a cura di
Guido Alfani, Riccardo Rao
LA GESTIONE
DELLE RISORSE
COLLETTIVE
Italia settentrionale,
secoli XII-XVIII
FrancoAngeli Storia
Il presente volume è stato stampato con il contributo del Comune di Nonantola, del Centro Dondena per la Ricerca sulle Dinamiche Sociali dell'Università Bocconi di Milano e
del Dipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità dell'Università degli Studi di Bergamo.
In copertina: Controversia per la raccolta del ghiaccio su un’isola del Po avvenuta nel 1535
tra le comunità di Casalmaggiore e Mezzano (Archivio di Stato di Milano, che si ringrazia per la libera
concessione dell’immagine)
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Stampa: Tipomonza, via Merano 18, Milano.
Indice
Introduzione, di Guido Alfani e Riccardo Rao
pag.
7
»
17
»
»
32
48
»
63
»
79
»
95
»
110
Parte prima - Attraverso la società: uomini,
donne e accesso alle risorse collettive
L’evoluzione della trasmissione ereditaria delle risorse collettive in Trentino tra i secoli XIII e XIX, di Marco Casari,
Maurizio Lisciandra
«Inter vicinos de vicinantia». Una nota storiografica a partire
dalle investiture ad accola dei comuni valtellinesi nel basso
medioevo, di Massimo Della Misericordia
Le partecipanze: il caso di Nonantola, di Guido Alfani
Donne, attività metallurgiche e gestione delle risorse collettive
nel Bresciano: il caso di Bagolino (alta Valle Sabbia), di
Giancarlo Marchesi
Parte seconda - L’area alpina:
la valorizzazione dell’incolto
Frontiere politiche e gestione delle risorse collettive. Boschi e
pascoli a Primiero (Trento) nel XV secolo, di Giuseppina
Bernardin
Monte versus bosco, e viceversa. Gestione delle risorse collettive e mobilità in area alpina: il caso della Carnia fra Sei e
Settecento, di Claudio Lorenzini
«La libertà e il comodo». La gestione dei boschi nella Contea
di Gorizia (secolo XVIII), di Daniele Andreozzi, Loredana
Panariti
5
La gestione comune del patrimonio boschivo in area bellunese
e feltrina. Aspetti economici, sociali, naturalistici, di David
pag. 125
Celetti
Parte terza - La pianura e la tragedia
delle forme di godimento collettivo del suolo
Dal bosco al riso: la gestione delle risorse collettive nella Bassa
Vercellese fra dinamiche socio-istituzionali e trasformazioni
ambientali (secoli XII-XVIII), di Riccardo Rao
«Terra nullius». Ghiare, siti alluvionali e incolti nella piana del
Po di età moderna, di Blythe Alice Raviola
Usi civici, impresa e istituzioni locali. L’area della Sesia in età
moderna, di Emanuele C. Colombo, Sergio Monferrini
La gestione dei beni comunali nella pianura lombarda del primo Cinquecento, di Matteo Di Tullio
I beni «comunitativi»: la gestione delle risorse collettive nella
Lombardia austriaca della seconda metà del Settecento, di
Maurizio Romano
»
141
»
157
»
174
»
192
»
207
La gestione delle risorse collettive nel regno di Napoli in età
moderna: un percorso comparativo, di Alessandra Bulgarelli
Lukacs
»
227
Bibliografia
»
247
Indice dei nomi
»
275
6
Usi civici, impresa e istituzioni locali.
L’area della Sesia in età moderna
di Emanuele C. Colombo*, Sergio Monferrini**
I Commons rappresentano oggi un argomento di straordinaria attualità,
non da ultimo grazie ad un dibattito storiografico quanto mai vitale sugli
usi civici1. L’analisi, in Italia, si è concentrata recentemente sul ruolo del
Commissariato per gli usi civici, istituzione nata con la legge del 1927 e
preposta, fra l’altro, alla conservazione del materiale documentario relativo
agli usi civici (Palmero 2007). Da un punto di vista più generale, pare senza dubbio importante il modello di governo delle risorse che i Commons
invitano oggi a riconsiderare: non penso, tanto, a temi pur di grande portata quali l’uso delle acque, dell’energia, persino del diritto d’autore, ma alla
possibilità di una ricerca sul «diritto europeo delle istituzioni locali». Mi
pare insomma che i Commons rappresentino una delle principali chiavi per
comprendere l’uso locale delle risorse, e le modalità specifiche di questa
gestione. Il tema è declinabile attraverso quello dei «corpi», o istituzioni
locali, che attraversano la comunità, e che spesso erano nate proprio per
gestire dei beni comuni ad un determinato gruppo di persone. La comunità
intesa come «comune amministrativo» non è, in tal senso, che la forma e
la formula più macroscopica, nonché più tarda, di gestione dei Commons.
* Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano.
** Magazzeno Storico Verbanese.
Emanuele Colombo è autore dell’introduzione, del paragrafo 1 e 2 e delle conclusioni.
Sergio Monferrini è autore del paragrafo 3.
1. Cfr. in proposito i recenti convegni Censire gli usi civici. Banca dati e territorio digitale, che ha avuto luogo a Viterbo il 15 dicembre 2001; il seminario organizzato dal bosco
delle sorti della Partecipanza di Trino I patrimoni di comunità in Italia fra storia e cultura,
natura e territorio, tenutosi a Trino il 16-18 dicembre 2005; il convegno su Commons e
ambiente Contribution of the commons. The effect of collective use and management of natural resources on environment and society in European history, tenutosi a Pamplona dal 5
al 7 novembre 2009; e la giornata di studi Demani collettivi e common resources. Tra ricostruzione storiografica ed accertamento amministrativo e giudiziario, tenutasi ad Alessandria il 30 aprile del 2010.
174
In realtà, la costruzione di gruppi d’interesse per l’uso delle risorse, e la
loro conseguente istituzionalizzazione, si riferiscono ad una scala d’osservazione nettamente «infra-comunale» (volendo assumere per comodità il
punto di vista del comune).
Nelle pagine che seguono si cercherà di rendere più chiara questa opzione di ricerca. Nel corso della prima parte ci si posizionerà al livello del
«comune». Studieremo dunque la gestione del patrimonio in alcune «grandi» comunità rurali del Novarese. Nei casi presi in considerazione, la proprietà collettiva di diritti e terre serve a definire una nuova imprenditorialità comunale, che agisce in funzione anti-ciclica. In tal senso, i beni collettivi rendono più forti le comunità che li possiedono, le quali sovente
danno vita a pratiche di gestione specifiche ed originali.
Nella seconda e nella terza parte si osservano, invece, fenomeni e processi che contribuiscono a formare i soggetti comunali, mostrando come
questi ultimi siano il risultato di opzioni più o meno complesse. Tra Sette
e Ottocento, peraltro, i poteri intermedi di derivazione statale (come l’intendente sabaudo) cercano con successo di entrare all’interno dell’elaborazione infra-comunale, pretendendo di costruire una sfera pubblica affidata ad un comune controllato dall’alto. Gli usi civici sono concepiti in
questa ottica come risorsa finanziaria a disposizione del comune, da utilizzare per ripianare l’indebitamento locale (quasi ovunque, ancora molto
accentuato).
Colpisce, comunque, la resilienza degli usi civici, molti dei quali superano indenni l’età napoleonica e la Restaurazione, e che ci sembra da connettere non tanto al tema dell’identità locale e alla lotta per la sua difesa,
ma alla strumentalità di tali diritti, che possono essere diversamente utilizzati dai gruppi di potere locali. È partendo da quest’ultimo punto che si
può comprendere l’attuale tentativo di rivitalizzare gli usi civici, e il sorgere di associazioni territoriali per la loro difesa, le quali possono fornire peraltro nuovi spunti ai modelli politici locali (come è dimostrato dal fatto
che molte Asbuc, Amministrazioni separate dei beni di uso civico, sono
nate proprio in concomitanza con le elezioni comunali).
1. La ricchezza delle comunanze
Il Novarese è per tutta l’età moderna un’area dotata di isole di proprietà
comunali rilevanti, in maniera antitetica rispetto al vicino Ducato di Milano, in cui nel Seicento le comunanze sembrano essersi estinte nelle comunità maggiori, tanto nell’area asciutta quanto in quella di pianura, nonostante il gran numero di «cassine» e di gruppi separati che agiscono in
questi territori. Allo stato attuale, manca comunque uno studio complessivo sulle comunanze nella Lombardia spagnola, il che complica notevol175
mente un discorso di carattere generale sul fenomeno (Roveda 1985; Roveda 1999; Roveda 2002; Mazzucchelli 1983; Zappa 1984).
La prima fondamentale distinzione da porre è comunque relativa allo
status giuridico dei beni, in particolar modo nei confronti del Principe.
Nella Lombardia spagnola le proprietà collettive erano intese come originariamente appartenenti al corpo comunitativo nel suo complesso. Di conseguenza, per poterne disporre era necessario ricorrere, alternativamente, a
due strumenti: il consensus omnium dei residenti (da ottenersi tramite riunione del sindacato dei capi di casa della comunità, con conseguente votazione); oppure ad una deroga del Senato che permettesse di evitare la prima, farraginosa procedura2. Questo metodo era richiesto non solo per
l’alienazione del bene ma anche nel caso in cui esso venisse impegnato come garanzia, il che avveniva sempre più di frequente sotto la spinta
dell’indebitamento comunale, che divenne dilagante nel corso del Seicento
(Faccini 1988; Colombo 2008a).
Nel Novarese, la proprietà collettiva era particolarmente forte, non solo
relativamente ai terreni ma anche per quanto riguarda strutture come forni
e mulini e per alcuni dazi di origine feudale, che le comunità maggiori del
contado avevano talora riscattato dai feudatari nel Quattrocento. Si trattava
di risorse che garantivano di solito un notevole gettito.
Prendiamo in considerazione le proprietà comunali delle cinque comunità più importanti del contado per popolazione ed estensione della superficie: Trecate, Borgomanero, Galliate, Oleggio, Romagnano; anche economicamente, si tratta dei borghi più rilevanti, sedi di mercato e talora di lavorazioni proto-industriali di rilievo (come quella del lino), oltre che più
influenti politicamente all’interno del Contado di Novara3.
Trecate nel 1679 possiede i dazi di osteria, beccaria, della pesa del pan
venale e la notaria civile e criminale, affittata da lungo tempo alla famiglia
Medici, un sesto del porto sul Ticino, due mulini, e «li fossi et refossi»,
utilizzati per estrarre concime. Le entrate erano pari a circa 3.000 lire nel
1665 (Asto-1, m. 15, 1679; Asn-1, not. Gio. Batta Medici, min. 3.973,
1656; Asn-2, b. 255, 1665).
La situazione è simile nelle altre quattro comunità. Borgomanero nel
1689 possiede sei mulini sull’Agogna, per un totale di sedici ruote e una
2. Il bene non era infatti considerato «civico», ma «comune», cioè riconducibile ai singoli membri della comunità. Sul punto cfr. Mannori 1994, 191, con alcuni riferimenti alla
situazione lombarda, tra cui una relazione di Enrico Roveda sui beni comunali del Ducato
di Milano rimasta inedita.
3. Il Contado era amministrato da cinque Sindaci, eletti a turno da sei squadre, cfr.
Gnemmi 1981, 350-351. Galliate e Trecate facevano parte di una stessa squadra, quella
del Ticino inferiore, e potevano quindi di regola eleggere solo un proprio sindaco per tornata.
176
pista, oltre ai forni, alle brughiere e ai boschi. Le entrate della comunità
sono pari per gli anni 1630-1665 a ben 304.631 lire complessive, cioè a
8.400 lire annue. Di queste, 3.000 lire derivano da forni e molini, ed il rimanente dai terreni comunali (Asn-2, b. 255, 1665; b. 302, 1689). A Galliate, nel 1698 appartengono alla comunità due mulini a tre ruote e uno
con quattro, sei forni, un tratto di pescagione sul Ticino affittato ai feudatari e ad alcuni privati, i dazi. Galliate dispone inoltre della «ragione di tenere nette le contrade di questa terra non potendo alcuno havere le immonditie che si trovano per le stesse contrade et questa regalia è sempre stata
di questa comunità, mentre essa s’è adossata il carico di far solare la stessa
contrada, e di farla reparare ogni volta che occorre». Le entrate, calcolate
per l’anno precedente, il 1697, sono assai cospicue, pari a oltre 23.000 lire,
di cui 6.355 da boschi (taglio e fitto), 4.534 da terreni (prato e brughiere),
1.252 dai dazi, 439 dal fitto della pescagione, 3.947 dai molini, 3.778 da
altri livelli di terre prative, 3.458 dai forni (Asm-1, b. 260, 1698). Oleggio
nel 1723 possiede cinque mulini, di cui quattro di tre ruote e uno di due, la
quarta parte del porto sul Ticino (un altro quarto appartiene a Lonate Pozzolo e due quarti sono dei marchesi Litta), le ragioni dei pesi e del terratico
dove si fa il mercato ogni lunedì, la misura della brenta (cioè la privativa
della misura del vino) e ben sette forni (Asm-2, b. 28, interrogationes del
18/10/1723). Infine, Romagnano nel 1723 era proprietaria di tre mulini da
macina (due di tre ruote e due di due), quattro forni, il dazio della brenta, la
ragione del peso e del terratico (cioè il diritto d’affitto della piazza per il mercato), nonché della barca che attraversava la Sesia (Asm-2, b. 40, fasc. 1, interrogatio del 28/2/1723 di Carlo Lorenzo Ruga, cancelliere della comunità).
Alla proprietà dei diritti si accompagnava quella della terra. È interessante osservare come la proprietà collettiva, in queste comunità, sia molto
più spiccata che nel resto delle campagne, dove le comunanze sono diffuse
ma in misura inferiore. Lo si può verificare confrontando la distribuzione
della proprietà terriera con quella delle campagne novaresi generalmente
considerate. Nelle cinque comunità di cui sopra i dati sono questi:
Tab. 1 - Distribuzione della proprietà nei centri minori del Novarese, 1602
Borgo
Borgomanero
Trecate
Romagnano
Oleggio
Galliate
Totale
Civile + eccl.
Rurale
Comunale
% comunale
1.431
4.330
2.953
3.860
3.209
15.783
26.191
20.046
5.629
29.892
19.983
101.741
5.315
15.579
12.466
13.595
8.490
55.445
16
39
59
29
27
32
Fonte: Colombo 2008a, 132
177
Dal confronto con il Novarese escono questi risultati:
Tab. 2 - Distribuzione della proprietà nei centri minori e nella provincia novarese, 1602
Area
Novarese
Cinque borghi
Civile + eccl.
55,2%
9,2%
Rurale
26,8%
58,8%
Comunale
18%
32%
Fonte: Colombo 2008a, 132
Come si può constatare, la distribuzione della proprietà fondiaria nei
cinque borghi maggiori è quasi antitetica rispetto a quella delle campagne.
Nel Novarese, a dominare è la grande proprietà nobiliare ed ecclesiastica,
che risulta più che doppia rispetto alla terra in mano ai rurali. I terreni comuni rappresentano in ogni caso una larga fetta del totale, soprattutto se si
considera che non sono compresi nella rilevazione luoghi di montagna (dove i beni collettivi sono tradizionalmente molto forti), ma solo di collina o
pianura. Le valli (Ossola, Valsesia) non facevano infatti parte del Contado
di Novara, così come le terre del Vergante, e non rientrano dunque nelle rilevazioni qui elaborate (che presero spunto dalla redenzione dall’infeudazione del Marchesato di Novara del 1602).
Nelle comunità maggiori, questi rapporti sono ribaltati. La distribuzione
della proprietà premia infatti i rurali, che detengono quasi il 60% della terra,
a discapito dei cives, che sono poco presenti. Le comunanze sono più diffuse
che nel resto delle campagne, raggiungendo il 32% sul totale dei terreni. Si è
visto come il possesso di beni collettivi rappresenti per queste comunità una
ricchezza notevole, portandole ad introitare ogni anno un notevole gettito.
Nel complesso, si riscontrano situazioni economiche e sociali molto diverse, con un «uso» altrettanto differente dei beni comunali. Da una parte,
si trovano realtà come Borgolavezzaro, in cui le comunanze avevano ormai
perso qualsiasi valore, perché la comunità si era spopolata, la terra dei privati era rimasta incolta ed era stata abbandonata, diventando di proprietà
comune (Colombo 2008a, 103-105). Dall’altra, comunità come Trecate,
Oleggio o Galliate emergevano economicamente proprio grazie a una gestione efficace dei beni comuni.
Prendiamo il caso di Trecate. Non c’è dubbio che la sua situazione economica, nella seconda metà del Seicento, apparisse meno florida che in precedenza, tanto che il suo status di comunità egemone del contado (conferitole
dalla maggior quota d’estimo e dal fatto di essere la sede delle congregazioni4)
4. Trecate era estimata in 82 cavalli di tassa contro i 63 di Oleggio, i 47 di Galliate, i 37
di Borgomanero, Colombo 2008a, 180. Questi valori erano però datati, in quanto si riferi-
178
era stato messo in discussione dalle rivali. La notificazione dei grani del
1678, ad esempio, mostra che la popolazione del borgo era scesa ad appena 2.350 bocche, meno di Galliate e Oleggio, e sugli stessi livelli di Borgomanero (Asn-2, b. 282, Summario breve della qualità e quantità delli
grani li quali si sono visitati per ordine di sua ecc.nza in ciascuna terra e
cassina della provintia novarese nelle case di ciascun habitatore et del numero delle bocche personali, 1678).
Sappiamo, tuttavia, che la proprietà collettiva rappresentò un importante
argine nei confronti della congiuntura, permettendo fra l’altro una più efficace gestione dei patrimoni privati. Si trattava di una gestione tipicamente
«imprenditoriale», che lasciava poco spazio agli usi civici. Invece, quasi
tutti i terreni e i dazi venivano incantati e affittati a privati. La riscossione
dei fitti era affidata al «caneparo», ovvero l’esattore comunale. Gli affitti
erano sia a denaro, per quel che concerne campi, sorti e prati, come a segale,
per diversi aratori. Nel corso del Seicento, il trend discendente degli affitti
era stato abbastanza netto: se nel 1629 la comunità raccoglieva complessivamente 14.539 lire, nel 1659 il gettito si era ridotto a 1.887 lire ricavate dai
campi, 5.602 lire dai prati e 61 moggia di segale dal fitto a grano, poi vendute per 737 lire (Asn-1, not. Gio. Francesco Medici, min. 2.383, Thesoreria di
Treca» per l’anno 1629; not. Gio. Batta Medici, min. 3.974, Bilanzo per la
scossa de» prati et campi, 5/3/1659).
Tuttavia, in questo periodo, alcuni tra i maggiori proprietari di Trecate
iniziarono ad affidare regolarmente le proprie possessioni alla comunità affinché le affittasse per loro conto. L’Imbula aveva così concesso la sua
possessione, la Milorta, a Trecate in cambio di 50 scudi annuali, e soprattutto del trasferimento al fittabile della «molestia de carichi che potranno
toccare a detti beni civili con la Città di Novara et il resto del fitto si trattenerà la Comunità». Negli anni Sessanta, anche i Caroelli avevano assegnato alla comunità il godimento della loro proprietà alla Mirabella, in cambio
del pagamento dei carichi (Asn-1, not. Gio. Batta Medici, min. 3.976, contratti del 20/10/1665 e 18/7/1666).
Ma il caso in cui questa strategia risulta più evidente è quello della famiglia Medici. I Medici sono i notai della comunità, e nel corso del Seicento, prima con Gio. Francesco e poi con Gio. Batta, assumono importanti cariche anche all’interno del contado. Inoltre, possiedono circa un decimo delle terre di Trecate, a cui hanno agganciato importanti esenzioni fiscali per i carichi straordinari, i più gravosi (in particolare, per quel che
riguarda gli alloggiamenti militari). I Medici sono «rurali», apparentemente non possono usufruire delle esenzioni fiscali, ma facendo leva su
vano a metà Cinquecento, epoca in cui fu stilato l’estimo di Carlo V da parte di Alessandro
Grasso.
179
uno specifico motivo di immunitas, la legge dei dodici figli, sono riusciti
a rendere esenti le loro terre5.
Questa condizione grava pesantemente sulla comunità, che è costretta a
spalmare un decimo del suo estimo sugli altri contribuenti, in un periodo
di crescita dell’imposizione fiscale. Come si lamenta Trecate nel 1641, «Il
territorio già de più fertili di detta Provincia quasi deserto, infruttuoso per
non coltivarsi, la Terra vota d’agricoltori, per non aver bestiame d’adoprare. Prosperano solo alcuni esenti fittabili e massari dei fratelli Medici e dei
padri Barnabiti» (Asm-5, b. 2091, supplica alla Regia camera del 1641). Il
Magistrato ordinario, poco dopo, dà parzialmente ragione alla comunità,
decidendo di far concorrere ai carichi i massari dei Medici in ragione del
bestiame posseduto.
Tuttavia, i carichi continuano a non essere pagati, finché alla fine degli anni Sessanta si arriva ad una transazione: i Medici concedono a
Trecate cinque loro grandi possessioni «che potesse detta Communità
goder il fitto delle possessioni de Signori Medici a bon conto delli carichi ad essi beni spettanti». Trecate incanta poi i terreni, esigendo che i
fittabili corrispondano come quota d’affitto le tasse dovute alla comunità (Asn-1, not. Gio. Batta Medici, min. 3.977, contratti del 26/5/1669
e 5/2/1669). La soluzione è ingegnosa, poiché attraverso il (momentaneo) passaggio del bene alla comunità si permette il pagamento delle
tasse (altrimenti difficoltoso o impossibile), liberando al contempo i
Medici da un onere gravoso.
Ciò che mi pare storiograficamente rilevante non sono però semplicemente le ragioni di una controtendenza e dunque una rivisitazione del tema
della crisi, ma il fatto che il comune si trasformi in imprenditore laddove il
«privato», e forse anche gli usi civici, falliscono.
Una cartina di tornasole attraverso cui guardare la questione è quella del
credito, e dunque dell’indebitamento: non è un caso che le comunità dotate
dei maggiori (e migliori) beni comunali fossero anche quelle con il livello
di indebitamento consolidato più elevato, dato che per attivare censi (strumenti di credito di natura ipotecaria) fornivano in garanzia proprietà. Debito e comunanze si tengono così strettamente, tanto che per poter ricevere
un prestito sotto forma di censo le comunità erano obbligate a richiedere
una deroga al Senato, oppure a ricorrere al consensus omnium.
5. «Per quali non alloggiano ne pagano carichi di sorte alcuna se non per lire tre soldi
quindeci per quali concorrono solamente alli alloggi pretendendo per il resto non esser tenuti come beni goduti al tempo della ottenuta immunità». Trecate lamenta che «si è mosso
lite nel Senato Eccellentissimo quale per anco per l’impotenza della comunità resta pendente», Asm-3, cart. 341/7, 28/2/1645. Sulla legge dei dodici figli (presente nella maggior parte
degli antichi regimi italiani) cfr. Monti 2003.
180
2. Dentro la comunità. Circolazione della proprietà e usi civici a
Grignasco
Da una parte, i beni comunali garantiscono dunque alle comunità una
sorta di proiezione sovra-locale. Dall’altra, però, la loro definizione è legata ad istituzioni che agiscono a livello fortemente contestualizzato, infracomunale, e che non è escluso che si «agglutinino» anch’esse in comunità
più o meno riconosciute dal contado o dalle magistrature centrali. I processi di definizione della comunità paiono così legati a contrasti più o meno
istituzionalizzati e risolti, e la cui storia si snoda invariabilmente sul lungo
periodo.
Solitamente, è anche una storia di separazioni fra differenti parti che
agiscono entro un comune amministrativo (rientrandovi a volte, a volte
uscendovi). Prenderemo qui di mira un panorama più ristretto di quello finora considerato, avvalendoci in particolar modo della documentazione recuperata nell’ambito dello Schedario storico-territoriale dei comuni piemontesi, un progetto finanziato dalla regione Piemonte avente lo scopo di
censire la struttura territoriale di ciascun comune della regione dal Medioevo ad oggi, e in cui la voce «comunanze» è stata ritenuta fondamentale per
la comprensione del territorio6.
Come è già stato sottolineato, anche di recente, i comuni della Valsesia
o posizionati subito ridosso ad essa rappresentano dei veri e propri contenitori di realtà territoriali tra loro staccate (Torre 2007b); nella seconda
metà del Settecento, ma poi soprattutto nel periodo delle inchieste napoleoniche sulle aggregazioni comunali, i vari paesi che la compongono si
dichiarano invariabilmente come indisponibili ad assorbire o ad aggregarsi ad altri comuni, per la semplice ragione che essi stessi sono già una
somma di comunità diverse. Questa artificialità, comunque, non è altro
che un ulteriore mezzo per gestire in comune le risorse: per esempio, in
Valduggia, nel 1927 si costituiscono ben undici consorzi di servizi fra
«ville», che fanno capo ai due lati della valle, funzionanti tutti all’interno
dello stesso comune.
Grignasco, paese all’imbocco della Valsesia (ma che non fa parte
dell’Universitas valsesiana, ne è anzi il primo paese escluso a fondovalle)
«confina» con Valduggia. L’uso delle virgolette è obbligatorio; i confini
sono infatti continuamente mobili, non solo e non tanto per questioni pure
e semplici di ridefinizione del tratto, ma a causa delle continue mutazioni
territoriali di cui sono protagoniste piccole frazioni, che passano ora
all’una ora all’altra comunità.
6. Parte dello Schedario è disponibile su www.regionepiemonte.it/cultura/guarini/schede.
Cfr. Bordone, Guglielmotti, Lombardini, Torre 2007.
181
La gestione dei beni comuni è all’origine delle pratiche di confinazione,
non solo, ma anche e soprattutto di quelle di separazione-(ri)aggregazione
tra comunità. In particolare, le vicissitudini riguardano il rapporto tra Grignasco e Ara, ma potrebbero essere riferite con un minimo di scavo archivistico ad una qualsiasi delle «cassine» che tempestano questi territori.
Grignasco e Ara sono protagoniste di una vicenda piuttosto accidentata. La
separazione in due comunità è formalizzata nel 1649, attraverso la scissione in due dell’estimo e il raggiungimento di alcuni accordi sui beni comunali. Il più importante di questi ultimi, il bosco del Teso, non viene in
realtà «confinato», ma si raggiunge un accordo determinato dalla necessità
di conservare gli usi civici. La formula che viene utilizzata per definirlo in
periodo napoleonico è solo apparentemente ambigua: «possiede [il comune] d’Ara per una sesta parte in comunione il bosco denominato del Teso,
e concorre per sesto al pagamento del camparo» (Asn-3, b. 552, risposta
del comune al prefetto relativamente alla proposta di aggregazione dei comuni di seconda e terza classe, 23/9/1807). Possedere per un sesto ma in
comunione significa infatti poter godere di un sesto del bosco per gli usi
civici, il quale continuò perciò a rimanere in comproprietà fino almeno al
1837 (Asg-1, m. 46, fasc. Appuntamenti tra la comunità di Grignasco e
quella di Ara relativamente ai rispettivi diritti sul bosco denominato Teso
in territorio di Grignasco del 5/4/1837). Si trattava di «un vasto tenimento
boschivo da taglio, dal quale ogni anno sogliono formarsi sei squadre, cinque della quali si ritengono dalla Communità di Grignasco si subdividono
annualmente fra suoi terrieri, e la sesta delle squadre estratta a sorte viene
assegnata ogni anno alla detta Communità di Ara, la quale suole affittarla
per profitto del suo registro» (Asg-2, b. 29, supplica di Ara all’Intendenza,
s.d. ma 1778).
Sia Ara che Grignasco utilizzavano, in genere, lo stesso sistema di riparto. Il bosco era suddiviso ogni anno in una serie di lotti da distribuirsi fra
tutti i comunisti «a cui non anno rinunciato» (Asn-4, b. 392, fasc. Bosco
comunale detto del Teso e pratiche relative, Sunto del verbale di deliberamento per la vendita di n. 236 porzioni di taglio di bosco, 1849). Il sistema
viene confermato in seguito dalla stessa intendenza sabauda, la quale concede di «addivenire ogni anno alla distribuzione dello strammatico e ramatico che produce il bosco comunale denominato del Teso, maturo d’anni
sei in quanto al ramatico, e di tre in quanto allo stramatico, a tutti questi
comunisti maggiori d’anni sette, mediante il pagamento di lire una per cadauna testa; ed autorizzata pure col predetto decreto di accettare la rinuncia di coloro che non vogliono usufruire di tali distribuzioni e così andar
esenti dal relativo pagamento, per cui la parte del ramatico e strammatico
che apparterebbe ai rinuncianti resta a favore del comune, di quale il medesimo in ogni anno procede alla vendita, divisa in tante porzioni quante
sono le persone che ebbero a rinunciare». Seguendo questo metodo, nel
182
1849 avevano rinunciato al loro diritto di sfruttamento ben 236 comunisti,
da cui si erano formate altrettante porzioni di bosco da taglio da vendere.
Il comune aveva stilato un elenco di famiglie povere (66 nel 1850) che erano state esentate dal «cotizzo» del teso, che cioè non dovevano pagare la
lira per l’usufrutto del bosco ma vi erano automaticamente ammesse. Ara
organizzava una «distribuzione fuocolare» dello scalvo e dello strame assai
simile (Asn-4, b. 392, atto di congrega del consiglio delegato della comunità di Grignasco del 15/10/1849).
Ma, come si accennava prima, il metodo di spartizione-lottizzazione
dei beni comunali serve anche a gestire il rapporto tra le varie «cassine»,
cioè i territori che compongono la comunità di Grignasco. Il continuo fenomeno di ricomposizione territoriale, attraverso la formalizzazione della
pratica delle usurpazioni, permette anche di spiegare un’apparente aporia, ovvero la scarsa quantità di beni comunali segnalati per Grignasco
nel Seicento. Nella rilevazione del 1602, essi sono pari ad appena 241
pertiche novaresi a fronte delle 3.648 appartenenti ai rurali e alle 291
dell’estimo ecclesiastico.
Negli statuti, le «cassine» sono accusate di essere particolarmente bellicose, addirittura più degli uomini di Ara (a cui le si paragonano): «dicti
homines de Ara magis servant ordines in communitate compilatos quam
ipsi capsinarum incolae» (Ordini e bandi 1992, 83). In effetti, gli abitanti
di queste «cassine» si espandono a spese del borgo a partire dal Cinquecento, usurpando beni comunali.
A fronte dell’impossibilità di arrestare il fenomeno, la comunità sceglie
di formalizzare e di riconoscere in un qualche modo la pratica. Già nel
1576, gli «agenti» del comune decidono di obbligare gli usurpatori ad abbandonare il terreno oppure ad allivellarlo, assegnandolo cioè con un canone ad longum tempus: «Cum agentes communis Grignaschi agri Novariensis viderent bona comunia a pluribus occupari ac detineri in grave dicti comunis damnum anno 1576 congregatis omnibus elegerunt quatuor ex ipsis
hominibus qui conoscere deberent usurpatores, et illos cogerent ad relaxadum vel se ad investiendum ad fictum temporale solvendum ipsi communitati» (Asm-6, b. 37). In seguito, la comunità compila periodicamente dei
quinternetti di beni usurpati, i cui nuovi possessori devono limitarsi a presentarsi presso il podestà di Romagnano e pagare una somma chiamata
«tassa fatta per li beni comuni» per diventarne legittimi proprietari. Ciò
portò ad un’enorme diffusione delle usurpazioni, diventate così il più importante sistema di circolazione della proprietà fondiaria all’interno della
comunità. L’erosione dei beni comunali premia apparentemente il possesso
privato, ma è in realtà leggibile nei termini di un’efficace contrapposizione
delle «cassine» al borgo.
I capifamiglia delle «cassine» gestivano infatti il pascolo degli animali e
si erano ritrovati fortemente danneggiati dagli ordini del 1608. La forte
183
protezione accordata alle coltivazioni rispetto al pascolo favoriva il borgo
a discapito delle «cassine». Il fatto è denunciato negli stessi ordini, che si
diffondono a lungo sulla contrapposizione con le «cassine»: «avendo la
Comunità il suo censo per la maggior parte nel vino che viene prodotto
tanto dalle viti in pianura, quanto da quelle sui colli, si ritenne opportuno
di aver cura di tutti i boschi per poter sostenere le stesse viti. Se fosse stato concesso agli abitanti delle cassine di avvicinarsi ai boschi in questione, di tenere pecore al pascolo e di usare degli stessi boschi, essi sarebbero andati completamente distrutti. Perciò si ritenne opportuno e conveniente che dallo stesso comune fossero eliminate pressoché tutte le pecore, affinché gli abitanti delle cassine non fossero, con pregiudizio della
terra di Grignasco, in una condizione privilegiata, dato che gli stessi abitanti possiedono anche la maggior parte del vino, dal momento che le vigne sono piantate sui colli, piuttosto che nella terra di Grignasco. Tale stato di cose non deve essere confermato dalle loro false preghiere, sotto il
pretesto che non hanno di che pagare gli oneri camerali né di che vestirsi,
poiché la verità è esattamente il contrario in quanto gli stessi abitanti delle cassine, per la maggior parte, sono più ricchi degli uomini della terra di
Grignasco».
Secondo gli estensori degli ordini, i pascoli per le pecore non potevano
essere mantenuti così come erano, poiché già erano troppi quelli per le
vacche. Di fatto, però, emerge con chiarezza che gli unici beni comunali
veramente riconosciuti sono quelli del borgo, che infatti si trovano lontano
dalle «cassine»: «Parimenti non si conceda di mantenere tale stato di cose
per il fatto che dicono di essere distanti dalle pianure comuni, poiché tutte
le colline della stessa comunità possono essere pascolate dalle mucche e
gli stessi abitanti delle cassine possiedono un numero maggiore di mucche
rispetto alla terra di Grignasco, essi nuotano nell’abbondanza, come si dice
volgarmente, rispetto alla terra di Grignasco» (Ordini e bandi 1992, 8385). Le usurpazioni si rivolgono probabilmente e preferibilmente proprio
alle «pianure» di cui qui si parla, e nascondono dunque un processo di ridefinizione territoriale favorevole alle «cassine».
In ogni caso, pare evidente che gli statuti cercano qui di normare una situazione che è già largamente sfuggita di mano alla comunità, se già nel
1576, come si è visto, si era affermata la possibilità da parte dei privati di
allivellare i beni comunali da loro precedentemente usurpati. Questo peculiare sistema di scambio fondato sulle usurpazioni cessa nel 1676, quando
di fronte ad una pratica ormai sempre più generalizzata, la comunità decide di troncarla per mezzo di una ridistribuzione generale e affidata al sorteggio delle terre.
Un sindacato dei capi di casa della comunità, infatti, stabilisce «come
da diversi particolari et uomini tanto delle cassine come di questa terra
sia statta usurpata e ridotta a coltura, et in altra forma buona parte de
184
boschi comuni detti Boginosa, et Crugnola, et altri in grandissimo pregiuditio della comunità onde per levare un tal abuso hanno stimato spediente li sodetti congregati a fare che ognuno habbia d’havere qualche
portione ripartitamente, et essendo nata controversia sopra la forma del
riparto» (Asm-6, Sindacato generale di tutti i capi di casa del 3/5/1676)
si decideva di ripartire le terre usurpate focolatim, cioè in parti uguali
tra le famiglie, non seguendo dunque l’estimo (in base al quale avrebbe
dovuto ricevere una quantità maggiore di terreni chi era maggiormente
tassato).
3. La gestione degli usurpi a Ghemme e Romagnano
Nelle comunità circostanti la gestione degli usurpi non funzionava in
maniera dissimile da Grignasco, ma era molto più sfumata, tanto che non
vi fu un’erosione significativa dei beni comunali. Lo stesso uso delle
«sorti», quando praticato, non implicava la privatizzazione dei beni come
a Grignasco ma si riferiva piuttosto ad una divisione delle utilità dei beni
civici.
La comunità di Romagnano aveva norme molto precise per l’utilizzo dei
boschi che prevedevano la possibilità di raccogliere legna e strame solo
dopo la data stabilita dai consiglieri: il tenso veniva cioè «stansato» o
«stensato», oppure «allargato», o ancora «aperto», sempre però in alcune
zone ben determinate sulla base di una rotazione su più anni che consentiva la ricrescita delle piante: «Stansano esso boscho et danno autorità a
ogni et qualsivoglia persona di Romagnano di poter andare per tutto il lunedì et martedì prossimi… solamente in una parte di esso boscho addimandata il Streigo qual comincia dalla strada che va a Maggiora in là et
possi andarvi chi voglia a boschare per quelli duoi giorni et passati per altri otto giorni prossimi a venire una altra parte d’esso boscho di là di Strona». Non solo veniva stabilita la zona utilizzabile ma anche la modalità di
fruizione: «non ci possino andare più di duoi per casa et con patto che niuno ardisca tagliare cerroni et legna da bruciare ma solo boscho da far le vigne», ed ancora i «lavoranti quali ciascuno piacerà mettere nelli detti otto
giorni sia tenuto notificarli nelle mani di Antonio Genesi canzelliero…
avertendo ancora che li duoi lavoranti concessi andare si intendono tra tagliar boscho et strame et non duoi a tagliar boscho et duoi strame… et passati li prefissi otto giorni ve ne vaddino tanti quanti vogliano et niuno possi
appropiarsi alcun luogo particolare et motto ma sij commune in tutto et per
tutto» (Asro-1,11 novembre 1609) mentre a Ghemme si escludeva «persona alcuna forastiera ancorché habbitante in Ghemme per meno di 50 anni
né a Gentilhuomini di sorte alcuna né ad Ecclesiastici alcuni ma solamente
alli terreri nativi» (Asn-1, not. Gerolamo Albertino Testa, min. 7685, atto
185
8 agosto 1625. Alcuni nobili residenti a Ghemme si opposero alle disposizioni emanate durante il sindacato).
Prescrizioni così ferree non impedivano il funzionamento di usi civici
sui «finaggi» condivisi con altre comunità confinanti, ovvero Gattinara e
Cavallirio, i cui abitanti possono utilizzare i terreni per il taglio dello strame come lavoranti «a giornata» ma non «a metà». Anche a Romagnano e
a Ghemme, il fenomeno dei roncamenti abusivi era continuo e per tutta
l’età moderna si assiste al tentativo di normare il fenomeno.
A Ghemme, considerato che molti beni comuni «zonchata et diserbiata
sint… et reducta ad culturam», con i conseguenti danni per il pascolo, la
raccolta del brugo e soprattutto della legna per le vigne, si vietarono nel
1546 i roncamenti nelle baragge oltre la Strona affinché rimanessero incolti e gerbidi7.
A Romagnano negli stessi anni scoppiò una lunga lite fra gli abitanti
nella quale dovette intervenire Benedetto Lango, auditore del marchese di
Romagnano: egli, «oldito et inteso deligentementi la diferentia vertesse tra
li homini di Romagnano per causa delli beni sono stati ronchati et cultivati
sopra la baraza di Romagnano qual prima erano zerbidi et barazia di Romagnano et hora sono redutto a cultura», ordinò che fossero restituiti alla
forma comune oppure che ne fosse pagato il valore «et per lo avenire che
niuno habitanti in Romagnano ardischa di ronchare ne cultivare più beni
sopra la detta barazia» (Asn-1, not. Giovanni Filippo Baliotti, min. 171,
atto 14 novembre 1560). Fu quindi eletto un perito estimatore per stabilire il
valore dei terreni occupati abusivamente e furono posti dei termini in pietra
affinché fosse ben indicato dove vi erano le comunanze. Si stabilì anche che
«le isole di Sexia et altri loci vicini alla terra che non sono sopra la barazia
debano restare comuni per pascolo et che niuno li habia ad ocupare ne apropriarseli». Gli «Ordini per il buon governo» del 1600 furono molto espliciti
al riguardo: «E qualunque ardirà coltivare, o come si suol dire, roncare beni
comuni senza licenza delli Consiglieri in scritto, e se non sarà terrero¸ senza
licenza della università» sarebbe incorso nella multa di uno scudo ogni staio
di terra se in un unico lotto, «e se manco, de scudi duoi per ogni pezzo, che
si trovarà avere cominciato a roncare», oltre all’obbligo di «spianare detto
terreno a sue spese». Le pene erano quadruplicate se il roncamento era avvenuto «nell’Isoloni, o nell’usurano» alla Sesia8. Infine coloro che erano stati
autorizzati a dissodare dovevano comunque notificare a S. Martino la quantità di terreno lavorato e la qualità «a qual intendi redurre detto terreno»9.
7. Non era lecito tagliare legna per farne carbone né portarla fuori dal territorio. Ai contravventori si applicava una ammenda di 2 scudi.
8. Si tratta di due aree del territorio vicino al fiume.
9. In modo da poter attribuire il corretto estimo per il pagamento delle tasse, che dipendeva da quantità e qualità (vigna, arabile, prato, ecc.).
186
Ancora nel 1614, nonostante le regole e le gravi sanzioni minacciate, si
dovettero «avisar tutti li particolari che hanno da poco tempo in qua ridotto
li campi a viti siano obligati notificare tutta la vera quantità et qualità di tali beni in mano del cancelliero acciò si possi accomodar l’estimo et ridurli
da campo a vigna et questo sotto pena di scudi sei per caduno particolare
ricusarà notificare et di far misurare tai beni a sue spese»10.
Qualche anno dopo a Ghemme il sindacato generale osservò come
«l’haver levato, et prohibito a gli huomini della terra il roncare, et ridurre a
vigna, e coltura le terre comunali et boscho de beni comunali conforme si
era fatto per il passato si è trovato et visto resultare in danno notabile et
evidentissimo delli huomini della terra, et in particolare delli più poveri,
come l’esperienza ha insegnato con molte tempeste sopravenute et altre
cause». Per questo permisero che si potesse «novamente roncare et appropriarsi dei beni comunali… per moggia cinque per caduno et più, et redurle a vigna, campo et prato pagando li carichi… senza alcun livello, anzi si
habbi da levare il livello posto alli altri beni già ronchati et appresi dal Comune». Il permesso di roncare era concesso per un anno «doppo l’haverà
preso et che non possi pigliare di detto boscho per il detto effetto senza
l’intervento et presenza delli consoli aciò si possi desegnare la quantità voranno pigliare et appropriarsi» (Asn-1, not. Gerolamo Albertino Testa,
min. 7685, atto 8 agosto 1625).
Dal 1673 in poi si decise di affittare una parte del bosco a ciascun particolare censito, usando il ricavato per pagare i debiti camerali, secondo precise norme di utilizzo: «si debba spazar detto boscho de ogni uno, et particolari che s’affitterà… in detto affittato ogni anno sij patrone di fare il strame, et tutto quello havrà di bisogno»; tutti gli affittuari potevano «roncare
ogni uno la quantità di detto boscho doppo però che sarà tagliato, pagando
ogni anno alla Comunità soldi venti per ciascun moggia roncherà, questo
sij per anni tre prossimi, et passati li detti tre anni la Comunità debbe, et
possi censire li detti beni ronchati in quella forma si ritrovaranno» (Asgh-1,
b. 12 fasc. 9). Dopo nove anni si preferì tornare al sistema antico, ma nel
1700 i consiglieri lamentavano che la libertà veniva «fatta abuso da alcuni,
che essendo scarsi di beni si fanno lecito l’usurparsi» i boschi a tal punto
che i vignaioli «sono hormai in stato d’andar fuori del territorio a comprar
legnami per far le viti nonostante, che detto territorio sia dotato a sufficienza de» boschi, quando se ne servissero con maniera, et regola». Si tornò al
sistema dell’affitto novennale in lotti sulla base dell’estimo, con la condi10. «Di più si è ordinato et stabilito per levar ogni inconveniente et danni publichi che
niuno possi pascolar con bestie in giorno di lavoro et festa nella campagna et vigne salvo
quelli che tali bestie condurranno con occasione di lavorar suoi beni et questo sotto pena di
mezzo scudo per caduna bestia et per caduna volta oltre la restauracione del danno», Asn-1,
not. Antonio Genesi, min. 7701, atto 27 giugno 1614.
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zione che i pascoli restassero comuni e che «niuno possa roncare, né ridurre
a coltura, sì come espressamente prohibito a chi si sia il poter vendere a forastieri alcuna sorte di detti boschi, né strame, ma solamente a loro beneficio» e che tutti se ne servissero «moderatamente» (Asgh-1, b. 12 fasc. 11).
La quantità di bosco stabilita per l’affitto era di 3 staia e 4 tavole ogni denaro d’estimo al fitto annuo di un soldo per staia. Il sistema era semplice: il
cancelliere rilasciava dei biglietti certificanti l’estimo che venivano mischiati
in un cappello e così si sorteggiavano i vari lotti, con l’unica condizione che
non si potesse affittare un lotto confinante con un proprio terreno.
Due anni più tardi si decise l’affitto anche del bosco alla Sesia detto il Giarone per circa 186 moggia, divisi in 60 partire oscillanti fra una e sei moggia,
che dovevano essere divise alla rata dell’estimo: «ad estimo dividere, et darlo
a chi ne vorà alla rata del loro estimo reale, e personale»11. La Comunità si riservò sei moggia al centro dei lotti. Anche in questo caso si garantì il pascolo
comune, e così pure l’utilizzo di ciottoli e sabbia. Era severamente vietato roncare ed i lotti dovevano rimanere a bosco «in particolare vicino alla Sesia allevar le piante grandi per diffesa del territorio, et occorendo tagliarsi tali piante
tagliarle alte da terra circa duoi brazza» (Asgh-1, b. 13 fasc. 2) [vedi fig. 1].
Con il passaggio al Piemonte l’Intendenza di Novara iniziò a disporre
nuove regole per l’utilizzo dei beni comuni, cercando di incrementare l’uso
dell’affitto in lotti, che permetteva di ricavare un’entrata annua da destinarsi all’estinzione del debito della comunità12. Con l’affitto del 1757 l’intendente dispose di riservare 500 moggia di boschi a tale finalità, ma i Ghemmesi fecero osservare come le moggia di bosco che rimanevano a disposizione degli abitanti erano solo 200 perché vi erano «ben vaste intercalate
piazze di pura brughiera», con una riduzione per abitante da dieci a sei
staia. La riduzione avrebbe acuito la dipendenza dagli altri paesi, soprattutto da Lenta dove già si rifornivano molti, per la necessità dei «sarri» (pali)
per le vigne, con notevole aggravio di spesa per i viticoltori. Si propose invece di portare la vecchia tassa d’affitto da 8 a 10 soldi il moggio così da
garantire un maggior gettito, da 660 lire a 830 lire (aumento del 25%) annue (Asgh-2, 10 ottobre 1754).
Non c’è dubbio che le prescrizioni ma soprattutto le strategie adottate
nei casi di Ghemme e Romagnano abbiano favorito la conservazione dei
beni comunali rispetto a Grignasco, dove gli usurpi si erano trasformati in
11. La comunità fu autorizzata dal Magistrato Ordinario il 22 marzo (Asgh-1, cart. 6 fasc. 4, cart. 10 fasc. 8 e cart. 13 fasc. 1). Il ricorso al Magistrato veniva ritenuto necessario per
evitare che «qualche bizzaro ingegno, o sij mal contento possa contastare al comune parere
con qualche inconvenienza», come fu evidenziato nel 1700 (Asgh-1, cart. 12 fasc. 11).
12. Questa pratica portò in seguito, particolarmente a partire dal periodo napoleonico e
poi nell’Ottocento, alla vendita dei boschi e delle brughiere in lotti proprio per diminuire i
debiti comunali.
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Fig. 1 - Divisione della Sesia in lotti secondo l’estimo, 1702
Fonte: Asgh-1, b. 13 fasc. 2
un vero e proprio sistema di circolazione della proprietà fondiaria, fino a
cambiare il senso stesso degli usi civici. «Il partito comunale» resiste invece qui molto più validamente, nonostante analoghi fenomeni di scissione
territoriale e la presenza di molte «cassine». In effetti, andrebbero meglio
studiati i processi di scomposizione territoriale, e dietro ad essi, il funzionamento degli usi civici e più in generale degli scambi per comprendere le
ragioni di una simile differenza in comunità limitrofe.
4. Conclusioni
I casi presentati insistono dunque su diverse tipologie di gestione, mostrando la flessibilità nell’uso delle risorse e la loro strumentalità. Da un
lato, emerge il tema della comunità come impresa, che assume in gestione
possessioni di privati e poi le affitta per suo conto. Anche entro questo caso,
che all’apparenza si presenta funzionale a «scelte economiche», preme però
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l’insistenza di un «partito comunale» in conflitto con i maggiori proprietari
del luogo, la famiglia Medici (legata al notariato e all’occupazione di ruoli
chiave nel contado). Il processo qui in atto contempla dunque la «comunalizzazione» delle terre, senza però che siano assegnati di norma usi civici
su tali terreni.
Un meccanismo quasi opposto è in atto a Grignasco nel Seicento, allorché attraverso gli usurpi si privatizzano le terre prima comuni. In questo
caso, gli statuti della comunità rappresentano chiaramente il «programma»
di una parte politica, ferocemente contraria ad un’altra, individuata nelle
«cassine» che costellano il territorio e in cui vivono gli usurpatori. Si deve
peraltro osservare, di sfuggita, che il mantenimento degli usi civici, per
esempio relativamente al pascolo, è molto più probabile in questo caso che
non in quello della comunità-impresa, nonostante qui si privatizzi e di là si
comunalizzi. Infatti, dietro al processo che si realizza a Grignasco è leggibile più l’esito politico di un fenomeno di scomposizione territoriale, che
non un semplice tentativo di privatizzare delle terre a vantaggio meramente
individuale. Resta però da capire l’uso effettivo fatto dalle «cassine» dei
terreni usurpati.
In generale, comunque, emerge chiaramente che una pura e semplice divisione tra proprietà privata e pubblica appare davvero poco funzionale
all’analisi. Le differenti strategie d’uso delle risorse, infatti, invitano piuttosto a riflettere sulle parti politiche presenti nella comunità; sui fenomeni
di scomposizione e ricomposizione territoriale; e, infine, sul tema dei «corpi» (naturalmente, questi argomenti sono tra loro legati).
Possono infatti esserci diverse situazioni intermedie: non mi riferisco
tanto alle comproprietà pubbliche, ma all’esistenza di numerose istituzioni proprietarie di beni all’interno della comunità, che gestiscono in
indiviso, assegnando usi civici ai loro componenti. Non sempre la storia
di questi corpi coincide con quella della comunità, anche se è indubbio
che contribuisca a formarla: basti pensare alle confrarie piuttosto che
alle confraternite, che non a caso sono assai diffuse in alcune comunità
dove esiste un articolato sistema di gestione dei beni comunali (penso in
particolare a Gambolò, Colombo 2005). A sua volta, naturalmente, questi «corpi» sono la rappresentanza di gruppi d’interessi e di «parti territoriali».
Da questo angolo visuale, si può intravedere la possibilità di una diversa
storia della carità, interpretabile nei termini della creazione di corpi per la
gestione di risorse, ma anche viceversa: nel senso che l’attivazione di determinate ricchezze (le utilità degli usi civici, ma anche il management comunale) si deve probabilmente proprio grazie all’azione delle istituzioni
locali.
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Riferimenti archivistici
Asg
Asgh
Asm
Asn
Asro
Asto
Archivio storico-civico di Grignasco
Archivio storico-civico di Ghemme
Archivio di Stato di Milano
Archivio di Stato di Novara
Archivio storico-civico di Romagnano
Archivio di Stato di Torino
Asg-1: Asg, I serie
Asg-2: Asg, Sezione Archivio storico di Ara, I serie
Asgh-1: Asgh, Archivio Storico del Comune di Ghemme
Asgh-2: Asgh, Ordinati
Asm-1: Asm, Feudi Camerali p.a
Asm-2: Asm, Confini parti cedute
Asm-3: Asm, Esenzioni
Asm-5: Asm, Censo p.a.
Asm-6: Asm, Senato, Deroghe giudiziarie per corpi e comunità
Asn-1: Asn, Notarile
Asn-2: Asn, Contado di Novara
Asn-3: Asn, Prefettura dell’Agogna
Asn-4: Asn, Intendenza Generale
Asro-1: Asro, Ordinati
Asto-1: Asto, Corte, Paesi, Paesi Nuovo Acquisto
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