UniversitàdegliStudidiPalermo
Annali del Dipartimento di Filosofia
Storia e Critica dei Saperi
Giugno2004
ISSN1824-6966
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Elisabetta Di Stefano
Zeusi e la bellezza di Elena
La storia di Zeusi di Eraclea (V-IV sec. a. C.) che, per raffigurare Elena
nel tempio di Hera Lacinia, selezionò cinque tra le più belle fanciulle di Crotone e di ciascuna prese la parte migliore, formando nella sua mente l’immagine di una perfetta bellezza, diviene nel Rinascimento un motivo ricorrente
nella trattatistica sulle arti. Nella sua analisi per delineare la continuità e le
trasformazioni dell’Idea 1, da concetto trascendentale platonico a prototipo di
perfezione insito nella mente dell’artista, Erwin Panofsky non dimentica di
citare tale aneddoto, «tanto abusato» negli scritti sulle arti. Ma con questa
espressione lo studioso – dopo aver tracciato due percorsi dell’Idea, quello
neoplatonico che giunge fino a Marsilio Ficino e l’altro che, attraverso la retorica latina (Cicerone e Seneca) infonde il concetto di ideale nella teoria dell’arte del primo Rinascimento – mostra di non cogliere lo spessore teorico del
topos di Zeusi, ritenendolo semplicemente un tedioso luogo comune. In realtà si tratta di un principio euristico in cui sono convenute, fondendosi alla
condanna platonica degli eidola, tutte le successive interpretazioni dell’Idea
come frutto di una scelta a partire da materiali dati, grazie all’ausilio di un
giudizio raffinato.
Come tutte le leggende, anche la vicenda di Zeusi presenta alcune varianti
che le conferiscono un valore ambiguo e che influiranno sulle riprese posteriori volte a privilegiare l’una o l’altra sfumatura. Ripercorrendo, a partire dalle
fonti antiche, la storia di queste trasformazioni semantiche attraverso i secoli
si può capire come quest’aneddoto, lungi dal costituire un mero topos, assurga
a paradigma ermeneutico della creazione artistica. Per comprendere meglio tali
mutamenti di significato, si può parlare di “transunzione concettuale” 2, applicando alla storia delle idee un termine mutuato dalla retorica. La “transunzione”, infatti, è quella figura retorica che determina uno slittamento, sul piano
sincronico, da un asse semantico all’altro, ad esempio da quello metaforico a
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quello letterale. Se ci spostiamo verso una prospettiva storica, e quindi sull’asse
diacronico, la “transunzione” può essere una chiave per spiegare le libere associazioni che si verificano tra i concetti. Pertanto accogliendo questa linea
ermeneutica è possibile interpretare alcuni topoi non semplicemente come
exempla letterari, ma come principi euristici di proposte teoriche.
A prima vista non è del tutto chiaro se la storia di Zeusi rappresenti un
estremo caso di riproduzione meccanica del reale oppure offra all’artista l’occasione di esercitare un’importante facoltà di giudizio. La prima ipotesi è convalidata da Plinio che, nella Naturalis Historia, traccia l’episodio con rapidi
cenni, esaltando l’accurata precisione del pittore 3. D’altro canto più volte nel
trattato Zeusi è lodato per la sua mimesi realistica (si pensi ad esempio alla
famosa competizione con Parrasio 4). Al contrario Cicerone, nel De inventione
(II, I), riporta con dovizia di particolari l’aneddoto per spiegare con un
exemplum la sua aspirazione ad una perfetta eloquenza come sintesi di più
modelli 5.
L’ambiguità del mito, che in Plinio sottolinea il valore imitativo e in Cicerone la capacità di trascendere il reale in una sintesi superiore, rimane latente nelle riprese successive e dimostra come quella contraddizione rilevata da
Panofsky nella teoria dell’arte rinascimentale, oscillante tra mimesi realistica e
selezione migliorativa, è insita, fin dall’origine, nell’exemplum paradigmatico che
ne veicola il precetto estetico. Tuttavia assume sfumature diverse secondo le
connotazioni di volta in volta sottolineate. Ad esempio Boccaccio nel Commento al V Canto dell’Inferno dantesco, privilegiando l’intento realistico, interpreta
Elena come un soggetto reale e concreto. Ma in generale la versione pliniana
rimane limitata e circoscritta a qualche caso, come i Commentari (1447-55) di
Lorenzo Ghiberti che ambienta l’episodio ad Agrigento, mantenendo il silenzio
sul soggetto della pittura 6, mentre è soprattutto la variante idealizzante di Cicerone ad avere maggiore diffusione nella trattatistica, confermando il ruolo
fondativo svolto dalla retorica nella nascita della teoria dell’arte 7.
Tale paradigma estetico si arricchisce di un’ulteriore complessità semantica
quando si fonde con il modello teorico, di origine neoplatonica, che spiega la
produzione dell’opera d’arte alla luce di un’Idea insita nella mente dell’artista.
La fonte è ancora Cicerone: fondendo la filosofia di Platone 8 con quella di
Aristotele 9, l’Arpinate, in un famoso passo dell’Orator, collega esplicitamente
l’Idea platonica ad un’eccelsa forma di bellezza che, pur non derivando da
percezione sensoriale, è presente nella mente dell’artista: «Io non cerco un modello concreto, ma quella perfezione assoluta, che in un lungo discorso appare
rare volte, e oserei dire giammai; [...] non c’è nulla, in nessuna cosa, tanto
bello, di cui non sia più bella quella forma ideale donde deriva, come da un
volto l’immagine, la nostra rappresentazione: il che non possiamo comprendere
né con gli occhi né con le orecchie, né con alcuno dei nostri sensi, ma solo
con l’immaginazione della nostra mente. [...] come nelle arti figurative c’è un
ideale perfetto di bellezza, sul cui modello, che è solo pensato dalla mente,
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vengono plasmate, mediante l’imitazione, quelle forme che non esistono nel
mondo della realtà, così il tipo perfetto di eloquenza noi possiamo contemplarlo solo con la mente. [...] Questi perfetti modelli delle cose vengono chiamati da Platone [...] idee» 10.
Nella rappresentazione retoricamente esaltata della creazione artistica, fornita da Cicerone, l’artista non è più il platonico imitatore dell’ingannevole
mondo delle apparenze; egli lavora fissando il suo sguardo interiore su un perfetto prototipo di bellezza che custodisce nello spirito, pur non riuscendo a
trasfonderla per intero nell’opera. Sebbene infirmando la stessa concezione
estetica di Platone, si forma così quel concetto di e[ndon ei\do", (“idea interna”)
quale rappresentazione immanente alla coscienza, ma partecipe della perfezione
dell’idea, che ritroveremo nella corrente neoplatonica.
Un momento di passaggio significativo si ha con Plotino, il quale pur tentando di restituire alla cogitata species, coniata da Cicerone, il valore oggettivo
e trascendente proprio del sistema platonico, ne conserva l’exemplum artistico,
consolidando con la sua autorità filosofica quel connubio tra idea metafisica e
arte che sarà presente nella speculazione neoplatonica medievale e rinascimentale. Per Plotino il marmo, trasformato in opera d’arte, riceve la sua bellezza
non dalla componente materiale, perché altrimenti qualsiasi marmo grezzo
sarebbe bello, ma a causa della forma che l’artista gli ha conferito: «questa
forma (tov ei\do") non c’era, prima, nella materia, ma era nella mente dell’artista
ancor prima di entrare nel marmo» 11. Inoltre sottolinea il valore “poietico”
delle arti, capaci di produrre «molte cose di per se stesse, in quanto aggiungono alla natura qualcosa che ad essa manchi, poiché possiedono in se stesse la
bellezza» 12. In questo passaggio significativo la bellezza è ormai discesa dall’iperuranio per calarsi nell’arte, tuttavia rimane sempre un concetto metafisico,
poiché non deriva dalla realtà, ma dall’essenza stessa di un’ “idea” superiore:
«Così Fidia creò il suo Zeus senza guardare ad un modello sensibile, ma lo
colse quale sarebbe apparso, qualora Zeus stesso consentisse ad apparire ai
nostri occhi» 13.
Questo aneddoto acquista, come quello di Zeusi, valore di paradigma per
indicare la creazione artistica; però, mentre l’uno esprime un ideale estetico
che si origina come sintesi del molteplice sensibile, l’altro, col prestigio del
nome di Fidia, avalla la possibilità per l’artista di accedere ad una bellezza
superiore a quella riscontrabile in natura e da essa indipendente. Tuttavia, nel
corso del tempo, i due aneddoti subiscono trasformazioni concettuali che tendono a farli convergere. Poiché Zeusi ha tramandato non tanto il ritratto della
donna Elena, ma un prototipo di perfezione che nell’immaginario collettivo
tende a coincidere con la divinità, si è confusa talvolta Elena con Venere 14. Al
contrario in ambienti stoici si riprende la vicenda di Fidia per reagire ai limiti
dell’imitazione imprigionata nell’hortus conclusus del mondo fenomenico, facendo appello non ad una verità metafisica, ma ad un’idea che la fantasia ha
creato a partire dalla realtà. Esemplificativo in tal senso quel passo di Flavio
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Filostrato (II-III d. C.) in cui ad un egiziano che gli chiedeva ironicamente se
Fidia e gli altri artisti, per poter imitare gli dei, fossero saliti in cielo ad osservarli nelle loro vere sembianze, Apollonio di Tiana risponde: «Fu l’immaginazione a creare queste effigi, che è artista più sapiente dell’imitazione. L’imitazione può creare soltanto ciò che ha visto, ma l’immaginazione crea anche quel
che non ha visto, poiché può formarsene l’idea in riferimento alla realtà» 15.
Non si tratta più di una contemplazione metafisica dell’Idea, posta su un piano soprasensibile ma, come nella vicenda di Zeusi, si fa riferimento ad una
rielaborazione del reale per ottenere un prototipo perfetto: un’ideale.
L’accostamento tra le due vicende, pur seguendo un percorso inverso, avviene anche nei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo (I d. C.), un
repertorio aneddotico in voga nel Medioevo e nel Rinascimento. L’autore riporta le storie di Fidia e di Zeusi nella sezione dedicata alla fiducia sui (3, 7),
volendo in tal modo sottolineare la consapevolezza dell’artista riguardo alle
proprie doti 16. Dopo aver dipinto l’effigie di Elena, senza neppure attendere
i giudizi della gente, Zeusi vi appose i versi dell’Iliade (III, vv. 156-157: «Non
è vergogna che i Teucri e gli Achei schinieri robusti, | per una donna simile
soffrano a lungo dolori» 17), cosciente che la bellezza della sua opera era pari
a quella generata con parto celeste da Leda 18 e a quella cantata con ingegno
divino da Omero. In tal modo l’attività dell’artista è messa sullo stesso piano
della capacità creativa del dio e del poeta. Inoltre l’accostamento alla storia di
Fidia che, guidato dai versi di Omero, ascese al cielo per cogliere l’idea della
perfetta bellezza 19, pur soggiacendo al principio dell’ut pictura poesis, colloca
i due aneddoti sullo stesso piano come espressione di un medesimo valore
estetico.
Carica di queste sedimentazioni concettuali, la storia di Zeusi viene ripresa
nel Rinascimento, determinando una serie di ambiguità ermeneutiche. Esemplare il caso di Leon Battista Alberti, il quale, pur rifacendosi alla variante
ciceroniana cita l’aneddoto per affermare un’esigenza realistica, ovvero per
dimostrare che il pittore deve lavorare in piena aderenza alla natura: «Fugge
gl’ingegni non periti quella idea delle bellezze, quale i bene essercitatissimi
appena discernono. Zeusis, prestantissimo e fra gli altri essercitatissimo pittore,
per fare una tavola qual pubblico pose nel tempio di Lucina appresso de’ Crotoniati, non fidandosi pazzamente, quanto oggi ciascuno pittore, del suo ingegno, ma perché pensava non potere in uno solo corpo trovare quante bellezze egli ricercava, perché dalla natura non erano ad uno solo date, pertanto di
tutta la gioventù di quella terra elesse cinque fanciulle le più belle, per torre
da queste qualunque bellezza lodata in una femmina. Savio pittore, se conobbe
che ad i pittori, ove loro sia niuno essemplo della natura quale elli seguitino,
ma pure vogliono con suoi ingegni giugnere le lode della bellezza, ivi facile
loro avverrà che non quale cercano bellezza con tanta fatica troveranno, ma
certo piglieranno sue pratiche non buone, quali poi ben volendo mai potranno
lassare» 20. Il riferimento alla nozione di Idea si risolve, quindi, nel monito
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all’osservanza delle regole e alla pratica dell’esercizio piuttosto che nel seguire il proprio ingegno, nonostante Alberti, forse per implicita influenza di Valerio Massimo, attribuisca al pittore Zeusi altissima considerazione tanto da
farne l’exemplum paradigmatico della nozione di artista come alter deus 21.
L’integrazione tra l’ambito concettuale dell’Idea e quello della creazione
artistica, esemplificata nel paradigma estetico di Zeusi, si consolida nel Rinascimento, trovando ampia diffusione non solo negli scritti sulle arti, ma anche
in quelli sulla letteratura 22. Nell’epistola De imitatione di Giovanfrancesco
Pico della Mirandola, datata 19 settembre 1512 e inviata a Pietro Bembo, il
nipote del grande Pico sostiene, sulla scorta del platonismo ficiniano che,
quando imita, l’uomo viene illuminato da una certa idea insita nell’animo e
operante come guida istintiva nella scelta: «Egli, per rappresentare quell’immagine di un bellissimo corpo dell’eloquenza, scelse tutti gli uomini insigni per
facondia, mentre Zeusi selezionò soltanto cinque fanciulle di Crotone famose
per la loro bellezza; e non confidando abbastanza in essi, ritenne la stessa bellezza o l’ideale perfetto dell’eloquenza degno soltanto di imitazione e non legato assolutamente a nessuno. Pertanto dobbiamo imitare quella perfetta facoltà del dire che certamente abbiamo nell’animo, con la quale possiamo anche
valutare pregi e difetti del discorso nostro o degli altri; sia che la stessa idea sia
del tutto innata e perfetta fin dall’origine, sia che essa si sia perfezionata col
passare del tempo, mediante lo studio di molti scrittori» 23. In sostanza, secondo Pico, ciascuno segue l’idea della scrittura che ha dentro l’animo nella scelta
dei tratti migliori degli altri, da utilizzare come materiali su cui esercitare l’inventio per creare uno stile personale, come le api che prendono da vari fiori
il nettare per produrre il miele 24.
Si tratta di una proposta teorica che avrà ampio seguito. Così Giovan Battista Armenini (De’ veri precetti della pittura, 1587) ritiene che Zeusi non avrebbe potuto armonizzare le parti naturali, se non avesse posseduto una «singolare maniera»; e Lodovico Dolce (Aretino o dialogo della pittura, 1557) lascia
presupporre che il pittore abbia aggiunto di suo molti eccellenti tratti ai pregi che trovava nelle cinque ragazze. In tal modo, dall’antichità al Rinascimento,
il motivo di Zeusi campione del realismo subisce uno slittamento verso il concetto di idealizzazione della natura. La parabola si conclude con Raffaello il
quale, in una lettera a Baldassare Castiglione, ascrivibile al 1514, afferma che
in assenza di belle donne e di buoni giudici si serve di una «certa idea» che
trova dentro di sé 25.
Sembra di ritornare all’e[ndon ei\do" di Cicerone e Plotino: l’ideale viene
a coincidere con l’idea. L’aneddoto, infatti, ha ormai assunto un significato
opposto a quello del De inventione, finendo col farsi portatore di un’immagine
ispirata che determina la creazione di una perfetta bellezza, frutto di un innato
senso di proporzione. Pur non contenendo espliciti riferimenti alla dottrina
platonica, la lettera di Raffaello ne è sostanzialmente impregnata 26. L’imitazione della natura è insufficiente per dipingere la bellezza; neppure l’imitazione
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eclettica e selettiva, operata da Zeusi, è praticabile nel presente, sia per la mancanza di belle donne sia per la mancanza di buoni giudici capaci di valutare le
singole bellezze. Per questo Raffaello assegna un ruolo decisivo all’idea che gli
«viene nella mente» e alla capacità dell’artista di dare forma a quell’intima
rappresentazione, senza lasciarsi influenzare da stimoli esterni.
Tuttavia, come rileva Panofsky 27, Raffaello non affronta il problema dell’origine, metafisica o fisica, dell’idea di bellezza. La prima soluzione è accolta da Francisco D’Olanda che, influenzato dal platonismo di Michelangelo e
Marsilio Ficino, riconduce a Dio l’origine della bellezza e della stessa creazione
artistica 28. Ma il suo trattato, seppure costituisce l’unico momento a tutt’oggi noto in cui l’idea metafisica viene accolta nella teoria dell’arte, cade nell’oblio e non ha ulteriori ripercussioni. La seconda strada è percorsa dai teorici italiani che, mutuando l’impianto concettuale e gli schemi espositivi dei
loro trattati dalla retorica, attraverso l’aneddoto di Zeusi, fanno proprio il paradigma estetico di una bellezza perfetta elaborata nell’animo dell’artista a partire dalla selezione del reale.
Nella storia delle trasformazioni concettuali della vicenda di Zeusi gli opposti si toccano: l’apice della bellezza può avere gli stessi effetti nefasti del
culmine della bruttezza. Così Daniele Bartoli (Dell’huomo di lettere difeso et
emendato, 1646) riferisce che l’antico pittore Nicostrato vedendo il famoso
dipinto di Elena realizzato da Zeusi rimase talmente colpito da sembrare pietrificato: «al primo sguardo, come s’egli avesse mirato non una testa d’Elena,
ma di medusa, restò di sasso, e sembrava con iscambievole inganno, tanto viva
Elena nella pittura, quanto morto Nicostrato nello stupore» 29.
Il gusto barocco, dilettandosi di “ingannevoli scambi”, continua a farsi
gioco della bella Elena. Giovan Battista Marino, ne La Galeria (1619), pone
sullo stesso piano la bellezza naturale della vera Elena con quella artistica forgiata dallo scalpello: «Son la famosa figlia | del sommo Giove e della bella
Leda. | Or volga in me le ciglia | l’irto Sposo, e veda | se lo scarpel de l’Arte,
che m’intaglia, | del pennel di Natura il pregio | agguaglia. | Conceda pur, conceda | l’altra al Troiano, e senza sangue e | morte | una n’abbia l’amante, una
il | consorte».
Il culmine di questo percorso si tocca con Giovan Pietro Bellori che nell’Idea del Pittore, dello scultore e dell’Architetto (1664), tra gli autori che l’hanno preceduto nello sforzo di istituzionalizzare il processo di creazione intellettuale rispetto al lavoro puramente mimetico, cita Zeusi. Per Bellori il nuovo
Zeusi è Guido Reni: il suo Rapimento di Elena dimostra che il pittore ha rappresentato non ciò che si offre alla vista, ma ciò che poteva vedere nell’idea 30.
Con Bellori si afferma un’estetica del bello che conferisce all’arte una posizione a sé stante e intermedia tra l’ambito puramente divino e quello esclusivamente naturale, facendo derivare l’idea né dalla natura né da Dio, ma dalla
mente dell’artista. Nell’elaborare questa concezione estetica contribuiscono
notevolmente le teorie di Torquato Tasso sull’immaginazione. Ne Il Ficino
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overo de l’arte, dialogo fra Cristoforo Landino e Marsilio Ficino sul concetto
d’arte, Tasso, per bocca di Ficino, conclude che, seppure le forme contenute
nell’animo non vi risiedono ab æterno ma nascono dai sensi, e le opere d’arte esistono in virtù della materia, l’arte del creare prescinde dall’effettiva realizzazione e l’origine risiede nell’anima 31. Ma soprattutto la definizione di
Idea, come perfezione nell’arte della bellezza naturale attraverso l’esercizio
della fantasia, Bellori la mutua dal De pictura veterum (1637) di Franciscus
Junius.
Junius, sulla falsariga platonica, riprende il concetto dell’artista demiurgo
e individua due tipi di imitazione, caratterizzati da una gerarchia assiologica:
l’imitazione icastica, ovvero di ciò che si vede (questa a sua volta si suddivide
in una mimesi realistica ed in una selettiva, volta a migliorare la natura sul
modello di Zeusi) 32; l’imitazione fantastica, ovvero di ciò che non è visibile
con i sensi ma solo con l’immaginazione. Questa dottrina, perdendo l’accezione negativa della formulazione platonica 33, trasforma la creazione artistica in
un’euristica in cui l’artista, sul modello di Fidia, deve ritrovare la Bellezza perduta, che non è di ordine naturale ma mentale 34.
Gli aneddoti di Fidia e di Zeusi che per Junius indicavano due momenti
di un processo mimetico ascensionale, trovano una sintesi nella dottrina di
Bellori, secondo il quale l’artista deve unire vero e verisimile, idea e natura.
Contro l’imitazione realistica dei caravaggeschi e quella “capricciosamente”
fantastica dei manieristi, Bellori addita l’imitazione idealizzante di Annibale
Carracci, che aspira all’ideale a partire da modelli visibili.
Con Bellori l’Idea, che alberga nella mente dell’artista, giunge al culmine
di perfezione tanto da superare non solo la bellezza presente in natura, ma
persino quella stessa di Elena. Contestando la tradizione omerica sull’origine
della guerra di Troia, Bellori sostiene che la causa del conflitto non sarebbe
stata la bellezza imperfetta di una donna reale, ma la perfetta venustà di una
statua rubata da Paride. Si tratta di una variante che ha diverse attestazioni
(Stesicoro, Euripide, Erodoto) 35, rispetto alla quale però Bellori si distingue in
quanto afferma che i Greci erano consapevoli di battersi per una statua. Il
nuovo ideale estetico del Seicento viene affermato, ancora una volta, ricorrendo al famoso aneddoto: la statuaria antica, frutto della selezione operata da artisti di gusto, acquista un pregio superiore al modello naturale e diviene prototipo di assoluta perfezione. La storia di Zeusi, comunemente letta come
esempio di eclettismo, viene assorbita dentro l’estetica classicista dell’imitazione dell’uno, la bellezza perfetta, l’unica che può sfidare il tempo e tendere all’eternità 36.
Come ha intuito Panofsky, la convergenza tra Idea e arte avviene, in modo produttivo per la nascita dell’estetica, non sul versante speculativo, ma su
quello pragmatico che, a partire da Alberti, ha impostato la teoria dell’arte su
fondamenti retorici. Infatti, l’idea, nell’accezione interiorizzata di Plotino (e[ndon ei\do") rimarrà oggetto speculativo proprio della tradizione neoplatonica
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che si rivolgerà all’arte solo per esigenze esemplificative. Mentre la teoria dell’arte sostituisce al concetto di “idea” quello di “ideale”, finendo così per mistificare la stessa interpretazione storica del pensiero platonico. Alle origini di
questo percorso, troviamo l’aneddoto di Zeusi che dal De inventione, rimbalza
non solo come mero topos, ma come vero e proprio paradigma concettuale,
nelle pagine della trattatistica d’arte rinascimentale ed oltre. Proseguendo su
questo percorso infatti troviamo Charles Batteux, non a caso un professore di
retorica, che nel suo famoso saggio su Le Belle Arti ricondotte a un unico principio sancisce, non solo terminologicamente, la nascita di un concetto in cui
ormai convergono l’idea del bello e la nozione dell’arte 37. Le Belle Arti sono
il frutto non di un’imitazione pedissequa, ma di una selezione della natura,
secondo l’antico monito di Zeusi.
1 E. Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica (1924), trad. it. di E. Cione, Firenze, La
Nuova Italia, 1996 2.
2 L. Barkan, The Heritage of Zeuxis: Painting, Rhetoric and History, in A. Payne, A. Kuttner, R.
Smick (a cura di), Antiquity and its Interpreters, Cambridge University Press, 2000, pp. 99-109.
3 Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 36, trad. it. di S. Ferri, Storia delle arti antiche, Milano, Rizzoli,
2000, p. 185: «ma fu, del resto, così esagerato nella diligenza che, dovendo fare per gli Agrigentini un
quadro da dedicarsi a pubbliche spese nel Tempio di Hera Lacinia, volle prima esaminare le loro fanciulle nude e ne scelse cinque come modelle affinché la pittura rappresentasse ciò che di più perfetto
c’era in ciascuna di esse». Rispetto a Cicerone, Plinio riporta una variante topografica. Il riferimento ad
Agrigento è dovuto probabilmente ad un’associazione mentale con l’altra opera di Zeusi, l’Alcmena,
realizzata per quella città. Ibid., 62, p. 183. Inoltre Plinio non menziona il soggetto della pittura e non
offre segnali per la sua identificazione. Solo al § 66 ricorda un’immagine di Elena realizzata da Zeusi e
posta nel portico di Filippo.
4 Ibid., 65, p. 185. Cfr. anche l’aneddoto del dipinto con il fanciullo che porta l’uva (ibid., 66, p.
187).
5 Cicerone, De inventione, II, 1, trad. it. a cura di A. Pacitti, L’invenzione retorica, Milano, Mondatori, 1967, p. 158 e ss. Cfr. anche Dionisio di Alicarnasso, De veteribus scriptoribus censura, I.
6 L. Ghiberti, I commentari, a cura di O. Morisani, Napoli, Ricciardi, 1947, p. 21: «E di tanta
eccellenza e diligenza fu nell’arte [Zeusi], che avendo a fare una tavola agli Agrigentini, la quale essi
aveano consacrata pubblicamente di Giunone Liornia [Lacinia], egli scrisse vergini ingnude degli Argentini, acciocché egli di ciascuna pigliasse qualche bella parte per conducere a perfezione l’opera sua,
la quale fu disegnata in una tavola bianca con meravigliose arti».
7 Un incrocio tra la tradizione ciceroniana, ambientata a Crotone, e quella pliniana, che tace sul
soggetto, si riscontra nel Riposo (1584) di Raffaele Borghini (Milano, Edizioni Labor, 1967, pp. 269-70):
«Questi [Zeusi] dovendo fare una figura a’ Crotoniati per mettere nel tempio di Giunone, volle vedere ignude le più belle fanciulle della città, delle quali ne scelse cinque le meglio formate, e togliendo da
ciascuna le più belle parti, ne venne a formare la sua bellissima immagine».
8 Secondo Platone (Repubblica, X, 596a-598d) le “Idee” sono verità metafisiche, a cui può giungere solo il dialettico, mai l’artista, che si limita alla mera riproduzione del reale, copia ingannevole delle
forme eterne e immutabili, esistenti solo nell’iperuranio.
9 Aristotele nella Metafisica (VII, 7, 1032b, trad. it. di A. Russo, Roma-Bari, Laterza, 19883, p.
199), dopo aver affermato che tutto nasce dall’immettersi di una determinata forma in una determinata materia, specifica: «per quanto concerne, invece, i prodotti dell’arte dobbiamo sottolineare che essi
sono quelle cose la cui forma risiede nell’anima dell’artista». Oltre alle due categorie di materia e forma, Aristotele, come è noto, ne conosce altre tre (causa, fine e mezzo) anche esse applicabili alla creazione artistica e in tal senso già recepite da Seneca, (Ep. LXV, 2 e ss.) il quale, in accordo con Aristo-
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tele, enumera quattro cause dell’opera d’arte: la materia, dalla quale essa sorge, l’artista, per mezzo del
quale sorge, la forma, in cui essa sorge, e lo scopo, a motivo del quale sorge.
10
Cicerone, Orator II, 7 e ss., trad. it. di G. Norcio, in Opere retoriche, Torino, UTET, 1976, p.
799.
11
Plotino, Enn. V, 8, 31, trad. it. a cura di G. Faggin, Milano, Bompiani, 20022, p. 905.
12
Ibid., p. 907.
13
Ivi.
14
Per la sostituzione di Elena con Venere cfr. P. Pino, Dialogo della pittura (Venezia, 1548), in P.
Barocchi (a cura di), Trattati d’arte del Cinquecento, vol. I, Bari, Laterza, 1960, p. 99; A. Condivi, Vita
di Michelangelo, Firenze, Rinascimento del libro, 1931, pp. 112-13.
15
F. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana 6, 19, trad. it. di D. Del Corno, Milano, Adelphi, 19882,
p. 283.
16
Valerio Massimo, Faits et dits mémorables, III, 7, ext. 3, tome I, Paris, Les Belles Lettres, 1995,
pp. 269-70.
17
Omero, Iliade, III, vv. 156-57, a cura di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 19902, p. 97.
18
Secondo una variante mitologica Zeus sotto forma di cigno si unì a Leda che generò Elena.
19
Valerio Massimo riferisce la vicenda di Fidia immediatamente dopo quella di Zeusi, con un
accostamento che implicitamente associa i due paradigmi estetici. Valerio Massimo, Faits et dits mémorables, III, 7, ext. 4, cit., pp. 270-271. Fidia, dopo aver realizzato la famosa statua di Giove Olimpico,
ad un amico che gli chiedeva cosa lo avesse guidato quando era asceso al cielo per cogliere i tratti di
Giove, indicò i versi di Omero (Iliade I, vv. 528-30, cit., p. 31: «Disse e con le nere sopracciglia il Cronide accennò; | le chiome ambrosie del sire si scompigliarono | sul capo immortale: scosse tutto
l’Olimpo»). La storia di Fidia, che prende a modello i versi omerici, si trova anche nella Geographia di
Strabone e nel XII discorso (detto l’Olimpico) di Dione Crisostomo, il quale aggiunge il motivo della
superiorità della poesia sulla scultura, assente in Strabone. Cfr. Dio Chrysostom, Discourses, with an
English translation by J. W. Cohoon and H. Lamar Crosby, vol. II, (The Loeb Classical Library),
London-Cambridge (Mass.), Harvard U. P., 1977.
20
L. B. Alberti, De pictura, III, 59, a cura di C. Grayson, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 96.
21
Su questo argomento cfr. il mio intervento, Leon Battista Alberti e l’idea della bellezza, presentato al convegno Leon Battista Alberti teorico delle arti, Mantova 25-27 ottobre 2003, in corso di stampa
negli atti. Su questa linea è interessante la posizione di Leonardo che più volte nel suo trattato propone l’accostamento tra il pittore e dio. Ma se in Alberti il richiamo a Zeusi serviva per spingere l’artista
verso una maggiore aderenza alla regola e alla mimesi, Leonardo si esprime negativamente verso coloro che mettono insieme materiali di diversa provenienza: tale è il poeta che si “veste” di abiti altrui,
trasformando in modo innaturale se stesso. Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, I, 10, Milano, TEA,
1995, p. 8: «se vuoi vestirti delle altrui scienze separate da essa poesia, elle non sono tue [del poeta],
come astrologia, rettorica, teologia, filosofia, geometria, aritmetica, e simili; tu non sei allora poeta, tu ti
trasmuti, e non sei più quello di che qui si parla. Or non vedi tu, che se tu vuoi andare alla natura, tu
vi vai con mezzi di scienze fatte d’altrui sopra gli effetti di natura, ed il pittore per sé senza aiuto di
scienza o d’altri mezzi va immediate alla imitazione di esse opere di natura».
22 Cfr. E. H. Gombrich, Ideale e tipo nella pittura italiana del Rinascimento (1983), in Antichi
maestri, nuove letture. Studi sull’arte del Rinascimento, Torino, Einaudi, 1987.
23 Le epistole “De imitatione” di Giovanfrancesco Pico della Mirandola e di Pietro Bembo, a cura di
G. Santangelo, Firenze, Olschki, 1954, p. 28.
24 Il concetto viene ribadito nella replica (senza data) di Pico al trattatello del Bembo (1513). Le
epistole “De imitatione” di Giovanfrancesco Pico della Mirandola e di Pietro Bembo, cit., pp. 67-68. La
similitudine delle api, svolta da Orazio (Carmina, IV, 2, 27-32) e Seneca (Ad Lucilium, XI, 84) viene ripresa dal Petrarca in una lettera del 1366 al Boccaccio (Familiarum rerum libri, XXIII, 19, 12) e appare
nella filigrana della replica di Giovanfrancesco Pico. Su questi temi cfr. P. Sabbatino, La bellezza di
Elena. L’imitazione nella letteratura e nelle arti figurative del Rinascimento, Firenze, Olschki, 1997, p. 13
e ss.
25 Raffaello Sanzio, Lettera al Castiglione, in P. Barocchi (a cura di), Scritti d’arte del Cinquecento,
vol. II, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977, p. 1530
26 Per l’influenza dell’epistola di Pico su Raffaello cfr. E. Battisti, Il concetto di imitazione nel Cinquecento italiano, in Id., Rinascimento e Barocco, Torino, Einaudi, 1960, pp. 175-215.
27 E. Panofsky, Idea, cit., p. 36.
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28
F. D’Olanda, Della pittura antica, trad. it. a cura di Grazia Modroni, I Trattati d’arte, Livorno,
Sillabe, 2003.
29
D. Bartoli, Dell’huomo di lettere difeso et emendato. Parti due (Bologna, 1646), pp. 20-21, cit.
in A. Colantuono, Guido Reni’s Abduction of Elen, Cambridge U. P., 1997, p. 161.
30
La posizione di Bellori è perfettamente espressa nelle parole di Guido Reni a proposito del suo
San Michele. G. P. Bellori, Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti moderni, a cura di E. Borea, Torino,
Einaudi, 1976, p. 6: «Vorrei haver avuto pennello Angelico o forme di Paradiso, per formare l’Arcangelo, et vederlo in Cielo, ma io non ho potuto salir tant’alto, et invano l’ho cercato in terra. Si che ho
riguardato in quella forma, che nell’Idea mi sono stabilita».
31
E. Cropper, L’Idea di Bellori, in Aa. Vv., L’idea del Bello, Roma, De Luca, 2000, pp. 81-86.
32
F. Junius, De pictura veterum, I, 1, a cura di C. Nativel, Genève, Droz, 1996, p. 138 e ss.
33
Platone, Sofista, 235d-236c.
34
C. Nativel, Le triomphe de l’idée de la peinture: la Phantasia chez Junius et Bellori, in Théorie des
arts et création artistique dans L’Europe du Nord du XVIe au début du XVIIIe siècle, a cura di M. C.
Heck, F. Lemerle, Y. Pauwels, Villeneuve d’Ascq, Université Charles De Gaulle Lille 3, 2002, pp. 21931.
35
Stesicoro, in una Palinodia oggi perduta, Euripide nella tragedia Elena, di cui rimangono pochi
frammenti, ed Erodoto nelle Storie (II, 113 e ss.) affermano che, mentre la vera Elena veniva nascosta
in una nuvola, a Troia era condotto un simulacro forgiato da Era per ingannare Paride. In tal modo
Euripide vuole dimostrare la futilità di una guerra condotta per un’illusione. V. I. Stoichita, A propos
d’une parenthèse de Bellori: Hélène et l’Eidolon, “Revue de l’art” n. 85, 1989, pp. 61-63.
36
La bellezza eterna può essere garantita solo dalla scultura, poiché nemmeno Elena è esente
dall’invecchiamento, come attestano le riprese del topos che giocano proprio sulla vecchiezza di Elena.
La fonte dell’invecchiamento di Elena è Ovidio, Metamorfosi, XV, 232-33. Il motivo è ripreso da C.
Tolomei (Il Cesano de la lingua toscana, 1555, in Discussioni linguistiche del Cinquecento, Torino, UTET,
1988, p. 228) come metafora della decadenza del latino al volgare toscano e da F. Bocchi (Eccellenza
della statua del San Giorgio, 1584, in Trattati d’arte del Cinquecento, cit., vol. III, pp. 170-71).
37
Ch. Batteux, Le Belle Arti ricondotte a un unico principio, Palermo, Aesthetica, 20024.
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