ARCHEOLOGIA E POLITICA, ARCHEOLOGIA È POLITICA.
A venticinque anni dall’uccisione di Albert Glock
Premessa
Si propone in questa sede un articolo inviato nel 2002 a un’importante rivista di
divulgazione archeologica italiana. Benché accettato dalla redazione, fra un rinvio e l’altro
gli anni sono passati e l’articolo non è mai stato pubblicato. Quanto era stato scritto per il
decennale della morte di Albert Glock, un archeologo statunitense che lavorava in Israele,
viene ora proposto a venticinque anni dalla sua uccisione. Uniche modifiche, la presente
premessa e la nota bibliografica. Quel che leggerete resta perciò un testo divulgativo che
spero possa incuriosire, spingere forse ad approfondimenti (e perciò il rinvio a testi recenti),
fare riflettere.
Perché ripropongo questo testo? Perché credo che la vita e la morte di un archeologo
impegnato nei Territori occupati, su tematiche che dall’archeologia biblica arrivarono
all’archeologia del territorio palestinese, sono un tassello di storia dell’archeologia poco
noto al pubblico italiano (e non solo). Un tassello che si inserisce in anni cruciali per
l’evoluzione dei metodi di ricerca sul territorio (con lo stabilirsi di un rapporto proficuo fra
archeologia ed etnoarcheologia e fra sistemi di fonti autonomi), ma che interessa soprattutto
per l’uso politico dell’archeologia. Un uso che in questo caso è palese, ma che non deve fare
dimenticare che, in generale, fare archeologia è anche fare politica.
Glock non ha mai scritto un libro ma alcuni suoi testi sono reperibili in rete e il percorso
a cui aveva concorso, nonostante l’opera di altri studiosi e di alcuni suoi allievi, non ha
avuto particolare successo. In questa sede, però, non è importante ciò che ha scritto e,
benché alcuni suoi scritti siano ancora significativi, Glock va ricordato perché, molto
probabilmente, è morto per l’archeologia che voleva. In un’area dove ancora prevalgono le
ragioni delle armi su quelle del dialogo e dell’integrazione.
Per finire, due considerazioni.
A venticinque anni dalla morte di Glock non è noto chi gli sparò tre colpi alla schiena.
Nel 1993, la polizia israeliana arrestò un uomo che rientrava in aereo da Chicago con 97000
dollari in contanti. Sospettato di essere un attivista di Hamas, l’uomo fu interrogato e, a suo
dire, torturato fin quando fece il nome del possibile assassino. Un palestinese ricercato
invano per anni e ucciso dalla polizia durante un blitz di cui non sono noti i particolari.
Seconda considerazione. Nel 2017, i venticinque anni dalla morte di Glock non mi
sembra siano diventati occasione per ricordarlo e per ricordare che in quella parte del mondo
antico, ora un po’ meno considerata dai media, la contrapposizione fra popoli continua in
maniera drammatica ed è alimentata anche da un uso ‘politico’ dei resti archeologici e della
stessa archeologia. Benché si stenti a crederci, l’auspicio è che, per il futuro, l’archeologia e
la cultura tornino ad essere strumenti di pace. Albert Glock, descritto come arrogante e
eccentrico, forse, se lo avessimo conosciuto non ci sarebbe piaciuto, ma ovviamente avrebbe
dovuto morire di vecchiaia, come tutti. Oggi, a mio avviso, il suo omicidio, e certamente
l’uso strumentale della sua morte, meritano perciò di avere un posto nella storia
dell’archeologia.
La notizia dell’uccisione di Glock (erroneamente scritto Block) in un annuario delle
vittime del terrorismo (p. 117) che riporta le differenti attribuzioni di colpa del
Jerusalem Post e dell’OLP (da MICKOLUS E.F., SIMMONS S., Terrorism 1992-1995. A
Chronology of Events and A Selectively Annotated Bibliography, Westport London
2007).
PER MOVENTE L’ARCHEOLOGIA
Dieci anni fa, per la precisione il 19 gennaio 1992, l’archeologo americano Albert E.
Glock veniva assassinato in Palestina e, secondo alcuni, ciò avvenne perché aveva scavato
troppo in profondità nel passato di quel paese conteso. Oggi, di fronte alla tragedia che
investe i popoli israeliano e palestinese, quella vicenda umana e professionale merita di
essere ricordata non solo come testimonianza dell’abisso in cui è precipitata una parte
importante del mondo mediterraneo antico, ma per ragionare su quanto può essere stretto il
legame fra ricerca archeologica e cronaca, fra studio del passato e vita reale.
Attualmente, per la ricostruzione di quell’omicidio rimasto impunito, si dispone del
libro inchiesta di Edward Fox Sacred Geography cui si rinvia non dimenticando però di
segnalare che molte notizie e il clima in cui quel “giallo” va inserito sono recuperabili anche
nelle edizioni on-line di svariati giornali dell’epoca. Proprio nelle cronache del Jerusalem
Post, nelle dichiarazioni diffuse dalla radio Voice of Palestine o nel più equilibrato The
Guardian sarà così riscontrabile il ruolo che all’archeologia può essere attribuito da chi
solitamente si occupa d’altro: di cronaca, di politica, di guerra.
CHI ERA GLOCK
Nato nel 1925 in Illinois, il pastore luterano Albert Glock divenne archeologo per
contribuire con la propria attività alla comprensione delle Sacre Scritture e a rafforzare il
diritto di Israele sui territori palestinesi. Nel 1962 egli iniziò a scavare la biblica Tell
Ta’nach, ma con il progredire delle ricerche si convinse che erano i palestinesi ad avere
storicamente i maggiori diritti su quei territori che solo un insostenibile luogo comune
presentava come terre “senza gente” destinate al popolo israeliano altrimenti “senza patria”.
Gli scavi che Glock stesso aveva condotto dimostravano che tali affermazioni non avevano
alcun senso ed egli finì quindi con l’abbracciare la causa palestinese; lasciò un posto
prestigioso all’Albright Institute di Gerusalemme e si trasferì all’Università palestinese di
Bir Zeit, nei Territori Occupati, dove organizzò il Dipartimento di archeologia. A scopo
didattico intraprese lo studio di un villaggio abbandonato dai rifugiati del 1948 e poi, fra
grandi difficoltà e aggirando il divieto posto dall’Unesco agli scavi nei Territori Occupati,
iniziò a indagare Tell Jenin, un villaggio rurale importante per documentare,
indipendentemente dalle fonti bibliche, quale fu, per secoli, la vita quotidiana dei palestinesi.
Per Glock, persona descritta come non facile e arrogante, questa era una sorta di missione e
per compierla si scontrò anche con quei palestinesi che non capivano il perché indagasse un
sito povero anziché le vestigia arabe più imponenti. Il suo obiettivo era la costruzione di
un’archeologia palestinese svincolata dalle fonti e basata su originali ricerche di campo, ma
nonostante l’impegno e i sacrifici non ebbe modo di procedere troppo oltre in quella
direzione. Nel pomeriggio del 19 gennaio 1992, dopo avere assistito alla Messa e avere
classificato frammenti ceramici nei locali dell’Università, fu difatti ucciso con tre colpi di
pistola sparatigli alla schiena mentre si apprestava a bussare alla porta della casa di
un’amica.
A CHI GIOVAVA
Chi poteva essere interessato a uccidere Glock? Secondo i testimoni a sparargli con
un’arma israeliana fu un giovane mascherato con la kefiah palestinese e subito fuggito su
un’auto con targa israeliana. Gli indizi - l’arma, la kefiah e l’auto – erano quindi fra loro
contrastanti almeno quanto le successive ipotesi circa il movente. Quel che sembra certo,
stando anche al racconto dei familiari, è il ritardo di ore con cui la polizia israeliana
intervenne sul luogo del delitto e il poco impegno nelle indagini. Nonostante l’ucciso fosse
un cittadino statunitense non furono fatti i consueti rastrellamenti e le stesse autorità
americane, benché sollecitate dalla moglie, non dimostrarono interesse per il caso.
Già il giorno successivo all’omicidio il quotidiano israeliano Jerusalem Post non solo
notava che trattandosi di un americano Glock avrebbe da sempre dovuto ritenersi in
pericolo, e che quindi un po’ se la era cercata, ma, in maniera un po’ ambigua, suggeriva che
la sua uccisione poteva dipendere da contrasti accademici o da fatti personali, quali
l’amicizia per una sua assistente, o dal desiderio dei palestinesi di fermare un archeologo
non interessato alle maggiori testimonianze islamiche. Forse Glock poté anche essere ucciso
nel tentativo di sabotare il processo di pace allora faticosamente avviatosi, ma nessuna
organizzazione palestinese rivendicò l’agguato e fu invece avanzata l’ipotesi che i colpevoli
fossero agenti segreti israeliani o coloni ostili a quell’archeologo che tutti in zona sapevano
stare con i palestinesi. Per la radio Voice of Palestine, Glock fu addirittura ucciso perché
ormai prossimo ad annunciare una scoperta che avrebbe reso insostenibili le pretese
israeliane sui Territori.
Come andarono effettivamente le cose probabilmente non si saprà mai, e neppure
cercare di capire a chi poteva giovare l’uccisione di Glock aiuta a fare chiarezza, ma certo
resta inquietante sapere che, pur nel disastro di una guerra, entrambe le parti in lotta abbiano
ritenuto possibile un movente “archeologico”, che Glock sia cioè stato ucciso per il lavoro
che faceva: scavare immondezzai e livelli d’abbandono, catalogare ceramiche, proporre
ricostruzioni storiche.
ESSERE NELLA SOCIETÀ
L’archeologia negli ultimi decenni sembra avere individuato nella valorizzazione dei
beni culturali il principale compito a cui volgersi, ma questo “essere nella società” non deve
fare dimenticare che, volente o nolente, l’archeologia ha da sempre un altro compito di gran
lunga più importante: quello di contribuire, studiando le testimonianze materiali, alla
costruzione di una storia e di un’identità collettiva. Una storia che inevitabilmente dipende
da ciò in cui si crede e, conseguentemente, dalle idee su ciò che si pensa meritevole di essere
studiato e fatto conoscere. Glock di questo era certamente consapevole, così come aveva
sentore dei pericoli che correva e allora, senza per questo farne un eroe, se è morto per
l’archeologia che perseguiva gli si deve riconoscere una coerenza non comune e l’essere il
protagonista, sua malgrado, di una vicenda destinata a rimanere nella storia dell’archeologia.
ESSERE DI PARTE
La maggior parte degli archeologi, per fortuna, non si trova a lavorare nelle condizioni
drammatiche che si hanno laddove la guerra contrappone popoli e storie, ma certamente
anche in aree “tranquille” l’archeologia non è una disciplina imparziale che possa guardare
ad ogni resto del passato con il medesimo occhio. Essa è un’attività del presente che
studiando il passato contribuisce a costruire il futuro. Di ciò si deve avere coscienza sia
quando ci si interroga sul senso del proprio lavoro sia ad esempio quando capita, e di questi
tempi purtroppo capita spesso, di ritrovarsi a catalogare reperti o a cercare di riconoscere i
limiti di uno strato e si avverte che intorno, nel mondo, stanno avvenendo fatti gravi: dalle
contrapposizioni etniche, al degrado ambientale, alla mercificazione della cultura. Fatti
rispetto ai quali nessuno può dirsi estraneo se non scambiando il magazzino dei reperti o i
limiti dello scavo, per un baluardo in cui rinchiudersi. Sostenere al proposito che quel che
conta è che ognuno faccia bene il proprio lavoro non è difatti sufficiente per chiamarsi fuori;
il rinvio al tecnicismo e al lavoro competente, e quindi ipotizzato neutrale ed obiettivo, non
può difatti nascondere che gran parte di ciò che si fa non è privo di un fine più complesso
del singolo fatto concreto. Con i propri mezzi l’archeologo non costruisce oggetti della cui
qualità e utilità può farsi vanto (come fa invece un qualsiasi artigiano), ma, anche se in
forma maggiormente mediata di altri, influenza l’opinione pubblica: ad esempio quando
realizza musei ed esposizioni temporanee, redige saggi e scritti divulgativi di un qualsiasi
tipo o, addirittura, collabora a libri scolastici.
La storia è quindi sempre storia di parte e non solo quando si occupa dei periodi più
recenti, ma anche quando si basa sui dati archeologici. Dati che si dicono obiettivi, ma che
in realtà sono sempre selezionati in relazione a ciò che l’archeologo ritiene essere stato, per
l’appunto, “storicamente” rilevante. Su questa parzialità vale quindi la pena di ragionare
guardando ad esempio alla diversa importanza che in molti lavori viene attribuita alle fonti o
alle ricostruzioni ambientali, all’analisi dei rapporti economici, al riconoscimento delle
influenze culturali o dei fenomeni di lunga durata.
Nota bibliografica
Il testo di riferimento a cui si rinvia anche per indicazioni bibliografiche specifiche è:
Fox E., Sacred Geography: A Tale of Murder and Archeology in the Holy Land, London
2002.
L’edizione americana si intitola Palestine Twilight: The Murder of Dr Albert Glock and the
Archaeology of the Holy Land, New York 2002.
Articoli (selezione minima)
HOLDEN K., Who Killed Albert Glock?After Two Years, Archeologist's Murder Remains
Unsolved, “Washington Report on Middle East Affairs”, January 1994, p. 29.
ABU EL-HAJ N., Translating Truths: Nationalism, the Practice of Archaeology, and the
Remaking of Past and Present in Contemporary Jerusalem, “American Ethnologist”,
Vol. 25, No. 2 (May, 1998), pp. 166-188.
URIYA SHAVIT, Sherds of Evidence, “Haaretz - Israel News Wednesday”, 23 gennaio 2002.
PALUMBO G., Reviewed work: Archaeology, History and Culture in Palestine and the near
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BASEM L. RA’AD, Toward a Real Archaeology and History of Palestine, “This week in
Palestine”, n. 178, 2013.
Testi generali
KAPITAN T. (a cura di), Archaeology, History and Culture in Palestine and the near East.
Essays in Memory of Albert E. Glock, Atlanta 1999.
MATTAR P. (a cura di), Encyclopedia of the Palestinians (revised ed.), New York 2005, p.
182.
MONDOT J.F., Une Bible pour deux mémoires, Archéologues israéliens et palestiniens,
Parigi 2007, cap. III.
MICKOLUS E.F., SIMMONS S., Terrorism 1992-1995. A Chronology of Events and A
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SUFIAN S., LEVINE M. ( a cura di), Reapproaching Borders, New Perspectives on the Study
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GRAFTON D.D., Piety, Politics, and Power. Lutherans Encountering Islam in the Middle
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BAYTNER R., SWARTZ DODD L., PARKER B.J. (a cura di), Controlling the Past, owning the
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