INDICE
p. 11
11
15
33
Introduzione
LA CONFIGURATIVITÀ TERRITORIALE, BENE COMUNE
Angelo Turco
1. Stare al mondo, abitare la terra: il senso della
territorialità
2. Configurazioni della territorialità: il mondo
nuovo
3. Configuratività territoriale, bene comune
43
Parte prima
VERSO UNA GEOGRAFIA DEI BENI COMUNI
45
1. AVVENTURE DEL LINGUAGGIO: BENI COMUNI
Donella Antelmi
1. Per cominciare
2. Discorso: oggetto e metodo
3. Formula
4. Beni comuni, bene comune
5. Piccola disgressione
6. Origini e attualità del discorso sui commons:
tragedie, soluzioni, retoriche
7. Digressione seconda: uno sguardo alle origini
8. Conclusioni
45
47
51
55
59
63
68
72
75
75
80
2. TERRITORIALITÀ E COMUNITÀ: ECHI D’AFRICA
Angelo Turco
1. Fondazioni territoriali e spirito comunitario
nelle culture d’Africa
2. Nu bofi: la terra proibita
Indice
6
87
p. 102
3. Enb ajukru: la comunità è il territorio
4. Tessiture: la trama territoriale, l’ordito
comunitario
105
Parte seconda
TRAIETTORIE CONFIGURATIVE
107
107
109
110
113
115
119
3. IL PAESAGGIO, BENE COMUNE
Marco Maggioli
1. Siamo nel paesaggio
2. Paesaggio capitale comunicativo
3. Ambiguità
4. Memorie
5. Sguardi e narrazioni
6. Paesaggio come spazio pubblico e del benessere
123
4. PAESAGGIO, CONFLITTI INTERCONFIGURATIVI E
NUOVE MAPPE ATTORIALI
123
130
134
138
141
143
146
149
Marco Maggioli
1. Diritti fondamentali, territorialità configurativa, energia eolica
2. Legalità e quantità
3. Politiche
4. Razionalità, legalità, legittimità
5. Paesaggi
6. La sentenza del Monte Mindino
7. Nuove mappe attoriali
149
155
170
176
183
5. IL LUOGO, BENE COMUNE
Angelo Turco
1. Un posto chiamato luogo
2. Un antico motivo ecumenale
3. Modernità ed eclisse della ragione topica
4. Topogenesi e complessità
5. Bene comune, beni comuni
187
6. CITY TURISM: L’ATTRATIVITÀ URBANA COME
TOPOGENESI
187
Angelo Turco
1. Un mondo senza luoghi: verso una
geografia dell’omologazione?
Indice
193
p. 202
213
213
214
221
226
231
231
233
238
246
254
256
266
274
276
2. Eu também: se venite a Lisbona
3. Frugal traveler: se venite a Shanghai
7. L’AMBIENTE, BENE COMUNE
Claudio Arbore
1. La Sindrome di Istanbul
2. “É morto un albero, si è svegliata una nazione”
3. Una nuova luta per le foreste di Colbuiá
4. Ambiente come bene comune: un nuovo
paradigma ambientalista?
8. LA CASA COMUNE. ANIMALI CHE AIUTANO GLI UOMINI
AD AIUTARE GLI ANIMALI
Berardina Clemente, Angelo Turco
1. La casa comune
2. Veleni e Antidoti
3. Progetto Antidoto: un piano di comunicazione
partecipativa
4. L’indagine sugli stakeholders: metodologia
5. L’indagine sugli stakeholders: svolgimento
6. Risultati dell’indagine
7. Valutazioni e proposte degli stakeholders
8. Costruire un percorso partecipativo nella
comunicazione pubblica
9. Modello di prevenzione durevole dell’uso
illegale del veleno
287
289
290
Indice delle figure
Indice delle tabelle
Indice dei riquadri
291
Autori
7
5
IL LUOGO, BENE COMUNE
Angelo Turco
1. Un posto chiamato luogo
Ci sono tanti posti sulla Terra. Infiniti posti in cui si svolge l’azione
umana: trasformando la natura, costruendo territorio e plasmandone incessantemente le configurazioni. Positus, qualcosa che è collocato, fissato: un oggetto, un evento, un insediamento demico, dal
villaggio alla città, una installazione produttiva, un elemento fisiconaturale. Qualcosa che occupa un sito, che sta da qualche parte. Rispetto a uno spazio astratto, a una pura estensione metrica, a una
totalità indifferenziata come poteva essere per l’uomo la primitiva
superficie terrestre, ecco, l’agire territoriale mette in moto dei processi di specificazione: più propriamente dei dispositivi di differenziazione spaziale che individualizzano un posto rispetto a un altro.
La forma più elementare, e proprio per questo più universale di differenziazione ha carattere referenziale: il dispositivo “lavora” fissando posizioni, quali che siano i contenuti posizionati. Possiamo
dire che uno spazio dotato di riferimento nel quale trova posto un
contenuto è una località e il processo che la origina e ne accompagna l’evoluzione è una localizzazione.
Tutto molto semplice. Alla portata dell’esperienza di ognuno. E
concettualizzato da tempo immemoriale. In effetti, tutto ciò di cui
stiamo parlando si inscrive in un argomentario di tipo aristotelico.
La località è facilmente riconducibile al topos dello stagirita (Fisica),
di cui può, anzi, rappresentare una declinazione categoriale svolta dal
punto di vista geografico1. Topos designa dunque una modalità ele1 E quindi incorporata nel processo di territorializzazione, vale a dire l’insieme
delle procedure materiali, simboliche, organizzative messe in atto dall’uomo per
trasformare la superficie terrestre. È questo agire territoriale che fa la differenza
tra “stare al mondo” ed “abitare la terra”. Ed è questo agire territoriale, declina-
150
ANGELO TURCO
mentare del rapporto tra contenente e contenuto e, in specie, la
porzione di spazio occupata da qualcosa: più propriamente, da una
sostanza che può essere un oggetto (come viene immediatamente da
pensare), come pure un evento o, in modo più sofisticato, un processo.
Ma il tipo di posto di cui vogliamo ora parlare è un altro: e conveniamo di chiamarlo “luogo”. Intanto diciamo che, per restare
nell’ambito della tradizione occidentale, di un posto peculiare chiamato “luogo” ritroviamo concettualizzazione nel dialogo platonico
Timeo, con riferimento all’idea di chora2. Assumendo anche qui un
punto di vista peculiarmente geografico, diciamo che la riflessione
platonica, una volta indicata come “cosmo“ una totalità “spaziale”
finalmente pensabile dall’uomo3, si pone come questione – e non
come puro dato empirico – l’azione che in essa l’uomo stesso è chiamato – o intenzionato – a svolgere. Platone porta un contributo forte a una visione generale della geografia, ponendosi con ciò sulla
scia rivendicata da F. Farinelli di una riflessione che, ben prima di
Socrate, si costituisce come filosofica perché pensa problematicamente la geografia4: vale a dire il fatto di “abitare la terra” come cosa profondamente diversa dal semplice “stare al mondo”. Platone
dunque, con chora, getta i fondamenti di una teoria del comportamento spaziale dell’uomo e delle società. E in via preliminare, di là
da ogni pur facile intuizione, scruta i principi che regolano le localizzazioni e le logiche soggiacenti. Ora, le localizzazioni sono in linea
generale infinite, e possono darsi per contingenza storica o per i
motivi circostanziali più diversi (opportunità, accessibilità, ottenito nelle sue dimensioni ontologiche, costitutive, configurative, che individualizza, tra molti modi di essere, “l’essere umani sulla terra”, secondo l’espressione
di A. Berque, Être humains sur la Terre. Principes d’éthiques de l’écoumène,
Gallimard, Paris, 1966.
2 Molto si è discusso su chora, e tutto sommato la sua natura filosofica continua a suscitare interrogazioni: basti pensare, da ultimo, alla lettura che ne dà
J. Derrida, Khôra, Galilée, Paris, 1993. Qui interessa tuttavia il suo contenuto
geografico, quale pilastro configurativo della territorialità del mondo: un punto
focale da cui si attiva e si alimenta il processo di territorializzazione.
3 E dunque non naturale, o semplicemente “data”, ma già “ordinata” dal
pensiero umano, costruita dall’interpretazione umana e “ripulita” di quelle impurità che tendono a renderlo inintelligibile e dunque assimilabile a un caos.
Ricordiamo che cosmo reca l’idea di nettezza, di “chiarificazione”: cosmos è
l’esito di una cosmesi; lo stesso si può dire di mondo: mundus, mondato (A.
Turco, Configurazioni della territorialità, FrancoAngeli, Milano, 2010, pp. 21
ss.).
4 F. Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli di mondo, Einaudi, Torino, 2003.
5. Il luogo, bene comune
151
mento di risorse). E però alcune di tali localizzazioni sono specifiche
e non fungibili, nel senso che si incardinano solo in parte su caratteristiche telluriche esistenti e motivazioni, per così dire, in atto. Per
la parte più importante, esse seguono una razionalità proiettiva. E si
realizzano storicamente mobilitando delle qualità virtuali dello spazio e, in parallelo, delle qualità autopoietiche del territorio. Di che si
tratta? Muovendoci nel solco interpretativo tracciato da A. Berque,
partiamo dall’idea che chora, piuttosto che un sito precisamente ubicato nello “spazio” è un dispositivo di funzionamento: designa
una relazione, imprevedibile nei suoi meccanismi di attivazione e di
svolgimento5. Essa è perciò altamente complessa: non una “cosa” e
neppure, a ben vedere, uno “stato di cose”; ma piuttosto una potenzialità, un puro campo di possibilità6.
Risiede in ciò a nostro avviso il valore più profondo della metafora sessuata di Platone, e dunque la natura “intrinsecamente” duplice di chora: come matrice e come ricettacolo. Come matrice, in
quanto atta (ed anzi portata, pre-posta) a generare “effetti” di forma
più varia e, tra essi, possibilità sempre nuove e dunque moltiplicatrici di effetti ulteriori ad infinitum. Come ricettacolo, in quanto tale
catena di effetti, in origine certo nata dalla matrice, ma successivamente svolta in forma auto-generativa, ritorna alla matrice stessa, come riverbero, come suggestione, come vera e propria ri-fertilizzazione.
In linguaggio moderno potremmo dire come feed back, come informazione. Questo sciame di stimoli convogliato nella matrice, ne feconda le
attitudini generative, in un circolo incessante, autopoietico in quanto
capace di creare e mantenere le condizioni del suo proprio funzionamento, della sua propria riproduzione e del suo proprio sviluppo.
Siamo, come si vede, in una logica piena di complessità: in cui
viene esaltata l’autonomia dei soggetti agenti contro ogni costrizione e dove primeggia una tensione verso la libertà di là da ogni predeterminazione7. Nella complessità del luogo, la successione storica
5 In questo senso leggeremmo Derrida laddove considera chora quale “nome
giusto per niente”. La “terza specie di realtà”, distinta dalla realtà sensibile e da
quella intelligibile, percepibile solo “al termine di un ragionamento bastardo”
come ricorda: J.-F. Pradeau, “Être quelque part, occuper une place: Topos et
chôra dans le Timée”, Les études philosophiques, 3, 1995, p. 375. Si veda anche:
M. Hernandez, “La khôra du Timée: Derrida, lecteur de Platon”, Appareil, 11,
2013.
6 A. Turco, Verso una teoria geografica della complessità, Unicopli, Milano,
1988.
7 È il piano dell’agire territoriale che qui maggiormente ci interessa: pensare
tutto il pensabile, senza limitazioni; scegliere tra numerose alternative in competizione; elaborare socialmente le idee senza pre-giudizio alcuno, ma restando
152
ANGELO TURCO
degli accadimenti si profila non solo per la catena causale che li lega,
più o meno ben ricostruibile a seconda della linearità o non-linearità
delle sequenze, ma altresì per l’orizzonte delle evenienze possibili in
rapporto a quelle effettivamente realizzate. Per l’ampiezza di questo
arco di possibilità e, di riflesso, per l’imprevedibilità che lo caratterizza. Ciò significa che attraverso percorsi autopoietici, si generano effetti non previsti (o almeno non del tutto previsti) nel disegno localizzativo iniziale, in via di principio non ottenibili in altro sito che
non sia quello: o, si potrebbe pur dire, ottenibili altrove, ma in siti
che abbiano la stessa peculiare “natura”.
Il rapporto tra topos e chora, così, si precisa. Come indicato da
Berque, topos è il corpo di chora: ne è la sostanza apparente, ma non
unica. E inversamente: chora si materializza in una località (che è ubicata qui o lì, che è fatta così e così), ma non si confonde con essa8.
Ogni luogo ha un contenuto di località, ovviamente, anche perché non tutti i luoghi sono immediatamente riconosciuti come tali.
Tuttavia, se un luogo è sempre una località, non è vero il contrario:
non tutte le località sono luoghi, o perlomeno non tutte le località
riescono ad essere luogo, a farsi luogo. Ciò accade solo per quelle
località che posseggono come segno distintivo una qualità che Berque chiama “coresìa”, in coerenza con l’assunto platonico: vale a dire il dinamismo connettivo tra le componenti di chora, (nella sua
duplice natura di matrice/ricettacolo) e tra chora e topos9.
Ma qualche avvertenza, a questo punto, si rende necessaria per
dare conto di un lessico quanto mai ingarbugliato. Il fatto è che nella lingua italiana – e non solo – non è il termine chora, bensì il termine topos ad essere comunemente reso con “luogo”. E ciò, attraverso suffissi, prefissi, varianti e derivazioni ha originato un vero e
proprio vocabolario, radicato nei linguaggi specialistici e nel parlare
comune: da topografia a eterotopia, da toponomastica a topologia.
vigili sulle possibili conseguenze inintenzionali di una scelta e costantemente
consapevoli della propria responsabilità geografica.
8 È perciò che, seguendo Nishida Kitarô, uno dei suoi maestri orientali, e
partendo dall’idea di quest’ultimo che “ciò che è dev’essere in qualcosa” (e questo qualcosa, aggiungiamo, deve stare da qualche parte) Berque vede in azione
due “logiche” identitarie: quella del “predicato”, che regge il luogo in quanto basho (corrispondente in qualche modo alla chora platonica, anche se non del tutto coincidente con essa); quella del “soggetto”, che regge il luogo in quanto “cosa che sta da qualche parte”, in quanto topos, appunto. Sul vasto dibattito geografico e filosofico suscitato da Berque su questo punto rinviamo a: A. Berque,
Logique du lieu et dépassement de la modernité, Ousia, Bruxelles, 2000, Voll. 1
e 2.
9 A. Berque, “Chorésie”, Cahiers de géographie du Québec, 117, 1998.
5. Il luogo, bene comune
153
Noi stessi abbiamo fatto uso di tale vocabolario o contribuito ad arricchirlo, con termini come topomorfosi, ad esempio, o topogenesi,
che di seguito riprenderemo. Tuttavia, né l’un termine né l’altro designano propriamente il luogo, che a ben guardare esprime piuttosto una relazione tra chora e topos: ciò consente di indicare la qualità del luogo indifferentemente come coresìa o come topìa10. Val la
pena osservare che i latini designavano questa stessa qualità ubietas,
che indica in generale una località e il modo di essere in/di quella località. E dal momento che tale “modo di essere” è maggiormente caratterizzato in “certe” località piuttosto che in altre, l’ubietas finisce
per diventare per metonimia la qualità topica, il predicato distintivo
di un “luogo” rispetto alla moltitudine di semplici “posti”.
Il nodo epistemologico del luogo, così, sembra potersi riassumere in due punti.
Il primo riguarda la problematica, come indicato da C. Raffestin11. E dunque qual è il “senso del luogo”? Perché il pensiero si pone questa interrogazione fin dall’antichità? In che modo se ne stabilisce la pertinenza con la “realtà” e con le pratiche umane che la
modellano territorialmente? E per dirla con altre parole: com’è che
il “luogo” diviene un “motivo ecumenale”, secondo l’espressione di
Berque, ossia una configurazione della territorialità grazie alla quale
“l’essere umani sulla terra” si compie? Com’è che il luogo diviene un
dispositivo di individualizzazione attraverso cui si accresce non solo
l’intelligibilità del mondo, ma la sua stessa “vivibilità”12?
Il secondo punto ha a che fare con la risposta che a tale interrogazione si può dare: come costruire una teoria del luogo? E più in
10 Ci discostiamo su questo punto dalla posizione di Berque che tende a considerare come oppositivo il rapporto chora/topos. E ciò, va detto, a partire da
un impianto heideggeriano centrato sulla coppia terra/mondo piuttosto che sulla coppia località/luogo (stelle/ort), a nostro avviso più pertinente. Cfr. A. Berque, “Chorésie”…, op. cit., specialm. pp. 442 ss.
11 Ridurremo al minimo le citazioni dei filosofi che, prossimi o lontani, ispirano i diversi autori qui evocati. Preferiamo leggerne l’interpretazione che i geografi misuratisi con il pensiero di questo e quello hanno consegnato alla loro
disciplina. Faremo qualche riferimento alla fonte solo nel caso in cui si intravveda qualche possibilità di integrazione o di spingere più a fondo lo scandaglio
ermeneutico. E quindi notiamo appena l’assonanza popperiana della funzione
della problematica nel pensiero di: C. Raffestin, “Problématique et explication en
géographie humaine”, in: Géopoint 1976. Théorie et géographie, Groupe Dupont,
Avignon, 1976.
12 Intendiamo “mondo” nel senso richiamato in nota 3: il pianeta “mondato”
dai veli che ne impediscono la comprensione, intellettualmente “lavorato”, insomma un costrutto. La distinzione è consistente rispetto al discorso che andiamo a sviluppare.
154
ANGELO TURCO
particolare, come si forma questo specifico dispositivo di individualizzazione e come funziona? Di là da ogni intuizione, di là da ogni
immaginazione, di là da ogni costruzione filosofica, è su un’ipotesi
scientifica di luogo che alla fine occorrerà ragionare. E con essa sarà
poi necessario misurarsi nella verifica empirica, tutt’altro che immediata. Il posto chiamato luogo non è un’evidenza, a volte persino
banale, come può essere una località. Si tratta per contro di un motivo ecumenale che poggia su una ricognizione e, più ancora, su una
interpretazione sociale di qualità “originarie” dello spazio. Queste a
loro volta sono riconducibili non solo e non tanto a dati o condizioni
oggettivi – siano essi naturali o culturali – ma a un auspicio. Si, a
una scommessa, per quanto paradossale ciò a prima vista possa
sembrare.
Ma riflettiamo. Nella costruzione della geografia umana, il luogo
è sempre in qualche modo una “terra promessa”, una formazione
spaziale di là da venire. Il luogo germoglia nel patrimonio culturale
delle società umane come speranza territoriale e si compie storicamente come un vero e proprio “avvento”. Il luogo non si raggiunge,
ma giunge: arriva, si compie. E la sua storia è quella di una località
preziosa e attesa dove l’arco delle aspettative progressivamente si
dilata e trova possibilità di realizzazione altrove inimmaginabili. La
topìa è una qualità elettiva: marca delle località “speciali” nelle quali
le società umane coltivano progetti “speciali”. La sua proprietà prima e infungibile è di generare e alimentare desideri crescenti che
hanno significative possibilità (e probabilità) di realizzazione. Il
processo che descrive la costituzione e l’evoluzione di un luogo non
è tanto la localizzazione, ma piuttosto una topogenesi. Questa non
trascura certo l’elemento ubicativo, proprio di tutte le località, ma
assume come fondamentale lo svolgimento della relazione tra contenente e contenuto, la connettività tra la duplice natura di chora
(matrice/ricettacolo) e tra chora stessa e topos che specificamente
le corrisponde13 (Fig. 1).
Il posto chiamato luogo possiede un senso, che acquista e sviluppa attraverso lo svolgimento della topìa/coresìa. Questo rapporto con buona approssimazione possiamo far coincidere con quello
che viene universalmente indicato come “spirito del luogo”. Esso può
essere solo pallidamente denotato da ciò che lo occupa. Viceversa,
l’acquisizione di spessore concettuale (e storico), e diciamo pure la
13 “Corpo di chora”, topos manifesta a sua volta una duplice natura di “esito”
di chora (che lo ha prodotto in quanto matrice) e “condizione” di chora (che
fertilizza come ricettacolo).
5. Il luogo, bene comune
155
sua “connotazione” avviene attraverso un’incessante produzione di
significato. Quest’ultima non si esaurisce in mere funzionalità, in
concatenazioni di causalità “efficienti”, in sequenza di accadimenti,
ma si solidifica attraverso il disegno di traiettorie: nel compimento
di un destino.
Fig. 1 - Il luogo in divenire: tra topìa e coresìa
2. Un antico motivo ecumenale
Una problematica del luogo, abbiamo visto, si manifesta per
tempo nella tradizione occidentale. Essa trova una sua robusta espressione filosofica in Platone e Aristotele. E però il “luogo” diventa un motivo ecumenale, in Occidente e fuori dall’Occidente, anche
per vie diverse da quelle scientifico-razionali. Motivo ecumenale, in
quanto profilo distintivo con il quale si manifesta nella coscienza
dell’uomo e nella sua storia, il rapporto antropologico con la Terra,
la trasformazione della natura, il processo di territorializzazione.
2.1. Il luogo: nel segno del sacro
La cosmogonia nipponica delle Cronache delle cose antiche pone
fin dall’origine il motivo del luogo. Quando infatti Izanagi e Izana-
156
ANGELO TURCO
mi, divinità maschile e femminile, scendono dal cielo e “generano” il
“Paese delle otto grandi isole”14, creano non uno spazio generico (il
mondo, il cosmo), ma uno spazio definito ed anzi assolutamente unico su una terra ancora instabile “come l’olio flottante”, un’estensione
“prima” tra le altre che dovranno ancora venire, individualizzata e
destinata alle grandi cose di quello che poi sarà storicamente il
Giappone.
Ma per restare in campo religioso, vediamo come l’Islam esibisca
le sue tessiture topiche in molti modi. Per cominciare, esso si fonda
sullo spazio-luogo del Dar al-Islam, la terra “speciale” dove regna la
Legge di Dio e fuori della quale può esservi soltanto il Dar al-harb,
la terra della lotta: che indica non tanto la guerra vera e propria, in
senso fisico, ma piuttosto la battaglia spirituale per la conversione
degli infedeli. Il Dar al-Islam, pur nella sua unità apparente di “grande luogo” rispetto all’esterno, è a sua volta differenziato all’interno
dove si dispongono innumerevoli località e più selezionati luoghi.
Spiccano tra questi, evidentemente, i “luoghi santi”. E sopra tutti La
Mecca, il luogo santo per antonomasia, dove convergono lo sguardo
e la preghiera di tutti i credenti (la comunità dei musulmani, la
Umma) e da cui si irraggia il soffio perenne della fede: è la qibla, la
centralità sacrale come principio organizzativo fondamentale della
geografia dell’Islam.
Nello stesso segno del luogo pone il mondo la tradizione biblica.
Cos’è l’Eden nel Vecchio Testamento se non un “luogo-universo”?
Difficile cogliere con immediatezza nel Paradiso Terrestre un “posto
speciale per un progetto speciale”: giacché il “mondo” è quello e solo quello. Ma la straordinaria topìa edenica si capisce non appena il
peccato originale è compiuto. Un puro spazio della creazione, infatti, diventa un dispositivo di differenziazione in un pluriverso più vasto e svela la sua essenza topica quando Adamo ed Eva sono costretti a lasciarlo. Quando cominciano ad errare nel mondo, alla ricerca
di un posto per vivere: fuori, lontano dall’Eden. In qualche modo, il
peccato originale, come nel celebre dipinto di Magritte, è contemporaneamente la porta da cui si esce e da cui si entra (Fig. 2). L’infrazione
segna il trapasso da un mondo-luogo al suo opposto: un mondo atopico. E quando quest’ultimo, investito dall’azione umana e quindi
dal processo di territorializzazione, ricomincerà ad assumere confi-
14 Di fatto i territori posti sotto il controllo della dinastia Yamato (cfr. Katô
Shûichi, Le temps et l’espace dans la culture japonaise, CNRS, Paris, 2007, pp.
156 ss.).
5. Il luogo, bene comune
157
gurazioni topiche, il Paradiso Terrestre rimarrà per il popolo di Dio
il luogo eponimo. Perduto. Rimpianto.
Fig. 2 - R. Magritte, La victoire: configurazioni topiche
Per restare in ambito veterotestamentario, vediamo come si disegni nel racconto biblico un fermentante mondo di luoghi. Pensiamo solo al libro dell’Esodo e, quindi, al luogo per eccellenza che è
la “Terra Promessa”: sigillo geografico del patto eterno e pur sempre rinnovato tra Dio e il suo popolo. Del resto, non è necessario
soffermarsi troppo sulla topogenesi della “santità” nella tradizione
cristiana. Dai vasti spazi-luoghi del Sacro Romano Impero o della
Terra Santa, a quelli più puntuali come Roma o Gerusalemme, cui si
aggiungono via via i luoghi delle apparizioni (Lourdes e Fatima tra
quelle mariane più recenti e note), dei sepolcri (Assisi per Francesco
e Chiara), della nascita (Norcia per Benedetto; Avila e Lisieux per le
due Terese), di custodia di reliquie (da Loreto a Torino, da Napoli a
Padova), dei templi (basiliche e cattedrali, abbazie e santuari, duo-
158
ANGELO TURCO
mi, collegiate), fino ai più umili siti devozionali (come la recente
cappella dedicata a Giovanni Paolo II sulle pendici aquilane del
Gran Sasso) e agli eremi più remoti di montagne e deserti e foreste
dove le grandi figure della cristianità hanno praticato l’ascesi.
Ma nella tradizione cristiana la topogenesi assume anche una più
generale valenza teologica. In modo del tutto peculiare, l’Incarnazione
segna la fine di un rapporto indeterminato e, in certa misura, elusivo
tra Dio e il mondo inteso in una sua generica dimensione spaziale. Essa apre per contro una fase in cui diventa centrale l’incontro tra la
creatura e il creatore: e il luogo, diventa la sede di questo incontro,
un mediatore non banale in cui si realizza concretamente la relazione di Dio con il mondo. Per dirla con parole di J. Inge, questi incontri sono “eventi sacramentali”: non “incidenti isolati”, quindi, che
possono capitare a pochi eletti, ma “una parte assai comune
dell’esperienza cristiana… e il luogo nel quale avvengono non è il
mero supporto dell’esperienza, ma una parte integrante di essa”15.
Capitolo vasto è quello che riguarda la “fondazione” del luogo, le
cui narrazioni sono spesso mitiche più che storiche. Nei loro vari
intrecci, i racconti tendono certo a recuperare una marca di nobiltà
che dalle origini si riverbera sul presente. Tuttavia essi tendono altresì ad affermare una qualche pre-destinazione della primitiva località verso la realizzazione di grandi cose. E ciò, di là da una serie
di fattori di localizzazione che possono essere più o meno favorevoli
sotto molti riguardi. L’esempio più eclatante nella tradizione occidentale è forse quello della fondazione di Roma. Una teoria storiografica oggi tra le più accreditate vuole che Roma, antico sito emporico all’incrocio tra assi di scambio Nord-Sud (popoli etrusco-campani)
ed Est-Ovest (terre appennino-tirreniche) sia nata da un lungo processo di sinecismo. Romolo, il mitico fondatore, potrebbe essere in realtà il personaggio che porta a compimento l’unione dei diversi centri abitati sparsi nel Septimontium, l’area collinare alla sinistra del
Tevere, fiume a sua volta impreziosito dall’isola Tiberina che lo rende in quel punto abbastanza facilmente guadabile. L’atto di volizione di un singolo, reso tanto più drammatico da una violenza fratricida, sarebbe il frutto di una gestazione leggendaria, un’elaborazione
storico-letteraria durata secoli e culminata con l’Eneide di Virgilio, a
definitiva celebrazione dei fasti di Roma nell’età di Augusto.
15 J. Inge, A christian theology of place, University of Durham, PhD Thesis,
2001, specialm. Cap. 3. Con medesimo ordine di preoccupazioni su un tema insufficientemente trattato dagli studi filosofici e teologici, pur se in altra prospettiva metodologica, si veda anche: V. Westhelle, Eschatology and space: the lost
dimension in theology past and present, Palgrave Macmillan, New York, 2012.
5. Il luogo, bene comune
159
Si potrebbe pur sempre osservare che nella geografia pre-urbana
del Septimontium, le favorevoli caratteristiche funzionali non escludono ma anzi si aggrumano attorno a simbologie sacre, si accorpano con antichi spiriti del luogo e pratiche cultuali come quelle
dedicate ad Eracle. Del resto, talune evidenze archeologiche suggeriscono come anche la unificazione degli antichi centri demici in un
unico corpo urbano, deve prevedere una qualche forma “fondativa”:
un lavoro degli àuguri, un tracciato del pomerium, il perimetro sacro, invalicabile, che connota la vera e propria città distinguendola
dal semplice oppidum e facendo di essa un’urbs, un insediamento
consacrato agli dei: quegli stessi che ne benedicono la nascita e ne
proteggono l’esistenza.
Tutto ciò si inserisce pienamente nell’ottica del nostro ragionamento. In specie se pensiamo al luogo come ad un avvento: ossia a
qualcosa che non si dà, ma si fa. E se, di conseguenza, guardiamo
alla topìa come alla “speciale” qualità di un sito. Questa può manifestarsi come “rivelazione”16 e quindi come intravista o accertata precondizione perché la città sia fondata. Ma può porsi anche come
progressivo “disvelamento”17 e quindi come itinerario di grandi accadimenti pubblici mescolati ad intenso privato sentimento, che
conferma come ci si trovi effettivamente di fronte ad un posto
chiamato luogo.
La fondazione del luogo è un atto geografico importante anche in
altre tradizioni culturali. Addirittura decisivo in alcune di esse. Dili,
ciò che in Cina a giusto titolo possiamo dire la “geografia”, ossia il
discorso (li) sulla terra (di), si nutre di riflessioni scientifiche, osservazioni empiriche, rappresentazioni letterarie, figurative, cartografiche, pratiche di terreno di tradizione plurimillenaria. Il fondamento filosofico di dili, che coinvolge senza stridore aspetti metafisici
e politiche imperiali, risiede nel convincimento che esiste un’intima
associazione tra l’uomo e la terra, e che dalla natura di questa associazione e dal suo buon svolgimento dipenda il benessere individuale e collettivo18. Dal momento che questa associazione si risolve, in
16 Ottenuta attraverso cerimonie propiziatorie, ad esempio, oppure grazie a
codificate pratiche osservative, come vedremo tra breve facendo ceno alla geomanzia taoista del fengshui.
17 Come è il caso, appena menzionato, della gestazione storico-letteraria del
mito di Roma quale luogo pre-destinato.
18 Interessante appare a questo riguardo il lavoro di V.V. DorofeevaLichtmann, che decostruisce i contenuti di un testo di geografia particolarmente
significativo nella cultura cinese: V.V. Dorofeeva-Lichtmann, “Conceptions of
terrestrial organization in the Shan hai jing”, Bulletin de l’Ecole française
d’Extrême Orient, 82, 1995. Il testo in questione è appunto il Shan hai jing (Il
160
ANGELO TURCO
ogni caso, nell’abitare la terra da parte dell’uomo, diventa cruciale
individuare dove ciò può avvenire nel modo migliore: precisamente
il luogo, xue, dove l’abitare sia il più benevolo, il più propizio per gli
individui e le collettività presenti e future. A questo scopo, viene sviluppato in seno a dili, soprattutto a partire da epoca Tang (VII-X
sec) un complesso di saperi e di pratiche che va sotto il nome di
fengshui19. Questo insieme di cognizioni teoriche ed abilità concrete, serve a un fengshui xiangsheng, un professionista dotato di opportune attitudini intuitive20, ad identificare i “buoni posti”, i luoghi
dell’abitare per i morti (tombe, necropoli) e per i vivi (città, capitali
ed anche singole dimore).
Gli elementi da prendere in considerazione sono feng, il vento, e
shui, l’acqua, attraverso i quali si muove qi, lo spirito del mondo e
della vita, che si declina come “soffio vitale”, appunto, come energia
e attraverso altre metafore come il sangue, la luce, la fonte. Qi si manifesta attraverso due principi di attività: yang e yin21. L’armonica
classico dei Monti e dei Mari) la cui prima compilazione si deve a Liu Xin
(46AC-23DC), celebre letterato Han.
19 La letteratura sul fengshui, pur limitata alle maggiori lingue occidentali, è
abbondante ancorché di ineguale qualità. Tra le opere particolarmente significative per l’ottica geografica qui adottata segnaliamo quelle di: R.G. Knapp, China’s
traditional architecture: a cultural geography of common house, University of
Hawaii Press, Honolulu, 1986; Id. (ed.), Chinese landscapes: the village as a
place, University of Hawaii Press, Honolulu, 1992; Id., China’s living houses: folk
beliefs, symbols and household ornamentation, University of Hawaii Press,
Honolulu, 1998. Peraltro, val la pena rammentare come il fengshui sia solo una
delle pratiche mantiche cinesi, tra le quali ricordiamo l’emerologia, la fisiognomica, l’onirologia, l’achilleomanzia (Cfr. sul rapporto tra queste diverse pratiche: R.J. Smith, Fortune-tellers and philosophers: divination in traditional
chinese society, Westview Press, Boulder, 1991).
20 Il fengshui shanseng non sempre è uno scrupoloso professionista, o “soltanto” uno scrupoloso professionista che lavora insieme ad architetti, muratori
e carpentieri: a volte può essere un ciarlatano, che nelle campagne più remote
sfrutta l’ingenuità contadina a proposito della sepoltura o della costruzione delle case. Tutto ciò, come nota opportunamente A. Berque, non intacca il cuore
della questione, vale a dire la problematica del luogo, il posto migliore per vivere (Cfr. A. Berque, “Pourquoi cette vogue du fengshui au XXI siècle?”, in: J.J.
Wunenburger, V. Tirloni (dir.), Esthétiques de l’espace. Occident et Orient, Mimesis, Paris, 2010).
21 Questi due principi cosmologici, di antichissima tradizione, sono complementari e non oppositivi. Anche quando si confrontano essi portano ognuno
il germe dell’altro (come indica il taijitu, il simbolo di questa unità duale). Spesso sono esemplificati in “cose” e “modi di essere”, ovvero modi di essere che si
rivelano in cose. È in questo senso che si può dire che yang è il principio del
giorno (sole, luce) e yin quello della notte (luna, tenebre); ovvero che yang è il
principio maschile (pene) e yin quello femminile (vagina).
5. Il luogo, bene comune
161
congiunzione di questi due principi disegna “l’ordine” di qi, sia alla
scala cosmologica (l’ordine del cielo e della terra) sia alla scala geografica, particolarmente nei processi di configurazione topica della
superficie terrestre22. Qi in effetti viaggia “cavalcando” il vento e
“correndo” con l’acqua: le vene che trasportano il “sangue” della terra, a sua volta simbolizzata da una creatura beneaugurante come il
dragone (o più dragoni nelle sue singole parti), di cui le montagne
costituirebbero l’ossatura23. Quando il vento si ferma, qi si posa: e
produrrà effetti benefici se ha attraversato altri luoghi fortunati,
mentre produrrà effetti nefasti se proviene da terre colpite dalla disgrazia. Allo stesso modo, qi si adagia quando il fiume, acqua corrente, si slarga in uno specchio d’acqua, confluisce in un lago. Per
individuare xue, il luogo deputato a ricevere i benefici influssi di qi,
è dunque essenziale osservare il terreno secondo i principi della divinazione deduttiva (e quindi in qualche modo “oggettiva” perché
codificata nei manuali), non meno che quelli della divinazione “ispirata”, dove entra in gioco la capacità personale del fengshui, la sua
sensibilità, la sua esperienza. Se il corpo idrico, e particolarmente
uno specchio d’acqua, è certo un elemento che contribuisce in modo
evidente all’identificazione del luogo, sarà la presenza e la disposizione di un rilievo (colline, montagne) a dare indicazioni sul modo
di “gestire” il vento, bloccandolo se proviene da terre nefaste, favorendone invece il passaggio e direzionandone il corso se proveniente da contrade più fortunate. La stessa disposizione degli edifici, e il
loro orientamento, sono frutto di scelte accurate nel luogo così determinato. E se le forme dolci e sinuose sono dei buoni indizi topici,
alcune morfologie saranno da preferire: il ferro di cavallo, in particolare, ma soprattutto il sesso femminile, potente simbolismo terrestre che origina la nuova esistenza di coloro che andranno ad abitare xue e salda, nella sua duplice natura di matrice e di ricettacolo, le
tradizioni d’Oriente a quelle d’Occidente.
È l’insieme di queste competenze, con le meticolose ricognizioni,
analisi e preparazioni spirituali che comportano, a fare del fengshui
uno specialista della territorialità ontologica oltreché un vero e proprio tecnico dei luoghi. Egli diventa persino un ideologo, allorquando ispira opposizioni all’invadenza insediativa, alla violenza costruttiva “priva di ordine”: come quelle delle potenze occidentali che im22 Se l’ordine di qi viene alterato, si possono avere temibili conseguenze,
come terremoti, ad esempio.
23 F. Obringer, “Le fengshui, ou la recherche d’un dragon très humain”, Diogène, 2004/3.
162
ANGELO TURCO
piantano le loro “concessioni” nei “porti aperti” dopo la conclusione
della prima guerra dell’oppio (1842) e l’imposizione dei trattati ineguali; o come quelle, più recenti, legate sia alla intensa urbanizzazione della Cina post-denghista sia alla più generale modernizzazione tecno-geografica24, che finiscono per ridurre, entrambe, un complessa topogenesi in una banale localizzazione.
Un campo straordinariamente vasto e fertile di topogenesi del
sacro è legata al bosco25. Nella tradizione greca, l’alsos è un’istituzione
complessa e relativamente ben individualizzata, di fatto un santuario composto spesso di più parti, alcune arborate altre coltivate.
Tutta una serie di regolamentazioni viene posta in atto, con più o
meno ampio successo, al fine di garantire la tutela del luogo sacro,
consentendone al tempo stesso delle forme di sfruttamento economico che oggi diremmo sostenibile26. Nella tradizione latina,
l’individualizzazione del bosco come luogo è alquanto raffinata.
Per restare alle fonti letterarie, perlomeno fino a Virgilio, un bosco
può essere considerato sacro perché vi si praticano dei culti (lucus),
oppure per motivi “numinosi” e quindi perché vi si manifesta in
qualche modo la divinità: con segnali, voci, prodigi (silva)27.
C’è da dire che non sono solo le grandi religioni o i sistemi di
pensiero a disegnare il rapporto dell’uomo con il mondo mobilitando quella configurazione della territorialità che è il luogo. In Europa, presso popolazioni considerate barbariche – come i celti e i
germani, ad esempio – e un po’ dovunque fuori d’Europa. Restando
al bosco sacro, vediamo come esso si inscriva universalmente, si
può dire, nel patrimonio dei luoghi attraverso procedimenti materiali e soprattutto simbolici anche assai sofisticati. Prendiamo ad
24 Si veda per la prima: P.C. Foret, “Les deux perceptions du paysage culturel de Hong Kong”, Géographie et culture, 11, 1994. Quanto alla seconda, un
esempio di grande significato è analizzato da: K. Le Mentec, “Barrage des Trois
Gorges: les cultes et le patrimoine au cœur des enjeux”, Perspectives chinoises,
97, 2006.
25 O alla foresta: tra i due termini non si fa qui la distinzione che pure sarebbe possibile rilevare in termini di discorso scientifico ed altresì di semantica storica con radici nel mondo greco-latino. Del resto, al bosco non si lega solo il sacro, ma tutta una fioritura dell’immaginario, con relativo corredo di significazioni e pratiche (comprese quelle scritturali e narrative); rinviamo per una brillante sintesi a: R. P. Harrison, Forests: the shadow of civilization, The University of
Chicago Press, Chicago, 1992.
26 G. Ragone, “Dentro l’alsos. Economia e tutela del bosco sacro nell’antichità
classica”, in: C. Albore Livadie, F. Ortolani (a cura), Il sistema uomo ambiente:
tra passato e presente, Edipuglia, Bari, 1998.
27 A petto del bosco che sacro non è, e a cui ci si riferisce (ad esempio Lucrezio) come saltus o nemus.
5. Il luogo, bene comune
163
esempio, in Africa Occidentale, i popoli Senufo28. Questi chiamano
sinzang quello che nell’usuale traduzione linguistica europea è il
“bosco sacro”. Si tratta, in termini puramente fisico-naturali, di un
ciuffo d'alberi, di modesta estensione (2-4 ha) ma piuttosto denso e
perciò ben identificato nella savana. Di forma tendenzialmente circolare e ricco di essenze, sinzang è sempre situato nei pressi di un
kaha, il villaggio. Si potrebbe dire, così, che ogni villaggio ha il suo
bosco sacro: e molti osservatori hanno visto l’associazione kahasinzang in questi termini. In realtà, la relazione va risolutamente
invertita: non c’è un villaggio con il “suo” bosco sacro, ma un bosco
sacro con il “suo” villaggio. Dei due elementi geografici in gioco, è
sinzang che prevale in quanto istituzione territoriale che precede il
villaggio di cui peraltro giustifica fondazione ed esistenza. Il sinzang, infatti, è il luogo originario, esclusivo e non scambiabile, in
cui gli antenati alla ricerca di un posto dove vivere si fermano a discutere, si interrogano nel profondo della loro saggezza e prendono
infine, grazie all’ispirazione della divinità Kaha Tyeleo, la decisione
solenne di stabilirsi lì. A partire da quel momento, il bosco viene
sacralizzato e diventa il centro rituale della vita senufo, il laboratorio dove si costruisce la conoscenza più profonda, la fonte della legittimità politica e territoriale.
Certo, il bosco sacro senufo non ha più, oggi, quell'aria di mistero descritta dai primi osservatori europei. Luogo da cui si genera
l'influsso vivificante di Kaha Tyeleo, esso resta nondimeno la sede
della riflessione impegnativa, delle grandi decisioni prese con l'approvazione degli spiriti degli antenati che vi si aggirano sereni e benevolenti. E dove si sancisce la legittimità piena del poro, l’itinerario
iniziatico che ogni Senufo deve necessariamente percorrere per diventare un membro della comunità a titolo pieno. In questo modo,
la pratica sociale trasferisce dunque un “valore” per definizione astratto, la sacralità, in un ambito concreto e spazialmente circoscritto: trasfuso in ciò che nella sua fisionomia naturalistica non è che è
una formazione arborea in rilievo sul monotono orizzonte savanico29. Ma questa operazione va compresa in tutta la sua portata. Es28 I Syenabbélé, coloro che parlano la lingua syena, universalmente noti ormai con il nome Malinké di Senufo (oltre 1 milione di persone) abitano la Costa
d’Avorio settentrionale (2/3), con propaggini insediative in Burkina Faso e Mali
(si veda la Fig. 4, Cap. 2). Si tratta di un conglomerato umano che associa una
ventina di gruppi e sottogruppi. (A. Turco, Terra eburnea. Il mito, il luogo, la
storia in Africa, Unicopli, Milano, 1998).
29 Peraltro preservata nel tappeto erboso della savana dalle distruzioni della
copertura vegetale primitiva dovute alla predisposizione delle terre per i coltivi.
164
ANGELO TURCO
sa non consiste semplicemente nel depositare al suolo un valore sociale, alto se si vuole, ma come confinato in un ruolo evocativo e
comunque conchiuso nel suo statuto di accadimento mitico (fondazione di kaha). Ancor più incisivamente, essa assicura al mito una
vera e propria effettualità storica giacché incorpora nel suolo l'idea
che la guida degli antenati sia indispensabile ad assicurare la sopravvivenza ed il benessere della collettività: una credenza suprema, come è facile comprendere, che investe frontalmente la riproduzione sociale e fa del “bosco”, perciò, uno dei grandi paradigmi
del serbatoio metafisico senufo. Del resto, questo serbatoio metafisico genera a sua volta altri valori di stampo più marcatamente ideologico, dal momento che evocano, fabbricano, raffinano, modellano principi di conoscenza e di saggezza, orientativi di ulteriore
prassi sociale, nella costruzione di un “ordine infinito”. Un patrimonio culturale, un bene comune, non cosale e statico, ma valoriale
e dinamico. La costruzione del luogo, così, si organizza come un
processo in virtù del quale un grappolo di valori sociali assume le
sembianze di un luogo: ciò che chiamiamo una topomorfosi.
Il simbolismo del “bosco sacro” si densifica attraversando una
molteplicità di piani semantici. Uno è di tipo metaforico e comporta
un’autentica modificazione del contenuto concettuale di sinzang. In
prima istanza, di certo la più semplice, il “sacro” appare come un attributo del “bosco”: sicché, ad esempio, accanto a boschi sacri possono rinvenirsi boschi che sacri non sono. Per altro e più profondo verso, tuttavia, la traslazione metaforica non aggiunge solo significato,
ma ne riordina, per così dire, la gerarchia: attraverso una tessitura
fisionomico-materiale infungibile e inequivoca, essa metamorfosa il
suolo nel suo corrispettivo analogico, il “sacro”. Sicché il “bosco” finisce con il rappresentare, puramente e semplicemente, una delle espressioni del “sacro”: e quindi non più bosco sacro, si dovrebbe dire, per connotare una formazione vegetale della marca religiosa; ma
piuttosto “sacro bosco”, vale a dire “il sacro” fattosi “bosco”. Insomma, sinzang è una teofania, il profilo materiale e terrestre che
assume lo spirito oltremondano che vuole rendersi accessibile all’uomo
senufo.
Ricodificato dall’esperienza individuale come dall’intelligenza
collettiva, sinzang è topos nella sua tangibilità vegetale; ed è insieme chora, una matrice e un ricettacolo che consente di elaborare e
rendere espliciti i principi orientativi della prassi sociale, incessantemente estratti dalle credenze racchiuse nel serbatoio metafisico
del “sacro bosco”.
5. Il luogo, bene comune
165
2.2. Il luogo: il sigillo delle emozioni
Come suggerisce il concetto di ubietas, il luogo non solo è, ma
produce un modo di essere. E tra le espressioni indubbiamente più
universali di questi modi di essere vi sono quelle declinate sul registro emotivo. Non c’è essere umano sulla terra, si può dire, che non
provi un sentimento d’affetto per un luogo almeno: dove si nasce,
dove si vive una stagione professionalmente gratificante o artisticamente intensa, dove ci si innamora, dove si sono fatte esperienze
memorabili30. È ciò che Yi-Fu Tuan chiama topofilia, l’amore per il
luogo che genera attaccamento e motiva i comportamenti di coloro
che vi risiedono, in via permanente (come gli abitanti) oppure temporanea (come i visitatori)31.
La vita di ciascuno di noi è piena di questi sentimenti: almeno
questo è l’augurio che facciamo a chi ci legge e a noi stessi. La loro
semplice presenza, rende la nostra esistenza migliore, ci fa star bene
nella nostra relazione con gli altri. Le profondità emotive che essi
sondano, smuovono sensibilità altrimenti sopite, le quali finiscono
per ingentilire, rendere più acuti, insomma permeare, i nostri pensieri, le nostre azioni e, non ultimo, i nostri sogni. Le emozioni si vivono, dunque, e si possono certamente comunicare alla coscienza e
alla percezione degli altri come una forma di conoscenza tacita. Ma
è facile sentirsi inadeguati allorquando si tratta di esprimerle. È qui
che interviene l’arte, capace di trovare modi universali per dare
forma sensiva all’inesprimibile, per narrare gli spazi vasti e polimorfi, lievi e tenaci, dell’esperienza emotiva. Le poetiche del luogo,
quelle che in senso letterale “fanno” il luogo nel mentre lo esprimono, sono universali ed investono, possiamo dire, tutte le arti32.
C’è chi sa esprimere questo sentimento, con la forza della parola
letteraria. Tutti ricordano il Leopardi dell’Infinito che dichiara il suo
affetto all’“ermo colle” come quadro e premessa per le considera30 Recenti linee di riflessione mettono in luce questo aspetto anche per
quanto riguarda le strategie turistiche di valorizzazione territoriale, dove il “sentimento” è un principio attivo di attrattività (a fronte di ruoli passivanti della
semplice fruizione). Si veda: A. Turco, Turismo & Territorialità. Modelli di analisi, strategie comunicative, politiche pubbliche, Unicopli, Milano, 2012. Il tema
è ripreso in: A. Turco, “City tourism: l’attrattività urbana come topogenesi”, in
questo stesso volume.
31 Yi-Fu Tuan, Topophilia: A study of environmental perception, attitudes,
and values, Prentice Hall, Englewood Cliffs (N.J.), 1974.
32 Una rapida messa a punto, che ha il pregio di introdurre una molteplicità
di categorie “topiche” in: B. Bonhomme, “La poésie et le lieu”, Noesis, 7, 2004
(num. dedicato a: La philosophie du XXe siècle et le défi poétique).
166
ANGELO TURCO
zioni altamente “filosofiche” successive, quasi a stabilire non un
semplice collegamento tra l’amore e la conoscenza, bensì un vero e
proprio ordine sequenziale, una sorta di implicazione. Ed allo stesso
modo, se leggo la poesia cosmopolita di Borges, balza con evidenza
il nesso tra luogo e sentimento, essendo il primo all’origine (“matrice”) del secondo o, all’inverso, il destinatario (“ricettacolo”) del
primo: che si tratti di una chiave a Salonicco o di una piramide egizia, del primo poeta d’Ungheria, dell’Islanda o dell’Oriente, della
sua Buenos Aires una e molteplice.
Del resto, non c’è letteratura “nazionale”, si può dire, che non
abbia i suoi cantori, i suoi testimoni, i suoi “cacciatori” di topìe, i
suoi “scopritori” di coresìe. Seguendo solo l’onda anomala delle mie
letture, affastello tra i luoghi che ho visitato e anche studiato a lungo ma che non saprei mai rendere nella loro “verità topica”, e quindi
emotivamente percussiva, quelli come il grande sertão di João
Guimarães Rosa nel Nordeste brasiliano o la Nantes di Julien
Gracq; o come le insignificanti e drammatiche “Estherville” di Erskine Caldwell nel deep South americano; quelli sempre a loro modo “epici” di Ernest Hemingway o quelli dimessi come la Dublino di
James Joyce. Oppure ancora, percorrendo en vrac l’Italia di autori
contemporanei, la Firenze di Vasco Pratolini, la Vigevano di Lucio
Mastronardi, e via via fino alla Bari di Gianrico Carofiglio, la Basilicata di Mariolina Venezia, la piccola Bellano di Andrea Vitali. Per
non dire delle topìe narrative della new italian epic e in particolare
gli affreschi d’Oriente e d’Occidente dei Wu Ming.
Ma ancora nel nostro Paese, così ricco di luoghi alti di cui più in
là torneremo a parlare, come capire l’Italia di oggi senza le topìe
noir della Napoli di Saviano o di De Giovanni, della Bologna di Lucarelli, della Milano di Genna o di Dazieri, della Roma di De Cataldo, del Nordest o della Sardegna di Carlotto, delle Romagne di Baldini?
C’è chi sa dire, beninteso, questo sentimento del luogo con la
forza delle immagini: il cinema e la fotografia, tra le arti visive contemporanee, la pittura tra quelle classiche. In questo campo è facile
scambiare un luogo per un paesaggio; e del resto dobbiamo pur tener presente che un luogo è spesso anche un paesaggio (e viceversa). Non sapremmo avventurarci troppo nei meandri delle estetiche
della topìa nelle arti figurative. Ma ci sembra di cogliere indizi di
luoghi se, nello sguardo che abbraccia le forme del territorio, trova
posto l’attenzione per un’intensità di contenuti iconici, una caratterizzazione di pratiche sociali, un’esibizione di abilità individuali e
collettive, di credenze, di saperi, di memorie che si trasformano in
5. Il luogo, bene comune
167
patrimoni affettivi e, viceversa, di patrimoni affettivi che si trasformano in valori memoriali. Vedo qualcosa del genere nel “Cielo sopra Berlino” di W. Wenders, ad esempio. Ed è per tutto ciò, allo
stesso modo, che mi sembra di cogliere nei film di Federico Fellini,
tra Rimini e Roma, una narrazione di luoghi piuttosto che di paesaggi: dai “Vitelloni” a “Roma”, da “La dolce vita” a “Amarcord”.
Del resto la pittura, per sue proprie vie tecniche, estetiche e poetiche, non è da meno nella conformazione di questi intrecci sottili e
ramificati. Così ad esempio, vediamo i molti modi di rappresentare
la topìa nella pittura di Candido Portinari: l’epos della territorializzazione brasiliana concepita dai coloni bianchi ed eseguita dagli
schiavi neri nel diversi cicli economici della mondializzazione mercantile (caffè, cacao, zucchero, legname); l’ethos della quotidianità
ostinata e felice di una Rio de Janeiro non “favelada” ma sublimata
nelle sue colline musicate, danzanti, innamorate. E ancora, seguendo veloci il filo rosso di esperienze personali. Vermeer, l’autore del
“Geografo”, dipinge spesso luoghi: in modo netto, a partire da Delft;
ma anche in forme ellittiche, come nei dipinti di ragazze che leggono o scrivono una lettera. Del resto, la pittura spesso mobilita queste forme ellittiche per esprimere la relazione topica. L’esplosione di
un momento che si fa storia qui ed ora, ad esempio, come nella “Libertà che guida il popolo” di Eugène Delacroix; come pure in alcuni
episodi della sua pittura “marocchina”, a partire dalla commistione
tra pubblico e privato negli spazi urbani. Ma pensiamo, su tutt’altro
registro, al fascino di un motivo ripetuto, l’ansia di vedere dentro i
luoghi assolati dell’estate che si traduce visivamente nel “dietro”
delle masserie di campagna di Giorgio Morandi.
C’è infine, ma solo per fermarci qui, chi sa dire questo sentimento del luogo con la forza della musica. Col coro del Nabucco, viene
spontaneo dire, G. Verdi mette in scena un emblema assoluto di
musicalità della topìa: una potenza ineguagliabile che smuove ogni
pur remota sensibilità e commuove, ogni volta, fino alle lacrime. Ma
anche qui, vana sarebbe qualunque impresa enumerativa. E, lungi
dal fare un catalogo, possiamo dire solo che accanto alla musica colta, quella popolare non è da meno: sia quando marca il luogo con
sue melodie e ritmi inconfondibili, come il tango di Buenos Aires;
sia quando cartografa una geografia dei luoghi sonori con tutti i suoi
accavallamenti, rimandi, vere e proprie commistioni, come il blues,
il country, il jazz negli Stati Uniti. Ma allo stesso modo, quando sento la Tarantella del Gargano, già nel suo attacco disperante (“donni… ma come dei fari”) sono dentro i Sud estremi, dolci ed implacati del mio Paese. E quando ascolto una chora mandinga sono dentro
168
ANGELO TURCO
la grande sete del Sahel e le molte vicissitudini della sua territorialità. Per non dire, infine, dei luoghi che sono stati cantati nel piccolo
tempo di una vita ed oggi, anche per questo, nel cuore di tutti, a
cominciare dal plat Pays… qui est le mien, di Jacques Brel, per finire alle molte città, da Parigi a Napoli, da Roma a S. Francisco, da
Bologna a Vienna, da Genova o Firenze o Venezia o Milano, a New
York, ad Ipanema, all’Avana, a Berlino.
La topìa insomma non è solo una “materia” che la creatività artistica a sua volta plasma, amplifica, stravolge. Piuttosto, e conformemente alla sua “natura”, essa è una matrice e un ricettacolo
dell’esperienza artistica, il “grande crocicchio” da cui sorgono e in
cui si abbeverano le sensibilità creative.
Inutile, s’è già detto, tentare una ricognizione degli innumerevoli
registri emotivi coinvolti nella topogenesi. Ed è appena il caso di
rammentare che essi si declinano sul piano collettivo come su quello individuale. O anche, e forse meglio, su un piano individuale ma
in un ambito di condivisione collettiva. I sentimenti dei luoghi appartengono a ciascuno di noi, evidentemente, ma la cultura che li
genera e li alimenta appartiene ad un gruppo umano, a una società.
È per questo che, talora ricorrendo a risorse di tipo retorico, attorno a
questi sentimenti si sviluppano discorsi di tipo identitario: l’identità
essendo a sua volta un sentimento, un modo di “sentire” il luogo, introiettandolo nel proprio sistema di valori e nel proprio concreto agire territoriale.
In quest’ultimo senso, la topìa certo più universale è quella di
“patria”: il luogo-genitore. Questa genitorialità che articola lo spazio
indifferenziato in luoghi ben individualizzati, alcuni popoli, come in
Madagascar, la designano puramente e semplicemente come “matria”, mettendo l’accento sull’atto del tutto femminile di dare i natali, generare gli uomini che, pur nella loro diversità, si riconoscono
come fratelli. Altri popoli, come i malinké dell’Africa occidentale,
mettono l’accento sulla qualità “filiale” chiamando Manden (da cui
viene Mandingo) il luogo dove vivono i figli (den) del Ma, il Signore,
il Padre di tutti.
Il piano personale si mischia dunque con quello collettivo facendo del luogo un’autentica arena emotiva in cui l’affettività si dispiega come puro gioco interiore ed altresì come identificazione ideologica: il tutto, aperto ai venti della retorica. Come esempio di questa
arena emotiva e dell’intreccio di sentimenti che vi si svolge, portiamo l’esempio della concezione e dell’esperienza di pila, il luogo ap-
5. Il luogo, bene comune
169
punto, presso i Bofi della Lobaye (Repubblica Centrafricana)33. Il
luogo dunque viene indicato come pila, con il significato generico di
posto, sito, località in cui è ubicato qualcosa, o si è verificato un fatto34. Il contenuto locazionale è dunque evidente e soverchiante: il
codice primario è l’ubicazione, l’ancoraggio referenziale di un quid,
sia esso cosale (un albero, tè; una fonte, zu-li) o circostanziale (un
evento, che i bofi chiamano genericamente zengui). Ma la “località”
è solo il punto da cui si parte per la costruzione concettuale del luogo, e quindi per il conferimento di “topìa” al posto. Così, se tutte le
località in qualche modo si equivalgono, quelle dotate di infungibilità hanno a che fare intanto con l’origine/provenienza della comunità: è, se si vuole, l’epopea della Grande Migrazione che comincia da qualche parte così come custodita dalla memoria collettiva e narrata all’ascoltatore. È importante rilevare come non sempre questo “luogo d’origine” è indicativo di un’età dell’oro, o comunque marcata positivamente. Spesso infatti si fugge dal luogo
d’origine per qualche motivo contingente (una malevolenza degli
spiriti, ad esempio, che si manifesta nella forma di malattie epidemiche, morti improvvise…). Il luogo d’origine tuttavia resta nel ricordo non solo per alimentare l’identità narrativa delle nuove generazioni bofi, ma anche perché laggiù è custodito come in uno scrigno prezioso sia l’antico patto insediativo stipulato da un antenato
con uno spirito del luogo benevolente, e sia una sorta di sorgente
primitiva, una preziosa condensazione topica della benevolenza degli avi, anche se questi, nel frattempo, si sono spostati, per seguire
la Grande Migrazione.
Fa da contrappunto all’infungibilità del luogo d’origine quella
del luogo attuale di insediamento. Questo intanto non è scelto a caso, ma è il frutto di una valutazione accurata delle possibilità di
stanziamento. Possibilità tecniche per quanto riguarda l’ubicazione
del villaggio, ad esempio; o possibilità fisico-materiali concernenti
lo spazio da adibire alle future coltivazioni. Ma anche possibilità
33 Questo popolo possiede infatti il concetto di territorio non solo come artefatto o come condizione dell’essere, secondo gli stili percettivi e conoscitivi della
territorialità costitutiva (denominazione, reificazione, strutturazione) e della
territorialità ontologica (il territorio/comunità: cfr. Turco, in questo stesso libro). Essi lo declinano altresì configurativamente e cioè come paesaggio, come
luogo e come ambiente, seppure con diversi gradi di profondità.
34 Ricordiamo che nella territorializzazione configurativa la qualità topica ha
a che fare con localizzazioni non fungibili. I luoghi dunque, al contrario delle
semplici località, non sono intercambiabili, senza che venga alterato il significato culturale o la sostanza sociale di ciò di cui si sta parlando o le ragioni di ciò
che si sta facendo (A. Turco, Configurazioni…, op. cit., specialm. pp. 139 ss.).
170
ANGELO TURCO
spirituali, in specie per quanto attiene all’ispirazione degli antenati
e ai segni propiziatori che i “viventi immateriali” già presenti nel sito
inviano circa la buona disposizione delle divinità e degli spiriti del
luogo a “fare comunità” e dunque a creare un nu (terra/comunità,
appunto) con il gruppo umano che va ad installarsi.
A fronte di questa infungibilità assoluta, ve n’è una in qualche
modo più elastica, concernente la domesticità: ciò che caratterizza
zing-pila, il luogo amico. I luoghi domestici possono essere molteplici, ma tutti sono noti, conosciuti, poco rischiosi e dunque “matrici di sicurezza” e fatti bersaglio di particolare cura ed attaccamento
(“ricettacolo”).
3. Modernità ed eclisse della ragione topica
Antico motivo ecumenale, il luogo ha subito numerose metamorfosi nel corso del tempo. La sua “presenza” nella coscienza culturale
di questa o quella civiltà, la sua percezione psicologica, la sua espressione estetica, la sua stessa consistenza ideologica, sono state
storicamente mutevoli. Nel susseguirsi di alti e bassi, tuttavia, sembra di poter osservare una generale tendenza alla degradazione del
senso del luogo, alla caduta di consapevolezza dell’esistenza di un
contenuto specificamente “topico” nella relazione tra l’uomo e la
terra. Con tutto quanto ciò può comportare in termini di impoverimento emotivo, di perdita di ethos sociale, di assenza di attenzione
per politiche territoriali di tipo configurativo, specificamente rivolte
al “luogo” e conseguente avvitamento del territorio in una spirale di
insensibilità verso tutto ciò che poteva riferirsi alla topìa.
E.S. Casey ha ricostruito dal punto di vista filosofico questa oscillazione tra acuta e debole percezione/considerazione del senso
del luogo, leggendola come una sorta di “destino” della topìa. Per vero, l’analisi si svolge nel quadro del rapporto tra spazio e luogo, piuttosto che tra località e luogo. Ma sembra evidente che all’accentuarsi
delle consapevolezze e propensioni “spaziali” corrisponde una caduta
del valore topico delle località, e quindi, se si vuole, un’evanescenza
della chora correlativa a una riduzione del “posto” al suo mero contenuto di topos35.
35 E.S. Casey, The fate of place, University of California Press, Berkeley,
1997; ed anche: A. Light and J.M. Smith (eds), Philosopy and Geography III:
Philosophies of place, Rowman & Littlefield, Lanham (MD), 1998.
5. Il luogo, bene comune
171
D’altronde, va rilevato come dal punto di vista geografico esistono almeno due figure narrative attraverso cui si racconta lo svolgimento della spazialità terrestre: quella dello spazio paratattico e
quello dello spazio liminare 36. Il primo “mette ogni cosa al suo posto”: ha a che fare con sequenze, localizzazioni, coordinate e cosificazioni delle caratteristiche naturali o antropiche della superficie
terrestre. Il secondo riguarda piuttosto le forme spaziali in cui incessantemente si compongono e si ricompongono la indeterminatezza dei fenomeni naturali e l’imprevedibilità degli eventi storici.
Ora, se osserviamo la geografia umana attraverso il prisma delle
“figure” che sono servite a narrarne lo svolgimento, vediamo come
la sensibilità culturale per il luogo sia stata particolarmente favorita
da propensioni verso lo spazio liminare piuttosto che verso lo spazio
paratattico. Ciò pone dunque, anche in questo contesto di analisi,
un problema concernente la modernità che, con l’affermarsi sempre
più egemonico delle concezioni paratattiche, induce una marginalizzazione costante della topìa come fattore configurativo della territorialità.
Se consideriamo l’esperienza occidentale, nel cui segno si sono
svolti i cicli di mondializzazione del nostro pianeta in età moderna37, vediamo come l’eclisse del luogo, la sua mimesi generalizzata,
ha inizio proprio con le grandi scoperte geografiche. Quando gli europei “scoprono” appunto il mondo e cominciano a farlo funzionare
come un’unità facente capo all’Europa (mondializzazione), questo
mondo tende ad essere considerato come una tabula rasa, un grande lenzuolo dove si trovano dei posti che sono considerati sbrigativamente delle “località” e non dei “luoghi”. Del resto, come si poteva
cogliere l’essenza topica di una località, senza conoscere a fondo la
cultura delle popolazioni insediate e, in modo specifico, il peculiare
rapporto emotivo che esse hanno instaurato con la terra nella costruzione della loro propria geografia, esito dell’agire sociale, ma allo stesso modo condizione di quell’agire?
L’espansione europea, nelle sue varie forme (mercantilismo, colonialismo) può essere letta nel suo complesso come una gigantesca
operazione di smantellamento topico del mondo, di destrutturazio36 A. Turco, “Figuras narrativas de la geografia humana”, in: A. Lindon, D.
Hiernaux (dir.), Los giros de la geografia humana. Desafios y horizontes, Anthropos, Barcelona, 2010.
37 Grandi scoperte geografiche, su cui si innesta un’espansione europea declinata di volta il volta come mercantilismo, colonialismo, imperialismo. Su
questi temi rinvio a: C. Grataloup, Géohistoire de la mondialisation. Le temps
long du monde, Colin, Paris, 2010.
172
ANGELO TURCO
ne del legame topico tra l’uomo, le società e il loro territorio38. Un
atto di straordinaria violenza culturale che si risolve, tra l’altro, nella formazione di eterotopie: installazioni umane funzionali ad interessi esterni, località che pur tenderanno a diventare luoghi ma che
nulla hanno a che fare con i territori scoperti e poi in varia guisa
dominati. Si pensi al rosario degli approdi o degli insediamenti che
tendono con i loro nomi a radicare al suolo valori culturali europei
in terre che invece ne possiedono altri. Ad esempio la costellazione
di “battesimi del luogo” cristiani in terre che cristiane non sono: da
Asunciòn a Natal, da Saint-Louis du Sénégal a Saint-Laurent, da
Los Angeles a San Francisco, ai vari St. Joseph, St. Andrew, St.
Mary che si sgranano dal Canada all’India passando per l’Africa.
Oppure intrusione di marche coloniali in terre che la colonizzazione
ha violato nella loro storia e scomposto nella loro geografia: Nuova
Francia, Nuova Spagna, Nuova Inghilterra; e ancora, da Brazzaville
a Rhodesia, da Léopoldiville a Pretoria, da Lourenço Marques a
Stanleyville e persino a Nuova Roma dello Scioa.
L’atopia del mondo, con il corteo distorsivo di eterotopie appena
ricordato, è progressiva e, paradossalmente, si ritorce contro chi
l’ha generata e sostenuta. Infatti, gradualmente anche l’Europa viene investita da questa degradazione topica. Certo possono essere
ricordati alcuni grandi sfondi culturali in cui avviene tutto ciò. Ad
esempio l’affermarsi crescente del tema della “universalizzazione”,
di ispirazione più o meno kantiana, con i rischi che ciò comporta in
termini di appiattimento dei luoghi singolari a località omologate39.
O ancora l’emergere del tema della “temporalità” che vampirizza in
qualche modo la spazialità. Queste due “modalità del conoscere”
cessano di avere pari dignità quando si comincia a pensare che la
prima è superiore alla seconda, perché in qualche modo la contiene,
sancendone il superamento come realtà empirica “necessaria” alla
comprensione del mondo: dopotutto, non appartiene ad Hegel
l’affermazione che “la verità dello spazio è il tempo?”. Né possiamo
dimenticare l’eclisse del sacro con l’affermarsi della rivoluzione
scientifica seicentesca (la cosmografia newtoniana presuppone e
38 Questo processo è strettamente collegato alla crisi “moderna” del pensiero
mitico, le cui conseguenze sulla costruzione della geografia scientifica contemporanea sono state ricostruite da: V. Berdoulay, A. Turco, “Mythe et géographie,
de l’opposition aux complémentarités”, Cahiers de géographie du Québec, 126,
2001.
39 Una riconsiderazione intelligente degli influssi di Kant ed Hegel sulla Geografia, e inversamente, in: M. Tanca, Geografia e filosofia, FrancoAngeli, Milano, 2012, Cap. 1 e 2.
5. Il luogo, bene comune
173
veicola l’idea di un Dio ubiquitario e dunque senza luogo) e la progressiva secolarizzazione delle istituzioni40.
Ma vi sono altri e più cogenti fattori, specificatamente geografici,
che spingono verso questa atopia europea. Guardiamo ad esempio
che succede alla territorialità del Vecchio Continente in seguito alla
Rivoluzione Industriale: specialmente in conseguenza dell’impennata
demografica che si risolve geograficamente in una urbanizzazione
accelerata41. Lo spopolamento diffuso dei centri ed aree lontani dagli assi di industrializzazione impoverisce i vecchi luoghi: piccoli insediamenti, massicci montuosi, valli incassate. E mentre i vecchi
luoghi si impoveriscono, i nuovi non riescono a formarsi per la velocità dei processi di crescita e la dilatazione degli insediamenti sensibili ormai ai nuovi impulsi economico-produttivi, con i valori che
essi comportano. Primi fra tutti una logica accumulativa (di capitale, di potere), una corsa all’appropriaione della rendita urbana e
fondiaria, infine una progressiva cosificazione dei sentimenti, legati
al possesso di cose o alla fruizione di servizi piuttosto che alla qualità delle relazioni: umane, sociali, territoriali, spirituali.
Nel momento della sua istituzionalizzazione come disciplina
scientifica universitaria, la geografia non riesce ad intercettare questo decisivo fenomeno di immiserimento topico del processo di territorializzazione. Non riesce a capire che tutti stavamo perdendo
qualcosa, il bene comune della topìa, e stavamo diventando collettivamente più poveri nella corsa della modernità verso la ricchezza
individuale. Motivo di riflessione ancora ben percepibile nell’opera
di K. Ritter42, di fatto il luogo scompare rapidamente dall’orizzonte
del pensiero geografico e non conta più in modo significativo allorquando, nella seconda metà del XIXs, si costruiscono i grandi modelli descrittivi della geografia accademica e professionale. Le cause
di questa “caduta” epistemologica sono numerose e complesse43.
40 E.S. Casey, The fate of place…, op. cit; Id., Getting back into place: toward a renewed understanding of the place-world, Indiana University Press,
Bloomington (Ind), 1999; J. Inge, A christian theology of place…, op. cit.
41 Londra è certo l’emblema di questo processo: 860.000 abitanti ad inizio
’800, oltre cinque volte tanto un secolo dopo. In Inghilterra, il superamento della popolazione rurale da parte di quella urbana avviene negli anni ’50 del XIX
sec., mezzo secolo prima della Francia e della Germania, un secolo prima
dell’Italia.
42 Cfr. G. Nicholas-Obadia, “Carl Ritter et la formation de l’axiomatique géographique”, introduzione a: C. Ritter, Introduction à la géographie générale
comparée, Les Belles Lettres, Paris, 1974.
43 A. Turco, “Mythe et géographies”, Cahiers de géographie du Québec, 126,
2001.
174
ANGELO TURCO
Tra esse, va certo annoverata l’affermazione del positivismo e soprattutto la sua interpretazione da parte dei geografi che in questa
fase – in cui essi apprendono a pensarsi ed a funzionare come una
comunità di ricercatori – hanno bisogno di un paradigma scientifico
forte e riconoscibile44.
Per vero, una traccia epistemologica forte ed autorevole del luogo emerge nella celebre proposizione di P. Vidal de La Balche: “la
geografia è la scienza dei luoghi, non quella degli uomini”45. Questa
proposizione può essere considerata come una sorta di Manifesto
per l’esplicitazione della geograficità del luogo come componente
costitutiva della “norma” disciplinare nei riassetti scientificoistituzionali che si vanno determinando46. Tuttavia, senza considerare le critiche più o meno strumentali che ad essa sono venute47, si
ha l’impressione che la posizione vidaliana sia stata considerata
come un enunciato assertivo, un semplice augurio se vogliamo o
una buona intenzione, piuttosto che come un “programma di ricerca”48.
Nella fase successiva all’istituzionalizzazione, l’unico tentativo
disciplinarmente qualificato di ragionare sulla topìa può dirsi quello
di W. Christaller49. La teoria delle località centrali, tuttavia, viene
letta soprattutto in chiave funzionalista o come “modello normati44 Cfr. su questi temi: H. Capel, Filosofia e scienza nella geografia contemporanea, Unicopli, Milano, 1987. C’è pur da osservare che le cose non vanno
ovunque allo stesso modo. Ad esempio, le tappe che scandiscono la formazione
della “Ecole française de géographie” testimoniano non tanto percorsi lineari,
ma inquietudini molteplici, come mostra: V. Berdoulay, La formation de l’école
française de géographie (1870-1914), Comité des travaux historiques et scientifiques, Paris, 1981.
45 P. Vidal de la Blache, “Des caractères distinctifs de la géographie”, Annales de Géographie, 1913, p. 299.
46 E quindi per definire il “campo disciplinare” stesso secondo la logica “oggetto e metodo” nei confronti di discipline scientifiche emergenti ed accademicamente “aggressive” come la Sociologia o l’Antropologia.
47 Sviluppate al tempo della “rivoluzione quantitativa” negli anni 1960 e ’70,
tanto dai geografi detti “radicali” quanto da quelli detti, appunto, “quantitativisti”.
48 Come inteso da I. Lakatos, “La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca”, in: I. Lakatos, A. Musgrave (a cura), Critica e crescita della
conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1976. E ciò, contro ogni evidenza, come la critica più attenta del pensiero vidaliano va mettendo in luce, considerando, ad esempio, il concetto di Patria: G. Mercier, “Entre science et patrie. Lecture du
régionalisme de Paul Vidal de la Blache”, Cahiers de géographie du Québec,
126, 2001.
49 W. Christaller, Le località centrali nella Germania meridionale, FrancoAngeli, Milano, 1980.
5. Il luogo, bene comune
175
vo” di localizzazione delle attività terziarie, a chiudere il qualche
modo il “ciclo tedesco” iniziato nel 1826 con J.H. Von Thünen (attività agricole) e proseguito un’ottantina di anni dopo da A. Weber
(attività industriali).
Bisognerà dunque attendere il post-quantitativismo perché riescano ad emergere alcuni nuclei maggiori di riflessione sul luogo50.
Uno è certamente legato alla già notata corrente fenomenologica americana degli scorsi anni ’70, particolarmente centrata sull’intimismo e
l’affettività51. A questa linea di pensiero, è riconducibile una vera e propria costellazione di posizioni, tra cui menzioniamo almeno quella di
Berdoulay ed Entrikin, che insistono particolarmente sulla dimensione
ordinativa del “racconto” nell’esperienza del luogo52.
Diverso è il perno di un secondo nucleo di riflessione, nel quale
la topìa è intesa nella sua dimensione sociale, considerata alle scale
più diverse, a cominciare da quella urbana: paradossalmente, infatti, la città è un “luogo” eminente della modernità che pure, come
abbiamo visto, tende a comprimere la qualità topica della territorialità. Nei lavori di geografi pur così diversi come M. Santos o D. Massey53, la topìa diventa una posta in gioco e, al tempo stesso, un’arma
formidabile per i movimenti che vogliono affermare diritti – come
la qualità della vita, la rappresentanza, la cittadinanza – attraverso
il luogo, la sua riconquista, la sua conservazione contro le spinte
atopiche dei processi globalitari, tecno-finanziarie, biopolitiche. Pur
con diversità di accenti e di preoccupazioni concettuali, anche in
questo caso si sviluppa una costellazione di posizioni, tra cui menzioniamo quella di M. Lussault sullo spostamento del focus dalla
“lutte des classes” alla “lutte des places”54.
Un ultimo importante nucleo di riflessione che vorremmo qui richiamare ha a che fare con lo sviluppo locale, ampiamente diffuso a
cavallo del millennio e particolarmente attivo ed originale in Italia
50 Tra le non molte ricognizioni critiche rammento: T. Cresswell, Place:a
short introduction, Blackwell, Malden, 2004. Per lo più limitata alla letteratura
di lingua inglese come fin troppo spesso negli autori anglosassoni.
51 Yi-Fu Tuan, Topophilia…, op. cit; Id., et al., Place, art and self, Center for
American Places, Santa Fe, (N.M.), 2004; E.C. Relph, Place and placelessness,
Pion, London, 1976.
52 V. Berdoulay, J.N. Entrikin, “Lieu et sujet. Perspectives théoriques”, L’Espace
Géographique, 2, 1998.
53 M. Santos, La nature de l’espace, L’Harmattan, Paris, 1997; D.B. Massey,
Space, Place and Gender, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1994;
Id., For space, Sage, London, 2005.
54 M. Lussault, De la lutte des classes à la lutte des places, Grasset, Paris,
2009.
176
ANGELO TURCO
per effetto soprattutto del gruppo animato da G. Dematteis55. Nel
determinare le condizioni dello sviluppo negli SLOT (Sistemi locali
territoriali), qui gli studiosi si rivolgono non solo e non tanto ai fattori “performativi” che entrano in gioco nel decollo economicosociale dei diversi territori, locali o esterni, quanto piuttosto alle peculiarità “circostanziali” che hanno saputo trasformare “valori” e
“memorie”, in fattori competitivi sotto forma di competenze, innovazioni, creatività. La geografia dei luoghi e l’economia della cultura
diventano grandi alleate.
4. Topogenesi e complessità
4.1. L’avvento del luogo
Sarebbe probabilmente vano immaginare che, a fronte di tanti
scandagli scientifici, possa nascere qualcosa che somigli a una teoria
unificata del luogo. È ben possibile, invece, immaginare come ha
fatto Berque una tessitura fondativa di carattere epistemologico ma
con profonde implicazioni teoriche: alcune inclusive delle linee di
pensiero appena richiamate, altre ancora tutte da esplorare.
Tra le configurazioni della territorialità, il luogo è certo il più antico motivo ecumenale che indica con grande pregnanza il modo
specificamente umano di vivere la natura, di trasformare lo spazio,
di abitare la terra. Il suo percorso è evolutivamente intelligente poiché il luogo è capace di interferire con le dinamiche che lo riguardano, di agire su se stesso attraverso modificazioni, creazioni, distruzioni perfino. E tale percorso è componibile in una topogenesi, vale
a dire il processo che descrive le condizioni di formazione e di evoluzione del luogo.
Le condizioni di formazione anzitutto, sono estremamente importanti, come abbiamo detto più volte. Ciò che conta non è questo
o quel carattere esistente e significativo, e nemmeno un loro più o
meno compiuto insieme enumerativo. Piuttosto, è la capacità dello
spazio ecumenale di invocare e convocare in un posto delle energie,
delle ispirazioni, delle intuizioni, delle abilità, dei desideri che poi la
realizzazione umana va a rendere sensibili. È la passione di M. Bu-
55 Si può vedere, tra i molti lavori: G. Dematteis, F. Governa (a cura), Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità: il modello SloT, FrancoAngeli, Milano,
2005.
5. Il luogo, bene comune
177
tor56: prima di diventare topos, il posto chiamato luogo deve essere
necessariamente chora.
Chi ha visto con grande profondità questo aspetto è il geografo J.
Bonnemaison evocando quello che le popolazioni melanesiane da
lui studiate fanno intravvedere come un “lieu préliminaire”57. Una
pre-esistenza di topìa che accoglie e rilancia l’agire territoriale. Né è
da credere che questo luogo preliminare sia a sua volta dato. Nella
cosmogonia malinké ad esempio il “mondo” (dunya) non è una creazione ex nihilo come nella tradizione biblica, ma è un “parto” che
avviene come gioco di forze (confluenza ma a volte anche scontro) e
come dinamismo di qualità che, prim’ancora di farsi “materia”, si
dispongono e si articolano come “luoghi”: sono i dugurentologu, i
nomi veri e segreti che “irrigano il luogo vacante delle esistenze che
verranno” e preparano così balokena, il campo della vita58.
Certo, siamo sul filo delle intuizioni, con l’accento così evidentemente posto sul “sentire” piuttosto che sul “capire”, sul “comprendere” piuttosto che sullo “spiegare”. Ed è perciò che, in fondo, risulta
così difficile “pensare” razionalmente il luogo, mentre risulta correlativamente così semplice e persino immediato “pensare” la topìa in
ambito religioso o artistico. Si pensi, per quanto riguarda la religione, al lessico che esprime le manifestazioni sensibili della divinità:
teofania, epifania. O all’idea di topomorfosi, già evocata. Dal loro
canto, le arti esplorano le marche di confine tra il conoscibile e
l’inconoscibile, puntano sull’analogico piuttosto che sul logico, sulla
continuità metaforica piuttosto che sulla contiguità metonimica,
sull’associazione piuttosto che sulla concatenazione. Per l’arte il
luogo non è un problema concettuale, ma semmai un problema espressivo. La forma nascente – testuale, sonora, visiva – di un con56 M. Butor, Le génie du lieu, 3 Vols (Grasset, Paris, 1958; Gallimard, Paris,
1971; Gallimard, Paris, 1978).
57 J. Bonnemaison, Gens de pirogue et gens de la terre. Les fondements géographiques d’une identité: l’archipel du Vanuatu, essai de géographie culturelle, ORSTOM, Paris, 1996. Spiega l’A.: “Oltre il sistema di produzione e della
storicità, esiste un ‘luogo preliminare’ – o, se si preferisce, una percezione legata
a un’organizzazione mentale – che sorge dall’osmosi creatrice tra una natura
precisa e i grandi miti fondatori che la spiegano. Di questo ‘luogo preliminare’,
che va specificatamente definito per ogni società, derivano una ‘messa in forma’
dello spazio e, attraverso di essa, una rete di valori e di significazioni” (J. Bonnemaison, “De la nature de l’espace à l’espace de la culture. Images sociales et
culturelles d’un espace insulaire”, L’Espace Géographique, 1, 1985, p. 36).
58 A. Turco, “Topogenèse: la généalogie du lieu et la constitution du territoire”, in: M. Vanier (dir), Territoires, territorialité, territorialisation. Controverses et perspectives, Presses Universitaires de Rennes, Rennes, 2009, pp. 4243.
178
ANGELO TURCO
tenuto autoevidente. E del resto, quando si affida alla religione o
all’arte, la sensibilità di ciascuno di noi va dritta al cuore della relazione che ci lega al luogo.
Il senso filosofico della topìa, e più ancora quello empiricoanalitico, risultano di ben più difficile intelligenza. Eppure, tutti
questi “sensi” topici – filosofico, artistico, scientifico, religioso – sono compresenti nell’impresa conoscitiva, la quale ricorre a percorsi
che sono sempre sia cognitivi che affettivi. Per questa via, solo apparentemente intricata, tali “sensi” si influenzano l’un l’altro e si
sorreggono vicendevolmente, si aiutano mutuamente. E concorrono
a costruire l’idea che il luogo non è un dato ma un processo e che
esso non è una localizzazione ma una topogenesi.
4.2. La genesi infinita del luogo
È a questo punto, precisamente, che topos ci appare in tutta la
sua decisa importanza. Topos infatti è il mezzo attraverso il quale si
realizza il gioco della complessità, l’autopoiesi, la catena di retroazioni innovative che si innesta sulla “nascita” del luogo. È la formazione geografica nella quale le potenzialità di chora si attualizzano:
“i luoghi vacanti” delle esistenze si fanno storia. Con queste e quelle
caratteristiche: morfologiche, funzionali, e quant’altro.
Al tempo stesso, topos è il dispositivo che condensa ed elabora la
fermentazione sociale: i bisogni, le speranze, le aspettative e i sentimenti degli uomini che fanno il luogo e dal luogo sono, per così
dire, influenzati e in varia misura plasmati. La fermentazione sociale: che si chiami di volta in volta qualità dell’ambiente o passione
civile, sviluppo economico, bisogno di partecipazione democratica,
esigenze di buon governo, vivibilità, sicurezza, estetica. In fondo, è
nell’interfaccia tra questi multiformi aspetti che il luogo fonda la
sua ragion d’essere: e la sua ragion d’essere, evidentemente, coincide con la sua capacità di funzionare e di durare nel tempo. Proviamo a capire tutto ciò attraverso un esempio, quello di insediamenti
che sicuramente ciascuno di noi è disposto a considerare dei luoghi:
le città storiche59.
Se vogliamo dare un senso categoriale alla “città storica” come
luogo, dobbiamo andare oltre l’idea della città quale specchio di una
59 Questo paragrafo è tratto, per l’essenziale, da: A. Turco, “Città storiche”,
in: Italia. Atlante dei tipi geografici, IGM, Firenze, 2004.
5. Il luogo, bene comune
179
cronologia, oppure quale riferimento ubicativo60. Più profondamente, la città deve essere colta come sintesi alta, densa, complessa di
una “storia esteriore” (un topos, precisamente) in cui restano indelebilmente incisi l’espressione sensibile e lo spirito stesso di una civiltà. Se ci soffermiamo sulla città storica italiana, vediamo come
essa, quale che ne sia l’origine, incorpora nel suo paradigma conquiste vitali per la cultura occidentale: come quella di polis, che realizza la trasformazione dell’ochlos, la moltitudine, in demos, il popolo; come quella di urbs, che istituisce una corrispondenza iconica
tra la città, forma superiore della vita associata, e l’orbis, il mondo
che ne diventa programma; infine come quella di civitas, che eleva
la convivenza a bene supremo e la fonda sull’imparzialità della legge. Nella sua forma e consistenza fisica, pertanto, la città storica esibisce una semiosi che, attraverso le proprie articolazioni semantiche, sintattiche, pragmatiche, ne fa una struttura territoriale autonoma, infungibile, altamente complessa. La significazione “storica”
della città si esprime anzitutto, e non a caso, come vocazione al
cambiamento. Dire Palermo, o Firenze, o Roma, equivale a pensare
una struttura territoriale cognitivamente aperta, che sviluppa nel
tempo un’attitudine a combattere la stagnazione ed a secondare, a
influenzare e perfino determinare la variabilità delle situazioni storiche61.
In secondo luogo, la città storica include come suo tratto costitutivo una fortissima proiezione esterna: questa può assumere molti
profili (politici, economici, culturali) e tradursi in forme di organizzazione del territorio più o meno pregnanti fisicamente e simbolicamente. Quel che va messo in rilievo tuttavia quando evochiamo
Venezia o Milano o Napoli, è che la tensione a fuoriuscire dai propri
perimetri non va intesa solo in funzione di disegni egemonici, ma
viene concepita e attuata come condizione simbiotica che realizza il
destino “storico” della città nell’esatta misura in cui questa si assume il compito di estendere i canoni dell’urbanità su territori di più
60 Ad esempio: città antiche, medievali, moderne o altra indicazione cronologica presso altre culture; ovvero: città del Nord e del Sud, ad esempio, oppure
di mare, di pianura, di montagna…
61 Ad esempio, Torino è città importante da tempo immemoriale quando ha
luogo il trasferimento dei Savoia da Chambéry alla fine del XVI sec., evento che
la porta ad assumere progressivamente la fisionomia urbanistica, la definizione
monumentale, la densità funzionale di una grande “capitale”. Ma la città subalpina riesce a restare “capitale” anche con il nuovo – e non indolore – trasferimento
dei Savoia, questa volta a Firenze e poi a Roma, catapultandosi nella linea di testa
della rivoluzione industriale italiana e dando corpo a una mutazione geografica
tra le più intense e complesse della modernizzazione nazionale.
180
ANGELO TURCO
ampie dimensioni62. È il nesso urbs/orbis, il programma della cittàmondo.
L’imponente documentazione cartografica che ci racconta la territorialità di Venezia rinascimentale esprime questo connotato in un
modo tra i più raffinati. La proiezione urbana è duplice, marittima e
continentale, e si articola in enunciazioni visive che non sono solo
politiche (e si vorrebbe dire fatalmente geopolitiche), concernenti,
ad esempio, i possedimenti adriatici, ionici ed egei. Esse descrivono
altresì lo “stato da terra e da mar” in termini di pianificazione territoriale, come campo di applicazione di politiche idrauliche o forestali per la sicurezza e il maggior benessere della città e dei suoi
domini. Allo stesso modo, esse declinano l’intero bacino mediterraneo come area economica di interesse veneziano63.
Infine, e per chiudere sugli aspetti semantici, la città storica è
una struttura territoriale normativamente chiusa pur sapendo assicurare a se stessa una straordinaria apertura cognitiva. Si chiami
Bari o Mantova, Verona o Lucca, Pavia o Benevento, Cagliari o Brescia, essa conserva una fortissima consapevolezza identitaria. Sicché, sebbene accolga e metabolizzi le sollecitazioni provenienti da
ogni dove, essa resta tuttavia capace di trarre dal proprio seno le
motivazioni e le regole del suo agire nel tempo e nello spazio. È connotato ricorsivo della città storica l’attenzione per gli equilibri politici che oggi diremmo internazionali. Ben nota è pure la resistenza
opposta a un qualche potere soverchiante, si dica imperiale o papale
o ducale, durante questo o quel periodo della sua esistenza. Ma di là
62 La cartografia esprime in diverse maniere questo connotato della città
storica, attraverso l’irradiazione delle vie di comunicazione, ad esempio, oppure
materializzando limiti giurisdizionali attorno ad essa. Assai significativo è il richiamo a “ville nuove” e “borghi franchi” che non solo presidiano le marche di
confine, ma sono deputati, specie a partire dal basso medioevo, a garantire
l’organizzazione insediativa e produttiva del contado. L’apparato semico della
carta sovente mobilita codici ideologici, mettendo in gioco, accanto alla suggestione figurativa, la disposizione e la grandezza dei simboli: spesso la città è posta al centro di un territorio ed ostentatamente sovradimensionata rispetto al
contesto di cui è fulcro.
63 È un controllo intellettuale dunque che la cartografia istituisce allorquando integra raffigurazioni di terre e di mari con designatori che non solo fissano
riferimenti, ma informano dettagliatamente sulle condizioni nautiche o sacralizzano il territorio con richiami a Marco e ai santi cari alla Repubblica. Sono precisamente questi impianti designativi, le cognizioni performative e i valori simbolici che essi veicolano, ad imprimere agli spazi rappresentati, e in prima istanza al Levante e all’Adriatico (“Golfo di Venezia”), il sigillo della Serenissima,
la certificazione dei suoi vasti interessi e la sua autocelebrazione.
5. Il luogo, bene comune
181
dagli antagonismi politici o militari, vale annotare l’autonomia complessiva che sfruttando ora questa risorsa funzionale, ora quella risorsa
istituzionale, economica, tecnologica, culturale, la città storica si è
sforzata di garantire ai propri stili di vita e ai propri modelli di sviluppo.
A sua volta, la dimensione semantica trova riflesso e sostegno in
due ulteriori, peculiari elementi interpretativi, vale a dire una sintassi e una pragmatica urbane. La prima dà conto dell’insieme delle
connessioni urbanistiche e sociali che sostanziano il tessuto cittadino. La morfologia urbana, gli stili costruttivi, l’impiego dei materiali, le soluzioni architettoniche, le realizzazioni monumentali, le differenziazioni funzionali, insomma tutta una costellazione di elementi pur diversi nell’origine, nelle concezioni, nelle destinazioni
d’uso, tuttavia mostra una tensione costante a collegare la contingenza dei singoli componenti con un’idea soggiacente di “sistema” o
di “organismo”. Questa rincorre ora il modello della città ideale, ora
l’utopia della città perfetta, talvolta il sogno della città di Dio. È
un’idea che si alimenta dei miti di fondazione, come è per Roma, o
la Genova di Giano o la Padova di Antenore. Ed è un’idea, anche,
che nel corso dei secoli conosce innumerevoli metamorfosi, dalle
metafisiche medievali della machina mundi, alle visioni rinascimentali, alle geometrie e alle sicurezze tecnologiche della modernità, fino alle generose speranze che a cavallo del XX secolo si raggrumano nella città-giardino di ispirazione howardiana.
Ritroviamo, in questa sintassi urbanistica, la traccia di tensioni
molteplici: quella tra regolarità e irregolarità, quella tra luoghi pubblici e privati, per dire solo le più evidenti. Ma in ogni caso, la semiologia urbana riflette la concezione di una realtà simbolica che
evolve unitariamente pur nella diversa forma e articolazione attraverso le quali si materializzano nel tempo e nello spazio le sue differenti parti. Due aspetti almeno meritano di essere qui sottolineati. Il
primo è che la città storica sviluppa una relazione armonica con il
sito che la accoglie, non solo adeguandosi ad esso, ma esaltando
l’elemento fisico che lo caratterizza maggiormente: Roma è impensabile senza i suoi colli; Venezia fa tutt’uno con la sua laguna, Torino e Firenze con i loro fiumi, Messina con lo Stretto. Di più, essa
mostra di sapersi rapportare all’ambiente naturale non tanto come
vincolo, ma piuttosto come risorsa. E ciò non solo quando gli adeguamenti fisici possono darsi in un quadro pianeggiante, come nel
caso di Ferrara dopo la rotta del Po del 1150, ma altresì quando le
espansioni hanno dovuto fare i conti con conformazioni topografi-
182
ANGELO TURCO
che accidentate o comunque “apparentemente” limitative64. Il secondo aspetto ha a che fare con il nucleo insediativo originario, che
seppure successivamente sperimenta commistioni profonde come a
Palermo o a Napoli, talvolta riesce a conservare una sua fisionomia,
diventando un’icona della morfologia urbana: è il caso degli antichi
impianti romani che, come a Bologna, mantengono una loro decisa
visibilità.
Ma non sapremmo chiudere questa pur rapida riflessione sul
luogo-città senza evocare le pratiche urbane. La città storica si offre
a una peculiare azione collettiva e ne viene modellata. Così, una società urbana che è insieme consapevole della sua tradizione e aperta
al nuovo, sviluppa tensioni innovative nel campo della cultura e della tecnica, delle produzioni, delle istituzioni, senza barattare il passato, ma alimentandosi anzi delle sue eredità. È qui che si colloca,
precisamente, il rapporto intimo e ineludibile tra città e libertà,
l’essenza stessa della cittadinanza come emblema della qualità urbana della città storica. Quest’ultima, allora, diventa non solo la
scena di una socialità multiforme, intensa, immaginativa, ma altresì
la sintesi visuale di una conquista dura e di una continua difesa del
diritto della popolazione di partecipare all’elaborazione del contratto sociale, alla scrittura delle norme che disciplinano la circolazione
del potere e garantiscono lo statuto del cittadino attraverso la sua
partecipazione al governo della città.
Si capisce da ciò che abbiamo detto fin qui come la città storica si
declini nei modi fisici e simbolici del presente, per quanto ciò possa
sembrare a prima vista paradossale. Di fatto, essa è una realtà attuale, che appare tuttavia sommamente capace di integrare nell’intreccio
delle sue relazioni odierne, le risorse memoriali e le spinte progettuali offerte dai suoi assetti urbanistici, dai suoi quadri paesistici, dai
suoi sistemi produttivi, dalle sue istituzioni e dai suoi abitanti. Questa peculiarità, che è al tempo stesso una responsabilità, appare in
tutta la sua importanza in un momento in cui le città storiche, confrontate con i grandi processi deterritorializzanti e ricompositivi
connessi alla globalizzazione, devono fare, in certo senso, quello che
hanno sempre fatto: conservare il proprio statuto, affidandosi
64 Lo vediamo con evidenza eclatante certo nel caso di Venezia; ma altresì,
per fare un esempio assai diverso, nel caso di Siena. Nella stessa ottica si inserisce l’esperienza di Genova E ciò, in particolare, quando in seguito al patto di
Madrid siglato da Andrea Doria e Carlo V nel 1528, la Repubblica che aveva
dominato i mari restando per secoli una “piccola città”, amplia e raffina esteticamente e funzionalmente il suo scenario urbano conquistando gli anfiteatri
collinari appenninici che la sovrastano.
5. Il luogo, bene comune
183
all’apertura cognitiva, e quindi alla capacità di progettazione, non
meno che alla chiusura normativa, e quindi al sentimento di libertà
e di autonomia. È in questo quadro che vanno valutate le strategie
di patrimonializzazione, che tendono a farne un bene culturale
sempre più aperto alla fruizione turistica cosmopolita, e al tempo
stesso un capitale comunicativo che dialoga efficacemente con le
pulsioni identitarie.
Il luogo-città è, oggi come forse non mai, una configurazione della territorialità preziosa, urgente e rischiosa che mette in gioco la
sua grande tradizione con le sfide urbane della sostenibilità, della
multilocalità, della netcity ciberspaziale, della smart city intelligente65. Un’avventura transurbana che fa appello ad una pianificazione
ordinativa ma anche partecipata, dove la public action è in grado di
produrre public learning: affinché ancora una volta si compia la topogenesi urbana e dunque la straordinaria e consapevole metamorfosi della città di ieri in quella di domani.
5. Bene comune, beni comuni
La topìa è un bene comune: sempre più raro, sempre più prezioso. Come tutte le formazioni geografiche configurative – che costituiscono il livello superiore del processo di territorializzazione – il
luogo è un piano d’azione, capace di fondere impulsività e riflessività. Capace di declinare al presente memoria e progetto. Capace di
contemperare valori d’uso e valori di scambio. Capace di stemperare
il calcolo nella passione e di organizzare la passione in calcolo: mettendo l’uno al servizio dell’altro, e viceversa, a seconda delle contingenze storiche. È per questo che diciamo che il luogo ci consente di
“vivere bene”, di farci stare bene nella nostra pelle. Pur senza possedere nulla, il fatto di vivere in un luogo (o di potervi soggiornare
anche solo temporaneamente) equivale ad esperire in modo pieno,
con il corpo e con lo spirito, la comunione con i nostri simili, con i
viventi, con gli elementi inanimati, con il piccolo mondo che ci ospita e con il grande cosmo che a sua volta lo ospita. E ciò, in modo insieme intenso e lieve, connaturante, senza uno sforzo determinato,
senza una volizione onerosa.
65 Sull’insieme delle problematiche che la città storica si trova oggi ad affrontare nel concerto delle grandi città del nostro Paese si può vedere: G. Dematteis (a cura), Le grandi città italiane. Società e territori da ricomporre,
Marsilio, Venezia, 2012.
184
ANGELO TURCO
La topìa è un ingrediente fondamentale della relazione ecumenale. Se riandiamo ai ragionamenti svolti fin qui, possiamo dire che il
luogo è il dispositivo spaziale che assicura il dispiegamento della libertà
umana, la configurazione del territorio che custodisce l’aspirazione individuale e collettiva a svolgersi in autonomia e ne garantisce le condizioni di possibilità. In questo senso, il luogo è un bene comune nel vasto e pullulante mondo delle località. Ed è un bene cui possono accedere non soltanto coloro che vi sono insediati, che hanno la fortuna di viverci stabilmente avendolo ereditato dai loro avi e assumendosi, con ciò stesso, la responsabilità di conservarne la preziosa peculiarità per i loro figli. Ma è un bene comune altresì perché tutti ne
possono fruire, arricchendolo con la loro intelligenza partecipativa:
da vicino o da lontano, in un modo o in un altro, in un momento
storico o nell’altro, in modo diretto o variamente mediato. Abitare
un luogo, in questa prospettiva, non significa tanto o soltanto “stare
in un luogo”. Significa piuttosto, come abbiamo più volte detto, costruire un’intesa vitale, partecipare attivamente alla dialettica creativa chora-topos: è questo il senso della libertà del luogo. E del benessere che può dare a ciascuno di noi la consapevolezza intima e
persistente che “non tutto si è giocato”, che “la partita è ancora aperta ed è anche la mia”. Ecco perché come dice J. Graq66, la forma
del luogo sta sempre dentro di noi e vive se siamo capaci di condividerla con gli altri, in modo tacito o conclamato.
In nessun caso si può immaginare il luogo come qualcosa che
nasce come tale e resta tale: un dato. O un nome sulla carta geografica dove, come direbbe H. Melville (ricordate Moby Dick?), “i veri
luoghi non compaiono mai”. Piuttosto, il luogo è un processo, abbiamo detto più volte, che mette in gioco due elementi fondamentali. Intanto, l’attitudine a tener aperto un canale di svolgimento di
chora, colta nella sua duplicità di matrice e di ricettacolo. Ciò implica, come ben si comprende, il mantenimento di una relazione biunivoca, di scambio nei due sensi, con l’attivazione di uno sviluppo
sempre più marcatamente autopoietico. Che non vuol dire affatto
blindatura verso l’esterno. Al contrario, significa massima apertura,
alla condizione tuttavia di riuscire a mantenere il controllo del processo nel suo nucleo fondamentale: la capacità di scambio tra la matrice e il ricettacolo67. Il secondo elemento ha a che fare con il profilo specifico che, in ogni singolo luogo, assume topos rispetto alla
J. Graq, La forme d’une ville, Corti, Paris, 1998.
La dialettica che più propriamente Berque chiamerebbe chorésie, ossia interna a chora, anche se pur sempre mediata da topos.
66
67
5. Il luogo, bene comune
185
chora che l’ha generato e di cui rappresenta non solo l’espressione
formale, ma la condizione tangibile che rende possibile lo scambio
tra la matrice e il ricettacolo (come mostrato in Fig. 1).
Bene comune, il luogo non soddisfa soltanto bisogni immediati
ma esigenze durevoli. Né esso indica “qualcosa” che bisogna proteggere, ma rinvia a questa complessità autogenerativa che si storicizza
in una duplice traiettoria68: quella che va da topos a chora e viceversa; e quella, anche, che si trasmette da un luogo a un altro, da
una topìa a un’altra.
Configurazione della territorialità, aperta e perennemente inconclusa, il luogo esalta le qualità liminari della geografia piuttosto
che quelle paratattiche. Ciò vuol dire, tra altre cose e riprendendo
un tema sviluppato da H. Lefebvre69, che nella complessiva “produzione di spazio” – e quindi nel seno del processo di territorializzazione – il luogo raccoglie e rilancia le tensioni innovanti piuttosto
che le istanze, pur legittime, dei risultati attesi e della loro più o
meno oculata gestione. Ogni progettazione del luogo deve tenere
dunque conto di queste connotazioni ed intercettare per un verso le
condizioni che favoriscono l’apparizione e l’implementazione della
creatività (chora) e, per altro verso, le condizioni di fatto che ne sono al tempo stesso l’espressione e le condizioni di possibilità futura
(topos).
Il luogo ha i suoi abitanti, certamente; eppure, abbiamo detto,
non appartiene a chi lo abita, ma a chi sa accedervi. A chi sviluppa
“competenza topica”, abilità ad intendere la topìa, sul piano cognitivo non meno che emotivo. E a goderne. Per questo diciamo che il
luogo è un “universale singolare”. L’unicità di un posto, la sua infungibilità, che si propaga nella consapevolezza collettiva, aggiungendo, agli abitanti residenti, quote crescenti di abitanti itineranti.
Il luogo si vive sempre al presente, senza per questo mai cessare
di essere un transito tra le consegne della storia già scritta e le possibilità di quella da scrivere. Un giovane astro scalpitante, di contagiosa potenza: e tuttavia non esente dal rischio di implodere, di ripiegarsi su se stesso, mortificando la sua energia, la sua vitalità creativa, le sue straordinarie promesse di ecumene.
68 Proviamo a rendere con questo pur inadeguato termine l’idea che Berque
sintetizza come “trajection”: un percorso che mentre si traccia, “trae” energie,
stimoli, pulsioni creative, conoscenze e insomma risorse materiali e spirituali,
cognitive ed emotive, orientate ad alimentare “durevolmente” il processo.
69 H. Lefebvre, La production de l’espace, Anthropos, Paris, 1974.