GALILEO GALILEI
SIDE
IDEREUS NUNCIUS
(1610)
FONDAZIONE SACRO CUORE
MILANO 2016
2
ANTOLOGIA
[ Prologo ] ................................................................................................................................. 4
[ Macchie lunari e scabrosità della superficie della luna ] ................................................ 7
[ Linea di illuminazione irregolare della luna crescente ] ................................................. 8
[ Aree illuminate nella parte oscura della luna ] ................................................................ 9
[ «Terre» e «mari» sulla luna ] ............................................................................................. 10
[ Origine del «candore» lunare ] ......................................................................................... 12
[ Scoperta di innumerevoli nuove stelle, prima mai osservate ] .................................... 14
[ Nuova rappresentazione delle costellazioni di Orione e delle Pleiadi ] ..................... 15
[ La Via Lattea o Galassia e le nebulose sono ammassi di stelle ] .................................. 17
[ Le «nebulose» di Orione e Presepe ] ................................................................................ 19
[ I quattro satelliti di Giove: diario di una scoperta ] ....................................................... 20
LETTURE
«L’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo e non
come vadia il cielo», di S. Vanni Rovighi. ......................................................................... 24
«Divina prius illuminante gratia», di Benedetto XVI, J. Ratzinger ................................. 32
Dal telescopio di Galileo al satellite europeo Planck, di M. Bersanelli ......................... 35
L’ipotesi eliocentrica di Aristarco di Samo, da L’arenario di Archimede. ..................... 42
3
4
[5r]
ASTRONOMICUS NUNCIUS
observationes recens habitas Novi Perspicilli beneficio in Lunae facie, Lacteo
circulo Stellisque nebulosis, innumeris fixis, necnon in quatuora Planetis
Medicea Syderab nuncupatis, nunquam conspectis adhuc
continens, atque declarans.1
[ Prologo ]
Magnac aequidemd in hac exigua tractatione singulis de Natura speculantibus inspicienda, contemplandaque propono. Magna, inquam, tum ob rei ipsius
praestantiam, tum ob inauditam per aevum novitatem, tum etiam propter Organum,2 cuius beneficio eadem sensui nostro obviam sese fecerunt.
Avviso Astronomico che contiene e chiarisce osservazioni fatte recentemente con l'aiuto di
un nuovo occhiale nella faccia della luna, nella via lattea e nelle stelle nebulose, in innumerevoli
stelle fisse e in quattro pianeti, non mai veduti fin ora, chiamati astri medicei.
Grandi cose
invero in questo breve trattato propongo all’osservazione ed alla contemplazione degli studiosi
della natura. Grandi, dico, sia per l'eccellenza della materia in se stessa, sia per la novità mai
udita nei secoli, sia anche per lo strumento attraverso il quale queste stesse cose si sono manifestate al nostro senso.
Titolo interno con il grecismo scientifico astronomicus, sostituito nel frontespizio dall’epiteto di uso poetico sidereus.
2 Grecismo da ὄργανον strumento: è il telescopio, descritto subito dopo il prologo.
1
b sydera, ipercorrettismo ricorrente per
quatuor, variante scempia ricorrente di quattuor
c magna…, triplice anafora per lo stupore della scoperta, che continua nel dicolon
sidera
d aequidem, ipercorretismo per equisuccessivo (pulcherrimum atque visu iucundissimum)
dem
a
5
Magnum sane est supra numerosam Inerrantium Stellarum3 multitudinem,
quae naturali facultate in hunc usque diem conspici potuerunt, alias innumeras
superaddere, oculisque palam exponere, antehac conspectas nunquam, et quae
veteres, ac notas plusquam supra decuplam multiplicitatem superent.
Pulcherrimum, atque visu iucundissimum est, lunare corpus per sex denas
fere terrestres diametros4 a nobis remotum, tam ex propinquo intueri, ac sie [5v]
per duas tantum easdem dimensiones distaret; adeo ut eiusdem Lunae diameter
vicibus quasi terdenis, superficies vero noningentis, solidum autem corpus vicibus proxime viginti septem millibus maius appareat, quam dum libera tantum
oculorum acie spectatur: ex quo deinde sensata certitudine5 quispiam intelligat,
Lunam superficie leni, et perpolitaf nequaquam esse indutam, sed aspera, et inaequali; ac veluti ipsiusmetg Telluris facies ingentibus tumoribus, profundis lacunis, atque anfractibus undiquaque confertam existere. […]
Grande cosa è certamente aggiungere all’immensa moltitudine delle Stelle Fisse, che con la
naturale facoltà visiva si sono potute scorgere fino ad oggi, altre innumerevoli Stelle, non mai
vedute prima d’ora e che superano più di dieci volte il numero delle Stelle antiche e già note.
Bellissima cosa e piacevolissima a vedersi è vedere il corpo della Luna lontano da noi quasi sessanta raggi terrestri, così da vicino come se distasse due soltanto di dette misure; cosicché il diametro stesso della Luna appaia quasi trenta volte, la superficie quasi novecento volte, il volume
quasi ventisettemila volte più grande di quanto appaiano quando si guardano ad occhio nudo: e
quindi da ciò ciascuno possa comprendere con la certezza data dall'esperienza sensibile che la
Luna non è rivestita da una superficie liscia e levigata ma scabra ed ineguale e, proprio come la
faccia della Terra, piena di grandi sporgenze, di profonde cavità e di anfratti.
Verum, quod omnem admirationem longe superat, quodve ad monitos faciendos cunctos Astronomos, atque Philosophos nos apprime impulit, illud est,
Inerrantes stellae o stellae fixae si oppone nell’opera a erraticae stellae e al grecismo planetae
(deverbativo da πλανάω vagare) per pianeti, in senso proprio tutti i corpi celesti che percorrono un’orbita compresi i satelliti.
4 Lezione mantenuta da F. MARCACCI, qui col valore frequente di raggio (come già per διάστημα in Euclide), in luogo della correzione comune in semidiametros; nel seguito invece
per diametro. In 60,336 si misura oggi il rapporto tra la distanza lunare (384.403 km) e il
raggio medio della terra (6.371 km).
5 Sensata certitudo, termini di uso tardo in locuzione di marca galileiana per certezza data
dall’esperienza sensibile. Galaxia, grecismo da Γαλαξίας, e il corradicale latino (via) Lactea sono in Galileo sinonimi, per l’unico fino ad allora noto degli innumerevoli sistemi stellari
che popolano l’universo.
3
f leni et perpolita, dicolon sinonimico con lēnis per lēvis: liac si…, comparativa ipotetica
scio, levigato g ipsiusmet, con suffisso rafforzativo
e
6
quod scilicet Quatuor Erraticas Stellas nemini eorum, qui ante nos, cognitas, aut
observatas, adinvenimus, quae circa Stellam quandam insignem e numero cognitarum, instar Veneris, atque Mercurii circa Solem, suas habent periodos6, eamque modo praeeunt, modo subsequuntur, nunquam extra certos limites ab illa digredientes. Quae omnia ope Perspicilli a me excogitati divina prius illuminante gratia, paucis abhinc diebus reperta, atque observata fuerunt.7
Alia forte praestantiora, vel a me, vel ab aliis in dies adinvenientur consimilis Organi beneficio, cuius formam, et apparatum, necnon illius excogitandi oc[6r]casionem prius breviter commemorabo, deinde habitarum a me Observationum historiam recensebo. […]
Ma ciò che supera di gran lunga ogni immaginazione e che ci ha spinto principalmente a
renderne consapevoli tutti gli astronomi ed i filosofi è il fatto che abbiamo scoperto appunto
quattro Stelle erranti, da nessuno di quelli prima di noi conosciute né osservate, che a somiglianza di Venere e Mercurio intorno al Sole, hanno le loro rivoluzioni attorno ad una certa
Stella principale del numero di quelle conosciute, ed ora la precedono ora la seguono non allontanandosi mai da quella oltre determinati limiti. Le quali cose furono tutte scoperte ed osservate
da me, pochi giorni or sono, con l'aiuto di un occhiale da me escogitato, illuminandomi prima la
grazia divina.
In futuro altre cose forse più importanti saranno scoperte o da me o da altri
con l’aiuto di un simile strumento la cui forma e struttura, come anche l’occasione di inventarlo
esporrò prima brevemente, poi narrerò la storia delle mie osservazioni.
Periodus grecismo in astronomia per moto di rivoluzione di un corpo celeste attorno a un
altro, qui le orbite dei quattro satelliti di Giove («Stellam quandam insignem»). Galileo, che
nel Siderues Nuncius evita ogni accenno al sistema eliocentrico proposto dal polacco Niccolò Copernico (1473-1543), rimanda invece qui e nella parte conclusiva (18r), senza però
nominarlo, alla teoria dell’astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601), che aveva sostenuto una soluzione di compromesso tra sistema tolemaico e copernicano, ritenendo che Venere e Mercurio e gli altri pianeti orbitassero intorno al sole, mentre questo intorno alla terra che rimaneva immobile (sistema ticonico).
7 Perspicillum (deverbativo da perspicio) è verosimilmente un neologismo galileiano. «Perspicillum, da perspicio, che indica un guardare in profondità, penetrando con lo sguardo la
realtà, senza che essa si sottragga a noi ma, anzi, ci si consegni in un atto di prodiga fiducia. Il termine "cannocchiale" non trattiene questa sensibilità semiologica: cannocchiale rimanda proprio ai tratti esteriori di questo oggetto − una canna, un tubo, una lente, un occhiale − come se in esso ci fosse la capacità di rappresentazione del solo aspetto esteriore
delle cose. Ma con il perspicillum la pretesa è di fare qualcosa di più, probabilmente: probabilmente ci si vuole assicurare la capacità di conquistare l'intimità degli oggetti celesti» (F.
MARCACCI, in «L’Osservatore Romano» 27 febbraio 2009). Come dal seguito, alla notizia
giunta a Venezia nella primavera del 1609 dell’invenzione di un cannocchiale da parte dell’olandese Giovanni Lipperhey Galileo ne aveva apprestato uno assai più elaborato, capace di più di 30 ingrandimenti lineari.
6
7
[ Macchie lunari e scabrosità della superficie della luna ]
[7r] De facie autem Lunae, quae ad aspectum nostrum [7v] vergit, primo lo-
co dicamus, quam facilioris intelligentiae gratia in duas partes distinguo, alteramh nempe clariorem, obscuriorem alteram: clarior videtur totum Emisphaeriumi ambire, atque perfundere; obscurior vero veluti nubes quaedam faciem ipsam inficit, maculosamque reddit; istae autem maculae subobscurae, et satis amplae unicuique sunt obviae, illasque aevum omne conspexit; quapropter magnas, seu antiquas eas appellabimus, ad differentiam aliarum macularum amplitudine minorum, at frequentia ita consitarum, ut totam Lunarem superficiem,
praesertim vero lucidiorem partem conspergant; hae vero a nemine ante nos observatae fuerunt; ex ipsarum autem saepius iteratis inspectionibus, in eam deducti sumus sententiam, ut certo intelligamus, Lunae superficiem, non perpolitam, aequabilem, exactissimaeque sphaericitatis existere, ut magna philosophorum coorsj de ipsa, deque reliquis corporibus coelestibusk opinata est,8 sed contra inaequalem, asperam, cavitatibus, tumoribusque confertam, non secus, ac ipsiusmet Telluris facies, quae montium iugis, valliumque profunditatibus hincindel distinguitur. Apparentiae vero ex quibus haec colligere licuit eiusmodi sunt.
Parleremo in primo luogo dunque della faccia della Luna che è rivolta verso di noi. Per maggiore chiarezza, distinguo questa in due parti, una più chiara e una più scura: la più chiara
sembra circondare e riempire tutto l’emisfero, la più scura, invece, offusca, come una nuvola, la
stessa faccia e la fa apparire macchiata. Queste macchie, oscure ed abbastanza ampie, sono visibili ad ognuno e furono scorte in ogni tempo; per questa ragione le chiameremo grandi o antiche, a differenza di altre macchie minori per ampiezza ma così frequenti da riempire tutta la superficie lunare, specialmente la parte più lucente; e queste, invero, non furono osservate da nesPer la sfericità dei corpi celesti tra cui la luna, cf. per es. ARISTOTELE, De caelo 2,11 291b:
«Che la luna sia sferica ci è dimostrato dai fenomeni che percepiamo con la vista. Non assumerebbe infatti, al crescere e al calare, forma per lo più lunata o d’ambo i lati convessa, e
una sola volta forma di mezzaluna. E lo stesso si ricava anche dai dati astronomici, in
quanto le eclissi solari non avrebbero altrimenti forma lunata. Cosicché, se uno degli astri
ha questa forma, è chiaro che anche gli altri saranno sferici»; e più in generale per la perfetta forma sferica del cosmo, cf. ibid. 2,4 287b: «Da tutto questo risulta evidente che il mondo
(κόσμος) è sferico, e così perfettamente tornito, che nulla di quanto è fatto da mani umane,
né di quanto si produce quaggiù, gli è paragonabile» (tr. O. LONGO, Sansoni, Firenze 1961,
pp. 153.155; 129). In chiave mitica su sole, terra e luna archetipi dei tre generi di uomini originari di forma sferica, cf. PLATONE, Symp. 190b.
8
alteram… alteram, chiasmo con epanadiplosi i emisphaerium, per hemisphaerium grecismo:
j
k
v. anche nel seguito sphaericitas, sphaericus
coors, per cohors
coelestibus, da coelum col
mune ipercorrettismo per caelum
hincinde, con scriptio continua per qua e là
h
8
suno prima di noi: dalla osservazione, poi, più volte ripetuta di queste fummo tratti alla convinzione che la superficie della Luna non è levigata, uniforme ed esattamente sferica come un gran
numero di filosofi credette di essa e degli altri corpi celesti, ma, al contrario, ineguale, scabra,
piena di cavità e di sporgenze, non diversamente della stessa faccia della Terra che si differenzia
qui per catene di monti lì per profondità di valli. Le apparenze, dalle quali potrei trarre queste
conclusioni, sono le seguenti.
[ Linea di illuminazione irregolare della luna crescente ]
Quarta aut quinta post coniunctionem die9, cum splendidis Luna sese nobis
cornibus offert, iam terminus, partem obscuram a luminosa dividens, non aequabiliter secundum ovalem lineam extenditur, veluti in solido perfecte sphaerico accideret; sed inaequabili, aspera, et admodum sinuosa linea designatur, veluti apposita figura repraesentat10: complures enim veluti excrescentiae lucidae
ultra lucis tenebrarumque confinia in partem obscuram extenduntur, et contra
tenebricosae particulae intra lumenm ingrediuntur. Quinimo,n et magna nigricantium ma[8r]cularum exiguarum copia, omnino a tenebrosa parte separatarum, totam fere plagam iam Solis lumine perfusam undiquaque conspergit, illa
saltem excepta parte quae magnis, et antiquis maculis est affecta. Adnotavimus
autem, modo dictas exiguas maculas in hoc semper, et omnes convenire, ut partem habeant nigricantem locum Solis respicientem; ex adverso autem Solis lucidioribus terminis, quasi candentibus iugis coronentur. At consimilem penitus
aspectum habemus in Terra circa Solis exortum, dum valles nondum lumine
perfusas, montes vero illas ex adverso Solis circundantes iam iam splendore fulgentes intuemur: ac veluti terrestrium cavitatum umbrae Sole sublimiora petente imminuuntur, ita et lunares istae maculae, crescente parte luminosa tenebras
amittunto.
Già nel quarto o quinto giorno dopo la congiunzione, quando la Luna si mostra a noi con i
corni splendenti, il termine che divide la parte oscura da quella luminosa non si estende uniformemente secondo una linea ovale come dovrebbe accadere in un solido perfettamente sferico; ma
è segnato da una linea disuguale, aspra e alquanto sinuosa, come l’apposita figura rappresenta:
infatti molte luminosità si estendono come delle escrescenze oltre i confini della luce e delle tenebre nella parte oscura, e, al contrario, delle particelle tenebrose si introducono nella parte illumiPer un corpo del sistema solare congiunzione è la posizione di allineamento con la terra e
il sole, detta inferiore quando, come qui, sia ad essi interposto.
10 I disegni di Galileo abbozzano la prima carta lunare, che nel corso dello stesso XVII sec.
sarà da altri molto migliorata e corredata dei primi toponimi.
9
lucidae…intra lumen, chiasmo complesso
o
crescente… amittunt, altro chiasmo
m
n
quinimo, con scrptio continua per quin immo
9
nata. Di più, anzi, una gran parte
pa di piccole macchie nerastre del tuttoo se
separate dalla parte oscura, cospargono dovunque quasi
qu
tutta la plaga già illuminata dal Sole
Sol eccettuata soltanto
quella parte la quale è cosparsa
sa di
d macchie grandi antiche. Abbiamo poi osservato
osse
che le suddette
piccole macchie concordano tutt
utte e sempre in questo, nell'avere la parte ner
nerastra rivolta verso il
Sole; mentre nella parte opposta
sta al Sole sono coronate da contorni moltoo lu
lucenti, quasi da montagne accese. Ma un aspetto sim
simile abbiamo sulla Terra verso il sorgere del Sole quando, non essendo ancora le valli inondatee di luce, vediamo quei monti che le circondan
dano dalla parte opposta
al Sole ormai splendenti di luce:
uce: e come le ombre delle cavità terrestri, man mano che il Sole si
innalza, diminuiscono, così anche
anc queste macchie lunari, con il crescere
re della parte luminosa
perdono le tenebre.
[ Aree illuminate
ill
nella parte oscura della luna ]
[8v] Verum non modo
do tenebrarum et luminis confinia in
n Luna
Lu inaequalia, ac
sinuosa cernuntur; sed, quo
quod maiorem infert admirationem,, pe
permultae apparent
lucidae cuspides intra teneb
enebrosam Lunae partem omnino ab illuminata
illu
plaga divisae, et avulsae, ab eaque
ue non per exiguam intercapedinem dissitae,
di
quae paulatim aliqua interiecta mor
ora magnitudine, et lumine augentur
tur; post vero secundam horam, aut tertiam, reliquae
re
parti lucidae, et ampliori iam
am factae iunguntur;
interim tamen aliae, atque
ue aaliae hincinde quasi pullulantes intra
ntra tenebrosam partem accenduntur, augentu
ntur, ac demum eidem luminosae supe
uperficiei magis adhuc extensae, copulantur.
r. H
Huius exemplum eadem figura nobis
obis exhibet. At nonne in terris ante Solis exort
xortum, umbra adhuc planities occupa
pante, altissimorum
cacumina montium solarib
ribus radiis illustrantur? nonne exiguo
uo interiecto tempore ampliatur lumen dum m
mediae, et largiores eorundem monti
ntium partes illumi-
10
nantur; ac tandem orto iam Sole planicierum, et collium illuminationes iunguntur? […]
Veramente, non solo i confini tra la luce e le tenebre si vedono nella Luna ineguali e sinuosi,
ma, cosa che desta maggior meraviglia, moltissime punte lucenti appaiono nella parte tenebrosa
della Luna completamente divise e staccate dalla regione illuminata e da essa lontane non piccolo tratto; le quali a poco a poco, trascorso un certo tempo, aumentano di grandezza e di luminosità, dopo due o tre ore si congiungono con la restante parte luminosa già fattasi più ampia;
frattanto anche altre punte, quasi parallele di qua e di là, si accendono nella parte tenebrosa, si
ingrandiscono, e infine si uniscono anch’esse con la medesima superficie luminosa, che si è sempre andata ampliando. L'esempio di ciò ce lo offre la medesima figura. E sulla Terra, prima del
sorgere del Sole, mentre l'ombra occupa ancora le pianure, le cime dei monti più alti non sono
forse illuminate dai raggi solari? e, in breve intervallo di tempo, quella luce non si dilata mentre
le parti medie e più ampie dei medesimi monti si illuminano; e, finalmente, sorto il Sole, le illuminazioni delle pianure e dei colli non si congiungono?
[ «Terre» e «mari» sulla luna ]
[9r] Verum magnae eiusdem Lunae maculae consimili modo interruptae, at-
que lacunis, et eminentiis confertae minime cernuntur; sed magis aequabiles, et
uniformes; solummodo enim clarioribus nonnullis areolis hac illac scatent; adeo
ut si quis veterem Pythagoreorum sententiam exsuscitare velit, Lunam scilicet
esse quasi Tellurem alteram,11 eius pars lucidior terrenam superficiem, obscurior
vero aqueam magis congrue repraesentet:12 mihi autem dubium fuit nunquam,
Terrestris globi a longe conspecti, atque a radiis Solaribus perfusi, terream superficiem clariorem, obscuriorem vero aqueamp se seq in conspe[9v]ctum daturam. Depressiores insuper in Luna cernuntur magnae maculae, quam clariores
plagae; in illa enim tam crescente, quam decrescente semper in lucis tenebrarumque confinio, prominent[e] hincinde circa ipsas magnas maculas conterminir
partis lucidioris; veluti in describendis figuris observavimus; neque depressiores
tantummodo sunt dictarum macularum termini, sed aequabiliores, nec rugis,
aut asperitatibus interrupti. Lucidior vero pars maxime prope maculas eminet;
Cf. H. DIELS-W. KRANZ, I Presocratici, cur. G. REALE, Bompiani-RCS Libri, Milano 20062015, 58 B 37 (p. 592s.): «ἀντίχθονα δὲ τὴν σελήνην ἐκάλουν οἱ Πυθαγόρειοι, ὥσπερ καὶ
αἰθερίαν γῆν»: «[Inoltre] i Pitagorici chiamavano ‘antiterra’ la luna, ed anche ‘terra eterea’» (Aristotele, Sui Pitagorici, fr. 204 Rose). Cf. anche 44 A 20 (Filolao) (ibid., p. 836 s.); 59
A 35 (Anassagora) (ibid., p. 1022 s.).
12 Altrove Galileo esclude ripetutamente la presenza di acqua sulla luna.
11
terream… aqueam, chiasmo
riante di termini, che segue
p
q
se se, con grafia disgiunta
r
contermini, qui sostantivo va-
11
adeo ut, et ante quadratura
turam primam, et in ipsa ferme secund
nda13 circa maculam
quandam, superiorem, bor
borealem nempe Lunae plagam occupa
upantem valde attollantur tam supra illam, quam
qua infra ingentes quaeda<m> emin
minentiae, veluti appositae praeseferunts deline
lineationes. […]
Veramente le grandi macchie
hie della medesima Luna non si vedono affatto
atto così interrotte e ricche di avvallamenti e sporgenze
ze ma più uguali ed uniformi; infatti solo qua e là spuntano alcune areole più chiare; cosicché,
é, se
s qualcuno volesse riesumare l’antica opinione
opi
dei Pitagorici,
cioè che la Luna sia quasi una seconda
s
Terra, la parte di essa più luminosa
osa rappresenterebbe la
superficie solida, la più oscuraa la superficie acquea: io non dubitai mai infat
nfatti, che, del globo terrestre visto da lontano ed illumin
minato dai raggi solari, la superficie solida si m
mostrerebbe più chiara, l'acqua invece più oscura. Inoltre
In
le grandi macchie nella Luna si vedo
edono più depresse delle
parti più luminose; infatti sia
ia in quella crescente o calante, sempre al lim
limite fra luce e tenebre
sporgono di qua e di là attorno
no alle stesse grandi macchie i contorni della
ella parte più luminosa,
14
come abbiamo osservato nel desc
escrivere la figura : e i confini di dette macch
acchie non sono soltanto
più bassi, ma anche più uniform
ormi e non interrotti da pieghe o asprezze. La parte più lucida poi
sporge soprattutto vicino allee m
macchie; cosicché e davanti la prima quadrat
dratura e facilmente anche nella seconda, intorno ad una
un certa macchia occupante la plaga superio
eriore, cioè boreale, della
Luna, si sollevano notevolmente
nte, tanto sopra quanto sotto di quella, grandi
ndi sporgenze, come dimostrano i disegni qui riprodotti
otti.
Con prima e seconda quadra
dratura si indicano il primo e l’ultimo quart
arto di una lunazione.
14 Ovvero «come si è tenuto con
conto nel tracciare le figure», con riferiment
ento a quelle in calce.
13
s
praeseferunt, con scriptio contin
tinua anche nel seguito
12
[ Origine del «candore» lunare ]
[15r] Cum itaque eiusm
iusmodi secundarius fulgor,15 nec Lunae
Lun sit congenitus,
atque proprius, nec a Stell
tellis ullis, nec a Sole mutuatus, cumq
mque iam in Mundi
vastitate corpus aliud sup
persit nullum, nisi sola Tellus; quid,
uid, quaeso, opinandum? quid proferendum?? nunquid a Terra ipsum lunare corp
orpus, aut quidpiam
aliud opacum, atque tenebr
ebrosum lumine perfundi? quid mirum
rum? maxime: aequa
grataque permutatione rep
rependit Tellus parem illuminationem
em ipsi Lunae, qualem et ipsa a Luna in prof
rofundioribus noctis tenebris toto fere tempore recipit.
Rem clarius aperiamus.. Luna
Lu in coniunctionibus, cum mediu
dium inter Solem et
Terram obtinet locum, sola
olaribus radiis in superiori suo emisph
phaerio Terrae averso perfunditur; emisphaerrium vero inferius, quo Terram aspicit
asp 16 tenebris est
obductum; nullatenus igitur
igitu terrestrem superficiem illustrat.
at. Luna paulatim a
Sole digressa iam iam aliqu
liqua ex parte in emisphaerio inferiori
ri ad
a nos vergente illuminatur, albicantia cornu
rnua, subtilia tamen ad nos convertit;; et leviter Terram
illustrat: crescit in Luna [15v]
[15 iam ad quadraturam accedente
e Solaris
So
illuminatio;
augetur in terris eius lum
luminis reflexio; extenditur adhuc supra
sup semicirculum
splendor in Luna; et nostr
ostrae clariores effulgent noctes; tande
ndem integer Lunae
vultus, quo terram aspicit,
cit, aab opposito Sole clarissimis fulgorib
ribus irradiatur; enitet longe lateque terrestris
stris superficies Lunari splendore perf
erfusa; postmodum
decrescens Luna debiliores
res ad nos radios emittit, debilius illum
luminatur Terra; Luna ad coniunctionem prope
operat, atra nox Terram occupat. Tali
li itaque
it
periodo17 alternis vicibus lunaris fulgo
lgor menstruas illuminationes clariores
res modo, debiliores
alias nobis largitur: verum
m aequa lancet beneficium a Telluree co
compensatur. Dum
enim Luna sub Sole circa
rca coniunctiones reperitur, superficie
iciem terrestris emisphaerii Soli expositi, vividi
ividisque radiis illustrati integram resp
espicit, reflexumque
ab ipsa lumen concipit: ac proinde ex tali reflexione inferius emisphaerium
e
Lunae, licet solari lumine destitutum,
dest
non modice lucens apparet.
ret. Eadem Luna per
Del fenomeno, oggi detto de
della luce cinerea, la stessa spiegazione,, co
confermata dall’astronomia attuale, davano Leonard
nardo da Vinci (1452-1519) e Keplero (1571--1630). La sua descrizione, che Galileo qui riporta
rta «maxime, ut cognatio atque similitudo inter
nter Lunam atque Tellurem clarius appareat» (GIUSTINI, p. 72), segue le fasi lunari.
15
novilunio
io
primo quarto
plenilunio
ultimo quarto
o congiunzione
one SLT
o opposizione STL
16
17
t
Emisfero superiore è dettaa la faccia nascosta della luna, inferiore quel
uella visibile.
Il periodo dell’orbita dellaa lu
luna o mese lunare è di 29 giorni, 12 ore,
e, 44 minuti.
aequa lance, «con piatto della bil
bilancia pari», locuzione figurata per equame
amente, in ugual misura
13
quadrantem18 a Sole remota, dimidium tantum terrestris emisphaerii illuminatum conspicit, scilicet occiduum; altera enim medietas orientalis nocte obtenebratur: ergo, et ipsa Luna splendide minus a Terra illustratur, eiusve proinde lux
illa secundaria exilior nobis apparet. Quod si Lunam in oppositione ad Solem
constituas, spectabit ipsa emisphaerium intermediae Telluris omnino tenebrosum, obscuraque nocte perfusum; si igitur eclypticau fuerit talis oppositio19, nullam prorsus illuminationem recipiet Luna, Solari simul, ac terrestri irradiatione
destituta. […]
Dunque, poiché un tale fulgore secondario non è congenito né proprio della Luna, né è ricevuto da alcuna Stella né dal Sole, e poiché nella vastità del Mondo nessun altro corpo rimane se
non la sola Terra, che cosa si deve credere? Che cosa proporre? Non forse che lo stesso corpo lunare o qualsiasi altro opaco e tenebroso sia illuminato dalla Terra? Cosa c'è da meravigliarsi? In
breve: con giusto e grato ricambio la Terra rende alla Luna una illuminazione pari a quella che essa
stessa riceve dalla Luna per quasi tutto il tempo nelle tenebre più profonde della notte. Spieghiamo la cosa più chiaramente. La Luna nelle congiunzioni, quando si trova fra il Sole e la
Terra, è illuminata dai raggi solari nel suo emisfero superiore opposto alla Terra; mentre l'emisfero inferiore, con cui guarda alla Terra, è ricoperto di tenebre: non illumina perciò minimamente la superficie terrestre. La Luna, allontanandosi a poco a poco dal Sole, si illumina via via
da qualche parte nell'emisfero inferiore rivolto a noi e i corni biancheggianti, anche se sottili,
volge verso di noi e illumina la Terra lievemente; cresce nella Luna, che ormai si accosta alla
quadratura, l’illuminazione solare, aumenta sulla Terra la riflessione della sua luce, si estende
per tutto un semicerchio lo splendore nella Luna e le nostre notti rifulgono più chiare: finalmente l'intero volto della Luna, con il quale guarda la Terra, è irradiato con luminosissimi raggi dal Sole opposto, brilla in ogni luogo la superficie terrestre inondata dallo splendore lunare:
poi la Luna decrescente manda verso di noi raggi più deboli e la Terra è illuminata più debolmente: la Luna si avvia alla congiunzione, una buia notte occupa la Terra. Con tale periodo
dunque alternativamente il fulgore lunare ci elargisce illuminazioni mensili ora più chiare ora
più deboli: ed invero in ugual misura il beneficio è ricambiato dalla Terra. Mentre infatti la Luna si trova sotto il Sole nella congiunzione, ha di fronte l'intera superficie dell’emisfero terrestre
esposto al Sole e illuminato da vividi raggi e riceve la luce riflessa da quella: e perciò l’emisfero
inferiore della Luna, cioè quello privo di luce solare, appare, a causa di tale riflessione, non poco
luminoso. La medesima Luna, allontanandosi di un quadrante dal Sole, vede illuminata soltanto
metà dell'emisfero terrestre, cioè l’occidentale; infatti l'altra metà orientale è ottenebrata dalla
notte; dunque, anche la stessa Luna è illuminata meno splendidamente dalla Terra e perciò
Quadrante è detta la misura angolare di 90o, corrispondente a un quarto di cerchio.
19 Opposizione eclittica si ha nel plenilunio e con la luna sul piano dell’orbita di rivoluzione terrestre intorno al sole, chiamata eclittica dalle eclissi lunare e solare che si verificano
solo quando la luna è su di esso.
18
u
eclyptica, da eclipsis grecismo da ἐκλείπω venir meno, scomparire (con ipercorretismo di y)
14
quella sua luce secondaria ci appare più tenue. Che se si porrà la Luna in opposizione al Sole,
essa avrà di fronte l'emisfero della Terra intermedia completamente tenebroso e soffuso da una
notte oscura: se poi tale opposizione sia eclittica, la Luna non riceverà nessuna illuminazione,
priva contemporaneamente della irradiazione solare e di quella della Terra.
[ Scoperta di innumerevoli nuove stelle, prima mai osservate ]
[16r] Diximus hucusque de Observationibus circa Lunare corpus habitis,
nunc de Stellis fixis ea quae actenusv a nobis inspecta fuerunt breviter in medium adferamus. […] [16va] Adnotatione quoque dignum videtur esse discrimen
inter Planetarum, atque fixarum Stellarum aspectus: Planetae enim globulos
suos exacte rotundos, ac circinatos obiiciunt, ac veluti Lunulae quaedam undique lumine perfusae, orbicularesw apparent: Fixae vero Stellae peripheriax circulari nequaquam terminatae conspiciuntur, sed veluti fulgores quidam radios circumcirca vibrantes; atque admodum scintillantes: 20 consimili tandem figura
praeditae apparent cum Perspicillo, ac dum naturali intuitu spectantur, sed adeo
maiores, ut Stellula quintae, aut sextae magnitudinis Canem, 21 maximam nempe
fixarum omnium aequare videatur. [16vb] Verum infra Stellas magnitudinis sextae, adeo numerosum gregem aliarum, naturalem intuitum fugientium, per Perspicillum intueberis, ut vix credibile sit, plures enim quam sex aliae magnitudinum differentiae videas licet. Quarum maiores, quas magnitudinis septimae, seu
primae invisibilium appellare possumus, Perspicilli beneficio maiores, et clariores apparent, quam magnitudinis secundae Sydera acie naturali visa.
Abbiamo parlato fino a qui delle osservazioni fatte intorno al corpo lunare; ora esponiamo
brevemente ciò che è stato da noi finora osservato riguardo alle Stelle fisse. […] Sembra anche
essere degna di nota la differenza fra l'aspetto dei Pianeti e quello delle Stelle fisse. I Pianeti infatti presentano i loro globi esattamente rotondi e delineati e, come delle piccole Lune dal ogni
parte inondate di luce, appaiono circolari; le Stelle fisse invece non si vedono mai definite da un
Accenno a due fenomeni ottici oggi detti dell’«irradiazione» (apparenza di raggi intorno
a figura molto luminosa e puntiforme in campo oscuro) e dello «scintillio» (variazione apparente della posizione di un corpo luminoso per effetto della rifrazione).
21 Cane o Canicola altro nome di Sirio, la stella (in realtà una stella doppia) più spendente
del cielo nella costellazione del Cane Maggiore, posta nella fascia equatoriale, che in estate
sorge contemporaneamente al sole (da cui l’accezione comune di canicola per grande calura). Magnitudine o grandezza stellare è l’indice, ancora oggi in uso, della luminosità dei
corpi celesti con una scala decrescente fino al limite della visibilità a occhio nudo da uno a
sei, che procede per i valori superiori con numero negativo (per Sirio −1,5).
20
w exacte rotundos ac circinatos… orbiculares, tricolon sinonimico (peractenus, per hactĕnus
fettamente rotondi e circolari e sferici) x peripherīa, grecismo per circonferenza, contorno
v
21
15
contorno circolare ma come fulgori vibranti tutt'attorno i loro raggi e molto scintillanti; infine
appaiono di uguale figura quando sono guardate e ad occhio nudo e quando sono guardate con il
cannocchiale ma così ingrandite che una Stellina di quinta o sesta grandezza sembra eguagliare
il Cane, cioè la più grande di tutte le Stelle fisse. Ma al di là delle Stelle di sesta grandezza con il
cannocchiale si vedrà un così gran numero di altre sfuggenti alla vista naturale, che è appena
credibile: è possibile vederne infatti più di quante ne comprendano le altre sei differenti grandezze; le maggiori di queste, che possiamo chiamare di settima grandezza, o anche prime delle invisibili, con l’aiuto del cannocchiale, appaiono più grandi e luminose delle Stelle di seconda grandezza viste ad occhio nudo.
[ Nuova rappresentazione delle costellazioni di Orione e delle Pleiadi ]
Ut autem de inopinabili fere illarum frequentia unam, alteramve attestationem videas Asterismosy duos subscribere placuit, ut ab eorum exemplo de caeterisz iudicium feras. In primo integram Orionis Constellationem pingere decreveram; verum ab ingenti Stellarum copia, temporis vero inopia obrutus, aggressionem hanc in aliam occasionem distuli; adstant enim, et circa veteres intra unius, aut alterius gradus limites disseminantur plures quingentis:22 quapropter tribus quae in Cingulo, et senis quae in Ense23 iampridem adnotatae fuerunt, alias
adiacentes octuaginta recens visas apposuimus; earumque interstitia quo exactius licuit servavimus: notas, seu veteres, distinctionis gratia, maiores pinximus,
ac duplici linea contornavimus, alias inconspicuas, minores, ac unis lineis notavimus; magnitudinum quoque discrimina quo magis licuit servavimus.
Per dare poi una o due prove del loro inimmaginabile numero, ho voluto aggiungere la rappresentazione di due costellazioni affinché dall’esempio di queste ci si possa fare una idea delle
altre. Nella prima avevo stabilito di raffigurare per intero la costellazione di Orione, ma sopraffatto dalla gran massa di Stelle e dalla mancanza di tempo, rimandai questa impresa ad altra occasione; infatti ce ne sono disseminate intorno a quelle già conosciute, entro i limiti di uno o due
gradi, più di cinquecento: per cui alle tre che già prima erano state osservate nella Cintura e alle
Orione è una delle più belle costellazioni della fascia equatoriale, che prende il nome dal
mitico cacciatore punito da Artemide col morso di uno scorpione (da cui l’omonima costellazione dello zodiaco): con un numero elevatissimo di corpi celesti, comprende stelle molto brillanti e la Grande Nebulosa, specie in inverno facilmente osservabili. Alle intemperie
invernali la associava il PARINI: «Quando Orïon dal cielo/declinando imperversa,/e pioggia
e nevi e gelo/sopra la terra ottenebrata versa» (La caduta, vv. 1-4).
23 Cintura e Spada sono due serie di stelle della costellazione di Orione, immaginata come
la figura di un gigante armato. Le tre stelle allineate della Cintura ne permettono con facilità il riconoscimento sulla volta celeste.
22
asterismos, grecismo per costellazione o, come qui e nel seguito, schema o disegno di costellazione z caeteris, ipercorrettismo per ceteris
y
16
sei nella Spada, ne ho aggiunte
nte altre ottanta adiacenti viste di recente;; e ho
h mantenuto le loro
distanze, quanto più esattament
ente possibile: quelle note, o antiche, per distin
stinguerle le ho disegnate più grandi e contornate daa u
una duplice linea; le altre invisibili le ho disegnate
di
più piccole e
con una sola linea; ho conservato
vato anche, quanto più ho potuto, le differenze
ze di grandezza.
[16vc]
[16vb] In altero exemp
mplo sex Stellas Tauri, PLEIADAS di
dictas24 depinximus
(dico autem sex, quandoqu
doquidem septima fere nunquam appare
paret) intra angustisIl Toro è una costellazionee de
dello zodiaco (fascia centrale del cielo corr
orrispondente all’eclittica) fra Ariete e Gemelli, che
he comprende
c
gli ammassi delle Iadi e delle
elle Pleiadi. Queste ultime visibili a occhio nudo in numero
n
di sette, che sorgono a maggio
io e tramontano a ottobre, erano nella mitologia grec
reca figlie come le sette Iadi del gigante Atla
Atlante, condannato da
Zeus a sostenere la volta celest
leste. Delle Pleiadi si contano oggi circa 500
00 stelle.
24
17
simos in coelo cancellos ob
obclusas, quibus aliae, plures quam quadraginta
qu
invisibiles adiacent; quarum nul
nulla ab aliqua ex praedictis sex vix
ix ultra
u
semigradum
elongatur; harum nos tan
tantum trigintasex adnotavimus; earu
arumque interstitia,
magnitudines, necnon vete
eterum novarumque discrimina veluti
luti in Orione servavimus.
Nella seconda rappresentazio
zione ho disegnato le sei Stelle del Toro, dette
ette PLEIADI (dico sei,
in quanto la settima non appare
are quasi mai), rinchiuse nel Cielo entro limiti
iti angustissimi, poiché
presso di esse sono più di quara
aranta invisibili: delle quali nessuna si allont
lontana più di un semigrado da una delle sei predette:
te: di queste ne ho disegnate soltanto trentasei
asei; ed ho conservato le
loro distanze, grandezze, comee anche
a
la distinzione tra vecchie e nuove, come
com nell'Orione.
[16vd]
[ La Via Lattea o Galassia
G
e le nebulose sono ammassii di stelle ]
Quod tertio loco a nob
nobis fuit observatum, est ipsiusmet LACTEI
LA
Circuli25 essentia, seu materies, quam
am Perspicilli beneficio adeo ad sensum
sum licet intueri, ut
et altercationes omnes, quaae per tot saecula Philosophos excruc
cruciarunt ab oculata
aa
certitudine dirimantur,, nosque
no
a verbosis disputationibus liberemur.
lib
Est enim
Classicamente anche orbiss lacteus
la
(Cicerone) o via lactea (Ovidio),, equivalenti
eq
di Galaxia
subito seguente, la Via Lattea
tea era così denominata dagli antichi perch
rché visibile come una
striscia biancheggiante sullaa v
volta celeste: la sua natura di agglomerato
rato stellare sostenevano in particolare Anassagora
ra e Democrito. Per l’astronomia attuale ess
essa è solo una dei miliardi di galassie (studiate in particolare
p
da E. Hubble) che popolano
o l’
l’universo, del tipo a
spirale, cui appartiene anchee il nostro sistema solare posto in uno deii su
suoi bracci esterni.
25
aa
certitudine, astratto del latino
ino tardo, comune anche in Tommaso d’Aqu
Aquino
18
GALAXYAab nihil aliud, quam innumerarum Stellarum coacervatim consitarum
congeries; in quamcumque enim regionem illius Perspicillum dirigas, statim
Stellarum ingens frequentia se se in conspectum profert, quarum complures satis magnae, ac valde conspicuae videntur; sed exiguarum multitudo prorsus inexplorabilis est.
Ciò che fu osservato da me in terzo luogo è l'essenza ossia la materia della stessa Via LATTEA, la quale con l'aiuto del cannocchiale può scrutarsi tanto sensibilmente che tutte le dispute
che per tanti secoli tormentarono i filosofi sono risolte [con la certezza che è data dagli occhi], e
noi siamo liberati da verbose discussioni. Infatti la GALASSIA nient’altro è che un ammasso di
innumerevoli Stelle disseminate a mucchi: in qualunque regione di essa infatti si diriga il cannocchiale, subito un grandissimo numero di Stelle si presenta alla vista, parecchie delle quali si
vedono abbastanza grandi e molto distinte; ma la moltitudine delle piccole è del tutto inesplorabile.
At cum non tantum in GALAXYA lacteus ille candor, veluti albicantis nubis spectetur, sed complures consimilis coloris areolae sparsim per aethera subfulgeant, si in illarum quamlibet Specillum convertas Stellarum constipatarum
[16ve] cœtum offendes. Amplius (quod magis miraberis) Stellae ab Astronomis
singulis in hanc usque diem NEBULOSAE26 appellatae, Stellularum mirum in
modum consitarum greges sunt; ex quarum radiorum commixtione, dum unaquequeac ob exilitatem, seu maximam a nobis remotionem, oculorum aciem fugit, candor ille consurgit, qui densior pars coeli, Stellarum, aut Solis radios retorquere valens, hucusque creditus est. Nos ex illis nonnullas observavimus; et
duarum Asterismos subnectere voluimus.
E poiché non soltanto nella GALASSIA si osserva quel candore latteo come di nube biancheggiante, ma numerose areole di colore simile splendono di tenue luce qua e là per l'etere, se si
volge il cannocchiale in una qualsiasi di esse, ci si imbatterà in un fitto ammasso di Stelle. Inoltre (cosa che ancor più meraviglia), le Stelle chiamate fino ad oggi da [singoli] astronomi NEBULOSE, sono raggruppamenti di piccole Stelle disseminate in modo mirabile; e mentre ciascuna di esse, per la sua piccolezza, cioè per la grandissima lontananza da noi, sfugge alla nostra vista, dall'intreccio dei loro raggi si genera quel candore che è stato creduto finora una parAll’osservazione naturale nubi luminose, che col cannocchiale Galileo può risolvere in
agglomerati di stelle. Nella terminologia attuale si distingue tra nebulose extragalattiche,
corrispondenti a galassie o ammassi stellari, e nebulose diffuse o galattiche, costituite da
agglomerati di pulviscolo e gas, in riferimento alla nostra galassia, per la quale per singole
costellazioni può permanere la qualifica di nebulose solo come denominazione storica.
26
Galaxya, con ipercorrettismo della y, grecismo del latino tardo (già Galaxias masch. in
ac unaqueque, con
Marziano Capella, V sec.), da γάλα, γάλακτος corradicale di lac, lactis
grafia fonetica per unaquaeque
ab
19
te più densa del Cielo, capace di riflettere i raggi delle Stelle o del Sole. Tra
ra quelle ne ho osservate alcune ed ho voluto riportare
re i disegni di due.
[ Le «nebulose» di Orione e Presepe ]
In primo habes NEBU
BULOSAM, Capitis ORIONIS appellat
llatam,27 in qua Stellas vigintiunas numeravimu
imus.
Secundus NEBULOSA
AM PRAESEPE28 nuncupatam contin
ntinet, quae non una
tantum Stella est, sed con
congeries Stellularum plurium quam
m quadraginta: nos
praeter Asellos trigintasex
ex n
notavimus in hunc, qui sequitur ordinem
ordi
dispositas.
Nel primo si ha la NEBULOS
OSA chiamata Testa di ORIONE, nella qual
uale ho contato ventuno
Stelle.
Il secondo rappresenta
nta la NEBULOSA chiamata PRESEPE, che
he non è una sola Stella
ma una congerie di più di quara
aranta Stelline: ne ho segnate, oltre gli Asinel
inelli, trentasei, disposte
nell’ordine seguente.
La «nebulosa» qui risolta de
della Testa di Orione coincide con l’attuale
ale Ammasso di Lambda
Orionis, una delle associazioni
oni stellari più appariscenti e di cui λ Orioni
ionis è l’astro più luminoso (mentre in Galileo non
n è menzionata la Nebulosa di Orione, gran
rande nebulosa galattica al centro della Spada di Orio
Orione e descritta per la prima volta da suoi
uoi contemporanei).
28 La Nebulosa Praesepe («mang
angiatoia») è posta nella costellazione zodia
diacale del Cancro tra
le due stelle Asellus Borealis e Asellus
A
Astralis, dagli antichi identificate
te ccon gli asini cavalcati da Dioniso e Sileno nella titanomachia.
tit
Oggi è classificata come un ammasso aperto di
circa un migliaio di stelle.
27
20
[ I quattro satelliti di Giove: diario di una scoperta ]
[17r] De Luna, de inerrantibus Stellis, ac de Galaxia, quae hactenus observa-
ta sunt breviter enarravimus. Superest ut, quod maximum in praesenti negotio
existimandum videtur, quatuor PLANETAS a primo mundi exordio ad nostra
usque tempora nunquam conspectos, occasionem reperiendi, atque observandi,
necnon ipsorum loca, atque per duos proxime menses29 observationes circa eorundem lationes,30 ac mutationes habitas, aperiamus, ac promulgemus; astronomos omnes convocantes, ut ad illorum periodos inquirendas, atque definiendas
se conferant, quod nobis in hanc usque diem ob temporis angustiam, assequi
minime licuit. Illos tamen iterum monitos facimus, ne ad talem inspectionem incassumad accedant, Perspicillo exactissimo opus esse, et quale in principio sermonis huius, descripsimus.
Le cose che sono state osservate finora intorno alla Luna, alle Stelle fisse ed alla Galassia ho
esposto brevemente. Rimane ora quello che mi sembra l'argomento più importante nel presente
trattato e cioè rivelare e divulgare le notizie intorno a quattro PIANETI non mai veduti dal
principio del Mondo fino ad oggi, l’occasione della scoperta e dello studio, le loro posizioni, le
osservazioni condotte in questi ultimi due mesi sui loro mutamenti e giri invitando tutti gli astronomi a studiare e definire i loro periodi, cosa che fino ad oggi, per mancanza di tempo, non
mi fu possibile in alcun modo fare. Ma li avverto che, affinché non si avvicinino inutilmente a
questo studio, è necessario un cannocchiale esattissimo quale ho descritto all’inizio di questo discorso.
Die itaque septima Ianuarii instantis anni millesimi sexcentesimi decimi,
hora sequentis noctis prima31, cum coelestia sydera per Perspicillum spectarem,
Iuppiter se se obviam fecit, cumque admodum excellens mihi parassem instrumentum, (quod antea ob alterius Organi32 debilitatem minime contigerat) tres illi
adstare Stellulas, exiguas quidem, veruntamen clarissimas, cognovi; quae, licet e
numero inerrantium a me crederentur, non nullamae tamen intulerunt admiratiLa dedica a Cosimo II de’ Medici granduca di Toscana premessa all’opera porta la data
del 12 marzo 1610. La prima osservazione dei satelliti di Giove è datata subito sotto al 7
gennaio precedente
30 Un uso astronomico di latio come iter o cursus segnala il Totius Latinitatis Lexicon (1771)
del FORCELLINI per BOEZIO, Topicorum Aristotelis interpr. 6,3, in PL 64, 974C: dies est solis latio
super terram (nel testo aristotelico ἡμέρα ἡλίου φορὰ ὑπὲρ γῆς ἐστιν, BEKKER 142b).
31 Già i Romani avevano adottato dai Greci la suddivisione del dì e della notte entrambi in
12 ore, di durata variabile secondo la stagione.
32 Tra i cimeli galileiani si conservano due cannocchiali, ritenuti tra i primi da lui costruiti.
29
incassum, scriptio continua della locuzione avverbiale già di uso classico in cassum
nullam, con grafia disgiunta
ad
ae
non
21
onem, eo quod secundum exactam lineam rectam, atque Eclypticaeaf parallelam
dispositae videbantur: ac caeteris magnitudine paribus splendidiores: eratque illarum inter se et ad Iovem talis constitutio.
Ori.
*
* O
*
Occ.
[17v] ex parte scilicet Orientali duae aderant Stellae, una vero Occasum versus.ag
Orientalior atque Occidentalis, reliqua paulo maiores appar<e>bant,ah de distantia inter ipsas et Iovem minime sollici<t>usai fui; fixae enim uti diximus primo
creditae fuerunt; cum autem die octava, nescio quo Fato ductus, ad inspectionem eandem reversus essem, longe aliam constitutionem reperi; erant enim tres
Stellulae occidentales omnes a Iove, atque inter se quam superiori nocte viciniores, paribusque interstitiis mutuo disseparatae, veluti apposita praesefert delineatio.
Ori.
O
*
*
*
Occ.
Dunque il giorno sette Gennaio dell'anno milleseicentodieci, a una ora di notte, mentre osservavo con il cannocchiale gli Astri, mi si presentò Giove; poiché mi ero preparato uno strumento eccellente vidi (cosa che prima non mi era accordata per la debolezza dell’altro strumento), che intorno a quello stavano tre Stelline, piccole ma luminosissime; e quantunque le credessi
del numero delle fisse, tuttavia destarono in me una certa meraviglia, poiché sembravano disposte esattamente secondo una linea retta e parallela all'Eclittica, e più splendenti delle altre di
grandezza uguale alla loro.
Fra loro e rispetto a Giove erano in tale ordine: cioè due Stelle erano ad oriente, una ad occidente. La più orientale e l’occidentale apparivano di poco maggiori
dell'altra: non mi curai minimamente della distanza tra esse e Giove: infatti, come ho detto, le
avevo credute fisse. Essendo io, il giorno otto, non so da qual destino condotto, ritornato alla
medesima indagine, trovai una disposizione molto diversa: infatti le tre Stelline erano tutte a
occidente rispetto a Giove e più vicine fra loro che nella notte antecedente e separate da uguali
intervalli come mostra il seguente disegno.
Hic, licet ad mutuam Stellarum appropinquationem minime cogitationem
appulissem, <haes>itare tamen c<o>epi[t],aj quonam pacto Iuppiter ab omnibus
praedictis fixis posset orientalior reperiri, cum a binis ex illis pridie occidentalis
fuisset: ac proinde veritus sum ne forte, secus a computo astronomico, directus
foret,33 ac propterea motu proprio Stellas illas antevertisset: quapropter maximo
Le tavole astronomiche in uso a Galileo davano per Giove in quel periodo il moto retrogrado, un moto apparente contrario di quello «diretto» da est verso ovest di sole e luna.
33
eclypticae, come sopra l’orbita di rivoluzione terrestre ag occasum versus, acc. di direzione
con avverbio posposto ah appar<e>bant, per l’errato apparabant tràdito ai sollici<t>us, per
l’errore di scrittura sollicicus aj haesitare… coepi, correzione del tràdito exitare… caepit
af
22
cum desiderio sequentem expectavi noctem; verum a spe frustratus fui, nubibus
enim undiquaque obductum fuit coelum.
At die decima apparuerunt Stellae in eiusmodi ad Iovem positu: duae enim
Ori.
*
*
O
Occ.
tantum, et orientales ambae aderant, tertia, ut opinatus fui, sub Iove latitante. Erant pariter veluti antea in eadem rectaak cum Iove, ac iuxta Zodiaci longitudinem34 adamussimal locatae. Haec cum vidissem, cumque mutationes consimiles
in Iove [18r] nulla ratione reponi posse intelligerem, atque insuper spectatas Stellas semper easdem fuisse cognoscerem, (nullae enim aliae, aut praecedentes, aut
consequentes intra magnum intervallum iuxta longitudinem Zodiaci aderant)
iam ambiguitatem in admirationem permutans, apparentem commutationem,
non in Iove, sed in Stellis adnotatis repositam esse comperi; ac proinde oculate,
et scrupulose magis deinceps observandum fore sum ratus.
A questo punto, quantunque non pensassi affatto al reciproco avvicinamento delle Stelle, tuttavia cominciai a soffermarmi sul dubbio in che modo Giove potesse trovarsi più ad oriente di
tutte le Stelle fisse predette, quando il giorno prima era ad occidente di due di esse: e perciò temetti che Giove non fosse diretto diversamente dal computo astronomico e con il proprio moto
avesse oltrepassato quelle Stelle. Perciò con grandissimo desiderio aspettai la notte seguente; ma
fui deluso nella mia speranza; infatti il Cielo fu da ogni parte coperto di nubi.
Ma il giorno
dieci le Stelle apparvero in tale posizione rispetto a Giove: cioè ce ne erano due soltanto ed ambedue ad oriente: essendo la terza, come supposi, nascosta sotto Giove. Erano parimente, come prima, nella medesima retta con Giove, e poste esattamente secondo la linea dello Zodiaco. Avendo
visto ciò e comprendendo che simili spostamenti in nessun modo potevano attribuirsi a Giove ed
inoltre sapendo che le Stelle osservate erano sempre le stesse (nessun’altra infatti, o precedente,
o seguente, entro un grande intervallo secondo la linea dello Zodiaco c'era), ormai mutando la
perplessità in meraviglia compresi che l’apparente mutazione non era posta in Giove, ma nelle
Stelle osservate; e per questo pensai di dovere osservare da allora in poi il fenomeno con maggiore oculatezza e scrupolosità.
Die itaque undecima eiuscemodi constitutionem vidi: Stellas scilicet tantum
Ori.
* *
O
Occ.
duas orientales; quarum media triplo distabat a Iove, quam ab orientaliori: eratque orientalior duplo fere maior reliqua, cum tamen antecedenti nocte aequales
ferme apparuissent. Statutum ideo, omnique procul dubio a me decretum fuit,
È detta zodiaco la fascia del cielo che comprende la linea (qui longitudo) dell’eclittica, divisa in 12 parti col nome della costellazione in congiunzione con la quale sorge il sole.
34
ak
in eadem recta, ovvero linea recta
al
adamussim, per ad amussim «a livella»
23
tres in coelis adesse Stellas vagantes circa Iovem, instar Veneris, atque Mercurii
circa Solem:35 quod tandem luce meridiana clarius36 in aliis postmodum compluribus inspectionibus observatum est; ac non tantum tres, verum quatuor esse vaga Sydera37 circa Iovem suas circumvolutiones obeuntia; quorum permutationes
exactius consequenter observatas subsequens narratio ministrabit. […]
Il giorno undici, poi, vidi la seguente disposizione: cioè soltanto due Stelle ad oriente, delle
quali quella di mezzo distava da Giove il triplo che dalla Stella più orientale, e la più orientale
era quasi il doppio dell’altra, quantunque la notte precedente fossero apparse [pressoché] uguali.
Dunque stabilii e fuor da ogni dubbio conclusi che in Cielo c'erano tre Stelle vaganti intorno a
Giove come Venere e Mercurio intorno al Sole; cosa che finalmente fu osservata in maniera più
chiara alla luce meridiana in molte altre successive osservazioni: e fu notato che non sono soltanto tre ma quattro le Stelle [vaganti] che compiono i loro giri intorno a Giove; i mutamenti
delle quali, osservati più esattamente in seguito, la successiva relazione esporrà.
Con riferimento al sistema ticonico: v. sopra n. 6.
36 Preferibile secondo F. MARCACCI (p. 211, n. 80), rispetto all’interpretazione «in maniera
più chiara alla luce meridiana» di A. P. GIUSTINI, quella figurata già prima adottata da altri
e seguita da A. BATTISTINI nella revisione della traduzione del Siderues Nuncius della Timpanaro Cardini (1948) per i tipi di Marsilio, Venezia 1993, p. 228 (con n. 252), che corregge:
«in modo più chiaro della luce meridiana».
37 Per la locuzione vaga sidera, sinonimica di erraticae stellae e planetae e già di uso classico,
cf. anche F. PETRARCA, Canzoniere 287, v. 6: «le stelle vaghe e lor viaggio torto» (in riferimento
ai pianeti e al loro spostamento obliquo nello zodiaco). Con diverso sviluppo per belle, leggiadre nell’adlocutio di G. LEOPARDI, Le ricordanze (Canti, 22,1a): «Vaghe stelle dell’Orsa».
35
24
LETTURE
«L’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci
come si vadia al cielo e non come vadia il cielo»,
di S. Vanni Rovighi.38
[Galileo a Padova costruisce il cannocchiale]
A Padova Galileo si trasferì nel 1592. Non si trovava bene a Pisa, in un ambiente
tradizionale nelle idee e nei gusti. […] A Padova si respirava più liberamente: l’Università aveva una fama europea —vi avevano studiato Nicolò Cusano e Copernico— e
stava molto a cuore alla Repubblica di Venezia, che la difendeva come una sua gloria. I
professori vi godevano la massima libertà che fosse consentita dalle leggi e dai costumi
dell’epoca.
Come professore di matematica doveva far lezioni anche di astronomia, e le fece secondo il sistema tolemaico, ma sappiamo, da lettere del 1597, che egli seguiva da molti
anni la teoria copernicana, e le scoperte astronomiche che egli fece nel 1610 gli confermarono decisamente il valore di questa teoria «fisica», cioè esprimente la realtà […].
Nel Saggiatore, al Sarsi che aveva chiamato il cannocchiale «allievo» di Galileo, e non
figlio, Galileo risponde con una certa irritazione. «Qual parte io abbia nel ritrovamento
di questo strumento... l’ho gran tempo fa manifestato nel mio Avviso Sidereo, scrivendo come in Vinezia, dove allora mi ritrovavo, giunsero nuove che al Sig. Conte Maurizio era stato presentato da un Olandese un occhiale col quale le cose lontane si vedeCf. S. VANNI ROVIGHI, Storia della filosofia moderna. Dalla rivoluzione scientifica a Hegel, La
Scuola Editrice, Brescia 1976, pp. 34-48 («Galileo») (passim). Nostro il titolo generale (con
citazione galileiana, per la quale v. sotto n. 39) e delle sezioni.
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vano così perfettamente come se fussero state molto vicine; né più fu aggiunto. Su questa relazione io tornai a Padova, dove allora stanziavo, e mi posi a pensar sopra tal problema, e la prima notte dopo il mio ritorno lo ritrovai, ed il giorno seguente fabbricai lo
strumento, e ne diedi conto a Vinezia a i medesimi amici co’ quali il giorno precedente
ero stato a ragionamento sopra questa materia. M’applicai poi subito a fabbricarne un
altro più perfetto, il quale sei giorni dopo condussi a Vinezia dove con gran meraviglia
fu veduto quasi da tutti i principali gentiluomini di quella repubblica, ma con mia
grandissima fatica, per più d’un mese continuo». [...]
«Fu dunque tale il mio discorso. Questo artificio, o costa d’un vetro solo, o di più
d’uno. D’un solo non può essere, perché la sua figura o è convessa, cioè più grossa nel
mezo che verso gli estremi, o è concava, cioè più sottile nel mezo, o è compresa tra superficie parallele: ma questa non altera punto gli oggetti visibili col crescergli o diminuirgli; la concava gli diminuisce, e la convessa gli accresce bene, ma gli mostra assai
indistinti ed abbagliati; adunque un vetro solo non basta per produr l’effetto. Passando
poi a due, e sapendo che ‘1 vetro di superficie parallele non altera niente, come si è detto, conclusi che l’effetto non poteva né anco seguir dall’accoppiamento di questo con
alcuno degli altri due. Onde mi ristrinsi a volere esperimentare quello che facesse la
composizione degli altri due, cioè del convesso e del concavo, e vidi come questa mi
dava l’intento: e tale fu il progresso del mio ritrovamento, nel quale di niuno aiuto mi
fu la concepita opinione della verità della conclusione » (Opere, VI, pp. 257-59).
Sulla parte avuta da Galileo nella scoperta del cannocchiale o telescopio e sul modo
in cui vi pervenne si è molto discusso. Già nel 1589 G. B. Della Porta aveva parlato di
lenti capaci di ingrandire gli oggetti, ma, a detta di V. Ronchi, le sue teorie erano poco
attendibili. Nel 1604 Keplero aveva esposto una teoria ottica che offriva la base per la
costruzione del telescopio, ma non l’aveva applicata egli stesso. C’erano sì degli artigiani che fabbricavano cannocchiali, come quello che probabilmente aveva visto Galileo, ma estremamente imperfetti. Insomma c’erano scienziati —e di grande valore, come Keplero— che però non fabbricavano cannocchiali e artigiani che li fabbricavano,
ma poiché non avevano nozioni scientifiche sufficienti, li fabbricavano male: Galileo fu
il primo a fabbricarne uno e molto più perfetto di quelli che circolavano, anche se attribuì troppo a se stesso e riconobbe troppo poco il contributo che altri poteva aver dato
all’invenzione, [...] e lo adoperò ad esplorare il cielo.
[Le nuove scoperte astronomiche]
Ciò che vide incredibili animi iucunditate, con gioia incredibile, era tale da mettere in
crisi la cosmologia tradizionale, e Galileo lo riferì nel Sidereus Nuncius del 1610. Ricordiamo che il «sistema del mondo» che Galileo chiama, e anche noi chiamiamo, tolemaico era costituito, per dir così, di due componenti: l’astronomia tolemaica e la cosmologia aristotelica: la prima, di carattere matematico, era stata inserita nella seconda. Ora
«la prima pietra, base e fondamento» della cosmologia aristotelica è la distinzione spe-
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cifica tra i corpi celesti e i corpi terrestri: i primi perfettamente immutabili e incorruttibili, di materia diversa da quella terrestre, i secondi generabili e corruttibili. Ma Galileo
scopre che sulla Luna ci sono monti e valli, come sulla Terra —lo scopre assistendo,
per dir così, ad un’alba sulla Luna, mirabilmente descritta nel Sidereus Nuncius: punti
luminosi che via via si allargano nella pare oscura (e sono le vette dei monti che si illuminano mentre le valli sono ancora al buio), macchie oscure nella parte illuminata (e
sono le valli). La superficie lunare non è dunque perfettamente liscia come una sfera di
cristallo, ma è come quella terrestre.
Anche nel Sole ci sono macchie che, guardate col telescopio, non si possono spiegare
come dovute alla presenza di corpi interposti fra noi e il Sole, ma debbono essere spiegate come alterazioni dello stesso corpo solare. Venere ha «fasi» come la Luna, il che
prova che compie un moto di rivoluzione intorno al Sole, e non intorno alla Terra.
Infine: Giove ha quattro satelliti. Ora uno degli argomenti contro la teoria copernicana era che la Terra deve star ferma e non compiere un moto di rivoluzione intorno al
Sole, poiché è il centro attorno a cui si muove la Luna. Ma la presenza non di uno ma
di quattro satelliti intorno a Giove provava che un corpo può muoversi intorno ad un
altro (questo altro era, per i tolemaici, la Terra), eppure avere dei satelliti che gli si
muovono intorno.
[Gli argomenti a favore del sistema copernicano]
Non solo le osservazioni astronomiche, ma anche le ricerche di Galileo sulla meccanica contribuivano a fornirgli argomenti in favore del sistema copernicano. I sostenitori del sistema tolemaico obiettavano infatti a Galileo che, se la Terra fosse dotata di un
moto di rotazione intorno al suo asse, un corpo che cade dalla cima di una torre non
dovrebbe cadere ai piedi della torre stessa, ma un po’ più a oriente. A questa obiezione
Galileo risponde con la teoria della relatività del movimento (di quella che oggi si chiama la relatività classica): si percepisce il moto quando si mette a confronto un mobile
con qualcosa che non partecipi al movimento stesso del mobile; ma se si fa parte del sistema che è in movimento, non si percepisce il moto. Ora poiché la torre e la pietra che
cade dalla torre partecipano (nell’ipotesi copernicana) entrambe del moto della Terra, è
impossibile accorgersi del moto che la pietra ha compiuto insieme alla Terra. Certo,
supponendo uno spazio assoluto, si potrebbe vedere rispetto a questo la deviazione dalla perpendicolare del moto della palla, ma non la si può vedere rispetto alla torre. E
Galileo fa questo esempio: quando una nave è in movimento, colui che è nella nave
non si accorge del moto che le merci che sono sulla nave compiono insieme con la nave, ma solo di quello relativo alla nave, se si spostano dalla loro posizione. Per il medesimo motivo non ci accorgiamo del movimento della pietra dovuto alla rotazione della
Terra.
Un altro argomento è offerto a Galileo da una tesi fondamentale della meccanica galileiana: quello che chiamiamo principio di inerzia (vedremo più tardi come egli ci sia
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arrivato, anche se non lo ha formulato esplicitamente). Poiché, secondo quel principio,
un corpo in moto rettilineo e uniforme persevera indefinitamente nel suo stato, se non
interviene una forza a modificarlo, la pietra che cade dalla cima di una torre o dalla
cima dell’albero di una nave, tende a perseverare nel moto che aveva quando era in cima alla torre, moto che era lo stesso della torre, e quindi non abbandona per dir così la
torre e cade ai suoi piedi.
[L’ostilità dei seguaci della fisica tradizionale]
Ma torniamo alle scoperte fatte col telescopio. L’accoglienza della gente di mondo,
per dir così, dai re alle persone colte, fu generalmente molto favorevole. Non così quella dei professori, nella quale si possono rilevare diversi atteggiamenti che vanno dalla
semplice cautela alla diffidenza, al disprezzo, all’odio. Con le scoperte galileiane un sistema cosmologico crollava, e coloro che seguivano la «fisica tradizionale» ne furono
sconvolti, poiché non è facile rinunciare ad una dottrina professata, sopra tutto da parte di chi non ha ingegno sufficiente per pensare con la propria testa. Le parole che Galileo mette in bocca a Simplicio nei Massimi Sistemi sono significative: «Ma quando si lasci Aristotele, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore». E
Galileo risponde: «Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi
aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti
in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta» (Opere, VII, p. 138). Sennonché gli uomini che hanno voglia di servirsi dei propri occhi sono sempre pochi.
Simplicio esprime un disorientamento, una paura, e la paura rende aggressivi, e tali
furono i Simplicii storici. […]
L’atteggiamento dei professori gesuiti del Collegio Romano, dove insegnava anche
il celebre Clavius, fu prudente. Il P. Odo van Maelcote, che recitò il Nuncius Sidereus
Collegii Romani a Roma, al Collegio Romano, alla presenza di Galileo, nel maggio del
1611, confermò tutte le scoperte di Galileo, ma lasciò in sospeso l’interpretazione dei
fatti. Le macchie sulla Luna, la diversa illuminazione di parti diverse della sua superficie provano necessariamente che la superficie lunare sia scabra? Il fatto che nella parte
oscura della Luna si osservino punti luminosi, e nella parte illuminata si osservino zone oscure, prova necessariamente che sulla Luna vi siano monti e valli? Il van Maelcote
rispondeva: forse la spiegazione di questi fatti potrebbe essere la diversa densità della
materia lunare nelle diverse parti della Luna: ego iudicium meum non interpono. Analogo
atteggiamento a proposito delle fasi di Venere: le ha osservate, ma si rifiuta di dire se
dipendano dal movimento circolare di Venere intorno al Sole o da qualche altra causa.
Un’accoglienza favorevole alle scoperte di Galileo fece invece Keplero prima nella
Dissertatio cum Nuncio Sidereo del 1610, e specialmente nella Narratio de quatuor Jovis satellitibus quando ebbe un cannocchiale fabbricato da Galileo e poté verificarne le osservazioni.
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[La controversia con i teologi]
Ma una grave minaccia veniva dai teologi. I «filosofi» aristotelici, come Francesco Sizi, per contraddire Galileo invocavano anche la Sacra Scrittura. È un modo di comportarsi che si ripete spesso nella storia: quando si è a corto di argomenti si invoca l’autorità e si fa credere che l’avversario rinneghi valori sacri. Forse furono loro a sollecitare i
teologi. Comunque la scintilla fu data da una predica del P. Niccolò Lorini, domenicano, in S. Maria Novella, il 2 novembre del 1612, che dichiarava contraria alla Scrittura
la teoria copernicana.
Ricordiamo infatti che Galileo si era trasferito a Firenze fin dal settembre 1610, ed
era stato nominato «matematico e filosofo» del Granduca di Toscana, Cosimo II. Perché Galileo chiedesse questa funzione è detto in una lettera del febbraio 1609. Era stanco di far lezione e voleva dedicarsi al suo lavoro personale: «Havendo ormai travagliato 20 anni, et i migliori della mia età, in dispensare, come si dice, a minuto, alle richieste di ogn’uno, quel poco di talento che da Dio et da le mie fatiche mi è stato conceduto
nella mia professione; mio pensiero veramente sarebbe conseguire tanto di otio e di
quiete che io potessi condurre a fine, prima che la vita, opere grandi che ho alle mani...». Non pensò allora che forse la Repubblica di Venezia avrebbe saputo difenderlo
meglio di fronte all’autorità ecclesiastica: «Dove potreste trovare, meglio che a Venezia,
la libertà e la padronanza di Voi stesso?», gli scriveva Gianfrancesco Sagredo. E Galileo
doveva far presto l’esperienza della verità di queste parole. Mentre, nel 1611, a Roma
era accolto trionfalmente, i suoi nemici lavoravano contro di lui. Ed egli ne offriva loro
il destro con la sua foga, la sua ironia pungente nelle discussioni. Anche nel 1616 di
nuovo a Roma, quando era in pericolo di esser condannato, discuteva nelle case di personaggi illustri, davanti a quindici o venti persone, e l’Ambasciatore di Toscana a Roma, Guicciardini, al quale premevano più le buone relazioni fra il Granduca e la Curia
che la teoria copernicana, si lamentava dell’imprudenza di Galileo.
Furono imprudenti anche le due lettere a Benedetto Castelli, del 1613, e alla Granduchessa Madre, Cristina di Lorena, del 1615, sebbene le affermazioni che esse contengano siano consone alla dottrina cristiana e rispondano ai criteri che S. Agostino applicava all’interpretazione della Scrittura.
Don Benedetto Castelli avea riferito a Galileo di una discussione, di «ragionamenti»
tenuti dopo un pranzo alla corte granducale di Pisa, durante i quali Cosmo Boscaglia,
professore di «filosofia» nell’ Università, aveva sostenuto che la teoria copernicana era
contraria alla Scrittura, perché nel libro di Giosuè (IX, 12-15) si dice che egli fermò il
Sole. […]
Vediamo comunque che cosa risponde Galileo. Prima di tutto bisogna distinguere
fra il testo sacro, che è sempre vero, e le interpretazioni che ne sono state date. Se si dovesse sempre interpretare letteralmente la Bibbia, si arriverebbe ad una concezione antropomorfica di Dio, poiché sarebbe necessario attribuire a Dio mani, piedi, occhi, pas-
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sioni umane come l’ira ecc. Ora nessun Padre della Chiesa ha interpretato letteralmente queste frasi che avevano solo lo scopo di adattare la verità alla «capacità di popoli
rozzi e indisciplinati». Perciò, se la Scrittura si è adattata alla comprensione di gente ignorante nel manifestare «principalissimi dogmi» come sono quelli riguardanti gli attributi di Dio, tanto più lo avrà fatto per quel che riguarda i fenomeni naturali, che per
sé non riguardano le verità di fede. […] Nella lettera a Madama Cristina, molto più
lunga, Galileo cerca inoltre di suffragare questo criterio esegetico con molti passi di S.
Agostino, presi per lo più dal De Genesi ad litteram, e aggiunge questa osservazione: la
Bibbia ci insegna le verità necessarie alla nostra salvezza, e specialmente quelle inaccessibili alla nostra ragione, non le verità scientifiche, «l’intenzione dello Spirito Santo
essere d’insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo»39. […]
[La condanna delle teorie copernicane del 1616]
Gli argomenti di Galileo sono impeccabili, anche dal punto di vista dell’ortodossia,
ma ho detto che quelle lettere, in quel momento, furono un’imprudenza, poiché un laico che dava lezioni di esegesi biblica non poteva che allarmare i teologi sospettosi di
tutto quello che poteva odorare di libero esame, nel senso proclamato dai riformatori
protestanti. E infatti, dopo aver letto la lettera di Galileo a Don Benedetto Castelli, il P.
Lorini, in forma confidenziale, il P. Caccini in forma ufficiale, fecero una denuncia al S.
Uffizio. Anche il Card. Bellarmino, la massima autorità teologica dell’epoca, fu messo
in sospetto. E il 24 febbraio del 1616 la teoria copernicana fu condannata. La tesi che «il
Sole è centro del mondo e affatto immobile di moto locale» fu dichiarata «stolta e assurda in filosofia e formalmente eretica». La tesi che la Terra non è il centro del mondo
e immobile ma si muove secundum se totam etiam motu diurno fu dichiarata stolta e assurda in filosofia e ad minus in fide erronea. Due giorni dopo, per ordine del Papa Paolo
V, il Card. Bellarmino fece chiamare Galileo, gli notificò la condanna delle due tesi e lo
avvertì (monuit) che doveva abbandonarle. Il 5 marzo la Congregazione dell’Indice
condannò il De revolutionibus orbium caelestium di Copernico, ma solo donec expurgetur.
Galileo personalmente non fu toccato anzi, contro le malelingue, ottenne una dichiarazione in questo senso del Card. Bellarmino.
Eppure, benché gli storici insistano spesso sul processo del 1633, per la sua «drammatica sequenza», è la condanna del 1616 quella che conta, come osserva giustamente
il Firpo. Da questa tutto il resto seguiva logicamente, e questa fu la gran prova di cecità
dei «qualificatori» del S. Uffizio, cecità che fa certo dispiacere ai cattolici, ma che non li
turba perché sanno che alla condanna non è affatto attribuito dalla Chiesa il carattere
di infallibilità. […]
La sentenza, riportata da Galileo in volgare e in forma anonima nella lettera alla granduchessa di Toscana Cristina di Lorena, è comunemente attribuita in latino al cardinale oratoriano e grande storico ecclesiastico CESARE BARONIO (1538-1607): «Spiritui Sancto mentem
fuisse nos docere quomodo ad coelum eatur, non quomodo coelum gradiatur» [nota di F. C.].
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[Il Dialogo dei massimi sistemi e la seconda condanna del 1633]
Nel 1623 Maffeo Barberini, un cardinale di larghe vedute che, a quanto si diceva, aveva disapprovato la condanna del 1616, fu eletto papa col nome di Urbano VIII e Galileo concepì grandi speranze per la sua libertà di scrivere quello che pensava. Si mise
quindi a scrivere quello che sarà poi il Dialogo dei massimi sistemi. Il lavoro fu però interrotto dal 1626 al 1629 e ripreso verso la fine del 1629. Nel 1630 era terminato e Galileo si recò a Roma per parlare con Urbano VIII che si mostrò disposto a permetterne la
pubblicazione purché la teoria copernicana vi fosse presentata solo come ipotesi matematica. Così concepita, l’opera avrebbe detto solo che i fenomeni celesti, che Tolomeo
spiegava coi suoi eccentrici ed epicicli, potevano essere spiegati anche con la teoria di
Copernico; quale delle due teorie fosse la vera spettava alla «filosofia» e alla Rivelazione (interpretata dal decreto del 1616) dire. […] Le cose andarono per le lunghe e l’opera uscì finalmente nel febbraio 1632. Ma cinque mesi dopo la pubblicazione del Dialogo,
il P. Riccardi, per ordine del Papa ordinò all’Inquisitore di Firenze di ritirarne tutti gli
esemplari e il 1° di ottobre Galileo ebbe l’ordine di presentarsi a Roma. Supplicò invano di esserne dispensato data la sua età (aveva quasi settant’anni) e nel gennaio del
1633 partì per Roma, dove arrivò il 13 febbraio.
Gli accusatori si appoggiavano sul famoso praeceptum del 1616, la cui autenticità è
discussa, ma, come ho detto, questo riguarda la legalità del processo; dal punto di vista
dottrinale il processo del 1633 non faceva che riprendere la condanna del 1616 e applicarla a Galileo. Il 22 giugno del 1633 Galileo dovette «abiurare, maledire e detestare» la
teoria copernicana.
Il Dialogo fu proibito, Galileo condannato alla prigione a vita e ad una penitenza, in
verità lieve in confronto alle altre due pene: la recita di sette Salmi penitenziali una volta la settimana. Nessuno poteva dubitare che egli avesse contravvenuto al decreto del
1616 —con o senza il praeceptum—; quello che è deplorevole è che si sia perseguitato un
uomo solo perché affermava una certa dottrina, anziché discutere la dottrina stessa. E,
si badi, il fatto sarebbe ugualmente deplorevole anche se la teoria di Galileo fosse stata
sbagliata. Bisogna fare questa osservazione perché tante volte si sentono condannare i
giudici di Galileo perché seguivano una dottrina superata e falsa, mentre Galileo apriva la strada ad una scienza molto più fondata. Ora il giudicare così vorrebbe dire assumere il successo come criterio di moralità. Certo i costumi del tempo possono scusare
soggettivamente i giudici ma non giustificano oggettivamente la loro condotta. Ci si
può domandare piuttosto se quei costumi fossero solo di quel tempo o siano di tutti i
tempi. Si celebrano oggi processi molto simili a quello di Galileo. Questo non giustifica
certo il processo di Galileo, ma può stupire il fatto che chi si straccia giustamente le vesti quando parla di Galileo, giustifichi processi molto simili a quello.
D’altra parte non persuadono molto neppure certe difese dei giudici che insistono
sulla mitezza con la quale si procedette contro Galileo —sempre in relazione ai costumi
del tempo. Certo Galileo non fu torturato; la condanna alla prigione perpetua fu subito
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commutata in quella di confino, prima nell’Ambasciata di Toscana, poi a Siena presso
l’arcivescovo Ascanio Piccolomini, amico di Galileo, infine nel villino stesso di Galileo
ad Arcetri, vicino a Firenze e vicino al convento dove erano monache le sue due figlie:
Livia (Suor Arcangela) e Virginia (Suor Maria Celeste).
Quest’ultima creatura, dolcissima e insieme di una eccezionale forza d’animo, fu il
sostegno morale del padre, che amava moltissimo, sebbene Galileo non avesse certo
fatto molto per meritare questo affetto.
Suor Maria Celeste morì poco dopo la condanna di Galileo, il 2 aprile del 1634, «lasciando me, scrive Galileo, in un’estrema afflizione». Ma Galileo riprese il lavoro, nonostante che nel 1638 fosse diventato cieco, e nel 1638 poté far pubblicare l’opera scientificamente più grande: i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze.
L’opera uscì a Leida in Olanda, paese protestante, apparentemente ad insaputa di Galileo.
Galileo morì l’8 gennaio del 1642.
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«Divina prius illuminante gratia»,
di Benedetto XVI, J. Ratzinger40
Quando si apre il Sidereus nuncius e si leggono le prime espressioni di Galileo, traspare subito la meraviglia dello scienziato pisano dinanzi a quanto lui stesso aveva
compiuto: «Grandi cose —egli scrive— in questo breve trattato propongo all'osservazione e alla contemplazione degli studiosi della natura. Grandi, dico, sia per l'eccellenza della materia in se stessa, sia per la novità mai udita nei secoli, sia anche per lo strumento attraverso il quale queste stesse cose si sono manifestate al nostro senso» (Galileo Galilei, Sidereus nuncius, 1610, tr. P. A. Giustini, Lateran University Press 2009, p.
89). Era l'anno 1609 quando Galileo puntò per la prima volta verso il cielo uno strumento «da me escogitato —come scriverà— illuminandomi prima la grazia divina»: il
telescopio.
Quanto si presentò al suo sguardo è facile immaginarlo; la meraviglia si trasformò in
emozione e questa in entusiasmo che gli fece scrivere: «Grande cosa è certamente aggiungere all'immensa moltitudine delle stelle fisse, che con la naturale facoltà visiva si
sono potute scorgere fino ad oggi, altre innumerevoli stelle, non mai vedute prima d'ora e che superano più di dieci volte il numero delle stelle antiche già note» (ibid.). Lo
scienziato poteva osservare con i propri occhi quanto, fino a quel momento, era solo
frutto di ipotesi controverse. Non si sbaglia chi pensa che l'animo profondamente credente di Galileo, dinanzi a quella visione, si sia aperto quasi naturalmente alla preghieDal messaggio del 26 nov. 2009 di BENEDETTO XVI in occasione del convegno nell'Anno
Internazionale dell'Astronomia per la celebrazione del quarto centenario della scoperta del
telescopio: «Dal telescopio di Galileo alla cosmologia evolutiva. Scienza, Filosofia e Teologia in dialogo», Roma, Pontificia Università Lateranense, 30 novembre-2 dicembre 2009. Nostro il titolo dalla citazione di Galileo.
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ra di lode, facendo propri i sentimenti espressi dal Salmista: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!... Quando vedo i tuoi cieli, opera
delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l'uomo perché di lui ti
ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi? Davvero... gli hai dato potere sulle opere
delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Sal. 8, 1.4-5.7).
Con questa scoperta crebbe nella cultura la consapevolezza di trovarsi di fronte a un
punto cruciale della storia dell'umanità. La scienza diventava qualcosa di diverso da
come gli antichi l'avevano sempre pensata. Aristotele aveva permesso di giungere alla
conoscenza certa dei fenomeni partendo da principi evidenti e universali; ora Galileo
mostrava concretamente come avvicinare e osservare i fenomeni stessi, per carpirne le
cause segrete. Il metodo deduttivo cedeva il passo a quello induttivo e apriva la strada
alla sperimentazione. Il concetto di scienza durato per secoli veniva ora a modificarsi,
imboccando la strada verso una moderna concezione del mondo e dell'uomo.
Galileo si era addentrato nelle vie sconosciute dell'universo; egli spalancava la porta
per osservarne gli spazi sempre più immensi. Al di là probabilmente delle sue intenzioni, la scoperta dello scienziato pisano permetteva anche di risalire indietro nel tempo, provocando domande circa l'origine stessa del cosmo e facendo emergere che anche l'universo, uscito dalle mani del Creatore, ha una sua storia; esso «geme e soffre le
doglie del parto» —per usare l'espressione dell'apostolo Paolo— nella speranza di essere liberato «dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei
figli di Dio» (Rm. 8, 21-22).
Anche oggi l'universo continua a suscitare interrogativi a cui la semplice osservazione, però, non riesce a dare una risposta soddisfacente: le sole scienze naturali e fisiche non bastano. L'analisi dei fenomeni, infatti, se rimane rinchiusa in se stessa rischia
di far apparire il cosmo come un enigma insolubile: la materia possiede un'intelligibilità in grado di parlare all'intelligenza dell'uomo e indicare una strada che va al di là del
semplice fenomeno. È la lezione di Galileo che conduce a questa considerazione. Non
era, forse, lo scienziato di Pisa a sostenere che Dio ha scritto il libro della natura nella
forma del linguaggio matematico? Eppure, la matematica è un'invenzione dello spirito
umano per comprendere il creato. Ma se la natura è realmente strutturata con un linguaggio matematico e la matematica inventata dall'uomo può giungere a comprenderlo, ciò significa che qualcosa di straordinario si è verificato: la struttura oggettiva dell'universo e la struttura intellettuale del soggetto umano coincidono, la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Alla fine, è «una» ragione che
le collega entrambe e che invita a guardare ad un'unica Intelligenza creatrice (cfr. Benedetto XVI, Discorso ai giovani della Diocesi di Roma, in: Insegnamenti 2 [2006], 421-422).
Le domande sull'immensità dell'universo, sulla sua origine e sulla sua fine, come
pure sulla sua comprensione, non ammettono una sola risposta di carattere scientifico.
Chi guarda al cosmo, seguendo la lezione di Galileo, non potrà fermarsi solo a ciò che
osserva con il telescopio, dovrà procedere oltre per interrogarsi circa il senso e il fine a
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cui tutto il creato orienta. La filosofia e la teologia, in questa fase, rivestono un ruolo
importante, per spianare il cammino verso ulteriori conoscenze. La filosofia davanti ai
fenomeni e alla bellezza del creato cerca, con il suo ragionamento, di capire la natura e
la finalità ultima del cosmo. La teologia, fondata sulla Parola rivelata, scruta la bellezza
e la saggezza dell'amore di Dio, il quale ha lasciato le Sue tracce nella natura creata
(cfr. San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, Ia q. 45, a. 6).
In questo movimento gnoseologico sono coinvolte sia la ragione che la fede; entrambe offrono la loro luce. Più la conoscenza della complessità del cosmo aumenta, maggiormente richiede una pluralità di strumenti in grado di poterla soddisfare; nessun
conflitto all'orizzonte tra le varie conoscenze scientifiche e quelle filosofiche e teologiche; al contrario, solo nella misura in cui esse riusciranno ad entrare in dialogo e a
scambiarsi le rispettive competenze saranno in grado di presentare agli uomini di oggi
risultati veramente efficaci.
La scoperta di Galileo è stata una tappa decisiva per la storia dell'umanità. Da essa,
hanno preso avvio altre grandi conquiste, con l'invenzione di strumenti che rendono
prezioso il progresso tecnologico a cui si è giunti. Dai satelliti che osservano le varie fasi dell'universo, diventato paradossalmente sempre più piccolo, alle macchine più sofisticate utilizzate dall'ingegneria biomedica, tutto mostra la grandezza dell'intelletto umano, che, secondo il comando biblico, è chiamato a «dominare» l'intero creato (cfr.
Gen. 1, 28), a «coltivarlo» e a «custodirlo» (cfr. Gen. 2, 15).
Vi è sempre un sottile rischio, però, sotteso a tante conquiste: che l'uomo confidi solo
nella scienza e dimentichi di innalzare lo sguardo oltre se stesso verso quell'Essere trascendente, Creatore di tutto, che in Gesù Cristo ha rivelato il suo volto di Amore. Sono
certo che l'interdisciplinarità con cui si svolge questo Congresso permetterà di cogliere
l'importanza di una visione unitaria, frutto di un lavoro comune per il vero progresso
della scienza nella contemplazione del cosmo.
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Dal telescopio di Galileo al satellite europeo Planck,
di M. Bersanelli41
Fin dall'antichità l'osservazione del cielo ha segnato profondamente la coscienza umana, suscitando domande sulla natura degli astri ed evocando al tempo stesso il senso religioso dell'uomo secondo la sensibilità delle diverse culture. L'impressione profonda che l'uomo da sempre percepisce alla vista del firmamento ha inciso profondamente sull'immaginazione dei popoli di ogni epoca e di ogni parte del mondo, ed ha
ispirato rappresentazioni artistiche e mitologiche di grande intensità e bellezza. L'osservazione sistematica degli astri e del loro movimento precede di gran lunga la nascita della scienza moderna. Un tratto comune alle civiltà antiche è che, nella grande varietà espressiva, esse hanno immancabilmente percepito il cielo come segno privilegiato del divino. Quali sono dunque le caratteristiche della volta celeste che la rendono in
modo così naturale e quasi inevitabile un'immagine privilegiata del Mistero?
1. Sotto lo stesso cielo
Anzitutto il cielo è unico. Popolazioni diverse si sono adattate ad ambienti terrestri
assai differenti, ma sempre sotto lo stesso cielo. I tratti del territorio, dalle pianure alle
coste del mare, dalle foreste al percorso dei fiumi, si presentano in modo vario a seconDa M. BERSANELLI, «Astronomia, scienza e fede», in C. GIULIODORI – R. SANI, Scienza Ragione
Fede. Il genio di Padre Matteo Ricci, Edizioni Università di Macerata, Macerata 2012, pp. 3546. Si omettono le note al testo, con i rimandi bibliografici. Nostro il titolo.
41
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da del luogo. Il cielo invece è lo stesso per tutti, sicuro punto comune tra popoli diversi. […]
La volta celeste, poi, dimostra di essere enormemente vasta. Anzi, la sua immensità
è qualitativamente diversa da quella di qualunque altra realtà: il cielo non è solo «grande», è intrinsecamente irraggiungibile. Anche le montagne più alte, i deserti o la distesa del mare possono forse essere alla portata dell'uomo, almeno ci si più avventurare
in essi e forse un giorno li si potrà attraversare. Il cielo invece è di un altro ordine, radicalmente inaccessibile.
Ciò ha stabilito nell'animo di migliaia di generazioni quel senso di sproporzione e di
contingenza della natura umana che ancora oggi ci invade quando abbiamo l'opportunità (in verità, sempre più rara...) di osservare la volta stellata in una notte buia e limpida.
La vastità del cielo è accompagnata poi dalla sua immutabilità nel tempo: le stelle e
le costellazioni restano identiche a se stesse per migliaia di generazioni. La regolarità
dei moti siderali contrasta palesemente con lo stile provvisorio e imprevedibile dei movimenti tipici dell'esperienza umana. I greci per primi svilupparono una descrizione
geometrica dei moti celesti e furono in grado di prevedere con sorprendente accuratezza la posizione delle stelle e dei pianeti. Il loro modello più completo, quello aristotelico-tolemaico, era fondato sul moto circolare uniforme, riprodotto in una serie di sfere
rotanti intorno alla Terra.
Ma non è tutto. La regolarità e l'immensità del cielo, la sublime e misteriosa lucentezza dei corpi celesti, da sempre hanno una forte presa estetica sullo spirito umano. Le
diverse culture antiche hanno saputo esprimere la meraviglia, la vertigine, il fascino
profondo per l'universo. Un fascino misto al timore, all'angoscia, alla speranza per il
futuro, alla trepidazione per la vita. […]
Il periodo storico decisivo per l'incubazione della razionalità scientifica nell'Europa
Occidentale fu senza dubbio quello medievale, secondo quanto un crescente numero di
studiosi riconosce e sostiene. In quella cultura il cosmo era percepito come la creazione
di un Dio razionale, che liberamente crea l'universo e lo ordina verso uno scopo che
coinvolge l'essere umano come protagonista della storia. Il mondo fisico non è autosufficiente e non può essere conosciuto se non osservando i fenomeni che in esso accadono. Ogni particolare aspetto della natura porta in sé, in modo più o meno decisivo, il
segno del suo Creatore. L'ordine cosmico è accessibile alla conoscenza umana ed è traccia della paternità di Dio sul creato. Per dirla con Dante42:
...Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l'universo a Dio fa simigliante.
42
Commedia. Paradiso 1, 103-114.
37
Qui veggion l'alte creature l'orma
de l'etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne l'ordine ch'io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l'essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti. […]
Un passo decisivo dal punto di vista metodologico fu introdotto all'inizio del XVII
secolo, quando Galileo Galilei si rese conto che l'ordine della natura ha una forma ben
precisa: «Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico». Egli inoltre perfezionò il cannocchiale, appena inventato in Olanda da Hans Lippershey,
e lo utilizzò per osservare il cielo. Per la prima volta nella storia dell'umanità la luce
degli astri era raccolta da un mezzo più potente dell'occhio umano. La messe di nuove
scoperte fu immediata e rivoluzionaria: i dettagli della superficie lunare indicavano
che la natura fisica dei corpi celesti è analoga a quella terrestre; la scoperta dei satelliti
di Giove e delle fasi di Venere davano forti indizi a favore del sistema eliocentrico proposto da Copernico; l'evidenza che la luce diffusa della Via Lattea è prodotta da una
moltitudine di stelle non risolte indicava che l'universo è più vasto di quello che si pensava.
Galileo pubblicò le sue scoperte nel Sidereus Nuncius nel 1610, proprio l'anno della
morte di P. Matteo Ricci. I due non si conobbero, ma i loro percorsi si sfiorarono. Ricci
fu introdotto all'astronomia e alla matematica da Cristoforo Clavio, gesuita del Collegio Romano autore dei Commentarii agli Elementi di Euclide, al quale nel 1611 Galileo avrebbe fatto visita per una discussione decisiva sulle sue osservazioni con il telescopio.
Secondo Clavio, che apprezzò e sostenne le scoperte di Galileo, «le discipline matematiche elevano l'animo e aguzzano la mente alla contemplazione delle cose divine».
Ricci e i suoi Gesuiti ebbero un contatto assai diretto con la nascente nuova scienza.
Mossi da uno straordinario ardore missionario, Ricci e i suoi compagni percepirono la
ricchezza e la potenzialità dell'astronomia e delle scienze in vista dell'incontro con i popoli d'oriente e, sorprendentemente, in pochi anni, le scoperte di Galileo raggiunsero la
lontanissima Cina.
Nel 1618 due gesuiti (uno dei quali, padre Schreck, era stato allievo di Galileo) partirono da Lisbona e nel 1623 arrivarono a Pechino portandovi il primo cannocchiale. Nel
suo trattato Yuánjing Shūo,scritto nel 1626, il gesuita Johann Adam Schall von Bell diede una descrizione accurata di tutte le principali osservazioni astronomiche galileiane
ripetute con successo nel nuovo Osservatorio di Pechino.
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2. Vastità del mondo
Dai tempi Galileo Galilei e Matteo Ricci ai nostri giorni, il progresso dell'astronomia
ha permesso di indagare l'universo con crescente profondità, dalla scala stellare a quella extragalattica. Qual è dunque l'immagine di universo che la cosmologia contemporanea ci rivela? Oggi sappiamo che le innumerevoli stelle che Galileo aveva scoperto essere la fonte luminosa della Via Lattea si dispongono in una struttura ben precisa, un
disco appiattito a forma di spirale, che contiene circa 200 miliardi di stelle: la nostra
Galassia.
Il sole è una stella di questa enorme famiglia, posta in una zona periferica, né troppo
vicina né troppo lontana dal centro. La scia luminosa della Via Lattea che vediamo in
cielo è un tratto di un braccio della grande spirale. Le dimensioni della nostra galassia
sono enormi: circa 100 mila anni luce. Significa che un raggio di luce, che ogni secondo
percorre 300 mila chilometri (circa la distanza tra la Luna e la Terra) impiegherebbe
mille secoli ad attraversare la gigantesca girandola. Ma non è tutto: la nostra galassia
non è sola nell'universo.
Nel 1922 Edwin Hubble con il telescopio di Monte Wilson di 100 pollici (il più potente allora disponibile) riuscì a misurare la distanza di una particolare nebulosa nella
costellazione di Andromeda in circa 2 milioni e mezzo di anni luce: fu chiaro che si
trattava di un'altra galassia, del tutto simile alla nostra. La luce che oggi riceviamo da
quella galassia ha viaggiato per 2,5 milioni di anni prima di arrivare a noi, e quindi ci
porta un’immagine di come la galassia di Andromeda era 2 milioni e mezzo di anni fa.
Più guardiamo lontano nello spazio cosmico, più vediamo le cose come erano indietro nel tempo. Questo fatto ha conseguenze profonde sulla nostra possibilità di conoscere l'universo. Per i cosmologi è una grande fortuna: non solo possiamo osservare il
cosmo a grandi distanze, ma possiamo ricevere informazioni su come le cose stavano
nel lontano passato. Lo spazio, il tempo e la velocità della luce sono intimamente intrecciati insieme quando discutiamo di fenomeni su dimensioni cosmiche: spazio, tempo e velocità della luce sono proprio gli ingredienti alla base della teoria generale della
relatività di Einstein che costituisce l'ambito fisico-geometrico, di una eleganza straordinaria, nel quale possiamo descrivere in termini rigorosi l'universo fisico.
Ma quante sono le galassie nell'universo? Alcune recenti survey hanno misurato diverse centinaia di migliaia di galassie, scandagliando regioni relativamente ristrette del
cielo. Ognuna di esse contiene in media un centinaio di miliardi di stelle. Per ciascuna
galassia è stata misurata la posizione angolare e la sua distanza, il che ci permette di
costruire mappe tridimensionali della distribuzione della materia nell'universo.
Questo è di grande interesse perché consente di verificare le nostre idee fisiche sulla
formazione delle strutture su larga scala. Future missioni spaziali, oggi in fase di studio, si prefiggono lo scopo di aumentare la statistica e di mappare oltre 500 milioni di
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galassie. Si calcola che nell'universo osservabile il numero totale di galassie sia dell'ordine di cento miliardi. […]
3. Verso l'alba del tempo
Recentemente il telescopio spaziale Hubble ha prodotto un'immagine di una piccola
regione di cielo (pari a circa l'1,5% del disco lunare), la quale contiene migliaia di galassie tra le quali alcune delle galassie più distanti mai osservate. In quella immagine vediamo un campione significativo di galassie a distanza di oltre 10 miliardi di anni luce.
Come abbiamo visto, più le galassie che osserviamo sono distanti, più ci parlano di un
universo remoto nel passato.
Sorge naturale la domanda: l'universo di 10 miliardi fa, era uguale a quello attuale
oppure era diverso? L'oceano cosmico delle galassie è una realtà statica oppure muta
nel tempo? Oggi abbiamo una risposta chiara a questa domanda: l'universo muta nel
tempo. Il cosmo è protagonista di una storia. Non assomiglia a un cristallo, bello ma
sempre uguale a se stesso; assomiglia piuttosto a un fiore che nasce, sboccia e si apre.
La prima evidenza fondamentale in questa direzione fu la scoperta, emersa da vari
astronomi negli anni 1920, che le galassie si allontanano sistematicamente le une dalle
altre. Nel 1929 fu ancora Hubble ad accorgersi che la velocità di allontanamento delle
galassie è proporzionale alla distanza reciproca. Questo significa che l'universo si dilata in una espansione regolare e isotropa, proprio come la superficie di una sfera che si
gonfia, o come un piano elastico che si stira in modo uniforme.
Da allora, osservazioni sempre più precise e profonde hanno confermato il carattere
cosmico dell'espansione, fino a scale migliaia di volte più grandi. Lo spazio, dilatandosi, diviene sempre più rarefatto, perché l'energia e la materia (la materia è una forma di
energia, secondo la celebre equazione di Einstein, E = mc2) sono sempre più diluite in
un volume che diviene sempre più grande.
Ciò significa che l'universo nel passato doveva essere più denso e perciò, come la fisica ci insegna, più caldo di oggi. Misurando il ritmo dell'espansione e la densità delle
varie forme di energia nell'universo, possiamo risalire a un tempo remoto nel quale
tutti i punti dell'universo dovevano trovarsi molto vicini tra loro, a una distanza che
tende a zero: questo avveniva circa 14 miliardi di anni fa. Per la precisione, le stime più
recenti danno 13, 72 ±0,12 miliardi di anni: è questa l'età dell'universo.
Oltre all'evidenza della recessione delle galassie abbiamo oggi una seconda, straordinaria traccia osservativa che guida la nostra ricostruzione della storia cosmica. Nel
1965 Arno Penzias e Robert Wilson, del Bell Telephone Laboratory, si accorsero in modo fortuito (come talvolta avviene per le grandi scoperte scientifiche) che il loro radiotelescopio registrava un debole ma persistente residuo di energia luminosa proveniente in modo uniforme da ogni parte del cielo.
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Oggi sappiamo che si tratta di luce che ci raggiunge dalle regioni più remote dell'universo osservabile e ci porta un'immagine del cosmo appena nato, quando la sua temperatura era di migliaia di gradi e la sua età appena lo 0,003% di quella attuale. È letteralmente della prima luce dell'universo: dopo un viaggio di 14 miliardi di anni ci mostra un'immagine di com'era l'universo prima della formazione delle galassie, delle
stelle e di qualunque altra cosa.
Oggi possiamo osservare con estrema precisione le proprietà di questa luce primordiale, detta «fondo cosmico di microonde», grazie a osservazioni quali quelle ottenute
dai satelliti COBE e WMAP, lanciati della NASA rispettivamente nel 1989 e nel 2000. Il
14 maggio 2009 è stato lanciato il satellite Planck dell'Agenzia Spaziale Europea in
un'orbita a 1,5 milioni di km dalla Terra con lo scopo di realizzare una mappa dell'universo primordiale con una precisione senza precedenti. Gli strumenti di Planck stanno
attualmente raccogliendo la «luce fossile» con estrema accuratezza. L'analisi di questi
dati promette di gettare nuova luce sulla struttura, la composizione, la geometria e l'evoluzione dell'universo, e di verificare le condizioni fisiche fino alle primissime frazioni di secondo dopo il big bang.
L'universo primordiale, come ci appare «in diretta» grazie a queste osservazioni, si
presenta come un mare incandescente di luce e materia distribuite in modo estremamente uniforme. L'uniformità però non è assoluta: vi sono regioni in cui la densità si
discosta dal valore medio di circa una parte su 100 mila. Queste zone di sovradensità
sono nientemeno che i «semi» delle galassie, che si formeranno sotto l'azione della gravità nei miliardi di anni a venire. È notevole constatare che l'intera storia dell'universo,
compresa la sua capacità di accogliere la vita, è delicatamente legata alla natura di questi «semi» primordiali.
Se le sovra-densità fossero state un poco più deboli, l'universo avrebbe continuato la
sua espansione senza che la gravità potesse agire per formare galassie, stelle, pianeti e
strutture complesse come quelle che osserviamo nel presente. Se invece i semi fossero
stati troppo marcati, la gravità avrebbe sì formato strutture, ma soltanto sotto forma di
materia degenere, come stelle di neutroni o buchi neri: oggetti molto interessanti ma
incompatibili con la complessità e la vita.
4. L'universo e noi
Possiamo quindi tracciare per sommi capi la storia cosmica. L'espansione dell'universo prende il via da uno stato ad altissima densità e temperatura, e anche di estrema
semplicità, circa 13,7 miliardi di anni fa. Lo spazio si dilata e si raffredda. Dopo una
manciata di secondi, a temperature di circa un miliardo di gradi, inizia il processo di
formazione di nuclei di elio (e tracce di altri elementi leggeri) dai protoni presenti nel
plasma primordiale.
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Il processo termina quando, dopo circa 3 minuti, la temperatura è scesa troppo per
mantenere le reazioni termonucleari. Quando la temperatura scende sotto i 3000 gradi,
gli elettroni liberi possono legarsi ai nuclei di idrogeno e di elio, e formare per la prima
volta gli atomi. In quel momento, quasi d'improvviso, l'universo diventa trasparente.
La nebbia cosmica si dirada e la luce, fino a quel momento intrappolata nella materia,
può finalmente attraversare liberamente lo spazio: è la prima luce, che noi oggi osserviamo come fondo cosmico di microonde.
Grazie ai «semi» dati dalle sovradensità iniziali inizia la formazione delle galassie.
All'interno delle galassie, le stelle attraversano il loro ciclo vitale bruciando nei loro nuclei l'idrogeno e l'elio primordiali in elementi più pesanti: è qui che si formano il carbonio, l'azoto, l'ossigeno, e via via tutti gli elementi pesanti necessari per la complessità e
la vita. Le stelle più massicce esplodono come supernovae, e rilasciano nello spazio interstellare gli elementi sintetizzati nei loro nuclei, dai quali nasceranno nuove stelle.
Era necessario che accadessero tutte queste cose perché cinque miliardi di anni fa,
alla periferia di una bella galassia a spirale, da una nube ricca di gas e polvere interstellare potesse prendere forma, insieme alla stella centrale e a una manciata di altri pianeti, un piccolo pianeta roccioso come il nostro. Un pianeta capace di ospitare la vita, e di
accompagnarne l'evoluzione per oltre 3 miliardi e mezzo di anni. Per poi giungere, con
una discontinuità misteriosa, alla comparsa di quella creatura nella quale il cosmo intero prende coscienza di sé. […]
42
L’ipotesi eliocentrica di Aristarco di Samo,
da L’arenario di Archimede.43
Tu sai che dal più gran numero di astrologi vien chiamata cosmo la sfera il cui centro è il centro della Terra e il [cui] raggio è uguale alla retta compresa tra il centro del
Sole e il centro della Terra: questo l'hai appreso dalle dimostrazioni scritte dagli astrologi. Aristarco di Samo, poi, espose per iscritto alcune ipotesi, secondo le quali si ricava
che il cosmo è più volte maggiore di quello suddetto. Suppone infatti che le stelle fisse
e il Sole rimangano immobili, e che la Terra giri, seguendo la circonferenza di un cerchio, attorno al Sole, che sta nel mezzo dell'orbita; e che la sfera delle stelle fisse, intorno allo stesso centro del Sole, abbia tale grandezza che il cerchio, lungo il quale suppone che giri la Terra, abbia rispetto alla distanza delle [stelle] fisse la stessa proporzione
(ἀναλογία) che il centro della sfera ha rispetto alla superficie. È ben chiaro che questo
è impossibile: infatti, poiché il centro della sfera non ha alcuna grandezza, non si può
pensare che abbia alcun rapporto rispetto alla superficie della sfera. Ma si può ritenere
che Aristarco intendesse questo: poiché supponiamo che la Terra sia come il centro del
cosmo, lo stesso rapporto che la Terra ha rispetto a quel che chiamiamo cosmo, lo abbia
la sfera sulla quale è il cerchio secondo il quale suppone che la Terra ruoti, rispetto alla
sfera delle stelle fisse: infatti egli adatta le dimostrazioni dei fenomeni ad una supposizione di tal genere, e soprattutto sembra che egli supponga la grandezza della sfera,
[sopra la superficie della] quale si fa rotare la Terra, uguale a quello che noi chiamiamo
cosmo.
Questo brano ha massima importanza per la storia dell'astronomia. Come scrive il Dijksterhuis: «questa è la più antica, ed al tempo stesso la più autorevole, testimonianza dell'esistenza
di un sistema eliocentrico nell’antichità». Il grande astronomo Aristarco di Samo visse in un
periodo di tempo che si può dire compreso tra Euclide e Archimede, cioè nella prima metà del III
Cf. ARCHIMEDE, Opere, cur. A. FRAJESE, UTET, Torino 1974, p. 447 s., con commento in
calce da nota di Frajese.
43
43
secolo a. C. L'unica sua opera che ci è giunta è quella Sulle grandezze e la distanze del Sole e
della Luna […]. Circa la proporzione che Aristarco avrebbe stabilito: orbita della Terra : distanza stelle fisse = centro : superficie sfera, evidentemente ad essa, presa in senso letterale,
si ribella il senso matematico di Archimede: un punto non ha rapporto con una superficie. […]
Secondo il Dijksturhuis Aristarco avrebbe inteso dire che l'orbita della Terra sta alla distanza
delle stelle fisse like a point: quasi come se fosse un punto rispetto alla superficie di una sfera.
Con ciò Aristarco avrebbe voluto, con una esagerazione evidente, indicare che la distanza delle
stelle fisse è immensamente grande rispetto alle dimensioni dell'orbita terrestre. Del resto lo
stesso Archimede cerca di rimettere le cose a posto dal punto di vista matematico interpretando, in
analogo ordine di idee, il pensiero di Aristarco.
______________________
Per il testo latino e la trad. italiana, cf. l’ed. originale veneziana del 1610, riprodotta in
http://lhldigital.lindahall.org/cdm/ref/collection/astroearly/id/68 (Linda Hall Library, Kansas City, Missouri); e in https://archive.org/details/Sidereusnuncius00Gali (Internet Archive, San Francisco, California), della quale qui si sono mantenute la grafia e la punteggiatura originarie; e l’ed. con traduzione e commento di P. A. Giustini (già Goliardica Editrice,
Roma 1978) in GALILEO GALILEI, Sidereus nuncius, cur. F. Marcacci, Lateran University
Press, Città del Vaticano 2009.
Cf. anche GALILEO GALILEI, Opere, cur. F. Flora, MilanoNapoli, Ricciardi, 1953, con trad. di L. Lanzillotta, riprodotta anche in www.liberliber.it.);
GALILEO GALILEI, Sidereus nuncius, cur. A. Battistini, Marsilio, Venezia 1993, con trad. rivista di M. Timpanaro Cardini (già Sansoni, Firenze 1948), riprodotta anche in Storia d’Italia
Einaudi in www.dis.uniroma1.it/sites/default/files/allegatinotizie/Testo2GalileiSidereusNu
ncius1610.pdf.; GALILEO GALILEI, Opere, cur. F. Brunetti, Mondadori Editore, Milano 2008
(1a ed. UTET, Torino 1964). Un’altra trascrizione elettronica è in The classic pages www.the
latinlibrary.com/classics.html.
Per le letture da S. Vanni Rovighi, J. Ratzinger, M. Bersanelli, Archimede, v. rimandi bibliografici ad locum.
Immagini: (fronte) la faccia della luna visibile dalla terra, dicembre 2010 (archivio Nasa); (retro) Giove con la Grande Macchia
Rossa e i satelliti, dall’alto Io Europa Ganimede Callisto (composizione fotografica archivio
Nasa); all’interno riproduzione del frontespizio e di disegni dell’ed. originale (h. 23 cm).
A cura di Felice Cesana. Pro manuscripto © Fondazione Sacro Cuore per l’educazione e l’istruzione dei giovani.
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