foyer intercomunicante. Lungo via Garibaldi, il principio musicale del contrappunto sembra giustificare il contrasto con l’improvviso esplodere verticale del blocco angolare a est, che sfaccettandosi nell’alternanza chiaroscurata di piccoli volumi sincopati e di materiali diversi, è coperto dalla grande vela aggettante del tetto poligonale. Sobrietà e robustezza da un lato, ritmo e varietà dall’altro, cedono al delicato compiacimento formale della gronda, che riprende in diagonale il vertice della copertura e invita il visitatore a rivolgere lo sguardo verso la via privata e la scalinata di accesso alle scuole. La chiesa, collocata al centro dell’impianto, assume nella forma sinuosa e organica della pianta un aspetto affatto diverso rispetto ai profili ora massicci, ora aguzzi degli altri episodi architettonici. Il valore simbolico delle forme curvilinee della chiesa, sorta di cuore pulsante dell’intero organismo edilizio, ma anche snodo dei percorsi di collegamento interno dell’insediamento, è sottolineato dalla luce naturale, che penetra nell’invaso ipogeo calando esclusivamente da due lucernai nascosti al di sopra della cappella battesimale e dell’altare. All’esterno, l’unico segno tangibile della presenza della chiesa, è la scultorea torre troncoconica in cemento armato posta sul fondo della soprastante piazza aperta, in corrispondenza del presbiterio. I rilievi astratti impressi ARK 25 / FRONTIERA 20 / 900 BERGAMO 21 Dettagli della facciata su via Garibaldi. Stefano Poli Sezioni trasversali della chiesa con il prospetto del convitto rivolto alla piazza sopraelevata. Il lampadario sonoro dell'atrio delle scuole (Ezio Agazzi) e il tondo bronzeo raffigurante Cristo (Lucio Agazzi). Stefano Poli Note dai casseri nel calcestruzzo della torre e le opere d’arte sacra collocate all’interno della chiesa il tabernacolo decorato con rilievi fusi in bronzo, un tondo in bronzo con il bassorilievo del Cristo e una maternità in cemento - sono opera di Lucio Agazzi, allora giovane studente di architettura. I calcoli dei calcestruzzi armati sono dovuti all’ingegner Vittorio Dell’Acqua e accanto alla trave a sbalzo della facciata principale, numerose altre soluzioni di raffinato disegno assumono una valenza espressiva oltre che strutturale. In particolare il grande atrio che distribuisce le aule delle scuole, aperto da un invaso centrale a doppia altezza e illuminato da un fantasioso lampadario sonoro disegnato da Agazzi, è retto da una doppia coppia di travi-parete parallele, che si ripetono ai diversi piani liberando dai pilastri verticali l’area centrale della pianta. Planimetria della chiesa ipogea. Particolare cura è riservata dai progettisti alla qualità esecutiva, affidata all’impresa di Felice Cattaneo, e agli arredi, ai quali è dedicata una sezione dell’opuscolo. In particolare i banchi per gli alunni e le robustissime sedie furono adottate per arredare le aule del seminario arcivescovile e reimpiegate, senza modifiche, per l’arredo del collegio. La sedia degli alunni è realizzata con una scocca ergonomica in speciale multistrato di legno fortemente pressato e curvato, prodotto dalla ditta tedesca Pagholz, rivettato su un castello di base in fusione di ghisa nel quale sono incastrate le quattro gambe in tubolare di acciaio inox. La pressoché perfetta conservazione di questi arredi, che dopo cinquanta anni continuano a svolgere la propria funzione originaria, stupisce il visitatore degli spazi scolastici, tutt’oggi immutati nei volumi, nei serramenti e nelle finiture superficiali. Il legame fra la ricostruzione del seminario arcivescovile e il rifacimento del collegio S. Alessandro appare ben più stretto di quanto suggeriscano le geografie umane dei protagonisti. Infatti, pur con le dovute differenze di scala e complessità, risulta evidente l’affinità fra i due impianti funzionali e volumetrici, entrambi assimilabili a una cittadella caratterizzata da blocchi distinti emergenti da uno zoccolo parzialmente ipogeo, dove alcuni vitali spazi collettivi sono allogati in posizione baricentrica. I due fabbricati riecheggiano peraltro soluzioni simili, adottate in precedenza da Ezio Agazzi nel progetto di complessi scolastici e religiosi. A differenza del seminario, nel collegio lo zoccolo della piastra è permeabile e rivolto alla città, inverando il proposito che la commissione auspicava nell’opuscolo del 1973. 1 2 3 4 5 6 7 8 Questo articolo è la prima, provvisoria tappa di una ricerca ancora in corso. Desidero ringraziare per il sostegno offerto a diverso titolo: gli architetti Lucio e Nicola Agazzi, Giorgio Sesti e Michela Bassanelli; don Luciano Manenti, rettore delle scuole dell’opera S. Alessandro; il preside e il personale delle scuole e in particolare il prof. Massimo Castellozzi; il geometra Nicoli dell’ufficio tecnico; il bibliotecario Sig. Eugenio Donadoni; Davide Pagliarini, per avermi proposto di affrontare lo studio di questo progetto. Un teatro era già presente negli antichi locali del collegio, risalenti al XVIII e XIX secolo. Il nuovo S. Alessandro, s.e., s.l., s.d. [1973], s.p. A. Bellini, Il colle di S. Giovanni. Le vicende della ricostruzione, SESAAB, Bergamo, 1996, pp. 106-107. Il seminario sarà inaugurato nel novembre 1967. Cfr, P. Frattini, R. Ravanelli, Il Novecento a Bergamo. Cronache di un secolo, Utet, Torino 2013; A. Bellini, Il colle di S. Giovanni. Le vicende della ricostruzione, SESAAB, Bergamo, 1996, pp. 82-85; 94-95; 210-213. La serie completa di oltre settanta tavole su carta da lucido è conservata presso l’archivio dell’architetto Giorgio Sesti a Bergamo. Sarà infatti mantenuto il corpo di fabbrica lungo l’antica via S. Alessandro, salvando la facciata neoclassica disegnata da Giacomo Bianconi. Cfr. G. Labaa, Il collegio vescovile S. Alessandro, in “La Rivista di Bergamo”, maggio 1978, pp. 3-4. Il nuovo S. Alessandro, s.e., s.l., s.d. [1973], s.p. ARK 25 / FRONTIERA LEONARDO FIORI PUBBLICITÀ Il rifugio Pirovano in costruzione: prefabbricazione e assemblaggio in quota. 900 LOMBARDO / 23 NON COSTRUIRE PITTORESCO. LASCIA QUESTO EFFETTO AI MURI, AI MONTI E AL SOLE 1 Leonardo Fiori con Claudio Conte, rifugio Pirovano, Passo dello Stelvio (Sondrio), 1964-66 Testo di Francesca Acerboni Ugo Allegri COSTRUIRE SULLE ALPI. DALL’IDEALE ROMANTICO ALPINO AL TURISMO DI MONTAGNA DEL NOVECENTO. La scoperta delle Alpi, la loro invenzione culturale, è storia relativamente recente: fino alla metà del Settecento, l’arco alpino è una zona bianca, ignota e misteriosa sulle carte europee.2 Sono poi scienziati, geografi, naturalisti, scrittori e pittori ARK 25 / FRONTIERA 24 / 900 LOMBARDO 25 Cartoline d’epoca. "NON PENSARE AL TETTO, MA ALLA PIOGGIA E ALLA NEVE. LA NATURA SOPPORTA1 SOLTANTO LA VERITÀ”. a scoprire, studiare e documentare le montagne. Non gli architetti. L’estetica romantica e la poetica del sublime - sintetizzata nel dipinto di Caspar David Friedrich Il Viandante sul mare di nebbia (1818) - sono il simbolo di un’epoca, l’allegoria occidentale del dominio sul mondo. Più tardi, a fine Ottocento, Violletle-Duc si occuperà di rilevare e documentare il massiccio del Monte Bianco, in un’imponente opera (1876)3 che restituisce l’ambiente esistente, senza modificarlo o progettarlo in alcun modo. Negli stessi anni, la scrittrice svizzera Johanna Spiri contrappone nel suo romanzo le differenze tra città e montagna, in una visione duale ancora molto idealizzata: Heidi incarna, in fondo, la metafora del bon sauvage, funzionale all’alta borghesia per rivalutare l’idea di purezza e salute dell’ambiente alpino incontaminato opposto alla città industriale.4 John Ruskin - grande conoscitore e frequentatore delle Alpi contribuisce, in epoca vittoriana, a delineare l’immagine moderna delle montagna, evocando un’affinità tra le Alpi e l’architettura: sono le cattedrali della terra e, tra queste, il Cervino spicca come “il più nobile scoglio d’Europa”. Si apre, d’ora in avanti, la strada verso una moderna estetica della montagna, rinforzata - in parallelo, ma su un piano molto diverso - dallo sviluppo crescente dell’alpinismo internazionale e dal nascere dei primi sodalizi alpinistici europei5 - il Club Alpino Italiano viene fondato nel 1863. Questo fenomeno dà un forte impulso alla costruzione dei rifugi alpini in alta quota, utilizzati pochi decenni più tardi anche per scopi militari e bellici: le Alpi si trasformano tristemente in un’infinita linea di guerra, lunga centinaia di chilometri, scavata da trincee, camminamenti, feritoie visibili ancora oggi. Nel 1919 Bruno Taut pubblica il volume L’Architettura Alpina corredata da trenta splendide tavole acquarellate - dove “prefigura un’idea di paesaggio e di territorio come entità operabile tout court”. Proiezione di una nuova dimensione del progetto, le Alpi sono “trasformate in oggetto, vengono sottratte agli sguardi e alle connotazioni culturali che si erano progressivamente stratificate tra fine Settecento e inizio Novecento, per presentarsi come uno spazio nuovamente vergine, portatore di inediti caratteri e valori”6. Ma sarà solo dopo il secondo dopoguerra che gli architetti scopriranno davvero le Alpi, occupandosi della relazione tra montagna e architettura e sperimentando il costruire in alta quota; porteranno avanti da qui in poi una ricerca tipologica, formale e tecnologica che va ben oltre l’icona dello chalet tradizionale. Piero Portaluppi e Carlo Riva nel rifugio Città di Milano sull’Ortles (1925), sembrano semplicemente traslare in alta quota l’“hotel di montagna”, pensato per il fondovalle, "senza particolari declinazioni"5. Più radicale e coraggioso, il torinese Armando Melis de Villa progetta il nuovo rifugio Vittorio Emanuele II al Gran Paradiso (progetto: 1931, realizzazione: 1961): è un hangar, che nega apertamente ogni riferimento alla baita con il tetto a falde. Intanto le Alpi diventano - lungo la prima metà del Novecento - un vero e proprio salotto invernale internazionale, e luoghi come Chamonix, St. Moritz o Cortina sono sempre più mondani centri cosmopoliti. Lo sci da discesa diventa emblema di giovinezza, sport e modernismo: un architetto come Carlo Mollino non solo progetta rifugi e alberghi da Sestrière a Cervinia, ma è anche uno spericolato campione di sci e autore del manuale Ugo Allegri Il rifugio Pirovano al passo dello Stelvio, durante la stagione sciistica. "Introduzione al discesismo" (1951). Numerose foto di Mollino immortalato in acrobatici salti sugli sci, contribuiranno alla costruzione della sua fama e della sua fortuna critica. Anche grazie alle Olimpiadi invernali, le località del turismo montano “mostrano un’immagine delle Alpi pienamente avviate verso le forme contemporanee del consumismo”7. Le cartoline d’epoca e i manifesti pubblicitari degli anni Cinquanta testimoniano ampiamente questa nuova visione della montagna, più appariscente e alla moda della montagna sobriamente elitaria degli alpinisti che frequentano invece i rifugi e i bivacchi d’alta quota, di cui Charlotte Perriand è un’antesignana ARK 25 / FRONTIERA Piante del rifugio, da sinistra a destra: quota -3,35 m, pianta del piano con soggiorno, pianta del piano intermedio, pianta del piano camere, quota + 8,00 m. 26 / 900 LOMBARDO “QUALCOSA M’HAN DETTO LA SERA E LA MONTAGNA. MA L’HO PERDUTO”. Jorge Luis Borges, Diciassette haiku, 1982. Ugo Allegri Ugo Allegri L’angolo di ingresso al bar-ristorante e la finitura in legno dei pannelli prefabbricati in facciata. La copertura rivestita in acciaio inox liscio facilita lo slittamento della neve. progettista: alle sperimentazioni sulla prefabbricazione, mutuate da Jean Prouvé, Perriand aggiunge la sua consolidata e diretta esperienza del tema che conosce come alpinista esperta. Le strutture della Perriand sono leggere e indispensabili, il design degli spazi interni è essenziale, ma sempre accuratissimo. Ma soprattutto l’architetto francese affronta il tema della reversibilità del costruito in contesto alpino, con molti decenni d’anticipo. Le Alpi vedranno dunque sorgere, al fianco dei rifugi d’alta quota, molti rifugi-alberghi, dal comfort decisamente più cittadino e spesso raggiungibili in automobile, per soddisfare le necessità di un crescente turismo di montagna sempre più diffuso in parallelo allo sviluppo degli impianti meccanici di risalita. L’impatto ambientale di queste costruzioni e infrastrutture, sparse lungo tutto l’arco alpino, è stato 27 spesso invadente e irreversibile, e proprio a partire dagli anni Cinquanta “la produzione di edifici di qualità nell’ambiente alpino italiano si è progressivamente ridotta” a causa del “modificarsi della abitudini sociali e turistiche dei fruitori della montagna”8. GIUSEPPE PIROVANO E LA SCUOLA DI SCI DELLO STELVIO Negli anni Quaranta, la guida alpina Giuseppe Pirovano - che durante la guerra collabora con la Resistenza aiutando i partigiani sul fronte alpino - fonda una pionieristica scuola di sci a Cervinia, che successivamente decide di spostare in una zona dove la stagione sciistica possa prolungarsi oltre il periodo invernale: Pirovano vaglia allora diversi ghiacciai dell’arco alpino e sceglie infine quello del Livrio allo Stelvio, facilmente accessibile grazie alla famosa strada che svalica il passo: impressionante opera ingegneristica, costruita da Carlo Donegani per gli Austriaci in soli 5 anni (1820-1825). Il leggendario passo dello Stelvio, nel gruppo dell’Ortles Cevedale sulle Alpi Retiche, è un crocevia in alta quota tra Lombardia, TrentinoAlto Adige e il cantone svizzero dei Grigioni, e la strada che lo valica - nata come collegamento militare e commerciale tra Austria e Lombardia - si snoda lungo tornanti tortuosi, raggiungendo quota 2800 mt. in una conca di cime che raggiungono quasi i 4000 metri di altezza. In questo ambiente spettacolare, Pirovano decide di installare la scuola di sci estivo su ghiacciaio, unica nel suo genere, immaginandola anche e soprattutto come un percorso di iniziazione giovanile alle discipline agonistiche e sostenibili in alta montagna. Dopo aver utilizzato come primo punto di appoggio la Capanna Nagler, Pirovano e la moglie Giuliana Boerchio - direttrice del quotidiano La provincia Pavese - decidono di far costruire due rifugialbergo, che ampliassero le capacità ricettive legate alla loro attività. Nel 1955, affidano un primo incarico allo studio degli architetti Franco Albini e Franca Helg: Albini aveva appena progettato, nel 1949, il rifugio-albergo Pirovano a Cervinia, insuperato capolavoro di architettura moderna sulle Alpi. Ma il progetto per lo Stelvio - previsto vicino alla stazione di arrivo della funivia a 3000 metri di quota resterà solo su carta e l'opera non sarà compiuta. Nel 1960 l’incarico viene allora dato all’architetto milanese Attilio Mariani, che costruisce l'Albergo-Rifugio Grande Pirovano, un edificio lineare, con struttura in acciaio e calcestruzzo, ARK 25 / FRONTIERA La caratteristica forma “a fungo” del rifugio, come venne poi comunemente chiamato. 29 Ugo Allegri 28 / 900 LOMBARDO e rifinito a intonaco. Infine, nel 1964, l’instancabile Pirovano decide di costruire un nuovo rifugio accanto a quello esistente, dando l'incarico a Leonardo Fiori insieme a Claudio Conte, che dieci anni prima avevano progettato la Colonia montana Olivetti a Brusson, in Valle d'Aosta: un’architettura che ha saputo interpretare i caratteri del luogo, sedimentando le memorie della cultura regionale attraverso un linguaggio essenzialmente moderno. IL RIFUGIO PIROVANO ALLO STELVIO DI LEONARDO FIORI L’edificio viene realizzato in brevissimo tempo - soltanto 3 mesi - a 3200 metri di quota, su uno sperone di roccia su cui appoggiano le fondamenta. Sia per le caratteristiche peculiari di un cantiere in alta montagna, sia per una scelta formale e tipologica contemporanea, Leonardo Fiori sceglie di utilizzare tecniche di prefabbricazione e sistemi di industrializzazione edilizia, che permettono un trasporto più agevole dei materiali e l’assemblaggio in situ degli elementi. Solamente le fondazioni e alcuni muri del basamento sono realizzati in calcestruzzo. Il progetto è basato su una griglia modulare di 150 cm, ripresa anche nei pannelli di rivestimento esterno di 100 x 50 cm, e si articola attorno a una pianta centrale, ricavata da un ottagono con lati slittati tra loro, che generano un volume molto articolato anche all’interno. Al centro, una scala distribuisce i piani principali e i livelli intermedi, sfalsati, che ospitano le zone per la vendita di attrezzature da IL RIFUGIO PIROVANO RESTA UN ESEMPIO DI EQUILIBRIO TRA SCELTE COMPOSITIVE E TECNOLOGICHE MODERNE E RIFERIMENTI NON BANALI ALLA TRADIZIONE - DAL TETTO A FALDE, ALLA STRUTTURA DEL MASO ALTOATESINO, AI MATERIALI AUTOCTONI IN UN CONTESTO COMPLESSO, FRAGILE E NATURALE COME È QUELLO ALPINO IN ALTA QUOTA. Sezione dell’edificio, dove è visibile il corpo scale centrale, che disimpegna i vari livelli. montagna. La scala è dunque la spina dorsale di un percorso che attraversa l’edificio in verticale: dal ristorante, posto al piano terreno, fino ai piani superiori dedicati alla zona notte. Il rifugio dispone di 90 posti letto, collocati in gruppi di 3 o 4 camere da 2 o 3 letti ciascuna - collegate da un disimpegno comune e da servizi igienici, secondo uno schema molto preciso che al livello superiore si adatta alla superficie ridotta del sottotetto. Il tetto a falde composte è rivestito da lastre di acciaio inossidabile, unite con il sistema della grappatura, per evitare i giunti e compensare la dilatazione dovuta alle forti escursioni termiche. La pendenza delle falde e la scivolosità dell’acciaio consentono inoltre lo slittamento della neve al suolo. La struttura è realizzata con elementi metallici prefabbricati e solai in lamiera grecata, montati a secco e impostati su un modulo di 50 centimetri, che dà la misura anche ai serramenti in legno e ai pannelli di facciata. Questi ultimi presentano differenti finiture tra dentro e fuori: al piano terra, il pannello esterno è in Petralit verniciato, mentre al piano superiore ha perline di abete di Douglas naturale; i lati del pannello rivolti all’interno del rifugio, invece, sono in perline di abete naturale lucidato a tutti i piani. Leonardo Fiori presta molta attenzione anche ai materiali interni, sempre coerenti e adatti alle funzioni del rifugio: al piano terra, di grande passaggio, il pavimento è in beola grigia levigata; nel soggiorno e nelle camere, sono previsti listoni di mogano, grès rosso per i servizi al piano terreno, e pvc nei servizi delle camere da letto. Il rifugio Pirovano di Leonardo Fiori, resta un esempio di equilibrio tra scelte compositive e tecnologiche moderne e riferimenti non banali alla tradizione - dal tetto a falde, alla struttura del maso altoatesino, ai materiali autoctoni - in un contesto complesso, fragile e naturale come è quello alpino in alta quota. Come per la colonia estiva di Brusson in Val d’Aosta, anche nel Rifugio Pirovano sembra emergere quel processo progettuale che Kenneth Frampton definisce regionalismo critico9. L’inserimento nel paesaggio non si piega solamente al luogo, non asseconda l’immagine iconica e vernacolare della baita, né ingloba l’elemento naturale - come talvolta in Wright o in Le Corbusier - ma trattiene il “valore delle cose nella loro essenza e nella loro immagine, come in alcune opere di Aalto”10. Dal 2005 il rifugio Pirovano è chiuso, Sezione del serramento, del solaio in lamiera grecata, e del pannello sandwich. 30 / 900 LOMBARDO Interno del rifugio-albergo al piano del soggiorno, con pavimento in legno e finiture dai colori caldi. strutture poste in contesti tanto delicati e che non presentino le stesse qualità architettoniche dell'opera di Fiori. Da un altro punto di vista, l’ipotesi di un riuso e riutilizzo del rifugio Pirovano sembra più consona a un’idea di sviluppo sostenibile del costruito e dell’esistente, in un contesto prezioso come quello alpino. Un intervento in questa direzione potrebbe allora incoraggiare e sostenere un tipo di turismo e di architettura alpina che non depauperino l’imponente risorsa naturale delle Alpi, oggi sempre più a rischio. Note 1 inutilizzato, e in stato di degrado: alcuni pannelli sono divelti dalle intemperie ma la struttura e il tetto sono tuttavia ancora in buono stato. A causa dei cambiamenti climatici, il ghiacciaio del Livrio si è ritirato, molte altre strutture alberghiere sono sorte allo Stelvio, senza però che sia stata fatta una corretta ripulitura del territorio: la zona si sta trasformando quindi in una vergognosa “discarica di rottami del Novecento”11, tra piloni arrugginiti, rifugi abbandonati e morene di ghiacciai che si ritirano. Una riflessione critica è indispensabile. La prefabbricazione potrebbe condurre all’idea dello smontaggio del rifugio, relativamente semplice, una volta terminato il suo ciclo di vita relativamente breve e potrebbe rappresentare un orizzonte reversibile per la progettazione di Adolf Loos, Regole per chi costruisce in montagna, in Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1972. 2 Antonio De Rossi, La costruzione delle Alpi. Il Novecento e il modernismo alpino (19172017), Donzelli Editore, Roma, 2016. 3 Eugène-Emmanuel Viollet-Le-Duc, Le massif du Mont Blanc, étude sur sa consitution géodésique et gèologique, sur ses transformations et sur l’état ancien et moderne de ses glaciers, J. Baudry, Parigi, 1876. 4 Thomas Demetz, Industrializzazione del paesaggio in Callegari, De Rossi, Pace, Paesaggi in verticale. Storia, progetto e valorizzazione del patrimonio alpino, Marsilio, 2007. 5 Luca Gibello (a cura di), Progettare al limite. I rifugi alpini di G Studio, Segnidartos, 2017. 6 Antonio De Rossi, op.cit. 7 Da una conferenza di Luisa Bonesio, L'evoluzione del sentimento estetico delle Alpi tra Settecento e Novecento, Varese, giugno 2002. 8 Luciano Bolzoni, Architettura moderna nelle Alpi italiane dagli anni Sessanta alla fine del XX secolo, Priuli e Verlucca, Ivrea, 2001. 9 Maria Pia Belski, L'architettura di Leonardo Fiori, Abitare Segesta, Milano, 2000. 10 M. P. Belski, op.cit. 11 Giacomo Menini, Architetture al valico, i rifugi Pirovano allo Stelvio, Ananke, n. 83, gennaio 2018. Fonti delle illustrazioni Le fotografie e i disegni provengono dall'Archivio Fiori e sono tratte dal volume di Maria Pia Belski, L'architettura di Leonardo Fiori, Abitare Segesta, Milano, 2000. Le cartoline d’epoca provengono da ricerche on line. PUBBLICITÀ ARK 25 / FRONTIERA Ettore Sottsass senior e Willy Weyhenmeyer, Lido di Bolzano, trampolini in cemento armato della piscina, 1929-31 (archivio Mart, Rovereto). 32 ARCHITETTURE SOSPESE SUL LIMITE A cura di Gianluca Gelmini ENCICLOPEDIA DEL SAPER FARE / 33 Il tema del limite costituisce da sempre un aspetto basilare nello sviluppo del progetto di architettura. Lo spazio, inteso come entità fisica e misurabile dall’uomo nella sua esperienza di abitare il mondo, è contenuto e marginato all’interno di oggetti più o meno grandi che costruiscono i luoghi. Limite, frontiera, confine ovvero spazio delle differenze, terreno d’incontroscontro tra realtà fisiche e concettuali diverse come dentro e fuori, natura e artificio, montagna e pianura, terra e acqua, terra e cielo, città antica e città moderna. Appare interessante approfondire il tema del limite soprattutto ponendolo in rapporto ad artefatti creati per tentarne il superamento o per viverne da vicino le contradizioni. Tra le diverse esperienze in cui si è cercato un confronto dialettico e costruttivo lungo il complicato confine tra modernità e tradizione è sicuramente da ricordare il progetto per il Lido di Bolzano, costruito tra il 1929 e il 1931, in cui il sodalizio progettuale tra Ettore Sottsass senior e Willy Weyhenmeyer ha generato, forse, il più importante tentativo di costituire, in epoca fascista, un’architettura di carattere marcatamente mitteleuropeo. Si tratta di uno fra i maggiori stabilimenti balneari del periodo, concepito secondo un’organizzazione distributiva e architettonica di grande modernità, con attrezzature tecnologiche innovative e di notevole funzionalità. Ispirato al radicalismo della Neue Sachlichkeit - la Nuova Oggettività di matrice tedesca - il lido di Bolzano rappresenta uno tra i più interessanti esperimenti di architettura paesaggistica del primo Novecento in Italia. Si tratta di un’architettura che oppone al monumentalismo vicino al regime un linguaggio antiretorico che, riprendendo la poetica razionalista, cerca di stabilire un dialogo con le forme della tradizione architettonica regionale e del paesaggio circostante. I trampolini in cemento armato della piscina di Sottsass si elevano leggeri nel vuoto disegnando movimenti eleganti di masse e nervature sottili. La struttura minimale si staglia sullo sfondo della montagna ridefinendo il limite tra la linea di terra e il cielo. I limiti imposti dal tradizionale concetto di casa vengono stravolti e messi in discussione dalla ricerca di uno dei più importanti maestri dell’Architettura Moderna. Quando Frank Lloyd Wright lavora alla “Casa sulla cascata” intuisce che il tema dominante del progetto è quello di trovare una nuova dimensione dell’abitare superando il limite tra natura e architettura. “La scatola è completamente distrutta. Non esistono più pareti, né schemi geometrici, né simmetrie, né consonanze, ne punti prospettici privilegiati, né leggi che non siano quelle della libertà e del mutamento”. Con queste parole Bruno Zevi commentava l’opera più conosciuta di Wright, sicuramente la più celebrata tra i capolavori dell’architettura moderna, divenuta nel tempo sinonimo dell’equilibrio tra architettura e natura. Fallingwater viene costruita, tra il 1936 e il 1939, in prossimità di un salto d’acqua sul torrente Bear Run nei boschi della Pennsylvania, per Edgar J. Kaufmann, proprietario dell’omonima catena di grandi magazzini. Nel suo disegno la casa sulla cascata è stata identificata come “l’apoteosi dell’orizzontalità”. Alla sequenza dei tre piani in cemento armato protesi nel vuoto, si contrappongono i setti Frank Lloyd Wright, Fallingwater, Bear Run, Pennsylvania, 1936-39. verticali rivestiti in lastre di pietra che, posti a sostegno dell’intero edificio, rimangono arretrati sul versante del torrente. Le lunghe vetrate racchiudono lo spazio interno annullando il concetto tradizionalmente inteso di finestra e liberando la visuale verso la natura circostante. La continuità tra interno ed esterno è rimarcata dall’impiego dei medesimi materiali. I percorsi lavorano sul tema del rapporto tra lo spazio e la modulazione della luce, procedono fra il retro della casa e la scarpata tra il buio e la ristrettezza della sezione per sfociare negli ambienti, dilatati e colmi di luce, affacciati sul torrente. Ma il limite può essere anche interno alle differenti parti di una città, traducendosi in un’architettura che lavora sul limite di scala tra infrastruttura e tessuto minuto della città compatta. È il caso del progetto ARK 25 / FRONTIERA 34 / ENCICLOPEDIA DEL SAPER FARE Giulio Minoletti, Eugenio Gentili Tedeschi, stazione di Porta Garibaldi, Milano, 1956-59 (fotografia di Gianluca Gelmini). Pino Pizzigoni, Casa Nani, Parre (Bergamo), 1964-65 (fotografia di Gianluca Gelmini). 35 I TRE CRISTALLI SOSPESI DI CEMENTO BIANCO DELLA CASA NANI DISEGNANO OMBRE E LUCI NELLO SPAZIO, PROIETTANDO LA DIMENSIONE DOMESTICA DELL’ABITARE AL CENTRO DEL PAESAGGIO. di Giulio Minoletti ed Eugenio gentili Tedeschi per la Stazione di Porta Garibaldi a Milano, un edificio costruito in un contesto urbano segnato da profonde trasformazioni. Il primo progetto risale al 1956, la costruzione si conclude tra il 1958 e il 1959. L’edificio è essenzialmente costituito da un grande tetto a sbalzo, che collega i treni e la città, i viaggiatori e i cittadini. La costruzione è essenziale: una galleria coperta da lunghe travi di acciaio che escono a sbalzo dal corpo centrale per 24 metri coprendo da un lato le piattaforme e dall’altro l'ingresso. L'idea alla base del progetto è di concepire una costruzione in acciaio in cui la struttura è architettura. L'edificio, oggi trasformato, originariamente si articolava su due livelli principali: il piano terra che fungeva da tramite fra la città e i binari era connotato dalle ampie sale vetrate della biglietteria della sala d'attesa e del ristorante. Al primo piano si sviluppava una lunga galleria di negozi e un giardino d’inverno posto in prossimità della zona degli arrivi. Quest’ultimo elemento rappresenta una citazione della poetica minolettiana: un luogo che richiama la natura e il concetto di casa dentro una stazione. In questo senso lo spazio dell’infrastruttura con la sua scala fuori dall’ordinario diviene un luogo del quotidiano, minuto e accogliente, quasi domestico per le persone che viaggiano. Il tetto ha una configurazione particolare che consente alla luce e all'aria fresca di entrare nella galleria. Nel progetto per la Stazione ferroviaria di Porta Garibaldi sono evidenti i riferimenti al pragmatismo che permea tutta la cultura milanese rispetto al tema delle professioni. L'approccio di Minoletti è poliedrico: l’architetto deve affrontare e risolvere molti aspetti della vita e della realtà. La stazione di Minoletti è una costruzione raffinata, un edificio funzionale e uno spazio piacevole in una soluzione semplice e chiara, in armonia con la città e il suo tempo. Questo edificio intrattiene una relazione complessa tra la serialità della sua struttura industriale e la varietà di spazio che può creare. La griglia dei pilastri principali, ogni quattordici metri, sembra un divisorio monotono e sterile. Ma Minoletti riesce a creare una varietà di spazi in sezione come la doppia altezza nei passaggi o le sale d'attesa basse e inattese fonti di luce zenitale nella galleria commerciale, che permettono al viaggiatore di orientarsi sempre. Ritornando al tema della casa è interessante la ricerca di Pino Pizzigoni per l’abitare in montagna e il limite tra pendio e piano orizzontale. Molti dei progetti di Pizzigoni, costruiti o soltanto disegnati, costituiscono sperimentazioni aperte, delle ‘prove’ sul tema dell’abitare spinte sempre alla ricerca del limite sia strutturale, sia spaziale, come nella casa per il pittore-scultore Claudio Nani dove Pizzigoni continua la sua ricerca di nuovi modi d’immaginare lo spazio attraverso gli strumenti della prospettiva, della tecnica e della forma. Il progetto definitivo è del 1964; la costruzione si conclude nel 1965. La casa è situata in Valle Seriana, in località Sant’Alberto, nel territorio di Parre, poco al di sopra della strada di fondovalle diretta verso Ardesio. La costruzione sorge all’estremità di un prato allungato. Senza apportare sostanziali modifiche al naturale andamento del terreno, essa è si dispone come un blocco incastrato nel pendio. Il volume compatto si protende verso valle attraverso tre grandi aperture, in forma di volumi aggettanti orientati su visuali privilegiate del paesaggio. Queste tre grandi finestre diventano il tema principale del progetto: non sono semplici aperture, ma spazi abitabili che definiscono e organizzano gli ambienti principali della casa. Il progetto è parte della ricerca che Pizzigoni compie in quest’ultimo periodo della sua vita - morirà nel 1967 - sull’equilibrio della costruzione e sulle possibili coincidenze tra struttura e Pino Pizzigoni, cantiere di Casa Nani, Parre (Bergamo), 1964-65 (archivio Pino Pizzigoni, Biblioteca Angelo Mai). architettura. Secondo Pizzigoni, la gravità - il peso delle masse - non rappresenta tanto un problema da risolvere, quanto piuttosto una risorsa per creare nuovi meccanismi strutturali e, dunque, nuovi modi di costruire lo spazio. Nella casa Nani, la scala, chiusa all’interno di murature, oltre a essere elemento ARK 25 / FRONTIERA 36 / ENCICLOPEDIA DEL SAPER FARE 37 Pierluigi Nervi, magazzino di stoccaggio Montedison, Porto Recanati (Macerata), (fotografie di Gianluca Gelmini). distributivo è anche elemento strutturale in forma di grosso pilastro cavo. Insieme con altri due pilastri, essa forma un sistema bilanciato in grado di contrastare le forze generate dagli sbalzi con l’ausilio di travi che disegnano un traliccio tridimensionale fatto di triangoli isostatici. Casa Nani è un’architettura singolare, nella quale convivono pensieri e tensioni contrapposti. A elementi propri della tradizione locale - come la tipologia della casa a blocco in muratura a secco, le finestre a sporto delle case di montagna - si sovrappongono altri temi desunti dalla contemporaneità, come la struttura a traliccio in cemento armato e le ampie vetrate che si trasformano in stanze sospese. Verso monte, la casa appare dura e impenetrabile: un alto muro in sassi a vista è bucato da piccole finestre quadrate. L’immagine del retro è quella di un edificio fortificato, mentre a valle, verso il sole, il volume perde il guscio di pietre aprendosi e manifestando la sua parte più molle, la sua pancia. Su questo lato, tre cristalli sospesi di cemento bianco disegnano ombre e luci nello spazio, proiettando la dimensione domestica IL MAGAZZINO DI STOCCAGGIO DI PIERLUIGI NERVI È UN’ARCHITETTURA SOSPESA TRA TERRA E ACQUA IN CUI I TEMI DELLA SEMPLIFICAZIONE COSTRUTTIVA E DEL VALORE SEMANTICO DELLA STRUTTURA INTESA COME RAPPRESENTAZIONE DELL’EQUILIBRIO DI FORZE E MASSE DIVIENE EMBLEMATICO. dell’abitare al centro del paesaggio. Infine lungo il limite tra terra e acqua possiamo rintracciare un caso interessante nell’edificio progettato da Pierluigi Nervi a Porto Recanati per Montedison (primi anni Cinquanta). Situato lungo il tratto di costa a nord dell’abitato in prossimità della linea ferroviaria l’edificio, parte di un più vasto complesso oggi scomparso, era destinato a magazzino di stoccaggio di materiali e prodotti. Si tratta di un’architettura inusuale per scala e tipologia rispetto al contesto circostante in cui il disegno della sezione è l’elemento determinante e chiarificatore. Una grande aula voltata in forma di navata, costruita interamente in cemento armato con una sequenza di archi parabolici autoportanti che coprono una luce di trenta metri. L’edificio si dispone parallelamente alla linea di costa, lungo i lati verso terra e verso l’arenile si presenta con due generosi tetti a sbalzo protesi nel vuoto a copertura della banchina dove fermavano i treni per il carico e scarico delle merci. Si tratta di un’architettura sospesa tra terra e acqua in cui i temi della semplificazione costruttiva e del valore semantico della struttura intesa come rappresentazione dell’equilibrio di forze e masse diviene emblematico. Sono evidenti i legami con la ricerca di Nervi sulle grandi coperture voltate e i rimandi ad altri edifici realizzati da Nervi, in particolare agli hangar aeroportuali di Orvieto e Orbetello. L’architettura costruita sul limite in questo senso svolge il suo primordiale ruolo di definizione e interpretazione di realtà e spazi contrapposti. Strutture sospese a sbalzo lungo linee di demarcazione più o meno apparenti, divengono oggetti in grado di ridefinire il carattere e l’immagine dei luoghi, creando nuove tensioni tra le parti, spostando o annullando il confine tra le cose. ARK 25 / FRONTIERA ARS RESTAURI / 39 CONSERVAZIONE È INNOVAZIONE Incontro con Ars Restauri A cura di Maria Claudia Peretti e Marco Mazzola PUBBLICITÀ Monastero Domenicano Matris Domini, Bergamo, restauro conservativo dell'impianto decorativo della Chiesa. UN DELICATO EQUILIBRIO TRA PASSATO E FUTURO Nel dibattito attuale, i termini conservazione e innovazione identificano spesso fazioni opposte che vedono schierati da una parte i fautori del “no”, sempre pronti a porre veti e anatemi, e dall’altra i paladini del cambiamento, del progresso. Gli innovatori accusano ARK 25 / FRONTIERA 40 / ARS RESTAURI i conservatori di impedire alla contemporaneità di esprimersi con gli strumenti che le sono propri: i conservatori ricambiano mostrando la bruttezza e l’avidità di un approccio che, per la gran parte, ha lasciato sul territorio cicatrici e lacerazioni. Considerare i due termini opposti tra loro è però un errore che alimenta la sottocultura alla base di molti dei risultati negativi che possiamo verificare intorno a noi. Il progetto del futuro è possibile soltanto a partire dalla lettura attenta del presente e dalla conoscenza del passato che lo ha generato. La modernità non è un dogma immodificabile, rigido e assoluto, non lo è neppure un approccio volto a una rievocazione nostalgica del passato: l'una e l'altro sono percorsi che devono essere continuamente riprogettati alla luce di quello che ci circonda e degli esiti di cui dobbiamo prendere atto. Se osserviamo il presente ci rendiamo conto che, in questo momento Padiglione 3, ex Fiera di Milano, restauro conservativo delle facciate, dettaglio, 2017. Padiglione 3, ex Fiera di Milano, restauro conservativo delle facciate, 2017. storico, conservare è la grande sfida dei territori contemporanei: l’innovazione velocissima e per molti versi violenta degli ultimi decenni ha travolto il pianeta generando problemi enormi che riguardano questioni centrali per la nostra sopravvivenza, l’uso delle risorse, la distruzione dei paesaggi e delle comunità sociali, dentro una crisi che è contemporaneamente ambientale, economica, antropologica e sociale. Ma davvero alla luce di un’analisi approfondita della realtà attuale, possiamo sostenere che conservare è sinonimo di arretratezza e di negazione della modernità? Non è forse più evidente il contrario e cioè che sia proprio il tema della conservazione a suggerire le politiche più innovative e urgenti per far fronte alla crisi che stiamo attraversando? Mai come ora è necessario ristabilire un equilibrio tra passato e futuro e intrecciare un rapporto positivo di sinergia e convergenza tra i due termini conservazione e innovazione. Le nostre città e i nostri paesaggi hanno bisogno di tutela, di cura, di manutenzione, di consapevolezza della storia, di rispetto delle differenze e degli ecosistemi locali, ambientali e sociali. Un’azione politica seria e sistematica che si ponga l’obbiettivo della conservazione del territorio non solo è del tutto compatibile con gli obbiettivi dello sviluppo economico, ma, alla luce dei fallimenti di cui non possiamo non prendere atto, è probabilmente l’unica strada immaginabile per uscire positivamente dalla situazione in cui ci troviamo. Forse, in questo momento, essere “conservatori” è il modo migliore e più avanzato per fare innovazione. CULTURA E TECNICA DELLA CONSERVAZIONE Arte, professione, mestiere, perizia, conoscenza teorica e abilità pratica. I diversi significati che assume in italiano la parola latina ars (ars, artis) sintetizzano con efficacia l'attività svolta dall'impresa bergamasca ARS Restauri, specializzata nel restauro conservativo dell'architettura e dei suoi apparati decorativi. Giosuè Tribbia, artigiano restauratore, aprì il proprio laboratorio nel 1958. Oggi, la ditta è diretta dal figlio Simone e dai nipoti Matteo, Marie, Massimiliano e Mirko, ha raggiunto la terza generazione e i 60 anni di attività. Da allora, l'attività familiare si è sviluppata e ampliata: da laboratorio artigiano è diventata un organismo strutturato che si avvale di diverse équipe di professionisti e di maestranze qualificate. Attorno al tema della conservazione e della cura del patrimonio edificato e paesaggistico, infatti, si sviluppano tecnologie sofisticate e livelli di ricerca molto avanzati, sia nelle fasi di analisi e diagnostica dei problemi, sia nella messa a punto 41 e nell’attuazione delle soluzioni: curare un edificio o un ambiente dissestato significa far riferimento ad approcci innovativi nelle modalità di cantierizzazione, significa puntare sull’evoluzione e sulla specializzazione della manodopera impiegata, sulle competenze specialistiche di varie discipline, sulla qualificazione dei mestieri e dei sistemi produttivi. Conservazione è quindi sinonimo di conoscenza, di cultura, di tecnica, di produzione avanzata. L'insieme di significative competenze, acquisite nel corso degli anni, ha consentito ad Ars Restauri di raccogliere un rilevante portfolio di lavori, tra cui emergono interventi su alcuni dei più importanti monumenti bergamaschi e dell'Italia settentrionale. A Bergamo, l'impresa ha realizzato il restauro della Biblioteca Angelo Maj, delle facciate della Banca d'Italia, della Camera di Commercio ed è intervenuta nelle chiese di Santa Maria Maggiore, Sant'Agostino e Matris Domini. Fuori città, restauri importanti sono stati realizzati al Castello Sforzesco e a Palazzo Dugnani a Milano, al monastero di Santa Giulia a Brescia, al Castello di Vigevano e all'Hotel Ausonia Hungaria a Venezia, quest'ultimo con un grande intervento su facciate maiolicate uniche nel loro genere. Ognuno di questi lavori è nato dalla sinergia tra progetto e cantiere di restauro. Un'approfondita fase di rilievo, di ricerca storica e d'archivio e di diagnostica eseguita in sito e in laboratorio, seguite da un progetto accurato e confezionata su misura sono condizioni necessarie alla buona riuscita di un restauro. Tuttavia, in questo specifico ambito dell'architettura, possiamo affermare che è il cantiere il cuore del processo. È solo quando si inizia a metter mano ad un'opera da restaurare che il progetto inizia per davvero. Se nell'ambito delle nuove costruzioni, la tendenza è quella di cercare una riduzione allo zero dell'imprevisto, dell'errore e delle modifiche in opera, nel cantiere di restauro l'inatteso e la variazione sono la norma. Solo mettendo mano all'opera da restaurare possono emergere elementi nuovi, ricercati o inaspettati, che comportano una verifica e un aggiornamento continui del progetto. L'imprevisto è una condizione costante del cantiere di restauro; elasticità mentale e duttilità sono quindi caratteriste indispensabili per un restauratore, perché possono trasformare una criticità in un'opportunità. Ovviamente, data la delicatezza della materia su cui si interviene, anche nell'ambito del restauro il processo è quanto più possibile A sinistra: Reggia di Racconigi. A destra: Castello Sforzesco di Milano. 42 / ARS RESTAURI controllato e rigoroso; sono però la sensibilità e la “capacita di ascolto” di un'opera, unite a un bagaglio di esperienza decennale, le doti speciali che consentono a imprese come Ars Restauri di portare avanti cantieri su architetture monumentali con l'obiettivo costante di riportarle al loro originario splendore. È possibile ritrovare prova di questa aspirazione anche in uno degli ultimi lavori dell'impresa, il restauro dell'ex padiglione 3 della storica Fiera di Milano, concluso a novembre 2017 dopo 9 mesi di cantiere. L'ex padiglione fieristico, edificato nel 1923 su progetto dell'architetto Paolo Vietti Violi, fu il primo “Palazzo dello Sport” cittadino e, insieme alle “Palazzine degli Orafi” e alla Fontana Liberty di Piazza Giulio Cesare, è uno degli unici tre manufatti mantenuti durante la radicale trasformazione urbanistica che ha ridisegnato l'area della ex fiera negli ultimi anni. L'edificio di Vietti Violi, dichiarato di interesse storico artistico e vincolato con decreto della Direzione Regionale Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia, è stato liberato dai manufatti che lo avevano inglobato ed è tornato leggibile nella sua completezza e nella sua originaria condizione di monumentale padiglione isolato. In questo processo, ad Ars Restauri è stato affidato il restauro delle facciate, che hanno un'estensione di circa 4.000 mq. Date le dimensioni, questo lavoro rappresenta un esempio notevole di restauro di un'architettura moderna. L'intervento, svolto con la collaborazione dell'impresa Vitali di Zogno (Bergamo), si è mosso su tre linee principali. Il primo obiettivo è stato il recupero dei profili architettonici che negli anni erano andati persi e poter così ridare una lettura dell'aspetto delle facciate, operazione sostenuta da un lavoro di ricerca documentale che ha permesso di decidere quali parti andassero rimosse per riportare alla luce parti originali dell'edificio. Il secondo grande intervento è stato svolto sugli apparati decorativi in cemento, che in gran parte erano andati perduti. Questa fase, che è stata una delle più difficoltose da affrontare, ha comportato la ricostruzione dei cementi decorativi sulla base della ricerca documentale e degli originali superstiti. Il terzo tema, forse quello più decisivo sull'impatto finale del restauro, è stata la colorazione delle facciate. Partendo dal progetto e da alcune indicazioni della Sovrintendenza, l'abilità e l'esperienza del restauratore sono state poi decisive: la storia del colore dell'edificio è stata ripercorsa studiando le stratigrafie mentre la nuova tinta è stata applicata per velature, come fosse una tela di un'opera pittorica. Questa tecnica ha consentito di dosare il colore a seconda dell'esposizione della facciata, per ottenere una vibrazione diversa a seconda della diversa provenienza della luce. Questa raffinata trasformazione, che da un piatto codice cromatico introduce una delicata vibrazione di velature dosate a seconda della loro risposta alla luce naturale, ci consente di cogliere la maestria, l'esperienza e la passione che contraddistinguono un bravo restauratore. PUBBLICITÀ ARK 25 / FRONTIERA Studio MARC, Club nautico Giulio Pagani, Torno, Como, 2004-2006. Vedute dalla riva del lago, sezione (fotografie di Beppe Giardino). 44 / CONTEMPORANEO LOMBARDO AVAMPOSTI DEL SÉ Studio Marc, Club nautico Giulio Pagani, Torno, Como, 2004-2006 Studio Associates, Cappella del Silenzio, Botticino, Brescia, 2017 Testo di Giulia Ricci IN FONDO, QUANDO SI È GIOVANI, SENZA SAPERLO CHIARAMENTE SI È IN PREDA A DUE POSSIBILI ORIENTAMENTI DELL’ESISTENZA, CONTRADDITTORI E A VOLTE MESCOLATI. POTREI RIASSUMERE COSÌ QUESTE DUE TENTAZIONI: LA PASSIONE DI BRUCIARSI LA VITA, LA PASSIONE DI COSTRUIRLA. (…) SONO QUESTE LE DUE VIRTUALITÀ SEMPRE PRESENTI NEL SEMPLICE FATTO DI ESSERE GIOVANI, DI DOVER COMINCIARE, E DUNQUE ORIENTARE, LA PROPRIA ESISTENZA. BRUCIARE O COSTRUIRE. Alain Badiou, La vita vera: appello alla corruzione dei giovani, Ponte alle Grazie, 2016. La giovinezza è il tumulto del sé, di ciò che è in divenire, che brucia o che prende forma. La dimensione epica che connota quest’età ha generato un immaginario vero e proprio, che comprende il romanzo di formazione, merito del senso di ingovernabilità che emana. Per questo motivo, i progetti scelti per Contemporaneo Lombardo di questo numero sono opere giovanili di due diversi studi. Oltre alla scala degli edifici e al confronto con l’ambiente naturale, i due progetti hanno in comune una evidente volontà di costituirsi come 45 dichiarazioni d’intenti. Visti in tale cornice, il processo che ha portato alla definizione dei loro caratteri, la scelta dei materiali e i loro orientamenti formali, implica due posizioni specifiche nei confronti del mondo. Non a caso questi progetti rappresentano il momento di reciproco riconoscimento, nell’adesione a valori affini, dei membri dei due studi, e la conseguente decisione di proseguire in un percorso di ricerca condiviso. L’associazione sportiva Plinio è il committente del club nautico Giulio Pagani; situata nel piccolo comune di Torno, sulle rive del lago di Como. Negli anni in cui il progetto ha inizio, l’associazione ha per soci più della metà degli abitanti del paese, condizione che ha reso la costruzione del club nautico estremamente sentita dalla comunità locale. Nel 2004 Michele Bonino, tra i titolari dello studio MARC, riceve l’incarico dal committente per realizzare la struttura in un lotto dato in concessione dal comune di Torno e situato in corrispondenza di una piccola piazza, che si crea dove la via carrabile Torrazza scende verso il lago. ARK 25 / FRONTIERA Studio Associates, Cappella del Silenzio, veduta del prospetto a valle, dettaglio del catino in marmo di Botticino (fotografie di Studio Associates). 46 / CONTEMPORANEO LOMBARDO Se inizialmente il committente aveva previsto che il club dovesse sorgere su tale piazza, i progettisti decidono di proporre lo spostamento del lotto nella piccola cala in pietra sul lato ovest della piazza stessa, una scelta che consente di lasciare intatto lo spazio pubblico e agevolare lo spostamento delle barche dal ricovero all’acqua. Con il cambio del lotto, confinante con una residenza progettata negli anni Cinquanta da Attilio e Carlo Terragni - nipoti di Giuseppe MARC manifesta la volontà di confrontarsi con la morfologia del luogo e con le sue architetture. Il corpo dell’edificio si trova vicino allo zero idrometrico del lago, facendo sì che parte dell’edificio sia programmaticamente sommerso dalle sue acque. Il complesso è accessibile dalla piazza ed è parzialmente ipogeo; le altezze dei corpi che lo compongono variano conferendo dinamicità alla sezione e sono pensate rispetto alle quote tipiche delle acque del lago di Como. Attraverso una rampa si sale di un metro per raggiungere la copertura calpestabile dello spogliatoio, che permette una vista panoramica sul lago. Sempre dalla piazza, si scende verso il corpo degli spogliatoi, quasi completamente interrato e contenuto nell’elemento controterra definito da una sezione monolitica a C in calcestruzzo armato. Tale struttura ha la funzione di controbilanciare lo sbalzo di uno dei due corpi atti al rimessaggio delle barche, che è elemento caratterizzante della facciata sul lago. Entrambi i corpi per il ricovero - che contengono imbarcazioni di lunghezza variabile fra i 16 e gli 8 metri - si affacciano sulla rampa che discende verso il lago. Il secondo corpo è adiacente alla villa 47 QUESTI PROGETTI RAPPRESENTANO IL MOMENTO DI RECIPROCO RICONOSCIMENTO, NELL’ADESIONE A VALORI AFFINI, DEI MEMBRI DEI DUE STUDI, E LA CONSEGUENTE DECISIONE DI PROSEGUIRE IN UN PERCORSO DI RICERCA CONDIVISO. Studio MARC, Club nautico Giulio Pagani, interni del corpo per il rimessaggio delle canoe, pianta, sezione trasversale (fotografie di Beppe Giardino). e mantiene l’altezza del bastione di pietra confinante. L’acciaio e il policarbonato azzurro caratterizzano i corpi del ricovero che sono chiusi da teli in pvc bianco, dello stesso tipo di quelli usati per i camion. I materiali impiegati sono stati imposti da una disponibilità economica limitata per il progetto, la cui costruzione ha visto la partecipazione volontaria di diversi soci dell’associazione sportiva Plinio. Come per il club nautico Giulio Pagani, la Cappella del Silenzio di STUDIO è stata commissionata da un’associazione, stavolta della provincia bresciana, che si occupa di promuovere attività atte a incentivare le relazioni sociali fra adolescenti con disabilità mentali. La necessità della realizzazione di un luogo laico, dedicato alla contemplazione e al silenzio immerso tra i boschi e i coltivi della valle, è legata alle attività e alle diverse fedi presenti all’interno dell’associazione. Il percorso che conduce alla cappella parte da fondo valle, dove si trova la sede dell’associazione, e sale costeggiando un vigneto. Il manufatto si trova proprio al confine fra il vigneto ed il bosco, in una posizione elevata rispetto alla valle. La cappella è un corpo in legno d’abete dipinto di nero alto 5,20 metri, ha una pianta rettangolare ed una copertura a spioventi. Essa poggia su una platea in calcestruzzo armato leggermente arretrata ARK 25 / FRONTIERA 48 / CONTEMPORANEO LOMBARDO B Maniglione฀in฀ferro฀battuto฀2,5x2,5x120฀cm Imbotte฀in฀ferro฀battuto฀30x30x0,5฀cm Ingresso A฀2,82฀m h฀200฀m +฀0.00 2 Montante฀libreria฀in฀legno฀di฀abete฀6x8x210฀cm Scala฀in฀ferro฀battuto฀h฀240฀cm A A Montante฀in฀legno฀di฀abete฀16x12x฀270฀cm Rivestimento฀in฀assi฀di฀legno฀di฀abete฀12x2,5x฀400฀cm Navata A฀14,58฀m h฀467฀m +฀0.43 Portale฀in฀legno฀di฀abete฀per฀binario฀tenda฀16x12x600฀cm฀ B Travetto฀tipo฀B฀in฀legno฀di฀abete฀16x12x190฀cm Rivestimento฀in฀assi฀di฀legno฀di฀abete฀12x2,5฀cm Travetto฀tipo฀A฀in฀legno฀di฀abete฀16x12x340฀cm ravetto฀tipo฀A฀in฀legno฀di฀abete฀16x12x340฀cm ravetto฀tipo ฀A฀in฀legno฀di฀abete฀16x12x340฀cm Montante฀libreria฀in฀legno฀di฀abete฀6x8x210฀cm Imbotte฀in฀ferro฀battuto฀30x30x0,5฀cm Scala฀in฀ferro฀battuto฀h฀240฀cm Montante฀in฀legno฀di฀abete฀16x12x฀270฀cm Montante฀in฀legno฀di฀abete฀16x12x฀270฀cm Navata A฀14,58฀m h฀467฀m Foglio฀quadrato฀di฀neoprene฀฀฀sez.฀10x10฀cm Travi฀in฀legno฀di฀abete฀sez.฀12x16฀cm Travetto฀in฀legno฀di฀abete฀฀฀sez.฀10x10฀cm Travetto฀KVH฀sez.฀12x20฀cm Piastra฀in฀acciaio฀฀"L1"฀-฀S235 Platea฀in฀calcestruzzo฀armato฀con฀ doppia฀rete฀elettrosaldata฀50฀cm฀ Studio Associates, Cappella del Silenzio, pianta, sezione. rispetto al perimetro: il risultato di questa prima scelta progettuale è un’impressione come di fluttuazione del corpo dell’edificio. Questi elementi contribuiscono a conferire alla cappella un’auratica spiritualità, quella di una presenza arcana che dimora fra il verde e le fronde delle giovani querce che la circondano. La Cappella del Silenzio è stata concepita a partire dagli studi sul modello architettonico, un processo che i giovani progettisti apprendono osservando il lavoro dell'architetto cileno Smiljian Radic; ad esempio, la Cappella del Silenzio presenta un'assonanza con la Casa A, situata nella foresta di San Clemente vicino a Santiago del Cile (2009). L’ingresso si trova su uno dei lati lunghi della cappella ed è preceduto da un monolite cavo in marmo di Botticino per la raccolta dell’acqua piovana, un oggetto al tempo stesso laico e mistico. Lo spazio interno è suddiviso in due ambienti. Il primo spazio che incontriamo dà la sensazione di compressione e ha per punto di fuga una cornice in ferro che traguarda il paesaggio rivelandone un frammento intimo. Questo atrio oscuro prepara l’occhio ad essere colto di sorpresa nel secondo ambiente, dove inizialmente si ha quasi l’impressione che l’architettura scompaia, proiettando lo sguardo del visitatore verso il paesaggio ed un secondo monolite in marmo di Botticino. Per effetto del conseguente adattamento pupillare, l’occhio scopre gradualmente gli interni neri, rigati dal cadenzato ritmo dei montanti in legno. Gli ultimi montanti verso il bosco reggono una tenda - che permette di modulare l’intimità dello spazio interno - e si protendono a sbalzo sul bosco, creando così un portale. Provenendo dalla vigna, dal IN ENTRAMBI GLI INTERVENTI, I PAESAGGI RISULTANO TRASFORMATI DA UN SENTIMENTO CONTEMPLATIVO CHE I PROGETTISTI HANNO TRADOTTO NELLA TANGIBILE CONCRETEZZA DELLA MATERIA. UN PAESAGGIO CHE NON È MAI SUBLIME NEL SENSO ROMANTICO DEL TERMINE, MA È INVECE COMUNE E VISSUTO; LA NATURA È OSSERVABILE ED ESPLORABILE, E PERMETTE ALL’UOMO DI RITORNARE ALLA VITA ASSOCIATA, RINNOVANDONE IL SENSO. paesaggio antropizzato, la cappella introduce il visitatore ad un paesaggio più selvatico. Allo stesso modo, il club canottieri di Marc si adagia sulla riva del lago, facendosi il mezzo di relazione con l’acqua. La dimensione ridotta di entrambi i manufatti non è ragione sufficiente a giustificare il rapporto che permette al visitatore di relazionarsi intimamente con il paesaggio. Entrambi gli interventi, uno a pelo d’acqua e l’altro posto al margine fra vigna e bosco, diventano luoghi di mezzo, dispositivi di distensione verso l’orizzonte. I paesaggi risultano trasformati da 49 un sentimento contemplativo che i progettisti hanno tradotto nella tangibile concretezza della materia. Si potrebbe dire che i progetti promuovono una dilatazione della coscienza del visitatore verso una dimensione più grande che possa accogliere la singolarità dell'io nel più vasto intorno selvaggio della natura. Un paesaggio che non isola, non è mai sublime nel senso romantico del termine, ma è invece comune e vissuto; la natura è osservabile ed esplorabile, e permette all’uomo di ritornare alla vita associata, rinnovandone il senso. Studio Associates, Cappella del Silenzio, veduta del prospetto aperto sul bosco, dettaglio degli interni (fotografie di Studio Associates). ARK 25 / FRONTIERA 50 / ATLANTE I RAGAZZI E LA CITTÀ Spazio pubblico e partecipazione giovanile a Bergamo Testo di Elena Turetti Illustrazioni di Marco Mazzola 51 GUARDIAMO ALLA CITTÀ COME ALLA LORO PRIMA SCENA PUBBLICA, TRANSITORIA O LONGEVA, LO SCOPRIRANNO VIVENDO, IL LUOGO IN CUI LE LORO OPINIONI DIVENTERANNO POLITICA, IL LUOGO DEL DISSENSO E DEL CONSENSO, IL LUOGO IN CUI L'IDEA DI UN RAGAZZO PUÒ TROVARE ESPRESSIONE IN UN GRUPPO CHE SI COALIZZA E SI EMANCIPA. I ragazzi. I ragazzi, quelli che ci immaginiamo, non hanno un'età precisa, stanno tra i 14 e i 30 anni, che sono molti anni se commisurati ad una vita. A guardarli da lontano sono quelli che lo smartphone è tutto ma anche no, gli amici sono tutto ma anche no, la scuola è tutto ma anche no, il mio corpo è tutto ma anche no, io sono tutto ma anche no. Che è come dire che la contraddizione è un terreno di vita felice, l'incertezza la misura del quotidiano agire, la sfida uno dei migliori modi di iniziare un dialogo. Poi però ci viene voglia di conoscerli ad uno ad uno, attirati dall'energia e dalla presunta spensieratezza e allora ci mettiamo per qualche istante nei panni di un padre che guarda sua figlia crescere, di un amico copywriter che ne anticipa ogni giorno i bisogni per tramutarli in storie, di un insegnante che li guarda ogni mattina a scuola e ce li racconta come specchio del mondo che sta fuori, ma soprattutto vorremmo metterci nei panni di una sua compagna di banco e sentire davvero cosa succede là dentro quel corpo, quando tutto cambia. La città. Guardiamo alla città come alla loro prima scena pubblica, transitoria o longeva, lo scopriranno vivendo, il luogo in cui le loro opinioni diventeranno politica, il luogo del dissenso e del consenso, il luogo in cui l'idea di un ragazzo può trovare espressione in un gruppo che si coalizza e si emancipa. È una conquista, non è un diritto naturale ma legiferato e ordito da ARK 25 / FRONTIERA 52 / ATLANTE regole e provvedimenti, da diritti e doveri. È una banco di prova, e nella migliore delle ipotesi un luogo di affermazione della propria identità o almeno di una delle proprie identità. È un pulpito o proscenio in cui pronunciare il proprio discorso e dare voce alla propria condizione di membro di una società. È la collettività dove assumere una forma diversa dimentica del propria solitudine e dello statuto di essere unico. È la forma esteriore non dicotomica rispetto a quella interiore ma senz'altro più manifesta. È il tempo degli incontri, che cambieranno il corso di una vita, è il tempo della condivisione, del coinvolgimento, della partecipazione. È il tempo libero, della ricreazione, dello svago e della festa. Ma come si compie questa conquista della scena pubblica oggi? Non si tratta oggi di agire in contrapposizione all'amministrazione pubblica, di protestare, di alzare la voce, di scrivere manifesti e presentarli nel corso di grandi discorsi pubblici, di usare la città come pulpito e i suoi spazi più rappresentativi del potere come luoghi eletti di scontro. Ma di interloquire. Con la legge n. 241 del 1990 i cittadini possono partecipare all'azione amministrativa, non solo i diretti interessati di un provvedimento amministrativo, ma anche i titolari di un interesse diffuso,purché costituiti in comitato. Intervenire nel procedimento significa, accedere agli atti, presentare memorie e documenti che l’amministrazione è tenuta a valutare, visionare le informazioni che ha assunte prima di decidere. Si entra così in interlocuzione con l’amministrazione, le cui azioni oggi sono sottoposte al 53 controllo diffuso dei cittadini. Il principio della trasparenza, inteso come accessibilità totale alle informazioni che riguardano l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, è stato affermato con il decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 e riaffermato ed esteso dal decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97, il cosiddetto Freedom Of Information Act (Foia), come "accessibilità totale" ai dati e ai documenti gestiti dalle pubbliche amministrazioni con un ampliamento dell’istituto dell’accesso civico finalizzati a favorire ulteriormente forme diffuse di controllo sulle attività delle istituzioni e sull'utilizzo delle risorse pubbliche, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e tutelare i diritti dei cittadini. Nel caso specifico del disegno della città, dell'urbanistica, la partecipazione implica che le istituzioni si orientino verso un nuovo concetto di governo del territorio che tende a coinvolgerne tutti gli attori (governance) seguendo un modello di sistema aperto, adattivo e reversibile. Alle sedi tradizionali degli eletti quali consigli comunali, regionali, circoscrizionali, si possono affiancare sedi formali ed informali di confronto e orientamento come tavoli sociali, laboratori di quartiere, cabine di regia, piani strategici, che hanno lo scopo di mettere a confronto in forma diretta gli interessi territoriali in gioco, delegando successivamente alla democrazia rappresentativa il compito di recepire o respingere le indicazioni assunte bottom up. Un ragazzo che oggi abita nel Quartiere Redona di Bergamo in cui si sperimenta dal 2006 il bilancio partecipativo ha potuto LA PAROLA CHIAVE È QUINDI DISGIUNZIONE, PERCHÉ INSIEME SUGGERISCE APERTURA, CONTAMINAZIONE CON ALTRI LINGUAGGI COME QUELLO DEL CINEMA IN "MANHATTAN TRANSCRIPTS", CONTRADDIZIONE INSITA E POSSIBILE IN OGNI ARCHITETTURA - E DECOSTRUZIONE - CHE È QUINDI QUALCOSA IN PIÙ CHE UN SEMPLICE ESERCIZIO STILISTICO MA UNA PRASSI DI RIAPPROPRIAZIONE, DI DECONTESTUALIZZAZIONE, DI RISIGNIFICAZIONE. partecipare e partecipa attivamente alla definizione delle priorità del quartiere e dei modi con cui dare risposta a tali bisogni, ha partecipato ad un tavolo di progettazione partecipata per la realizzazione di un centro di aggregazione giovanile composto dalla rete sociale del quartiere, dalla V Circoscrizione, dall'Ufficio Giovani, dall'Ufficio tempi e orari, dall'Assessorato ai Lavori Pubblici, dall'Assessorato al Verde, dall'Assessorato alla Mobilità e coordinato dall’Ufficio Partecipazione. Da questo lungo lavoro è nato Edonè, quale espressione dei giovani e della rete sociale del quartiere per permettere loro di diventare protagonisti attraverso la programmazione e la produzione di cultura in un luogo loro dedicato. Edonè è aperto dal marzo 2010. Quali spazi registrano questa conquista della scena urbana da parte dei ragazzi? Lo spazio della città può essere disegnato e riprogrammato per accompagnare un cambiamento sociale in corso? Può l'architettura far nascere questi cambiamenti? Quale rapporto c'è tra architettura e evento, tra architettura e programma, ARK 25 / FRONTIERA 54 / ATLANTE tra architettura e deriva? Se ripercorriamo dall'inizio il percorso teorico critico di Bernard Tschumi e l'origine della sua tesi sulla disgiunzione tra spazio e evento possiamo comprendere più a fondo la natura transitoria, temporale, residuale di alcuni fatti urbani. Nel 1968 Bernard Tschumi partecipa alla contestazione studentesca; negli anni Settanta tiene corsi alla Architectural Association di Londra intitolati "Urban Politics” e "The Politics of Space”; contemporaneamente allaccia contatti clandestini con l’IRA, recandosi diverse volte a Belfast e a Derry per preparare un numero dell’Architectural Design, dedicato alle rivolte urbane. Tschumi arriva a sostenere: "quando vi è disgiunzione tra spazio e evento tale disgiunzione trasforma lo spazio nel milieu della pratica sociale; quando trasformiamo in materia d'architettura l'incertezza derivante dall'uso, dall'azione discontinua, dal movimento dei corpi; quando l'architettura reagisce alla complessità derivante dalla fenomenologia del vivere quotidiano diventa fatto urbano". La parola chiave è quindi disgiunzione, perché insieme suggerisce apertura, contaminazione con altri linguaggi come quello del cinema in "Manhattan transcripts", contraddizione - insita e possibile in ogni architettura - e decostruzione - che è quindi qualcosa in più che un semplice esercizio stilistico ma una prassi di riappropriazione, di decontestualizzazione, di risignificazione. Da qui la proposta di sostituire la triade vitruviana di venustas, firmitas, utilitas con una nuova più cruda: linguaggio, materia, corpo. E anche di rivalutare gli eventi e il programma, nel senso che la progettazione degli eventi 55 MA ALLORA COSA CI INSEGNANO I RAGAZZI SULLA CITTÀ E SULL'ARCHITETTURA? che si svolgeranno nello spazio ne determineranno l’aspetto, il significato e l’apertura. Progettare gli eventi vuol dire, infatti, introiettare lo shock del flaneur che distingue la nostra città moderna da quelle che ci hanno preceduto. Ma anche aprire la progettazione alle sollecitazioni esterne, abbandonando una volta per tutte il mito dell’autonomia, questa sorta di araba fenice che per un trentennio ha ossessionato il pensiero architettonico. Disgiunzione si tradurrà nella città in molte scritture diverse dello spazio pubblico aperto e chiuso, grande o piccolo che sia. Vi potremo riconoscere una grammatica, basata sulla definizione e composizione degli elementi primari di un linguaggio, singoli e associati metteranno in crisi la scala e l'uso di uno spazio, si giocherà con il tempo come variabile fondamentale per trasformarla in una grande possibilità di immaginarsi assetti diversi dello spazio di notte o di giorno, d'estate, nel corso di una manifestazione politica o di una grande calamità naturale. Si troverà nella giustapposizione e nella contrapposizione di elementi un terreno di sperimentazione ricercato e fertile. Quella stessa grammatica che possiamo riconoscere nell'azione di colonizzazione, di uso della città, nella pratica quotidiana dello spazio urbano dei ragazzi. Ma allora cosa ci insegnano i ragazzi sulla città e sull'architettura? Ci insegnano a considerare la capacità di un solo elemento singolo, un'attrezzatura minima ma ben installata, supportata dalla presenza di luce artificiale e del giusto spazio vuoto attorno, di compiere un'azione aggregante fortissima. Il Pilo, un canestro, delle regole minime di convivenza civile, una zona a libero accesso dove praticare il basket in modo informale, fuori dai club e dall'adesione obbligatoria ad una società sportiva o dal sentirsi un giocatore a tutti gli effetti e un movimento di ragazzi che programmano ogni anno un torneo di street basket che attira lì una miriade di ragazzini. Un fuori scala, un'infrastruttura urbana, il cavalcavia Boccaleone che si offre come tetto o tettoia fuori scala e per questo riconoscibile, e grazie alla sua riconoscibilità e forza colonizzabile, prima solo spazio per il parcheggio delle automobili oggi come spazio sottratto al parcheggio in cui innestare una programmazione minima di attività che lo trasformano in spazio in cui stare, magari solo nelle sere d'estate, ma stare anziché andar oltre e distogliere lo sguardo. L'allestimento temporaneo permette di sedersi e di sdraiarsi all'aperto, le nuove scansioni di colore ne ridefiniscono proporzioni e ritmo, il suono emesso dalle altoparlanti profitta della sua geometria per propagarsi, la programmazione cadenzata di appuntamenti lo trasforma in un luogo in cui incontrare gli amici. Tutto questo grazie all'intenzione e poi all'azione concreta di un'associazione che ha deciso si prendersi cura di questo residuo e di restituirlo a tutti. A Bergamo ce ne sono moltissimi di spazi, piccoli o grandi, che per 56 / ATLANTE PUBBLICITÀ ragioni diverse si sono offerti all'azione di riuso da parte di un gruppo di ragazzi, nella scelta del luogo c'è sempre una leva che fa perno sul significato, in cui posizione, scala e riconoscibilità la fanno da padroni. Ma se tutta la città fosse riscrivibile o ridiscutibile? Se come ci insegnano i traceurs ogni ostacolo potesse diventare un'opportunità, se si tratta semplicemente come nel parkour di cambiare posizione e assetto del corpo e sguardo sulla città, cosa ci trattiene dal considerare una pratica dello spazio così estrema una pratica che ci insegna qualcosa sulla forma della città? ARK 25 / FRONTIERA 58 / INCONTRI RAVVICINATI GUGLIELMO MOZZONI CASA DEL QUAC Guglielmo Mozzoni e Luigi Ghidini, Villa alla Zelata, Bereguardo (Pavia), 1960 Testo e fotografie a colori di Davide Pagliarini Conversazioni con i testimoni a cura di Michela Facchinetti La villa che Guglielmo Mozzoni progetta e fa edificare per sé e la moglie Giulia Maria Crespi alla Zelata è una palafitta sospesa tra i boschi di querce e pioppi, a pochi passi da una scarpata che discende alla quota dell'alveo del Ticino. “Casa del Quac”, così la villa è chiamata, è un'espressione della lingua dialettale lombarda: indica Guglielmo Mozzoni e Luigi Ghidini, Villa alla Zelata, Bereguardo, 1960, veduta dell'ingresso (a sinistra) e della terrazza perimetrale (sopra), pianta (pagina a fronte). 59 la casa di colui che sta acquattato, accovacciato, quatto, zitto, taciturno. È il primo requisito di chi, come Guglielmo Mozzoni, pratica la caccia. Acquattati, per non essere scorti, stanno i cacciatori e i segugi che li accompagnano. Eppure la villa si mostra da subito nella sua sontuosa grandezza, tanto da rivaleggiare con gli imponenti fusti degli alberi centenari che la circondano e che essa, nella sua giacitura, rispetta. La vicinanza del corso d'acqua e delle sue aree umide, dei suoi terrazzi fluviali periodicamente esondabili, determina le regole dell'insediamento. Innalzarsi, sollevarsi da terra per conquistare un orizzonte visibile più vasto, ma anche per disporre di una superficie asciutta, per determinare un impalcato lontano tanto LA CASA È UN OSSERVATORIO ELEVATO SUL DIVENIRE, UN PALCO E UN TETTO ATTRAVERSATI DAI VENTI, DAI RAGGI SOLARI AL TRAMONTO, DALLE OMBRE PRONUNCIATE DEI RAMI DEGLI ALBERI, DAI PROFUMI DELLE INFIORESCENZE. dall'umidità quanto dalla presenza degli animali selvatici che vivono nel bosco, ci porta a compiere un viaggio a rebours nella storia, alle costruzioni neolitiche che nel distacco dalla terra trovavano una ragione utilitaria - difendersi, porsi al sicuro - e simbolica - contrassegnare l'alterità, l'autonomia, la conquistata indipendenza della specie umana dalle forze della natura. Guglielmo Mozzoni amava la natura, vi trascorreva il tempo lento, talvolta immobile, della caccia, dell'osservazione minuziosa, dell'attesa, del cammino e della raccolta di indizi e tracce, di orme e segnali lasciati sul terreno e sulle cortecce degli alberi. Eppure quell'amore incondizionato si traduce alla Zelata in una casa che si congeda dalla terra allontanandosene, seppur di pochi metri. È il segno di una cultura che per nascita, nel suo sorgere e nel suo farsi azione, possiede la forza di ARK 25 / FRONTIERA Una delle speciali 'bocchette' apribili per favorire la ventilazione naturale delle stanze nei mesi caldi. 60 / INCONTRI RAVVICINATI una rivelazione, di un'immagine (da imago, apparizione). Ad apparire dinanzi all'uomo primitivo, che indomito abita ancora la psiche dell'uomo moderno, è la coscienza della cultura. Nel 1800 il geografo ed enciclopedico Élisée Reclus scrisse che “l'uomo è la natura che prende coscienza di se stessa”. L'uomo è natura e ad essa, cioè alla radice che nutre i suoi desideri, rivolge le proprie più intime interrogazioni, le proprie inquietudini, a cui la cultura tenta di fornire, se non una risposta, una interpretazione e una rappresentazione. La villa alla Zelata è una risposta, certamente non l'unica, a quelle interrogazioni primordiali. Dimora di frontiera, soglia tra terra e cielo accessibile per via di sorprendenti scale retrattili, essa nasconde una natura ambigua e doppia. Radicata al suolo alla maniera di una specie lianosa, come una vitalba conquista un mondo aereo, mobile e provvisorio, ospite di altre specie a cui si aggrappa caparbiamente. Così le sue numerose stanze, gli organismi ospiti, crescono sulle nervature della struttura in acciaio, l'organismo ospitante. Sono abitacoli che annunciano nell'andamento poligonale dei fronti le proprie geometrie frattali, dissimulando la dimensione di un manufatto imponente. Pur adottando materiali e un registro cromatico intonati con il luogo, la villa sopraelevata rifugge il mimetismo che vorrebbe mascherarne la presenza rispetto all'intorno boschivo. Negli anni Sessanta l'economia è florida e l'estetica del camouflage con connotazioni ecologiste è ancora lontana dall'esercitare un diffuso fascino seduttivo. Altra ambiguità, altra contraddizione. Il vernacolo della palafitta, del capanno di caccia, del ricovero dei pescatori, della casa sull'albero che noi tutti avremmo voluto costruire durante l'infanzia, assume le forme e i comfort di una villa, un tema tutt'altro che episodico e che impegnerà Mozzoni in molteplici commesse per una agiata committenza borghese. La sua doppia natura è coglibile nel rapporto tra le sue dimensioni, l'arditezza strutturale, la raffinatezza di alcuni suoi particolari costruttivi da un lato e i rinvii alle modeste costruzioni spontanee e provvisorie che punteggiano gli argini dei fiumi dall'altro. Fu forse questa ambivalenza, tra la ricercatezza propria di una dimora agiata e il carattere transitorio, leggero, di natante ormeggiato tra gli alberi a fare di essa il set per una scena di Teorema, il vitreo film girato nel 1968 da Pier Paolo Pasolini? Teorema, ma dovremmo dire tutto il cinema pasoliniano, ha rivendicato l'urgenza della ricerca della libertà e della purezza dell'anima, ha cantato con lirica poesia la bellezza del gioco, ha nutrito il desiderio e respinto il godimento, quel godimento vuoto ed effimero a cui, nel film, ci si abbandona proprio nella villa di Bereguardo. La sfida alla gravità che la villa dispiega non si fonda sulla ricerca di un effimero svuotato di senso, che nel film di Pier Paolo Pasolini è annientato con risolutezza geometrica dal misterioso “ospite” adolescente, ma sulla volontà di predisporre una casa come un osservatorio elevato sul divenire, un palco e un tetto attraversati dai venti, dai raggi solari al tramonto, dalle ombre pronunciate dei rami 61 OGNI MINUTO MUTAMENTO DELLA LUCE NATURALE È PERCEPIBILE E FA CAMBIARE L'ATMOSFERA DELLA CASA. AL TRAMONTO LA CASA 'BRUCIA' DI LUCE CHE ACCENDE I SUOI COLORI. SI HA LA PERCEZIONE VIVA DI ESSERE UN TUTTO ARMONIOSO CON SÉ STESSI E LA NATURA CHE CIRCONDA LA CASA. degli alberi, dai profumi delle infiorescenze. Un rifugio per sentirsi parte fra le parti. La gioia di vivere vissuta dal progettista e da egli stesso narrata nel suo libro L'architetto Mozzoni e i mulini a vento (Milano, 1985) tuttavia è di segno diverso rispetto a quella del giovane Ninetto Davoli nel ruolo del postino in Teorema. La prima ci è più familiare perché sorge da circostanze privilegiate e si è temprata nella guerra e da essa ha appreso l'essenza dell'impegno civile e della lealtà, valori cavallereschi (Mozzoni fu ufficiale durante la Resistenza). La seconda ci appare incomprensibile, perché nasce dalla miseria, perché il suo candore e la sua innocenza non hanno conosciuto offese, duelli, rivincite, trofei. Riflettere sulla radicalità del pensiero di Pasolini e sulla lealtà umana e professionale di Mozzoni non ci portano lontano dai temi a cui Ark dedica le proprie pagine. L'architettura è tanto intrisa di istanze esistenziali ed etiche da non potersi sottrarre ad un esame profondo delle ragioni che determinano la sua costruzione. Così di Guglielmo Mozzoni si colgono nelle opere costruite o soltanto disegnate i sentimenti che animarono la sua vita, i suoi ideali, il suo vitalismo, la fisicità delle sue avventure, il calore delle sue collaborazioni con gli artigiani, custodito nel tempo dai materiali che portano con sé le tracce del lavoro manuale e la patina prodotta dall'uso. Nello scrutare le geometrie della villa alla Zelata la storia dell'architettura andrebbe alla ricerca degli echi wrightiani, dei rimandi al vernacolare, delle assonanze con i coevi lavori dei BBPR (si pensi alla villa Jucker a Roncaro di Baveno, del 1964), delle parentele con le istanze, moderne, che hanno spinto molti architetti del XX secolo a librarsi da terra e a sfidare la gravità. Qui si è voluta percorrere una via diversa, più vicina alle vicende che si agitano nell'animo umano e di cui l'architettura è un contraltare e, qualche volta, una proiezione nella inorganica fisicità della materia. MICHELA FACCHINETTI Zelata, Bereguardo, 9 febbraio 2018 Per raggiungere la Villa alla Zelata occorre immergersi tra le risaie, i campi coltivati e i pioppeti del Parco del Ticino, attraversando la tenuta dell’Azienda Agricola Biodinamica Cascine Orsine, fondata da Giulia Maria Crespi nel 1976 e condotta con il figlio Aldo Paravicini Crespi che ci accoglie e ci accompagna alla villa, nella quale avremo modo di trascorrere alcune ore del pomeriggio, sino all’imbrunire. Il giorno della nostra visita il tempo è sereno e la casa risulta così invasa dalla luce. Guglielmo Mozzoni dispiega una sorta di abecedario di aperture: la casa ha infatti affacci, quali ampi serramenti di legno e vetro, piccole aperture, feritoie orizzontali e verticali, o ancora una finestra dagli imbotti svasati nella camera padronale, tutti rivolti sul bosco esterno. Per le grandi aperture gli scuri sono esterni, con ante a libro in tavole di legno con le specchiature dipinte di turchese; le sottili feritoie orizzontali (nel soggiorno) e verticali (in alcune camere da letto) sono oscurabili dall'interno con semplici sportelli di legno a ribalta. Le tende, quando sono presenti, sono semplici avvolgibili in stuoia di canna. Ogni minuto mutamento della luce naturale è percepibile e fa cambiare l'atmosfera della casa. Al tramonto la casa 'brucia' di luce che accende i suoi colori. Si ha la percezione viva di essere un tutto armonioso con sé stessi e la natura che circonda la casa. Gli arredi interni sono tutti di legno massiccio così come il pavimento, gli infissi e le mensole (alcune delle quali ricavate in vani tra le pareti) ed hanno tutti colori caldi: gradazioni di marrone, giallo, arancio e rosso terracotta e questo contribuisce a mantenere costantemente, anche quando la luce è flebile, un'atmosfera accogliente e calda. Vi sono diverse collezioni di oggetti e suppellettili in legno e pure numerosi accessori in terracotta: vasi, lumi, brocche, forme antropomorfe e animali, pesci, anatre, rane. In cucina si trovano piatti e scodelle di legno, ceste di vimini piatte e larghe di varie misure. Un grande camino accoglie gli ospiti all'ingresso e un altro nel soggiorno abbraccia la stanza e al contempo si proietta nel paesaggio attraverso le ARK 25 / FRONTIERA Dettaglio del soggiorno (a sinistra). Dettaglio dei volumi poligonali delle camere (sotto). 62 / INCONTRI RAVVICINATI 63 MI HA SEMPRE AFFASCINATO QUESTA CASA PERCHÉ È UNA SORTA DI PALAFITTA MODERNA, MA CON UN LESSICO VERNACOLARE. QUANDO LA SI VEDE PER LA PRIMA VOLTA IL SUO ASPETTO È ABBASTANZA DIROMPENTE. precisa, nascendo sì da un ordine pratico e funzionale - ventilazione, illuminazione, irraggiamento solare ma pure, ci piace pensare, da un'attitudine poetica. Le due testimonianze che riportiamo in seguito le abbiamo raccolte in un secondo momento, attraverso uno scambio via posta elettronica con Giulia Maria Crespi, moglie dell’architetto Guglielmo Mozzoni, e nell’incontro con l’architetto Lorenzo Degli Esposti, che in anni più recenti si è avvicinato a Mozzoni e ha condiviso con lui un percorso e un vivace scambio intellettuale. LORENZO DEGLI ESPOSTI Milano, 19 febbraio 2018 feritoie orizzontali che tagliano le pareti che lo delimitano. I soffitti sono bassi, all'ingresso con tavelle di laterizio a vista, negli altri ambienti rivestiti di tavole di legno e sono punteggiati in ogni stanza di speciali 'bocchette' apribili per favorire la ventilazione naturale delle stanze nei mesi caldi. Le porte interne in legno hanno una cura nel disegno che le vuole alleggerire nonostante la loro massa. Tutte le maniglie sono in legno lavorato dal pieno. La cura artigianale del saper fare emerge in tutti questi dettagli. Le due scale esterne ai lati opposti della villa sono mobili: possono essere fatte scorrere dall'alto al basso o viceversa. Sono retrattili, un'altra invenzione straordinaria: rampe che possono essere issate quasi la casa fosse un natante pronto a salpare per iniziare un viaggio. Tutti questi elementi dimostrano la grande libertà dell'architetto Mozzoni di inventare ogni volta un dispostivo diverso come se questo dovesse assolvere e rispondere a una funzione o una necessità Mi ha sempre affascinato questa casa perché è una sorta di palafitta moderna, ma con un lessico vernacolare. Quando la si vede per la prima volta il suo aspetto è abbastanza dirompente. È frattale, la sua pianta ricorda un quadrifoglio o un fiore. È molto calda, molto ben abitabile, molto accogliente: le boiserie, i balconi, il piccolo ingresso centrale che ricorda la Casa de vidro di Lina Bo Bardi. Sebbene quella sia del tutto moderna, la casa di Guglielmo Mozzoni invece è una commistione tra diverse concezioni: tutto è costruito secondo una perizia artigianale ed uno sfruttamento delle possibilità tecniche che l'industria di allora poteva mettere a disposizione. Mozzoni aveva un'attenzione e curiosità per tutto ciò che era nuovo: anche internet. Io l'ho conosciuto tra il 2009 e il 2010 ed il nostro primo contatto è avvenuto via e-mail, una circostanza abbastanza bizzarra per una persona che aveva più di novant'anni. Leggeva ed interagiva via e-mail tutti i giorni, così come però scriveva e spediva lettere: non si lasciava sfuggire nessuna delle varie attrezzature e tecnologie a disposizione, fino alle più recenti, che combinava in maniera anche eclettica. Come nella sua Città Ideale, un progetto a cui lavorò per 50 anni, intitolandolo all'inizio La città per istruire divertendosi. Si trattava di una sorta di "città volante": in uno schizzo preliminare venivano raffigurate "nuvole" su cui si poteva stare per imparare, ad indicare più una concezione esistenziale che progettuale, utopica ma costruibile. Da soldato sabaudo che va a chiedere ai fasci la resa, a partigiano poi, si fa paracadutare su Milano nell'aprile del '45 con l'aviazione americana; ha continuato a dire quello che pensava fino a tempi recentissimi. Si è sempre battuto, oltre che per un'architettura disegnata, di grande valore, e per un'architettura ideale, sebbene lui la intendesse in modo pragmatico, ARK 25 / FRONTIERA Vedute dello spazio porticato. Sono visibili le figure disegnate da Gugliemo Mozzoni e tagliate nel legno dal suo falegname Carlo Sacchi. 64 / INCONTRI RAVVICINATI La scala di accesso al patio situato al centro della casa. 65 IO AVEVO CHIESTO A GUGLIELMO DI COSTRUIRMI UNA CASCINA TRADIZIONALE SU MODELLO DI QUELLE DELLA BASSA PADANA, LUI INVECE MI FECE UNA PROPOSTA COMPLETAMENTE DIVERSA. a lui non sembrava razionale, con qualsiasi forma di mascheramento delle cose, così come devono essere nella loro semplicità e onestà. Un giovane oggi può ancora trarre un grande giovamento dalla lezione di Guglielmo Mozzoni, guardando i suoi progetti e leggendo i suoi libri. GIULIA MARIA CRESPI Milano, 26 febbraio 2018 La scala di accesso alla casa e il grande camino in mattoni e lamiera di ferro. per battaglie civili, sui temi dell'urbanistica. Era assolutamente un protagonista del suo tempo. Mozzoni era questo: un'animo puro, libero sicuramente e questo si sente nelle sue opere. Questo suo coraggio e spregiudicatezza determinavano negli altri un'iniezione di fiducia. Sicuramente chi lo ha frequentato ha preso coraggio. In questo senso l'incontro con lui è stato un rapporto assolutamente formativo. La sua ironia era una modalità che accompagnava da sempre anche gli atteggiamenti più seri. Aveva una grande fiducia nel possibile. Anche all'idea più visionaria, impossibile o improbabile lui riusciva a dare una prospettiva di possibilità e concretezza. Con questa sua estrema poliedricità e questo suo temperamento che possiamo definire assolutamente non allineato, irrequieto in un senso positivo, andava a bersagliare qualsiasi forma di immobilismo o qualsiasi tentativo di costringere il pensiero. Se la prendeva con qualsiasi questione che Quando entro nella casa alla Zelata sento subito un grande senso di pace, di armonia e di letizia. L’abbiamo chiamata “Casa del Quac” perché nei dintorni abitava un airone che sovente si appollaiava sulla grande quercia attorno a cui era costruita la casa. Lo spazio esterno alla casa era tutto coltivato e circondato dai boschi, io lo trasformai in un grande prato, vi piantai migliaia di giunchiglie, che ogni anno riportano una scia dorata al limitare del bosco, ed un lungo fiume di blu bels, quei bulbi di campanule azzurre che crescono nei boschi inglesi. Questo grande prato divenne il fulcro di feste pomeridiane, partite di palla a volo e sede di chiacchiere e conversazioni, sdraiati sull’erba. L’idea delle scale laterali retrattili, forse nel subconscio, era quella di voler rendere la casa più sicura, sollevando le scale che avrebbero potuto venir rese mobili, di fatto però questo non è mai avvenuto. Pasolini ed io eravamo abbastanza amici, talvolta egli veniva a trovarmi e passeggiavamo nei boschi. Lui filosofeggiava sulle terre della Padania, gli ricordavano tempi lontani, parlava di sua madre e mi diceva che le donne di queste terre avevano un volto un po’ diverso da tutte le altre donne, ma io non ho mai capito il perché. Un giorno mi chiese se avrebbe potuto adoperare la casa della Zelata per un film e se avesse potuto includervi anche Barbino, il famoso cane di Guglielmo, ed io acconsentii, ma non lo dissi a mio marito, che quando se ne accorse fu molto adirato. Io avevo chiesto a Guglielmo di costruirmi una cascina tradizionale su modello di quelle della Bassa Padana, lui invece mi fece una proposta completamente diversa e mi portò un modellino minuziosamente costruito della casa attuale, adducendo la necessità di sollevare l’abitazione al di sopra dello sciame di zanzare ed in questa maniera di offrire una maggiore possibilità per avere una veduta più ampia sui dintorni. All’inizio io rimasi interdetta data la totale divergenza con una cascina lombarda, ma poi la possibilità di avere la casa perfettamente incorporata nell’ambiente costruita intorno a una enorme quercia, una casa aerea quasi come un nido appollaiato sull’albero, mi convinse ed io sposai pienamente questo progetto pur ricevendo totale riprovazione da parte della famiglia e dai loro amici, scandalizzati. ARK 25 / FRONTIERA Operazioni del Genio Lanciafiamme, 1917 (collezione privata Alberto Griffini, Milano). 66 / LAND IL PAESAGGIO FERITO Il Genio Militare durante la Grande Guerra Testo di Massimiliano Savorra Fotografie di Alberto Griffini Collezione privata, Milano Sveglia alle 6, caffè. Mi reco sulla strada. Alle 9 parto per Persici staccandomi al buio dalla ex mulattiera. Salgo sino al ponte. Si cammina sui caricatori, schegge, baionette, caschi, coperte, nastri di mitragliatrici, razzi, scatole. Bombe da ogni parte, sino a mezza costa 76 morti in attesa di sepoltura. Soldati di fanteria che vengono sepolti in due grandi fosse. Il Cappellano li benedice. Più su altre trincee sconvolte, le pontali scomparse, la lunga laterale fronteggiante il Pressolan ancora visibile. Pieno di bombe, caricatori, picconi, badili, pagnotte, elmetti. Più su altri molti morti. Poi la vetta ridotta in mucchi di terriccio friabile e dietro, verso la valle, un convulso inferno di onde di terreno abraso, arato, sconvolto ferocemente. Morti visibili, morti semisepolti. Nel segnare le trincee ultime (solchi) il Genio trova cadaveri sepolti. Un trionfo orrendo di morte. Dal diario di guerra di Luigi Angelini, 4 novembre 19181. 67 All’indomani della fine del primo conflitto mondiale, l’Italia si rese conto che la guerra aveva lasciato nelle valli, sulle colline e sui monti solo ruderi di casolari, campagne e pascoli invasi di filo spinato, foreste bruciate, campi trasformati in cimiteri, terreni invasi da eserciti di croci, fabbriche distrutte, chiese devastate, e soprattutto una costellazione incalcolabile di trincee e crateri. Il paesaggio ferito faceva rivivere a tutti l’orrore della guerra e il ricordo dei compagni morenti sui campi di battaglia, nel fango e sulle pietraie; incubi che avrebbero accompagnato a lungo i soldati sopravvissuti. Tra questi, molti furono architetti e ingegneri: Giovanni Greppi, Gio Ponti, Paolo Mezzanotte, Piero Portaluppi, Giovani Muzio, Alberto Alpago Novello, Pier Luigi Nervi, Saverio Dioguardi, Piero Aschieri, i fratelli Alberto ed Enrico Agostino Griffini, Paolo Caccia Dominioni, Mino Fiocchi, Tomaso Buzzi, Luigi Angelini, Luigi Caneva, Giovanni Michelucci, Antonio Carminati e molti altri vissero la comune esperienza bellica, alcuni addirittura nelle medesime postazioni al fronte, lavorando nel Genio militare alla realizzazione di strutture difensive, trincee, strade, opere infrastrutturali. Si trattava di una élite di ufficiali e sottoufficiali istruiti, il più delle volte volontari, uniti dai saperi dell’architettura e dell’ingegneria, oltre che dalla comune fede nella nazione. Se ancora poco si conoscono le forme e i modi di elaborazione del lutto e della memoria da parte di questa élite, purtuttavia è possibile, da un lato, rintracciare le loro opere al fronte, al di là di quella che fu definita da Marc Bloch come «psicologia della testimonianza» applicata alla Grande Guerra, dall’altro, analizzare “i lavori legati al conflitto” che essi realizzarono durante e subito dopo gli anni di combattimento. Formatisi talvolta velocemente in accademie militari prima di partire per il fronte, gli architetti e gli ingegneri prestarono i loro servizi nel Genio minatori o nel Genio ferrovieri, nel Genio pontieri o nel Genio lanciafiamme. Quest’ultimo, composto da molti giovani ingegneri, entrò in azione il 20 aprile 1916 sul Carso. Constatata l’efficacia di tale arma, venne ampliata la dotazione in uomini e mezzi, estendendone l’impiego in vari punti del fronte. Michelucci ad esempio passò dai minatori ai lanciafiamme (le squadre lanciafiamme dipendevano dai comandi delle Divisioni; alla vigilia della battaglia di Vittorio Veneto erano attive 9 compagnie). Paolo Mezzanotte, cartolina postale d'epoca (collezione privata Alberto Griffini, Milano). IL PAESAGGIO FERITO FACEVA RIVIVERE A TUTTI L’ORRORE DELLA GUERRA E IL RICORDO DEI COMPAGNI MORENTI SUI CAMPI DI BATTAGLIA, NEL FANGO E SULLE PIETRAIE; INCUBI CHE AVREBBERO ACCOMPAGNATO A LUNGO I SOLDATI SOPRAVVISSUTI. TRA QUESTI, MOLTI FURONO ARCHITETTI E INGEGNERI. ARK 25 / FRONTIERA 68 / LAND Il Genio pontieri, anche questo formato in larga parte da ingegneri e architetti, era costituito nel 1915 da 12 compagnie che divennero ben presto 16. Esse si occuparono delle operazioni di attraversamento dei fiumi, soprattutto il Piave, il Tagliamento e l’Isonzo. Al momento della battaglia di Vittorio Veneto, erano operative 26 compagnie pontieri, raggruppate in 6 battaglioni. Molti giovani laureati ai politecnici di Torino o di Milano - o solo iscritti che avevano interrotto gli studi per arruolarsi, come Gio Ponti lavorarono nel Genio pontieri, ma soprattutto molti di loro fecero parte del Genio zappatori e del Genio minatori, occupandosi dello scavo delle trincee e delle gallerie, oltre che del trasporto di materiale per la costruzione e il rafforzamento di strade e di posizioni avanzate in prima linea. Basti pensare che dalle iniziali 43 compagnie del maggio 1915, si passò a 236 compagnie nel novembre del 1918, impiegate sia nelle linee difensive arretrate, che in quelle più avanzate, dalla sistemazione dei reticolati alla costruzione di opere di difesa, come l’intricata e imponente “galleria Vittorio Emanuele” sotto la cima Militari del Genio in osservazione del paesaggio, Ufficio Staccato Tapogliano, 1917; cartolina postale d'epoca (collezione privata Alberto Griffini, Milano). Ritratto di Giovanni Michelucci. Ritratto di Giovanni Muzio. del Grappa, progettata dall’ingegnere Nicola Gavotta, che si estendeva per 5 km e in grado di ospitare oltre 15.000 soldati. Vale la pena rammentare che anche Pier Luigi Nervi, prima di entrare a far parte del Battaglione Dirigibilisti col grado di sottotenente del Genio, fece parte dal 1° marzo 1916 della 69a Compagnia zappatori a Bologna per essere in seguito mobilitato in zona di guerra. Peraltro, la guerra di mina, e di conseguenza quella di contromina, era ancora considerata una valida strategia per la conquista o la distruzione di postazioni nemiche. In tal senso, va ricordato che i minatori del Genio con le loro azioni trasformarono irrimediabilmente la morfologia dei monti, come nei casi del Col di Lana che perse la cima2, della parete sud del Lagazuoi che fu completamente devastata, o del Colbricon che vide abbattuto uno dei suoi tre denti. In effetti, le montagne furono ampiamente modificate, non solo sulla superficie, ma anche - se non soprattutto - nel sottosuolo (a volte anche sotto i ghiacciai) con chilometri e chilometri di trincee e camminamenti, e con gallerie - in cui trovarono posto centrali elettriche, laboratori, NEI MOMENTI DI RIPOSO TRASCORSI NELLE RETROVIE, MA ANCHE AL FRONTE TRA UN’AZIONE E L’ALTRA, GLI ARCHITETTI E GLI INGEGNERI, COME MOLTI ARTISTI, DISEGNAVANO LUOGHI E ARCHITETTURE, REALIZZAVANO BOZZETTI, SCATTAVANO FOTOGRAFIE, TRATTEGGIAVANO AUTENTICI RACCONTI PER IMMAGINI SU CARTOLINE POSTALI INDIRIZZATE A MOGLI, MADRI, AMICI E PARENTI LONTANI, IN CUI EMERGEVA, A VOLTE SULLO SFONDO A VOLTE IN PRIMO PIANO, IL PAESAGGIO OSSERVATO, RILEVATO, MODIFICATO, VIOLENTATO. officine, cucine e magazzini spesso utilizzate per schierare lanciabombe, lanciagranate, lanciafiamme e postazioni per mitragliatrici. Tali gallerie svilupparono nuovi paesaggi sotterranei, che si affiancarono alle fortificazioni permanenti, campali o provvisorie e ai sistemi di trincee e reticolati. Impegnati nelle opere di infrastrutturazione del territorio, considerate fondamentali per gli spostamenti di uomini e mezzi, i genieri si occuparono così di realizzare strade fondamentali per l’organizzazione e il rifornimento delle linee italiane: basti ricordare la “strada Cadorna” tra Romano d’Ezzelino e Cima Grappa progettata nell’autunno del 1916 e terminata nell’ottobre 1917, la cosiddetta “strada degli Eroi” sul massiccio del Pasubio, e la celeberrima “strada delle 52 gallerie” - progettata dall’ingegnere Giuseppe Zappa e scavata nell’inverno del 1916 dalla 33a compagnia minatori del 5° reggimento del Genio che si articolava per quasi 700 m di dislivello, alternata a tratti di camminamento all’aperto a strapiombo, da Bocchetta Campiglia alla cima del Pasubio. Altri ingegneri e architetti lavorarono nel Genio motoristi e nel Genio telegrafisti (come 69 Alessandro Rimini), mentre durante la guerra sorse anche la specialità dei teleferisti, reparto strategico capace di stendere, in meno di una settimana, teleferiche che superavano i mille metri di dislivello, come ricorda Marco Mondini, nell’episodio dell’esercito accampato tra il passo Paradiso e la vedretta del Mondrone, in cui grazie alle competenze dei tecnici - in alcuni casi coadiuvati da aziende come la Ceretti e Tanfani - furono create vere e proprie “cittadelle”: tra queste si segnalava quella realizzata sul Pasubio, nota come “El Milanin”, un piccolo centro formato da baracche e ricoveri in grado di ospitare fino a un migliaio di uomini. Nei momenti di riposo trascorsi nelle retrovie, ma anche al fronte tra un’azione e l’altra, gli architetti e gli ingegneri, come molti artisti, disegnavano, raffiguravano luoghi e architetture, realizzavano bozzetti per medaglie e gagliardetti, scattavano fotografie, schizzavano caricature dei superiori e ritratti di compagni d’arme, tratteggiavano autentici racconti per immagini su cartoline postali indirizzate a mogli, madri, amici e parenti lontani, in cui emergeva, a volte sullo sfondo a volte in primo piano, il paesaggio osservato, rilevato, modificato, violentato. I disegni - come quelli straordinari di Paolo Caccia Dominioni - mostravano rovine, campi di filo spinato, terre fumanti e alberi in fiamme. Oltre che per le azioni del nemico, va ricordato che le foreste e i boschi vennero distrutti per costruire i sistemi difensivi; il botanico Lino Vaccari calcolava che furono annientati almeno due milioni di metri cubi di legname, sia prima dei conflitti che durante le battaglie. Peraltro, il legname - come si sa - fu uno dei materiali di base, ampiamente ARK 25 / FRONTIERA 70 / LAND usato, della tecnologia bellica, dalle baracche ai pali telegrafici ai ponti di attraversamento. Spesso le raffigurazioni degli architetti e degli artisti costituivano una vera documentazione, come scrisse Arturo Lancellotti, «dei monti aspri da cui i nostri alpini si appostano per sorprendere il nemico, delle strade spaventevoli attraverso le quali si riescono a far transitare interi convogli di camions, della pietà dei soldati che ascoltano la messa a 2700 Modello di Batteria e Batteria realizzata, Direzione Genio II Zona, III Armata, Rovescio linea difensiva, sponda destra del Torre a Tapogliano, 1917 (collezione privata Alberto Griffini, Milano). Postazioni d'artiglieria e batterie di cannoni, 1917 (collezione privata Alberto Griffini, Milano). metri […] della rapidità con la quale i nostri combattenti costruiscono ponti militari o baraccamenti, di tutto, insomma, quel complesso di azioni e di servizii militari e logistici di cui si anima il nostro fronte»3. Nel periodo precedente la partenza per le aree calde del fronte, sovente i giovani architetti e ingegneri erano istruiti al “disegno funzionale alla guerra”. Docente alla Regia accademia militare e all’Accademia albertina di Torino, Mario Ceradini, ad esempio, professava le sue idee sul “disegno panoramico militare”, definito come una comunicazione fatta dall’ufficiale esploratore al suo comandante. In tal senso, il disegno era chiamato “comunicazione” poiché la parte grafica risultava preponderante, sebbene integrata da indicazioni scritte: secondo Ceradini, si riferiva non tanto quello che si vedeva, quanto piuttosto ciò che era ritenuto interessante dal punto di vista militare. Tale comunicazione scritta e disegnata doveva essere eseguita sul posto, nel minor tempo possibile «rapida, sicura, concisa»4. Era fondamentale avere cognizioni di disegno dal vero e conoscenze della geometria applicata. Tali osservazioni “disegnate” erano riprese spesso dall’alto dei campanili, oltre che dalle trincee e dai ricoveri. Le torri e i campanili furono usati come punti privilegiati per la conoscenza del territorio, o come punto di osservazione delle operazioni militari, come nel caso del campanile di Campolongo, strategico per le operazioni sull’Isonzo (laddove era necessario, si era pronti a costruire anche torrette di osservazione in legno). Il paesaggio fu ampiamente rimodellato dai ricoveri per i rincalzi e per le riserve, come nel caso delle strutture di tipo seminterrato con osservatorio realizzate sulla linea di Tapogliano, una cintura di trinceramenti aggiuntiva della “Linea degli abitati a difesa del centro abitato”5, mentre sul rovescio delle linee trincerate, a un centinaio di metri, i genieri costruirono a intervalli regolari postazioni d’artiglieria e ricoveri blindati per le truppe di rincalzo, rimpiazzi necessari in particolare per il mattatoio del Carso. Il paesaggio venne così profondamente modificato, ancora prima delle grandi battaglie combattute in pochi teatri ben definiti, dalla linea dell’Adige fino a quella dell’Isonzo. La militarizzazione dell’arco alpino, già avviata a inizio secolo con i forti dell’altopiano dei Sette Comuni, ebbe una svolta decisiva nell’estate del 1914 quando, in previsione dell’accendersi delle ostilità, si accelerarono i lavori del Genio per l’apprestamento difensivo. Considerati dai vertici militari capolavori dell’ingegneria difensiva, il forte Verena a picco sulla val d’Assa, il forte Campolongo che dominava la val d’Astico, e il forte Corbin con le sue cupole corazzate girevoli, contraddistinsero incontrovertibilmente il paesaggio fin dal loro apparire, ancora di più quando vennero attaccati, occupati o distrutti, lasciando il panorama segnato da ferite desolanti. Va ricordato che tali forti risultarono obsoleti già alle prime avvisaglie della battaglia, visto che le strutture in cemento semplice non furono in grado di resistere ai mortai Škoda di recente acquisiti dall’esercito imperiale austriaco (costruito tra il 1910 e il 1914, il forte Verena, ad esempio, fu distrutto il 12 giugno 1915, dopo nemmeno un mese di vita operativa). Sicché, i lavori del Genio riguardarono le vaste aree di confine che - si capì fin dall’inizio - sarebbero state interessate da una guerra di trincea, anche se i bombardieri utilizzati dal nemico colpirono città, talvolta perfino relativamente distanti dalla prima linea. Le numerose frazioni di tanti paesini, le campagne, le cittadine che sorgevano sulla linea del fronte furono abbandonate, bombardate, 71 Ricovero per riserve a Campolongo e Trincea coperta, 1917 (collezione privata Alberto Griffini, Milano). 72 Ho presentato alcune parti delle mie ricerche sul tema del paesaggio della guerra in convegni e in diversi incontri seminariali con studenti e colleghi. Fra questi, vorrei ricordare la lezione - dal titolo I paesaggi della memoria. Sacrari militari, monumenti ai caduti e cimiteri di guerra tra l’Unità d’Italia e la Ricostruzione - tenuta il 20 novembre 2014 al Master di II livello in “Progettazione e promozione del paesaggio culturale” dell’Università degli studi del Molise, e la relazione - dal titolo I paesaggi della guerra: ingegneri, architetti e artisti in trincea - tenuta il 29 giugno 2016 al convegno “L’architettura e l’urbanistica alla svolta della prima guerra mondiale. Da Bologna all’Europa” presso l’Archiginnasio di Bologna. Ringrazio dunque, l’Istituto per i beni artistici culturali e naturali, e il suo presidente Angelo Varni, così come ringrazio Giuliano Gresleri e Beatrice Bettazzi per avermi offerto l’opportunità, con l’incontro di Bologna, di proporre l’avanzamento di tali studi; ringrazio inoltre la rivista Ark che mi ha fornito l’occasione, con questo articolo, di anticipare uno studio più ampio di prossima pubblicazione negli atti del convegno bolognese, al quale si rimanda per l’apparato completo delle note e dei riferimenti bibliografici, qui limitati, per ragioni di spazio, al minimo indispensabile. Note 1 occupate, a volte completamente distrutte e rase al suolo. San Donà di Piave e Asiago, ad esempio, furono completamente devastate nel corso della Strafexpedtion, mentre San Martino fu ridotta a un cumulo di macerie e trasformata in avamposto trincerato dagli austro-ungarici. Non bastarono le batterie di medio o grosso calibro realizzate dai genieri a colmare le gravi carenze nelle dotazioni d’armamento dell’esercito italiano. Le campagne, disboscate da mesi di cannoneggiamenti, le colline e i rilievi montuosi talvolta livellati dalle mine furono invasi da opere militari, come le lunette, elementi di un sistema difensivo che partiva dalla campagna per arrivare alle zone collinari, e che doveva assolvere la funzione di testa di ponte. Celeberrima la lunetta dedicata a Cesare Battisti, la quale, oltre a sorvegliare l’importante ponte di Versa, costituiva un perno difensivo tra la linea degli argini del Torre e quella degli abitati6. Non di rado gli architetti e gli ingegneri furono fautori anche di opere destinate alla popolazione civile, che nelle intenzioni avrebbero dovuto contribuire alla guarigione delle ferite inferte con le distruzioni, e soprattutto - terminata la guerra - alla costruzione della tanto desiderata coesione nazionale. 2 3 4 5 6 Luigi Angelini collaborò con il Comitato bergamasco della Mobilitazione Civile, per il quale realizzò cartoline e altre immagini grafiche, destinate a sollecitare la partecipazione della cittadinanza. Nei primi mesi del conflitto fu impegnato nella protezione dei monumenti dal pericolo delle incursioni aeree, mentre in seguito fece parte della III compagnia del II genio zappatori. Il suo diario di guerra è in parte pubblicato in Piervaleriano Angelini, Tra guerra e dopoguerra: il caso dell’ingegnere Luigi Angelini, in Sembrava tutto grigioverde. Bergamo e il suo territorio negli anni della Grande Guerra, a cura di Maria Mencaroni Zoppetti, Sestante Edizioni, Bergamo 2015, pp. 843-861. Il brano estratto dal diario è a p. 852. Cfr. La conquista di Col di Lana, 16 aprile 1916: considerazioni sulla guerra di mina, diagramma per la distruzione di gallerie, a cura della Scuola all. uff. Genio [di] Pavia, Cucchi, Pavia 1934. Arturo Lancellotti, La guerra vista dagli artisti italiani, in Emporium, 275, XLVI, 1917, p. 276. Mario Ceradini, Il disegno panoramico militare, Libreria F. Casanova & C., Torino 1916 (la prima edizione era del 1912), p. 4. Presso gli eredi di Alberto Griffini è conservato un prezioso album fotografico che documenta i numerosi lavori eseguiti dal Genio militare nell’area di Campolongo Tapogliano sulla linea difensiva tra Torre e Isonzo. Le cosiddette “vestigia della Grande Guerra” avrebbero offerto in futuro molteplici occasioni di riflettere sulla valorizzazione del Patrimonio storico nazionale, come sarà indicato dalla Legge 78 del 2001. PUBBLICITÀ ARK 25 / FRONTIERA Giovanni Scotti, Nuova Luce (dal progetto Napoli Nuova Luce). 74 / FOTOGRAFIA 75 OCCHI CHE VEDONO Conservatorio della Fotografia Il Conservatorio della Fotografia di Simone Casetta e Martina Biondi Testo di Elena Turetti Fotografie di Presente Infinito Il Conservatorio della fotografia di Simone Casetta e Martina Biondi è una cascina. La compongono due edifizi distinti, l'uno più alto, arcuato, ad L, ti chiude la vista, ti accoglie e ti guarda dalle diverse quote delle logge, l'altro è un corpo a sé, quasi cubico ma non proprio, isolato ma anch'esso cinto sul fondo dal versante della collina. Il versante è striato da terrazzamenti curvi, li attorno c'è chi coltiva la terra per vivere. Qui un giardino e un cortile ma appena fuori il bosco che rende L'EDIFICIO STESSO DEL CONSERVATORIO DIVENTA UNA RISPOSTA INTRANSIGENTE ALLA NECESSITÀ DI COSTRUIRE UNA FOTOGRAFIA. tutto meno disegnabile e più forte il loro modo di porvi un confine con un muro oppure semplicemente una scarpata. Sono qui in visita, l'idea è quella di trovarsi davanti un laboratorio, ma già appena scesa dall'automobile, nel cortile, le bucature delle finestre, le vetrate, le soglie, i mille modi con cui si intuisce si possa percorre la cascina come un corpo, le maniere con cui ci si prefigura di poter entrare, uscire, scendere sotto terra per penetrare nelle stanze ci fanno presagire che ARK 25 / FRONTIERA 76 / FOTOGRAFIA Luigi Fiano, Nuova Luce (dal progetto Napoli Nuova Luce). Lorenzo Martelli, Sacro Suolo (dal progetto Napoli Nuova Luce). diversi, uno spazio per articolarle in una sequenza e capirne la capacità espressiva, la pregnanza, l'urgenza. E tutte queste stanze non sono che la mappa del pensiero concreto di Simone. Mi viene in mente per analogia il sapere dei liutai cremonesi e la difficoltà di raccontare i confini della loro maestria muovendosi avanti e indietro dall'immaterialità del suono alla durezza del legno scolpito, dal repertorio musicale alla lama dello scalpello, così come in Simone pare esserci dialogo tra retina e sguardo, tra chimica e linguaggio. Ci soccorre Benjamin e ancora una volta questa sua definizione non completamente attingibile di immagine: "Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l'ora in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell'immobilità. Poiché mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l'ora è dialettica: non è un decorso 77 AVREI VOLUTO STARE AL CONSERVATORIO PER UN PO' DI TEMPO PER RIACQUISIRE QUELLA CAPACITÀ DI VEDERE, DI DARE PROFONDITÀ E AL TEMPO STESSO SUPERFICIALITÀ ALLO SGUARDO, DI VIGILARE SULL'IMMAGINE. l'incontro con Simone e Martina ci riserverà delle sorprese. Mi accolgono, mi sento davvero ospite, sarà una visita breve, di poche ore, ma ad ogni passo una scoperta, ad ogni scoperta un nugolo di domande e di riflessioni mi si assieparono in testa e ora che ne scrivo, spero allargheranno il nostro modo di pensare la fotografia. Di lì a poco capirò come questo andare da una stanza all'altra sia anche spostare l'attenzione su una porzione diversa del costruire una fotografia, come se l'edificio stesso sia ad un certo punto diventato una risposta intransigente alla necessità di costruire una fotografia. Per metter a fuoco la questione, non mi sono trovata in un laboratorio artigianale tout court, certo fotografare è scrivere con la luce, e Simone pare giungere dopo, al momento della stampa, agisce sicuramente in quel sottile spessore d'aria che sta tra la carta e la luce, le macchine che ha raccolto, salvato e rimesso in moto sono diverse e bellissime: apparecchi di ripresa analogici, stampatrici, ingranditori, sviluppatrici e ciascuna risponde ad una funzione precisa. I procedimenti sono inscritti nell'organizzazione degli spazi e raccontano una porzione importante del fascino chimico di questo mestiere. Ma poi ti accorgi che Simone sta prima e dopo, incontra i suoi autori e ne capisce la ricerca o il progetto, sta dentro e fuori dalle fotografie, e che nella cascina c'è uno spazio per stare solo ad un palmo dalla superficie della stampa e discernerne la trama per punti, c'è uno spazio per incorniciare ed esporre le fotografie, per guardarle con occhi ma un'immagine discontinua, a salti. Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini, (cioè non arcaiche); e il luogo in cui le si incontra è il linguaggio". Mi sono chiesta perché questo suo modo di fare non mi è parso arcaico, perché quelle stanze non puzzavano di nostalgia, perché quelle macchine non parevano desuete e pronte ad entrare nella collezione di un museo di scienze, perché non sono lì per salvare una tecnologia in via d'estinzione ma per produrre ARK 25 / FRONTIERA Marcello De Masi, Città Madre (dal progetto Napoli Nuova Luce). 78 / FOTOGRAFIA immagini dialettiche. Dicono cose che muovono la nostra coscienza oggi, che interrogano il mondo che viviamo, vedono. Simone vede per noi, avrei voluto stare al Conservatorio per un po' di tempo per riacquisire quella capacità di vedere, di dare profondità e al tempo stesso superficialità allo sguardo, di vigilare sull'immagine. Ho avvertito come un fastidio la disattenzione del mio sguardo. Condotta da Simone a guardare una stampa al platino palladio e alcuni dettagli ma non minuzie, del ritratto di Franco Loi realizzato da Simone stesso nel 2012 per il suo progetto "Poeti italiani" ho sentito forte l'incapacità del mio sguardo. Ma avrei potuto davvero stare e Sebastiano Raimondo, Le Sirende dentro. Dalla finestra allo specchio (dal progetto Napoli Nuova Luce). imparare da ogni cosa. E qui si scopre un altro grande pregio del Conservatorio. È una sorta di crocevia. Se vuoi stare puoi stare, ospite della casina Brugo, se vuoi imparare puoi partecipare ad una giornata di lavoro o ad un laboratorio, se devi cercare il centro della tua ricerca fotografica puoi passare lì tutto il tempo che ti serve per capire con Simone quale sarà la risposta perfetta a quel lavoro, se torni più volte inizierà a crearsi un rapporto reciproco tra le tue fotografie e il laboratorio, tra la tua ricerca e quella di Simone, e non solo per te ma per tutti quelli che passeranno. Perché ogni passaggio lascia una traccia, ogni traccia parla di un diverso modo di fare fotografia e l'esperienza si trasforma in conoscenza. E se sei un ragazzo, non importa, non basta essere dei grandi autori per stampare qui, ma è sufficiente essere dei ragazzi in cerca di un proprio modo di fare e di dire attraverso la fotografia. Vi stanno il grande autore e il ragazzo, alla stessa stregua, in cerca del proprio sguardo. Succede sempre e spesso al Conservatorio. Allora pare che questo modo di fare, di educare lo sguardo non sia che la risposta più appropriata per trasformare un'esperienza stratificata e profonda in una scuola e in una intensa occasione di formazione. È in un delicato equilibrio tra il fare e il riflettere che si gioca al Conservatorio l'educazione dello 79 È IN UN DELICATO EQUILIBRIO TRA IL FARE E IL RIFLETTERE CHE SI GIOCA AL CONSERVATORIO L'EDUCAZIONE DELLO SGUARDO. sguardo. Poi capita che Simone insegni anche all'ISIA di Urbino e che alcuni progetti di ragazzi abbiano le gambe per diventare ricerche critiche sul ruolo della fotografia e sulla contemporaneità della fotografia. E allora succede che il Conservatorio in qualche modo questi progetti li adotti, li segua e talvolta li sostenga. C'è spazio ovvero apertura qui al Conservatorio e tempo, tutto quel che serve ad un giovane fotografo per capire cosa sta facendo e perché. “Cercavamo uno stampatore che utilizzasse la camera oscura per stampe a colori”, mi racconta Marcello De Masi. Così è nato l’incontro con Simone ed il Conservatorio: “abbiamo incontrato un amico fraterno ed un grande artista: da anni fianco a fianco”. Presente Infinito è il nome della prima mostra e del primo libro realizzati, manifesti poetici del gruppo; è un gruppo di amici, di autori, è un associazione culturale no profit. È mettere insieme le forze: ognuno con la propria poetica. Riconoscere un punto di incontro a partire dalle proprie solitudini e formazioni diverse. È tante persone - al di là dei sei fondatori - che nei progetti e nella vita condividono sguardi, passioni. Simone Casetta è una di queste. 80 / FOTOGRAFIA Alvise Raimondi, Erta (dal progetto Napoli Nuova Luce). PUBBLICITÀ In Napoli Nuova Luce, che qui presentiamo, ideato e curato da Marcello De Masi e realizzato dall’associazione, gli autori si riconoscono in una sensibilità comune: lo studio delle ricerche passate di rappresentazione del paesaggio italiano diviene il tentativo di restituire un’immagine della città di Napoli, attraverso fotografia, cinema, letteratura, musica. ARK 25 / FRONTIERA LA CITTÀ RIMOSSA / 83 PUBBLICITÀ Arriva un momento nella giovinezza in cui emerge, tanto in noi quanto agli occhi del mondo, la consapevolezza di esistere: per quanto esistiamo già da tempo, deve trascorrere un certo periodo prima di esserne consapevoli, prima di percepirci come esseri distinti, dai genitori in particolare ma anche dalla natura, e così di percepire l’Altro1. Questa acquisizione coincide con il momento del conflitto, in termini non necessariamente negativi: il nostro corpo è in conflitto, poiché in trasformazione; la nostra mente è in conflitto, poiché si apre alle domande e all'incertezza; le relazioni sono conflittuali, poiché gli altri non ci comprendono mentre cerchiamo di identificarci con qualcuno o qualcosa che possa essere riconoscibile; lo spazio è conflitto, poiché il mondo è ora un territorio che possiamo esplorare in autonomia e nel quale dobbiamo perciò lottare per costruire il nostro universo. Nel tentativo di definire noi stessi e i luoghi ai quali appartenere sentiamo la necessità di tracciare radicalmente i limiti che ci separano da ciò che non siamo, da ciò in cui non crediamo, da ciò che è l’Altro. Vi sono nella città “zone calde” che incarnano questa separazione tra l’Io e l’Altro, margini che determinano una transizione tra modalità di espressione differenti e lungo i quali si generano tensioni 2. In alcuni casi un luogo è una frontiera quando ospita molteplici manifestazioni in maniera imprevista. Lo spazio come frontiera può essere una linea che si sposta, un presidio solido o un campo di battaglia ciclicamente conteso ed azzerato. Nella città contemporanea le dinamiche di confronto-scontro fra dimensioni diverse sono frequenti, poiché cresce la complessità della CORPO, CITTÀ, CONFLITTO Piazzale Guglielmo Marconi e Piazzale Alpini, Bergamo Testo e illustrazioni di Francesca Gotti Fotografie di Giovanni Emilio Galanello comunicazione all’interno della struttura sociale, da un punto di vista non solo generazionale, politico, culturale ma anche etnico e mediatico3. La frammentazione della società non è silenziosa: si riversa nelle strade, si imprime nello spazio con i propri codici e riti; al tempo stesso le espressioni di questa frammentazione continuano a essere ridefinite, oscillando tra l'integrazione e la negazione. “La città infatti è il luogo della esternazione del dissenso e del conflitto” e “anche di recente alcuni studi insistono sul peso dello spazio urbano nella genesi delle proteste pubbliche”4. ARK 25 / FRONTIERA 84 / LA CITTÀ RIMOSSA 85 CORPO Le piazze sono in forme diverse spazi di convergenza e di narrazione, luoghi dibattuti e di dibattito: unitamente ai monumenti sono simboli del paesaggio urbano, rappresentano le singole identità cittadine per storia e usi (iconiche in Italia sono Piazza del Campo a Siena, Piazza del Popolo a Roma, Piazza San Marco a Venezia) e talvolta specifici avvenimenti (Piazza della Stazione a Bologna, Piazzale Loreto a Milano). In quanto luoghi pubblici significativamente esposti al giudizio collettivo, le piazze esistenti sono spesso oggetto di ri-progettazione, nel tentativo di accrescerne o ridefinirne il valore estetico senza talvolta dare sufficientemente peso ai suoi usi, o diversamente nel caso di espansioni urbane non godono di adeguata rilevanza al momento della pianificazione5. Il dialogo sulla rigenerazione dello spazio pubblico nelle città contemporanee si concentra sulla mancanza di corrispondenza tra “dimensione sociale pubblica” e “città pubblica”, come se l’aspetto relazionale della società non trovasse adeguatamente corpo e spazio per esprimersi6, una riflessione che ha orientato molteplici tentativi di riprogettazione e pianificazione. Si è assistito a numerosi interventi di riqualificazione sperimentale che hanno saputo coniugare una riconfigurazione formale efficace a funzioni partecipative, restituendo purtroppo la piazza ai cittadini solo per periodi limitati. Un caso interessante è rappresentato da Escaravox, un’installazione temporanea realizzata nel 2012 nella Piazza del Matadero di Madrid dallo studio Office for Political Innovation: riutilizzando strutture agricole per l’irrigazione, elementi scenografici e semplici moduli di arredo, lo studio ha saputo reinterpretare con un’unica infrastruttura la spazialità del luogo integrando una pluralità di funzioni (il cui cuore è un palco disponibile ad essere affittato per performance e concerti). Un esempio virtuoso e permanente recente è invece il Superkilen di Copenhagen, progettato nel 2012 da Topotek 1, BIG Architects e Superflux, un intervento di risanamento di 30.000 mq di piazza lineare che si estende attraverso uno dei quartieri periferici più multietnici e problematici della capitale danese (Norrebro). Il progetto è concepito come un grande esperimento di condivisione di pratiche urbane, dove esaltare la molteplicità di simboli, linguaggi e culture; organizzato per segmenti, le diverse aree di Superkilen sono state realizzate come estensione delle attività esistenti (il mercato, il centro sportivo, gli edifici residenziali) spostando l’accento sull’aspetto ludico e collettivo e sulla potenzialità del luogo di essere un manifesto. Attraverso radio, internet, posta, i progettisti hanno coinvolto le 57 comunità etniche del quartiere per scegliere oggetti che avrebbero voluto veder installati nella nuova piazza, generando un collage di elementi dissonanti per provenienza e funzione. CITTÀ Il carattere di una piazza è innanzitutto definito dal tessuto urbano al quale appartiene storicamente, e che ne definisce i caratteri morfologici principali: così Bergamo ospita in ognuna delle sue zone storicamente definite (il nucleo medievale, la città veneziana, l’espansione ottocentesca e la città moderna) spazi pubblici con qualità differenti. Alcune aree secondarie si prestano a essere vissute con maggiore conflittualità e utilizzate per manifestazioni e raduni, trasformandosi però inevitabilmente in spazi problematici e frequentati da gruppi marginalizzati. Il fulcro più sintomatico di questa condizione è il sistema di Piazza Guglielmo Marconi (Piazzale della Stazione) e Piazzale Alpini. Costellato di istituti scolastici di secondo grado (Piazzale Alpini è infatti adiacente ai Licei Vittorio Emanuele II, Lussana e Secco Suardo, mentre a sud della stazione è dislocato il nodo degli Istituti tecnici Natta, Quarenghi, Paleocapa, Galli, Pesenti e il Patronato San Vincenzo), è il punto di arrivo e di passaggio di migliaia di adolescenti che dalla provincia raggiungono la città ogni giorno, ed è al contempo lo spazio pubblico più critico della scena urbana. La Stazione di Bergamo viene inaugurata nel 1857 definendo con un intervento netto il nuovo ingresso alla città, in asse rispetto ai Propilei neoclassici che delimitano la porta del centro urbano di pianura: dal piazzale antistante si sviluppa un cono prospettico che si apre sul colle della Città Alta, circondato all’epoca della sua costruzione prevalentemente da coltivi. L’urbanizzazione dell’area si intensifica nei decenni successivi: nel 1906 viene costruita la stazione della linea ferroviaria che collega la città con la valle Brembana; intorno al 1910 viene realizzato un progetto di ridisegno del Piazzale (con l’aggiunta di una fontana per commemorare l’inaugurazione dell’acquedotto che da Algua giunge a Bergamo) definendo anche la circolazione delle automobili; nel 1958 viene infine ARK 25 / FRONTIERA 86 / LA CITTÀ RIMOSSA costruita la stazione delle autolinee. Durante gli anni ‘80 gli interventi di urbanizzazione si interrompono e incrementa il degrado dell’area: è solo all’inizio del 2000 che si iniziano tuttavia ad attuare programmi di riqualificazione sostanziali per il piazzale, rendendo la piazza pedonale; nel 2008 viene inaugurata la Ciclostazione 42, un punto per affittare, riparare e depositare biciclette, gestito dalle Associazioni Pedalopolis e Lottovolante, che nel 2016 viene trasferito all’interno della Stazione Ferroviaria; nel 2013 viene realizzato il ridisegno della pavimentazione, delle sedute, che 3 anni dopo viene cancellato e nuovamente aggiornato secondo un progetto dell’architetto Ines Lobo. Piazzale Alpini nasce storicamente come sito per il Mercato del Bestiame (Foro Boario) e nel primo decennio del 1900 viene scelto per la costruzione dell’Istituto Vittorio Emanuele II: secondo un progetto elaborato da Michele Astori il nuovo edificio scolastico avrebbe avuto un giardino alberato condiviso con la città, progetto al quale si aggiunse il disegno della facciata ad opera di Marcello Piacentini e l’intervento di Luigi Angelini. È solo nel 1962 che il Foro viene dedicato al corpo degli Alpini, acquisendo il nome che porta oggi, dopo due concorsi (dei quali il primo annullato) che vedono vincitore il progetto disegnato dallo scultore Peppino Marzot in collaborazione con gli architetti Giuseppe Gambirasio, Aurelio Cortesi e Nevio Parmeggiani. La prossimità con la stazione ferroviaria e delle autolinee e lo sviluppo dell’area nei decenni successivi trascinano la piazza in un processo di esclusione e degrado: nonostante la realizzazione di altri due istituzioni scolastiche e il 87 progetto vincitore, tornando nella, ormai cronica, condizione di oblio propria di un caso irrisolvibile. Nel 2017 l'Amministrazione comunale annuncia l’apertura di un nuovo bando per affidare l’incarico di riprogettare il piazzale in due diverse fasi, riaprendo così nuove possibilità e un nuovo dibattito. CONFLITTO Cosa determina i caratteri di una piazza? Gli usi che di essa si fanno possono essere pianificati al pari dei suoi elementi solidi? Le Piazze si definiscono attraverso segni progettati e segni acquisiti nel transito di migliaia di studenti verso le scuole a sud della stazione, la piazza perde valore, diviene meno sicura e sottoutilizzata, non solo dai cittadini ma dagli stessi studenti, che sostano unicamente sul lato contiguo all’Istituto tecnico negli orari di ingresso e uscita dalle lezioni, mentre per il resto del giorno è semi-deserta e frequentata da gruppi marginalizzati. Negli ultimi decenni si è tentato di risolvere il problema del piazzale organizzando festival e sagre, che hanno purtroppo avuto ricadute positive circoscritte alla sola durata degli eventi. Nel 2016 Piazzale Alpini è stato oggetto di un Concorso di Riqualificazione insieme alle piazze Carrara e Risorgimento, ma a differenza di queste ultime non ha visto alcun IL DIALOGO SULLA RIGENERAZIONE DELLO SPAZIO PUBBLICO NELLE CITTÀ CONTEMPORANEE SI CONCENTRA SULLA MANCANZA DI CORRISPONDENZA TRA “DIMENSIONE SOCIALE PUBBLICA” E “CITTÀ PUBBLICA”, COME SE L’ASPETTO RELAZIONALE DELLA SOCIETÀ NON TROVASSE ADEGUATAMENTE CORPO E SPAZIO PER ESPRIMERSI. tempo, evolvono nella quotidianità manipolate dagli abitanti, ciascun bordo che le delimita è una frontiera. Le piazze sono corpi combattuti, sono lo spazio del costante dialogo con l’Altro, con ciò che non siamo e ciò in cui non crediamo, e così più fortemente la città si riversa nelle piazze per rivendicare la sua frammentazione, le sue diversità. Nell’ultimo decennio le piazze di tutto il mondo sono diventate icone dei movimenti di protesta, in Europa e nel Medio Oriente in particolare per la crisi del sistema economico e durante la primavera araba: gli strumenti mediatici e gli interventi informali hanno trasformato i luoghi in incarnazioni delle cause sociali, riportando al centro dell’attenzione il valore dello spazio pubblico e della sua riappropriazione dal basso7. A Madrid nel 2010 la popolazione riunita nel movimento degli Indignados ha occupato Plaza del Sol per settimane per provocare le istituzioni riguardo la situazione socio-economica del Paese e con risvolti ancora più eclatanti ha dato vita al progetto El Campo de Cebada: la riappropriazione di un’area pubblica degradata trasformata in luogo per lo sport e il ritrovo, realizzata da gruppi di associazioni e volontari che hanno costruito un’agorà con attrezzature per il tempo libero e infrastrutture per eventi. Il movimento di protesta economico e sociale riversatosi nelle piazze si è identificato quindi come il fenomeno globale sovversivo Occupy8, che negli anni si è evoluto in forme legalizzate di occupazione dello spazio pubblico, promosse da molteplici micro realtà locali, associazioni e laboratori urbani con progetti prevalentemente reversibili. Tra questi interventi alcuni sono diventati modelli di riferimento, come le infrastrutture temporanee mobili di Frame Colectivo a Lisbona, che nel 2013 ha realizzato Patio Ambulante9: un insieme di elementi trasportabili con funzione di sedute, punto ristoro, palco per concerti, utilizzati durante alcuni giorni di attività e successivamente trasportati in diverse piazze della città, riadattandosi di volta in volta a nuove funzioni e nuovi spazi. Il Collettivo Orizzontale a Roma si occupa similmente di interventi temporanei o permanenti di valorizzazione dello spazio pubblico, 88 / LA CITTÀ RIMOSSA IMPARANDO DAI CONFLITTI, AFFRONTARE UNA SITUAZIONE DI DISAGIO PUÒ A VOLTE SIGNIFICARE ESTREMIZZARLA, ACCETTARLA ATTRAVERSO LA SUA ENFATIZZAZIONE, INVENTANDO LINGUAGGI, SIMBOLI E RITI CHE PARTONO PROPRIO DA QUEL DISAGIO PER TRASFORMARLO IN UNA NUOVA CONSAPEVOLEZZA. che vedono coinvolta la cittadinanza tanto nella ri-definizione delle forme quanto degli usi, come nel progetto per la piazza di Perestrello (2011): la trasformazione di un luogo comune anonimo attraverso la reinterpretazione di oggetti urbani dimenticati (materiali semplici e facilmente utilizzabili) che rispondono all’interazione delle persone con lo spazio. Ridisegnare il sistema di Piazzale Alpini-Piazzale della Stazione significa ripensare questi luoghi pubblici in una prospettiva inclusiva rispetto al sistema sociale del quale fanno parte, rendendoli più accessibili quotidianamente e permeabili ad usi più intensivi ed espressivi. Riprogettare non deve comportare la risoluzione di problemi, bensì il potenziamento di pratiche non sempre convenzionali ed ovvie: il conflitto della città va ascoltato e veicolato; negare e reprimere le incomprensioni, marginalizzare o banalizzare le differenze, genera violenza anziché evitarla. Imparando dai conflitti, affrontare una situazione di disagio può a volte significare estremizzarla, accettarla attraverso la sua enfatizzazione, inventando linguaggi, simboli e riti che partono proprio da quel disagio per esorcizzarlo trasformandolo in una nuova consapevolezza. Gli spazi pubblici devono diventare teatri del confronto, esaltare la convivenza delle diversità. Una città che non accetta la conflittualità è una città incapace di evolvere. Note 1 2 3 4 5 6 7 8 9 Vittorino Andreoli, Lettere al Futuro: per un’educazione dei sentimenti, Ed. BURextra, 2008. Tommaso Vitale, In nome di chi? Mobilitazione e rappresentanza nelle mobilitazioni locali, 2007, p. 19. Carlo Cellamare, Fare città. Conflitti e luoghi nella città multietnica, in La città degli altri. Spazio pubblico e vita urbana nella città dei migranti, a cura di Marco Guerzoni, Urban Center Bologna 2006, p. 11-14. AA.VV, Nuove società urbane, a cura di Valerio Corradi e Enrico Maria Tacchi, Ed. FrancoAngeli, 2013, p. 161-162. Marco Romano, La piazza europea, Marsilio Editori, Venezia 2015. Judit Bodnar, Reclaiming Public Space, Urban Studies Journal, vol. 52, SAGE Publisher, 2015. Gianpiero Venturini, Carlo Venegani, REACT tools for urban reactivation, Deleyva Editore, 2016. Renee Guarriello Heath, Courtney Vail Fletcher, Ricardo Munoz, a cura di, Understanding Occupy from Wall Street to Portland, Lexington Books, 2013. Framecolectivo.com PUBBLICITÀ ARK 25 / FRONTIERA 90 / WUNDERKAMMER 91 “Son rimasto io da solo al bar / gli altri sono tutti quanti a casa / e quest'oggi verso le tre son venuti quattro ragazzini / son seduti lì vicino a me con davanti due coche e due caffè / li sentivo chiacchierare, han deciso di cambiare / tutto questo mondo che non va. / Sono qui con quattro amici al bar / che hanno voglia di cambiare il mondo.” Gino Paoli, Quattro Amici (dall’album Matto come un gatto, Warner Music Group, 1991). A cura di Giulia Ricci Lo storico pezzo di Gino Paoli è il racconto dell’avvicendarsi delle generazioni attraverso il passaggio fra adolescenza ed età adulta. Visto come il momento in cui si ambisce cambiare il mondo, “tutto questo mondo che non va”, come un coacervo di speranze e possibilità, quest’età rappresenta una frontiera. LE OTTO MONTAGNE CALL ME BY YOUR NAME Paolo Cognetti, Einaudi, 2016 Luca Guadagnino, Italia, Stati Uniti d’America, Brasile, Francia, 2017 Le Dolomiti sono il luogo dove i genitori di Pietro si incontrano, si innamorano e si sposano, ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo. Pietro però nasce a Milano, dove nel 1972 si era trasferita la famiglia. La nostalgia dei genitori per la montagna rimane fino alla scoperta di un paesino alle pendici del Monte Rosa, dove Pietro passa le sue estati con Bruno, un ragazzo di montagna. Il libro racconta dell’amicizia e delle avventure dei due ragazzi fra i paesaggi montani, fra scoperta della montagna e la scoperta di sé. Nel 2017 il libro di Cognetti è vincitore del premio Strega. Tratto dal libro omonimo di André Aciman, il film diretto da Guadagnino racconta della relazione amorosa fra due ragazzi, Elio ed Oliver. I due si incontrano a casa della famiglia di Elio, dove Oliver è invitato dal padre di Elio, professore di archeologia, a trascorrere un periodo di studio. Le vicende si svolgono nell’estate del 1983, principalmente nella cittadina di Crema, in un’Italia per lo più sconosciuta ai non italiani. Il film rende giustizia a una storia al tempo stesso semplice e preziosa: stupefacente e disarmante perché estremamente umana. THE GREAT NEW YORK SUBWAY MAP Emiliano Ponzi, Abrams Books, 2018 Un italiano racconta, attraverso le sue illustrazioni, la storia della mappa della metropolitana newyorkese, ideata e disegnata nel 1972 da un altro italiano, il designer grafico Massimo Vignelli. La mappa, che ha segnato la storia dell’infografica, ancora oggi parla ai milioni di utenti che utilizzano la metropolitana di New York. Ponzi si rivolge ai giovani lettori per trasmettere loro la sua fiducia nel graphic design come strumento di soluzione di problemi al tempo della sovrapproduzione di informazioni. L’ARTE DELLA GIOIA Goliarda Sapienza, Einaudi, 2014 Il libro racconta della vita di una bambina, ragazza, e poi donna anticonvenzionale, che nasce in Sicilia il primo gennaio 1900. Modesta è una carusa tosta, un personaggio in grado di educarsi attraverso i libri e attraverso la sensualità, di scombinare le regole di una società patriarcale negli anni del fascismo. La formazione sentimentale è contestualmente politica, in un indissolubile rapporto fra la dimensione carnale e intellettuale dell’esistenza. Il libro è stato un caso editoriale: inizialmente rifiutato in Italia, è stato prima pubblicato in Francia. Oggi è finalmente considerato un capolavoro della letteratura italiana. POST ZANG TUMB TUUUM. ART LIFE POLITICS: ITALIA 1918–1943 Una mostra a cura di Germano Celant, Fondazione Prada, dal 18 febbraio al 25 giugno 2018 La grande mostra è dedicata all’Italia nel periodo fra i due grandi conflitti mondiali. Le oltre 500 opere esposte raccontano di questo periodo di produzione febbrile nel contesto dell’arte italiana, delineando relazioni precise fra, politica, società e cultura. Attraverso opere e documenti, il tentativo è quello di individuare, negli anni dell’avvento del fascismo, come artisti, architetti e designer interpretassero il proprio ruolo nella società, in bilico fra libertà espressiva e attivismo politico. ARK 25 / FRONTIERA 92 / LEMMARIO 93 A cura di Elena Turetti 31 LEMMI TRATTI DALLE RUBRICHE DI ARK 24 Ambivalenza Radical design / Guido Drocco, Franco Mello, Cactus, 1972. Coalizzazione Collettivo Haus-Rucker-Co, Gelbes herz, Wien, 1968. Conquista Convitto Corpo Esplorazione Michelangelo Antonioni, La notte, 1961. Partecipazione Ragazzo Jimmy Liao, Incontri disincontri, Ed. Terre di mezzo, 2017. Alexander Rodchenko, Jump into Water, Astafyev, 1934. Sfida Charles Eames, Kazam machine, una delle prime sperimentazioni nella produzione di componenti in legno multistrato curvato, 1942. Fluttuazione Philippe Parreno, Hypothesis, Hangar Bicocca, Milano, 2015. Riappropriazione Scuola Vittoriano Viganò, Istituto Marchiondi Spagliardi, Milano, 1953-1958 (fotografia di Daniele-Zerbi). Colonizzazione Agnoldomenico Pica, Adolescenza dell'Architettura, Emporium, LXXXI, 481, p. 12. Ardere Ardire Desiderio Dinamicità Conflitto Jacques Herzog e Pierre De Meuron, Magazzino Ricola, Laufen: studio delle immagini serigrafiche prodotte a partire dalle fotografie di Karl Blossfeldt, 1987. Carlo Mollino, Bisiluro, copertina della rivista Quaderns d'Arquitectura I Urbanisme, n. 174, 1987. Emancipazione Seduzione Sensualità Francesca Woodman, Self potrait II, 1976. Triennale di Milano, Giancarlo de Carlo discute con Gianemilio Simonetti, protesta studentesca del maggio 1968. Attesa Biologia Campo da gioco Strada Transizione Viaggio Frontiera Yves Klein, Firewall, giardino del Museo Haus Lange, Krefeld, 14 gennaio 1961. Incoscienza Iniziazione Pag. 9 Pag. 44 Si laurea in architettura nel 1938. Ha progettato numerosi edifici privati e pubblici a Bergamo, tra i quali la “casa della rotonda” (1938-1939), la casa Torre Rinaldi in via Camozzi (1954). È l’unico architetto, fra i molti coinvolti, a seguire l’intera vicenda progettuale della ricostruzione del Seminario Arcivescovile di Bergamo, dall’incarico a Giovanni Muzio fino alla chiusura del cantiere, di cui seguì la direzione lavori. Enrico Sesti Pag. 58 Si laurea in architettura nel 1967. Nel 1968 fonda con il padre e con Ezio Agazzi lo studio P68 e si occupa della progettazione del nuovo Collegio S. Alessandro. Nel corso della sua attività professionale si segnalano il progetto del parcheggio sotterraneo di Piazza della Libertà (1988), diversi incarichi per la Camera di Commercio di Bergamo e per committenti privati. Pag. 14 ARK 25 / FRONTIERA Pag. 44 Pag. 14 Giorgio Sesti Pag. 6 Studio Associates è una pratica d’architettura fondata a Brescia, nel 2017, da Marco Formenti (Bergamo, 1990), Nicolò Galeazzi (Brescia, 1987) e Martina Salvaneschi (Johannesburg, 1989). Studio Associates lavora nel campo della ricerca e della progettazione architettonica con particolare interesse al processo, al luogo (storia del luogo), alla costruzione (materia) e all'artigianato, accostando alla pratica professionale classica un approccio più sperimentale tramite laboratori di costruzione partecipata con piccole comunità (spesso, in situazioni sociali critiche). Studio Associates ha realizzato progetti in Italia, in Portogallo e in Messico. STUDIO Associates (1915-2014) Nato a Milano da nobili Varesini, si laurea in Architettura al Politecnico di Milano nel 1939, avendo come maestri Gio Ponti, Piero Portaluppi e Giovanni Muzio tra gli altri. Partigiano attivo nella Resistenza, avvia la propria attività professionale assieme ai colleghi Bruno Ravasi, Luigi Vermi e Luigi Ghidini, con i quali realizza il primo progetto, un’abitazione privata a Casorate Sempione, nel 1945, che verrà presentata in una copertina di Domus del 1947. Contribuisce alla ricostruzione postbellica del Milanese, con importanti realizzazioni tra le quali i palazzi di via Fatebenefratelli, via Corridoni e via Sforza. Negli anni Sessanta incentra la propria ricerca compositiva sulla compenetrazione di architettura e paesaggio, con realizzazioni significative ad Alberese (1961) e in Sardegna (1964). Sono sempre degli anni Sessanta i primi modelli di città ideale, ricerca che riprenderà negli anni Duemila, con il progetto di una Città Ideale per 25.000 abitanti. Guglielmo Mozzoni Anna Chiara Cimoli Manuela Bandini Storica dell’Arte, specializzata in Museologia, si occupa di inclusione sociale nei musei, di progetti di co-curatela e di partecipazione ai processi culturali. Ha lavorato come ricercatrice per diverse istituzioni, tra cui Politecnico di Milano e MUDEC, e collabora con l’Università Cattolica e l’Università Statale di Milano. Per ABCittà si occupa di musei e diversità culturale. Ha progettato il laboratorio interculturale del Museo del 900 di Milano. Nel 2007 ha pubblicato il libro ‘Musei Effimeri, Allestimenti di Mostre in Italia tra 1947-1963’. MARC è stato fondato nel 2006 da Michele Bonino e Subhash Mukerjee e ha proseguito la sua attività fino al 2016. Lo studio ha realizzato progetti di architettura, riuso e interior design in Italia, India e Cina. Il lavoro di MARC è stato esposto al Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2010, ad Artissima Fair (Torino, 2010), alla Royal Academy of Arts (Londra, 2009), al London Festival of Architecture (2008). MARC è stato finalista alla Medaglia d'oro per l'architettura italiana (Triennale di Milano, 2009) e ha vinto tre volte il premio Architetture Rivelate (Torino, 2009, 2010 e 2012). MARC è stato relatore al XXIII World Architecture Congress (UIA 2008) e ha tenuto conferenze in Italia e all'estero. Studio MARC Pag. 74 Pag. 74 Pag. 14 Architetto, docente di storia dell’arte, ha maturato esperienze nella progettazione architettonica e urbana, occupandosi prevalentemente dei temi della riqualificazione dei contesti urbani e ambientali. È autrice di lavori pubblici e privati, di concorsi, di pubblicazioni in testi e riviste di settore. Relatore invitato a diversi convegni, consigliere dell’Ordine e di IN/ARCH, è stata membro di Commissione Edilizia e coordinatore di progetti di Educazione ambientale in rete con l’Università di Bergamo e la Regione Lombardia. Dal ‘99 collabora con i Servizi Educativi della GAMeC, occupandosi Pag. 23 È un’associazione culturale nata nel 2014 fondata da Marcello De Masi, Luigi Fiano, Lorenzo Martelli, Alvise Raimondi, Sebastiano Raimondo e Giovanni Scotti. Si occupa di produrre, curare e promuovere incontri, mostre, pubblicazioni e attività di collaborazione con persone ed enti, pubblici e privati, in ambito artistico/culturale. Tra le varie attività, frutto di questi primi anni di lavoro sono la mostra ed il libro omonimi, i progetti 5 - A celebration of the Senses di Stefano di Lorenzo, Napoli Nuova Luce, Stati di Fatto, Per Milano il Giardino e la città. Progetti realizzati tra l’Italia, la Francia, il Portogallo e gli Stati Uniti. Presente Infinito Simone Casetta (1961) Nato a Milano, inizia molto giovane a frequentare gli studi fotografici dei fotografi milanesi Gianni Greguoli e Luciano Ferri. Inizia la sua carriera professionale nel 1980, lavorando per alcune testate giornalistiche. Si appassiona alle tematiche sociali globali, come l’inegualità della distribuzione delle risorse alimentari, temi che diventano fondamentali in tutta la sua opera. Professore di Fotografia all’ISIA di Urbino, nel 2010 fonda il Conservatorio di Fotografia, un centro di cultura fotografica pre-digitale impegnato nella pratica delle tradizionali tecniche di stampa dirette da negativo. Oltre ai riconoscimenti ricevuti, ha pubblicato diversi libri monografici, e partecipato a numerose mostre italiane e internazionali sia personali che collettive. (1926-2008) Architetto, ingegnere, docente presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, è stato inoltre fondatore e direttore per 20 anni della rivista Costruire, fondatore dell’Inu Lombardia e dell’ADI. Testimone dei fermenti culturali che hanno caratterizzato l’architettura del XX secolo - è stato a contatto con Le Corbusier nello studio parigino, e protagonista del mecenatismo di Adriano Olivetti -, Fiori ha intuito con largo anticipo la necessità di integrare tutti gli aspetti della produzione edilizia, e l’importanza di porre la tutela ambientale alla base della progettazione. Leonardo Fiori Ezio Agazzi Progettista, durante la seconda guerra mondiale interrompe gli studi in disegno presso la scuola Esperia di Bergamo e viene militarizzato come disegnatore presso la Caproni aeronautica. Collabora per diversi anni con gli architetti Luigi e Sandro Angelini. Pur non avendo conseguito il titolo di architetto, apre un proprio studio di progettazione e licenzia numerosi progetti, avvalendosi della collaborazione degli ingegneri Domenico Deleidi e Angelo Cortesi. Fra le opere principali: il complesso scolastico delle Suore del Sacro Cuore a Bergamo, con Sandro Angelini (1958-1959); l’istituto Cesare Pesenti di Bergamo, con l’architetto Aldo Piantanida (vince il concorso nel 1963); la casa di riposo di Verolanuova (Brescia, anni ’60); l’istituto dei padri Monfortani a Negrar in Valpolicella (Verona, anni ’60). Interviene nel progetto e nella costruzione del seminario arcivescovile di Bergamo, che conduce a termine nel novembre 1967 con la direzione lavori di Enrico Sesti e Angelo Cortesi. È tra gli autori del volume Il colle di S. Giovanni. Storia e arte, SASAAB, Bergamo, 1996. 94 / NOTE BIOGRAFICHE prevalentemente del rapporto tra espressione artistica contemporanea e architettura. PUBBLICITÀ PUBBLICITÀ