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Minimalia Gino Zaccaria Lingua pensiero canto Un seminario sull’essenza della parola Ibis In copertina: Paul Klee, Traum-Stadt, 1921. 9 Premessa 11 Premessa alla seconda edizione LINGUA PENSIERO CANTO 17 Prima lezione. La lingua e l’informazione 18 23 29 36 § 1. L’essenza e l’indole § 2. Il format della lingua § 3. La prestanza del segno § 4. L’informazione 47 Seconda lezione. La scienza cognitiva e la lingua © Ibis, Como – Pavia, 2014 www.ibisedizioni.it I edizione: dicembre 2010 Nuova edizione ampliata: settembre 2014 ISBN: 978-88-7164-351-9 48 50 51 54 58 65 68 § 5. Il titolo disciplinare § 6. L’informazione e il senso § 7. La mente e il pensiero § 8. Il pre-linguistico § 9. La naturalizzazione § 10. L’evidenza naturale e il senso comune. La coartazione cibernetica § 11. Il format cognitivista della filosofia. L’occhio storico 77 Terza lezione. La verità della lingua e la tentazione 78 82 84 86 § 12. La formatazione e la potenza. Il mercato e la lingua § 13. La mala indole § 14. La verità della lingua § 15. «Dei beni il più tentante». L’insidia (rinvio a Hölderlin) 101 Quarta lezione. Un colpo d’occhio al cammino 101 105 112 116 124 127 124 124 § 16. L’indole della lingua e il suo format § 17. La lingua madre (coartata) nella scienza cognitiva. L’estrema formatazione § 18. La lingua, l’azienda, il mercato § 19. Excursus. La città smisurata § 20. La lingua come tentazione § 21. «Dei beni il più tentante» (Hölderlin) § 22. Il dono della lingua, l’uomo, la genitura, il bene, l’indolica tentazione (Heidegger) § 23. Conclusione. La fuga delle divergenze e l’enigma della lingua APPENDICE 1 145 Lovgo" e fwnhv (Aristotele, Periv eJrmeneiva", 16 a 3-8) 194 AGGIUNTA (Il lovgo" ajpofantikov") APPENDICE 2 (Martin Heidegger) 200 Dalla conferenza Überlieferte Sprache und technische Sprache («Lingua tràdita e lingua tecnica») 226 Dal trattato Der Ursprung des Kunstwerkes («L’origine dell’opera d’arte») 230 Dal Brief über den Humanismus («Lettera sull’umanesimo») 236 Dalla raccolta Aus der Erfahrung des Denkens 241 SINOSSI DEGLI SCORGIMENTI DEL SEMINARIO 247 Bibliografia Paul Klee, Die Schlangengöttin und ihr Feind, 1940 Premessa Lingua pensiero canto. La lingua sparge ognora dei semi che il pensiero custodisce affinché germoglino. Un germoglio della lingua può divenire una pianta, che alligna solo nel richiamo del canto. Un seminario sull’essenza della parola. La parola non è solo il vocabolo, l’espressione o la facoltà del linguaggio. In essa udiamo innanzitutto il parabavllein, il lasciar irrompere, il progettare, l’affidare, ma anche il tralasciare e il gettare nella minaccia, nella tentazione. La parola, la parabolhv, in quanto impegno dell’essere, è, al tempo stesso, inizio e avversione, preludio e ostilità, benedizione e maldicenza – semenza e sterilità.* Il «su» non significa «sopra», ma indica l’intorno – e l’intorno rinvia al cammino in quella vicina estranea spaziosità che la lingua stessa genera e che è essa stessa. Il seminario non è un format didattico-universitario – né può mai divenire un libro. La semina può solo essere tradotta in una scrittura in cammino. * Katabolhv – diabolhv. 9 Nell’affidarsi all’indictum, e scevra dalle ansie stilistiche dei letterati, la scrittura pensante è un invito al colloquio. Nulla, qui, può sostituire la vivente parola del chiarimento e della delucidazione.** *** Il Lettore intenderà la rilevanza, rispetto al tema del seminario, degli scritti di Martin Heidegger contenuti nell’Appendice. Le opere citate sono accompagnate dall’abbreviatura del corrispondente riferimento bibliografico. La Bibliografia si trova alla fine del volume. Ringrazio Lorenzo Gattoni per il suo attento e costante aiuto redazionale. Milano, 15 Dicembre 2010 Premessa alla seconda edizione Guardiamoci dal confondere la lingua madre con la lingua di tutti i giorni. Goethe scrive: Im gemeinen Leben kommen wir mit der Sprache notdürftig fort, weil wir nur oberflächliche Verhältnisse bezeichnen. Sobald von tiefern Verhältnissen die Rede ist, tritt sogleich eine andere Sprache ein, die poetische. Nel vivere comune e abituale procediamo con la lingua madre in modo provvisorio e appena sufficiente, poiché designiamo e chiamiamo in causa solo relazioni superficiali. Non appena però il discorso verte su più profonde relazioni, entra in gioco immediatamente una lingua altra, la lingua poetica. ** Il seminario – in una forma diversa da quella qui pubblicata – è stato tenuto all’Università Bocconi, nel secondo semestre dell’a.a. 2009-10. Il suo svolgimento ha potuto valersi della collaborazione di Carlotta Borruto e di Federica Pini, che hanno redatto i protocolli di ogni seduta seminariale. Il poeta ricorda la scissura fra la lingua quotidiana e la lingua poetica. Egli non pensa però quest’ultima come uno “scarto dalla norma” – norma che sarebbe costituita dalle regole del «vivere comune e abituale». All’opposto, il parlare di tutti i giorni è appena adeguato all’indole della lingua – ossia: la lingua stessa è coartata a parlare su un piano e in una dimensione che non le si addicono. Ma ciò si deve alla circostanza che il 10 11 vivere comune e abituale – il vivere d’impatto, il “vissuto” – affronta sempre «solo relazioni superficiali», ossia contingenze che assumono il carattere dell’“effettivo” e del “reale”, e quindi di ciò che “davvero conta e pesa” per la cosiddetta “vita”. Il vivere comune e abituale vuole, infatti, sempre solo sé stesso e null’altro. Tuttavia non appena l’uomo sia costretto a volgersi verso le «più profonde relazioni» – ovvero a tornare là dove già sempre abita: nello scisma d’essere –, allora non può che incontrare la lingua madre al culmine della sua capacità indicente: la lingua nella sua originaria versione poetico-dettatica.* A proposito della sentenza di Goethe, Heidegger annota: «Poiché nella lingua poetica il discorso concerne più profonde relazioni, vi è da sperare che, attraverso la lingua poetica, giungiamo più profondamente nella vigorosa tempra della lingua madre». Ciò significa che il chiarimento dell’indole della lingua mira a interrogare l’elemento poetico. La lingua si staglia innanzitutto nella poesia. La lingua poetica è, infatti, lingua altra non dalla ma della lingua madre: la lingua dell’alterità – ossia dell’extraneum – in lingua madre. Così solo nel canto essa si mostra in piena trasparenza di tempra. Proprio dal canto e nel canto possiamo attenderci di pensare il dire della lingua. Lingua (nel) pensiero (del) canto. *** In questa seconda edizione, sono stati corretti dei refusi, apposta qualche ulteriore nota e resi più chiari alcuni passaggi. È stato inoltre aggiunto, come «Appendice 1», uno scritto, intitolato Lovgo" e fwnhv, dedicato alla puntualizzazione e alla traduzione del passo iniziale del De interpretazione di Aristotele.** Esso costituisce un tentativo di mostrare l’attendibilità del testo n. 4 della vecchia appendice, divenuta ora «Appendice 2». Milano, 10 Settembre 2014 * Ritenere che la lingua poetica sia una trasformazione della “lingua quotidiana” — un modo per complicare ciò che è ovvio — deriva dal format del linguaggio. Al contrario, è piuttosto la lingua quotidiana a fondarsi nella lingua poetica: questa entra in gioco perché era già in gioco in modo nascosto, ossia attendibile. ** Pubblicato in: «Eudia», Lettura di maggio, anno 8, 2014 - www.eudia.org. 12 13 LINGUA PENSIERO CANTO Der brennende Schmerz, daß wir nicht für das Unnötige da sein dürfen und nur dem Nützlichen verknechtet, das für sich das Nichts ist und so nichtig, daß es die tiefste Entwürdigung des Menschenwesens betreibt.* Il bruciante dolore – non potersi adoperare per l’immune da ogni coartazione, per il non costringente, proprio mentre si è soltanto asserviti all’utile, il quale, assunto come misura, è il niente: quel niente talmente nullo da agitare la più profonda abiezione dell’essere uomo (il vilipendio della sua dignità) ** Martin Heidegger, Feldweg-Gespräche Meist wird die Sage eines Wortes durch seine “Bedeutungen” verstellt und niedergehalten.*** Il dictum di una parola viene quasi sempre infirmato, spento e soffocato <proprio> mediante i suoi “significati”. ** Martin Heidegger, Parmenides * GA Bd 77, p. 241. ** Traduzioni di Ivo De Gennaro e G. Z. *** GA Bd 54, p. 161. Prima lezione La lingua e l’informazione L’insegnamento ha il carattere del seminario. Esso si articola dunque in lezioni seminariali. Che vuol dire «lezione seminariale»? «Lezione» origina da lectio, in cui parla il legere, che significa raccogliere, fugare.1 Il dire assume la forma della lezione quando il suo intento sia la raccolta o, meglio, la fuga dell’essere. 1 Nel verbo «fugare», pensiamo l’istantaneo ritratto compaginare, il rattenuto dare tempra d’interezza nel reconsivo colpo d’occhio: liberare l’intero, alleviare l’integro, salutare il salubre. (Tommaseo: «tessere la composizione a modo di fuga». ) Si pensi a espressioni come «fuga di stanze» o «fuga di valli»: in tal modo si dice che ciò che appare – stanze o valli – si stanzia nell’invisibile intero del loro già compaginato aver luogo. La fuga è l’integrità in flagranza d’essere. 17 Nella parola «seminario» è indicato il seme, il quale a sua volta rinvia al frutto. La lezione seminariale è dunque condotta in modo che la fuga d’essere divenga un seme ricco e fruttuoso. Ma la fertilità può anche disperdersi – e la lezione restare così inerte e sterile. Ora, la tempra grazie alla quale diviene attendibile, per noi uomini, la semina e la fecondità della fuga d’essere e in forza della quale può esserci inflitta la sua dispersione (la trascuranza d’essere) – è la lingua madre. Sia allora l’insegnamento un’occasione per pensare l’essenza della parola. È innanzitutto necessario puntualizzare il modo comune di concepire questa essenza. Chiariamo però dapprima il senso dell’essenza in quanto tale. Ma: il senso? L’essenza sembra avere più di un senso. È dunque un termine ambiguo? O è invece un concetto filosofico, che resta però in sé confuso e sfuggente? Segue (insieme ai suoi ordinari supplenti, come «entità», «sostanza», «natura» o «realtà») la medesima sorte della parola «essere»? È forse un suo sinonimo – nella sfuggevolezza? O piuttosto l’essenza si chiarisce solo se e quando sia già chiaro l’essere? Nessuna essen- za “sarebbe” là dove manchi (l’)essere? – Ma l’essere può mancare? Qualora venisse meno l’essere, sopravverrebbe forse il niente? Questi estraneanti interrogativi non confermano però ciò che sappiamo già, ovvero che l’essenza è solo l’astratto contrapposto al concreto? «Astrarre» origina da abs-trahere, «trarre via», «strappare». L’essenza sarebbe allora quel quid che l’uomo strappa alle cose incontrate e percepite nel vissuto per poi ricostruirlo in un concetto generale – il quale sarebbe sempre soltanto un mero riflesso del flusso della vita. Posto che il senso dell’essenza sia in tal modo colto, resta tuttavia la questione del come, del dove e del quando accadrebbe tale astrarre dell’umano conoscere. Come uomini, come esseri pensanti, non possediamo già, inscritte nel nostro stesso esistere, tutte le attendibili essenze? Lo insegna Platone: possiamo ad esempio incontrare e percepire alberi e montagne poiché conosciamo già l’essenza ‘albero’ e l’essenza ‘montagna’ – solo che dimentichiamo questo «aver già conosciuto» e così crediamo di ottenere tali essenze (o idee) “per astrazione” dai singoli impatti vissuti. D’impatto, per l’appunto, non sappiamo (dire) niente dell’essenza. Se mettiamo da parte le brevi cognizioni appena ricordate (le quali, detto per inciso, stanno alla base delle odierne “filosofie dell’esperienza”, esiti sofistici di una fraintesa metafisica nietzscheana), ebbene, dobbiamo riconoscere che, al cospetto di que- 18 19 § 1. L’essenza e l’indole sta parola, restiamo senza parole – in ogni senso. Singolare situazione. Consideriamo allora appunto la parola, ma non come termine erudito o filosofico, bensì in quanto dizione della nostra lingua. Che dice «essenza»? È formata sul participio «essente», e ne indica lo stato nel suo modus. «Essenza» è il modus di stanzietà dell’essente così come, ad esempio, «distanza» è il modus di stanzietà del distante e «speranza» il modus di stanzietà dello sperante. Il modus, a sua volta, non sia inteso come la guisa o la maniera. In esso sentiamo la misura e la moderazione, la continenza e la temperanza, ove udiamo i tratti della tenuta e della generante tempratura, ovvero della tempra geniturale. Tocchiamo allora il punto. «Essenza» dice: geniturale tempra d’essere cui l’uomo, adergendola, è intraneo – e lo dice (ecco “l’essenziale”) qualunque sia il senso d’essere. Così la dizione pronuncia e articola l’essere nell’attesa della sua verità, lo annuncia come il primigenio attendibile per l’uomo, custodendolo nella sua perenne interroganza: chiama l’essere per tutto ciò che, sostando qui e ora, là e allora, lo spera. In altri termini: «essenza» parla l’essere, intonandolo come l’alimento e il nutrimento d’origine – come la genitura – del sostante aver luogo degli speranti.2 Ma perché essa possa chiamarlo e parlarlo in tale modalità, deve averlo già indetto come l’elemento sempre inteso dall’uomo. L’essenza dice dunque l’attesa della verità dell’essere sul fondamento della sua previa intesa.3 Ora, quello appena delineato è il senso iniziale e originario, e quindi non più metafisico, dell’essenza. Resta pertanto fondato il sentimento della sua ambiguità – la quale, però, non è un’indeterminatezza storico-concettuale ma un bisenso geniturale: metafisicamente, infatti, l’essenza è l’essere dell’essente, la oujsiva greca,4 la substantia, l’essere ottenuto per traslazione ontica, ossia come traslato suppletivo del contingente. Il suo senso iniziale (che, genituralmente ritratto, Il tono scismatico dello «sperante» è chiarito in ZACCARIA, IN, pp. 13-18 (di seguito indicato con la sola sigla IN). – L’essere è l’originario alimento degli speranti nella misra in cui, proprio come tale, si alimenta dello stanziarsi dell’uomo. Si veda, infra, pp. 236-239. 3 «Intesa» è un altro nome dell’umana adergente intraneità prima citata. L’attesa non è dunque l’aspettazione di una possibilità, così come l’intesa non è un concordato o un patto. In esse vigono rispettivamente l’attendenza e l’intendenza – nel senso della pro-tensione all’indole, cioè dell’indolico invaghimento dell’essere. Su quest’ultimo punto, si veda IN, pp. 93-101. Sulla preintesa d’essere, quale tratto costitutivo dell’uomo, si veda HEIDEGGER, AF, pp. 169-175. 4 Nell’Einführung in die Metaphysik, Heidegger annota: «“Essere”, per i Greci, significa stabilità (Ständigkeit) nel seguente duplice senso: 1. l’alzato stare nativamente in quanto indole stante “in alzata” per levata, per assorgenza [das In-sich-stehen als Ent-stehendes], cioè la stabile assorgenza (fuvsi"); 2. in quanto stabile assorgenza, <essere significa anche:> stabile-costante, cioè perdurante, trattenersi (oujsiva)». (GA Bd 40, p. 48.) 20 21 2 genera l’attendibilità di quello filosofico) potrà allora indicarsi mediante due dizioni libere dall’impronta metafisica: il sostantivo «indole», da indoles, ove risuonano i tratti del generare (olesco, alo) e dell’intraneità dell’uomo (in),5 e il verbo «stanziar(si)», ove sentiamo l’aver luogo come attendente sostare, e quindi come ritrarsi e lasciare. Entrambe le parole indicono l’essere senza alcun riferimento all’ente – indicono l’essere in quanto scisma.6 L’essenza è l’indole, e l’indole è lo stanziarsi dell’intesa d’essere per l’attesa della sua verità. L’indole ‘albero’ è l’intesa dell’albero per entro l’attendibilità del suo stanziarsi: l’indole pensa l’albero nell’attesa d’essere e quindi lo offre in una concretezza più concreta e reale di ogni fattualità ed effettività ed efficacia del contingente.7 Seguendo il filo di questi scorgimenti, notiamo una circostanza essenziale: la loro attendibilità è offerta dalla lingua madre – posto naturalmente di darle la parola e di assecondarla e di ascoltarla nella sua costitutiva idiomaticità. La lingua, nell’essenza, pensa l’indole, e, nell’indole, sente l’essenza. Essa si tempra in indole per l’indole; traduce sorgivamente la propria essenza in indole nativa. L’indole della lingua madre si stanzia dunque come lingua madre dell’indole – come lingua d’attesa della verità dell’essere. Tutto questo ci permette di compiere un primo costitutivo passo. D’ora innanzi, nella dizione «lingua» non udremo più solo l’organo della fonazione, ma impareremo a pensare il lingere, cioè il lambire, il lieve toccare che allevia e lascia essere – l’indolico tocco stanziante. Nella forma «lingua madre» sentiremo dunque innanzitutto il tocco d’essere verso gli speranti.8 § 2. Il format della lingua Cominciamo adesso a comprendere il motivo per il quale è necessario puntualizzare il modo ordinario di concepire la lingua, se intendiamo esperirne e pensarne l’essenza indolica. Quel concepire, infatti, non è il frutto di un’opinione, di una visione o di un convincimento sulla cosiddetta “natura del linguaggio umano”. Esso, come vedremo, è più di tutto questo perché è 5 Si veda DE GENNARO-ZACCARIA, DD, pp. 132-133 (di seguito indicato con la sola sigla DD). 6 Si vedano: DD, pp. 17-19; IN, pp. 48-53. 7 In generale, la dicitura «indole ‘x’» (indole ‘essere’, indole ‘uomo’, indole ‘ente’, eccetera) significa «x in quanto x», ossia: «x scorto e inteso – cioè atteso – nel suo nativo, scismatico stanziarsi». Si vedano: DD, pp. 13 e sgg. e p. 128 (20); IN, pp. 9-10 e 149-150; ZACCARIA, PN, pp. 54-55, 81 e sgg. (in particolare la nota 87), 148-150, 217 e sgg. (di seguito indicato con la sola sigla PN). 22 23 8 qualcosa di diverso. Nel concetto ordinario, è invero posta in forma l’indole stessa della lingua nel senso della contingenza; essa è insomma contingentata, addotta in un format basato sull’attestarsi dell’essere in valore alla luce del suo affermarsi come potenza.9 Tale concetto si articola in una serie di tesi sull’essere della lingua e della parola – tesi normalmente enunciate con il tono della semplice constatazione e del sicuro riscontro, e che sono ormai divenute di dominio comune. Diamone qualche cenno per punti, tentando di riprodurre fedelmente quel tono.10 Ciò consentirà al nostro colloquio di compiere un secondo passo essenziale. 9 L’essere come traslato suppletivo del contingente trova così la sua perfetta sanzione. – Il cammino verso l’indole della lingua deve ora soffermarsi sul suo format. La parola «cammino» non è per noi un’immagine “esistenziale” e “pensosa” del procedere discorsivo e analitico. Essa rinvia all’erranza del tentare, e conclama l’inesperienza dell’indole – inesperienza che appare fugacemente, ma in modo disarmante, allorché ammettiamo di non sapere che sia in verità il dire, né quando davvero parliamo o quando, semplicemente, chiacchieriamo. Articoliamo ininterrottamente parole e discorsi – siamo parlanti e dicenti anche durante il sonno, o anche quando ci chiudiamo nel più cupo tacere, o quando invece ci offriamo alla salubrità del silenzio o al sublime della silente fermezza – ma non conosciamo la parola in quanto tale. (Si veda IN, pp. 141 e sgg.) 10 La seguente sintesi si basa sul volume di Julia Kristeva, Le langage – cette inconnu, Ed. du Seuil, Paris 1981, pp. 9 e sgg. 24 1. La lingua e il cervello. La lingua rinvia innanzitutto all’organo della fonazione, all’articolazione vocale del linguaggio – termine che indica un’attitudine essenziale della mente umana e quindi del cervello, cioè la capacità di parola (favella), nel senso della disponibilità all’apprendimento e all’uso delle lingue naturali e alla creazione e all’impiego delle lingue artificiali. 2. La lingua e la comunicazione. La lingua, in quanto addetta all’articolazione del linguaggio, è il sistema strutturato dei processi linguistico-comunicativi. Il processo linguistico, come ogni processo di comunicazione, si dispiega in forza di sei fattori fondamentali: il mittente (locutore, parlante) e il destinatario (interlocutore, ricevente, ascoltatore), il messaggio e il contesto (referente), il contatto (canale, mezzo di propagazione, connessione psichica) e il codice. Tale processo funziona nel seguente modo: il mittente formalizza dei significati, contestualizzati, del codice di una data lingua, in un messaggio, che egli, attraverso un contatto, trasmette al destinatario. Tale trasmissione non deve però essere intesa come un moto a senso unico: nel processo comunicativo, ogni parlante è al tempo stesso mittente e ricevente del proprio messaggio; insomma, ognuno comunica all’altro e con l’altro nella misura in cui comunica a se stesso e con se stesso. La lingua si fonda sul fatto che il parlare è sempre anche un parlarsi. 3. Le funzioni linguistiche. La lingua, in quanto indirizzata al processo comunicativo, impone che il parlare sia efficace, ovvero che i fattori linguistici funzionino 25