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285 - ARCHEOLOGIA E POLITICA, ARCHEOLOGIA È POLITICA

Riflessioni sull'uccisione di Albert Glock e sull'uso politico dell'archeologia.

ARCHEOLOGIA E POLITICA, ARCHEOLOGIA È POLITICA. A venticinque anni dall’uccisione di Albert Glock Premessa Si propone in questa sede un articolo inviato nel 2002 a un’importante rivista di divulgazione archeologica italiana. Benché accettato dalla redazione, fra un rinvio e l’altro gli anni sono passati e l’articolo non è mai stato pubblicato. Quanto era stato scritto per il decennale della morte di Albert Glock, un archeologo statunitense che lavorava in Israele, viene ora proposto a venticinque anni dalla sua uccisione. Uniche modifiche, la presente premessa e la nota bibliografica. Quel che leggerete resta perciò un testo divulgativo che spero possa incuriosire, spingere forse ad approfondimenti (e perciò il rinvio a testi recenti), fare riflettere. Perché ripropongo questo testo? Perché credo che la vita e la morte di un archeologo impegnato nei Territori occupati, su tematiche che dall’archeologia biblica arrivarono all’archeologia del territorio palestinese, sono un tassello di storia dell’archeologia poco noto al pubblico italiano (e non solo). Un tassello che si inserisce in anni cruciali per l’evoluzione dei metodi di ricerca sul territorio (con lo stabilirsi di un rapporto proficuo fra archeologia ed etnoarcheologia e fra sistemi di fonti autonomi), ma che interessa soprattutto per l’uso politico dell’archeologia. Un uso che in questo caso è palese, ma che non deve fare dimenticare che, in generale, fare archeologia è anche fare politica. Glock non ha mai scritto un libro ma alcuni suoi testi sono reperibili in rete e il percorso a cui aveva concorso, nonostante l’opera di altri studiosi e di alcuni suoi allievi, non ha avuto particolare successo. In questa sede, però, non è importante ciò che ha scritto e, benché alcuni suoi scritti siano ancora significativi, Glock va ricordato perché, molto probabilmente, è morto per l’archeologia che voleva. In un’area dove ancora prevalgono le ragioni delle armi su quelle del dialogo e dell’integrazione. Per finire, due considerazioni. A venticinque anni dalla morte di Glock non è noto chi gli sparò tre colpi alla schiena. Nel 1993, la polizia israeliana arrestò un uomo che rientrava in aereo da Chicago con 97000 dollari in contanti. Sospettato di essere un attivista di Hamas, l’uomo fu interrogato e, a suo dire, torturato fin quando fece il nome del possibile assassino. Un palestinese ricercato invano per anni e ucciso dalla polizia durante un blitz di cui non sono noti i particolari. Seconda considerazione. Nel 2017, i venticinque anni dalla morte di Glock non mi sembra siano diventati occasione per ricordarlo e per ricordare che in quella parte del mondo antico, ora un po’ meno considerata dai media, la contrapposizione fra popoli continua in maniera drammatica ed è alimentata anche da un uso ‘politico’ dei resti archeologici e della stessa archeologia. Benché si stenti a crederci, l’auspicio è che, per il futuro, l’archeologia e la cultura tornino ad essere strumenti di pace. Albert Glock, descritto come arrogante e eccentrico, forse, se lo avessimo conosciuto non ci sarebbe piaciuto, ma ovviamente avrebbe dovuto morire di vecchiaia, come tutti. Oggi, a mio avviso, il suo omicidio, e certamente l’uso strumentale della sua morte, meritano perciò di avere un posto nella storia dell’archeologia. La notizia dell’uccisione di Glock (erroneamente scritto Block) in un annuario delle vittime del terrorismo (p. 117) che riporta le differenti attribuzioni di colpa del Jerusalem Post e dell’OLP (da MICKOLUS E.F., SIMMONS S., Terrorism 1992-1995. A Chronology of Events and A Selectively Annotated Bibliography, Westport London 2007). PER MOVENTE L’ARCHEOLOGIA Dieci anni fa, per la precisione il 19 gennaio 1992, l’archeologo americano Albert E. Glock veniva assassinato in Palestina e, secondo alcuni, ciò avvenne perché aveva scavato troppo in profondità nel passato di quel paese conteso. Oggi, di fronte alla tragedia che investe i popoli israeliano e palestinese, quella vicenda umana e professionale merita di essere ricordata non solo come testimonianza dell’abisso in cui è precipitata una parte importante del mondo mediterraneo antico, ma per ragionare su quanto può essere stretto il legame fra ricerca archeologica e cronaca, fra studio del passato e vita reale. Attualmente, per la ricostruzione di quell’omicidio rimasto impunito, si dispone del libro inchiesta di Edward Fox Sacred Geography cui si rinvia non dimenticando però di segnalare che molte notizie e il clima in cui quel “giallo” va inserito sono recuperabili anche nelle edizioni on-line di svariati giornali dell’epoca. Proprio nelle cronache del Jerusalem Post, nelle dichiarazioni diffuse dalla radio Voice of Palestine o nel più equilibrato The Guardian sarà così riscontrabile il ruolo che all’archeologia può essere attribuito da chi solitamente si occupa d’altro: di cronaca, di politica, di guerra. CHI ERA GLOCK Nato nel 1925 in Illinois, il pastore luterano Albert Glock divenne archeologo per contribuire con la propria attività alla comprensione delle Sacre Scritture e a rafforzare il diritto di Israele sui territori palestinesi. Nel 1962 egli iniziò a scavare la biblica Tell Ta’nach, ma con il progredire delle ricerche si convinse che erano i palestinesi ad avere storicamente i maggiori diritti su quei territori che solo un insostenibile luogo comune presentava come terre “senza gente” destinate al popolo israeliano altrimenti “senza patria”. Gli scavi che Glock stesso aveva condotto dimostravano che tali affermazioni non avevano alcun senso ed egli finì quindi con l’abbracciare la causa palestinese; lasciò un posto prestigioso all’Albright Institute di Gerusalemme e si trasferì all’Università palestinese di Bir Zeit, nei Territori Occupati, dove organizzò il Dipartimento di archeologia. A scopo didattico intraprese lo studio di un villaggio abbandonato dai rifugiati del 1948 e poi, fra grandi difficoltà e aggirando il divieto posto dall’Unesco agli scavi nei Territori Occupati, iniziò a indagare Tell Jenin, un villaggio rurale importante per documentare, indipendentemente dalle fonti bibliche, quale fu, per secoli, la vita quotidiana dei palestinesi. Per Glock, persona descritta come non facile e arrogante, questa era una sorta di missione e per compierla si scontrò anche con quei palestinesi che non capivano il perché indagasse un sito povero anziché le vestigia arabe più imponenti. Il suo obiettivo era la costruzione di un’archeologia palestinese svincolata dalle fonti e basata su originali ricerche di campo, ma nonostante l’impegno e i sacrifici non ebbe modo di procedere troppo oltre in quella direzione. Nel pomeriggio del 19 gennaio 1992, dopo avere assistito alla Messa e avere classificato frammenti ceramici nei locali dell’Università, fu difatti ucciso con tre colpi di pistola sparatigli alla schiena mentre si apprestava a bussare alla porta della casa di un’amica. A CHI GIOVAVA Chi poteva essere interessato a uccidere Glock? Secondo i testimoni a sparargli con un’arma israeliana fu un giovane mascherato con la kefiah palestinese e subito fuggito su un’auto con targa israeliana. Gli indizi - l’arma, la kefiah e l’auto – erano quindi fra loro contrastanti almeno quanto le successive ipotesi circa il movente. Quel che sembra certo, stando anche al racconto dei familiari, è il ritardo di ore con cui la polizia israeliana intervenne sul luogo del delitto e il poco impegno nelle indagini. Nonostante l’ucciso fosse un cittadino statunitense non furono fatti i consueti rastrellamenti e le stesse autorità americane, benché sollecitate dalla moglie, non dimostrarono interesse per il caso. Già il giorno successivo all’omicidio il quotidiano israeliano Jerusalem Post non solo notava che trattandosi di un americano Glock avrebbe da sempre dovuto ritenersi in pericolo, e che quindi un po’ se la era cercata, ma, in maniera un po’ ambigua, suggeriva che la sua uccisione poteva dipendere da contrasti accademici o da fatti personali, quali l’amicizia per una sua assistente, o dal desiderio dei palestinesi di fermare un archeologo non interessato alle maggiori testimonianze islamiche. Forse Glock poté anche essere ucciso nel tentativo di sabotare il processo di pace allora faticosamente avviatosi, ma nessuna organizzazione palestinese rivendicò l’agguato e fu invece avanzata l’ipotesi che i colpevoli fossero agenti segreti israeliani o coloni ostili a quell’archeologo che tutti in zona sapevano stare con i palestinesi. Per la radio Voice of Palestine, Glock fu addirittura ucciso perché ormai prossimo ad annunciare una scoperta che avrebbe reso insostenibili le pretese israeliane sui Territori. Come andarono effettivamente le cose probabilmente non si saprà mai, e neppure cercare di capire a chi poteva giovare l’uccisione di Glock aiuta a fare chiarezza, ma certo resta inquietante sapere che, pur nel disastro di una guerra, entrambe le parti in lotta abbiano ritenuto possibile un movente “archeologico”, che Glock sia cioè stato ucciso per il lavoro che faceva: scavare immondezzai e livelli d’abbandono, catalogare ceramiche, proporre ricostruzioni storiche. ESSERE NELLA SOCIETÀ L’archeologia negli ultimi decenni sembra avere individuato nella valorizzazione dei beni culturali il principale compito a cui volgersi, ma questo “essere nella società” non deve fare dimenticare che, volente o nolente, l’archeologia ha da sempre un altro compito di gran lunga più importante: quello di contribuire, studiando le testimonianze materiali, alla costruzione di una storia e di un’identità collettiva. Una storia che inevitabilmente dipende da ciò in cui si crede e, conseguentemente, dalle idee su ciò che si pensa meritevole di essere studiato e fatto conoscere. Glock di questo era certamente consapevole, così come aveva sentore dei pericoli che correva e allora, senza per questo farne un eroe, se è morto per l’archeologia che perseguiva gli si deve riconoscere una coerenza non comune e l’essere il protagonista, sua malgrado, di una vicenda destinata a rimanere nella storia dell’archeologia. ESSERE DI PARTE La maggior parte degli archeologi, per fortuna, non si trova a lavorare nelle condizioni drammatiche che si hanno laddove la guerra contrappone popoli e storie, ma certamente anche in aree “tranquille” l’archeologia non è una disciplina imparziale che possa guardare ad ogni resto del passato con il medesimo occhio. Essa è un’attività del presente che studiando il passato contribuisce a costruire il futuro. Di ciò si deve avere coscienza sia quando ci si interroga sul senso del proprio lavoro sia ad esempio quando capita, e di questi tempi purtroppo capita spesso, di ritrovarsi a catalogare reperti o a cercare di riconoscere i limiti di uno strato e si avverte che intorno, nel mondo, stanno avvenendo fatti gravi: dalle contrapposizioni etniche, al degrado ambientale, alla mercificazione della cultura. Fatti rispetto ai quali nessuno può dirsi estraneo se non scambiando il magazzino dei reperti o i limiti dello scavo, per un baluardo in cui rinchiudersi. Sostenere al proposito che quel che conta è che ognuno faccia bene il proprio lavoro non è difatti sufficiente per chiamarsi fuori; il rinvio al tecnicismo e al lavoro competente, e quindi ipotizzato neutrale ed obiettivo, non può difatti nascondere che gran parte di ciò che si fa non è privo di un fine più complesso del singolo fatto concreto. Con i propri mezzi l’archeologo non costruisce oggetti della cui qualità e utilità può farsi vanto (come fa invece un qualsiasi artigiano), ma, anche se in forma maggiormente mediata di altri, influenza l’opinione pubblica: ad esempio quando realizza musei ed esposizioni temporanee, redige saggi e scritti divulgativi di un qualsiasi tipo o, addirittura, collabora a libri scolastici. La storia è quindi sempre storia di parte e non solo quando si occupa dei periodi più recenti, ma anche quando si basa sui dati archeologici. Dati che si dicono obiettivi, ma che in realtà sono sempre selezionati in relazione a ciò che l’archeologo ritiene essere stato, per l’appunto, “storicamente” rilevante. Su questa parzialità vale quindi la pena di ragionare guardando ad esempio alla diversa importanza che in molti lavori viene attribuita alle fonti o alle ricostruzioni ambientali, all’analisi dei rapporti economici, al riconoscimento delle influenze culturali o dei fenomeni di lunga durata. Nota bibliografica Il testo di riferimento a cui si rinvia anche per indicazioni bibliografiche specifiche è: Fox E., Sacred Geography: A Tale of Murder and Archeology in the Holy Land, London 2002. L’edizione americana si intitola Palestine Twilight: The Murder of Dr Albert Glock and the Archaeology of the Holy Land, New York 2002. Articoli (selezione minima) HOLDEN K., Who Killed Albert Glock?After Two Years, Archeologist's Murder Remains Unsolved, “Washington Report on Middle East Affairs”, January 1994, p. 29. 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