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LA SERA FIESOLANA

LA SERA FIESOLANA Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscìo che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo ove il nostro sogno si giace e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla. Laudata sii pel tuo viso di perla. o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace l’acqua del cielo! Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva tepida e fuggitiva, commiato lacrimoso de la primavera, su i gelsi e su gli olmi e su le viti e su i pini dai novelli rosei diti che giocano con l’aura che si perde, e su ‘l grano che non è biondo ancora e non è verde, e su ‘l fieno che già patì la falce e trascolora, e su gli olivi, su i fratelli olivi che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti. 5 10 15 20 25 30 Laudata sii per le tue vesti aulenti, o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce il fien che odora! Io ti dirò verso quali reami d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne a l’ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti; e ti dirò per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti s’incurvìno come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l’anima le possa amare d’amor più forte. 1 35 40 45 Laudata sii per la tua pura morte, o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare le prime stelle! 50 La lirica è composta il 17 giugno 1899; una settimana prima d’Annunzio scrive il primo testo assoluto delle Laudi, poi posto in apertura del ciclo, L’Annunzio (11 giugno). I due testi segnano un ritorno alla produzione lirica dopo un silenzio triennale: 1 terminata la stagione teatrale, in via di conclusione la stesura del Fuoco, premono sull’autore gli spunti raccolti nella crociera in Grecia (1895), le riflessioni teoriche sul valore della poesia (maturate nel contatto stretto con Angelo Conti, in fase di elaborazione avanzata del trattato La Beata riva), 2 l’atmosfera infine che si respira nella nuova residenza dannunziana.3 Siamo alle soglie della grande stagione lirica dannunziana, quella che porterà, nel 1904, all’uscita dei primi tre libri delle Laudi. Comincio dalla forma impiegata. La Sera si compone alternando due tempi, uno lungo (tre stanze di quattordici versi), ed uno breve (il refrain ternario). I refrain sono isometrici, composti in ordine da un endecasillabo, un verso di quattordici sillabe ed un quinario.4 1 L’ultima prova lirica dannunziana precedente i primi esemplari delle Laudi è la risistemazione del Canto Novo, 1896. Nel triennio che porta alle soglie del nuovo secolo l’autore si occupa prevalentemente di teatro (scrive e porta in scena i drammi La città morta, 1896, il Sogno d’un mattino di primavera, 1897, La Gioconda, il Sogno d’un tramonto d’autunno e Il Sogno d’un meriggio d’estate, tutti e tre nel 1898), iniziando anche il lungo e complesso iter compositivo del Fuoco (la prima cartella risale al 14 luglio 1896). Sul versante lirico vanno segnalate solamente la composizione dell’ode Le montagne (1896, poi inserita in Elettra) e i Sonnets cisalpins (fine 1896). 2 La Beata riva svolge un ragionamento sulle questioni estetiche sulla base di un impianto che poggia sulle teorie di Platone, Kant e Schopenhauer. L’arte, per Conti, risulta medium privilegiato ed unico per portare ad emersione il senso più vero dell’esistenza, celato sotto il velo dell’apparenza; questo può essere squarciato solo dal punteruolo dello stile, strumento che l’artista di genio impiega per risalire dall’illuminazione intuitiva alla creazione di un oggetto estetico che sia portatore di senso originario e profondo. Del testo abbiamo l’edizione curata e commentata da Gibellini (A. CONTI, La beata riva, ed. a cura di P. GIBELLINI, Venezia, Marsilio, 2000). 3 Nel 1899 l’autore risiede ormai da un anno a Settignano, in Toscana (nella villa dei Capponi; è con lui, ma nella villetta attigua, da lui rinominata la Porziuncola, la Duse), miscelando sfarzi e arredi da principe rinascimentale a posture, saio e digiuni di ispirazione francescana. Ricordo che il 6 ottobre 1899, ad Assisi, d’Annunzio viene investito del Terzo Ordine (oggi Ordine Francescano Secolare). 4 Sulla configurazione prosodica dei tre versi ipermetri: il terzo, il v. 50, è riconducibile senza problemi ad un doppio settenario: o Sera, e per l’attesa | che in te fa palpitare; anche il primo, v. 16, batte in 6a, ma complica la cesura in ribattimento d’accenti in sinalefe: o Sera, e pe’ tuoi gràndi_ùmidi occhi ove si tace; il v. 33, invece, si presenta diverso, avendo l’ictus portante del primo emistichio in quinta sede: o Sera, e pel cìnto che ti cinge come il salce). Torneremo più avanti sulle questioni relative alla prosodia. 2 Le strofi di testa, invece, sono costruite secondo un isostrofismo debole, dunque rispettando l’identità del numero complessivo dei versi (come detto, 14), ma variandone tanto l’estensione quanto (ne è una diretta conseguenza) la posizione. Queste, nel dettaglio, le misure impiegate: STROFE I MISURE VERSALI STROFE II STROFE III 11 11 11 12 9 9 7 11 13 9 11 11 11 5 11 11 7 13 11 13 11 11 5 11 5 11 11 5 11 11 11 12 9 11 12 11 5 7 11 9 13 5 Come possiamo osservare, c’è identità mensurale interstrofica solo per quanto riguarda il distico d’apertura (in tutti i casi composto da due endecasillabi) e di chiusura (quinario). All’interno, una libera mescolanza di metri che vanno dal tredecasillabo al quinario, con una preferenza accordata al passo endecasillabico. La forma scelta dall’autore presenta caratteristiche per certi versi tipiche di molti testi contenuti nelle Laudi, e segnatamente in Alcyone: un richiamo marcato ed esibito ai precedenti della tradizione poetica nazionale, realizzato però forzando gli istituti formali della tradizione stessa. Le strofi di quattordici versi hanno infatti l’estensione aurea della lirica italiana (i 14 versi del sonetto, ma anche di diverse stanze di canzone e di numerose ballate),5 colta nel suo momento “prerafaellita” (è nota la predilezione dannunziana per i secoli pari, Duecento e Quattrocento su tutti, come fonti di risorse formali e tematiche risultanti più fresche rispetto ai canonici, e canonizzati, Trecento e Cinquecento).6 5 Numerosi gli esempi forniti da Gavazzeni (F. GAVAZZENI, Le sinopie di «Alcyone», MilanoNapoli, Ricciardi, 1980, p. 31). L’autore segnala i precedenti danteschi, per quanto riguarda le canzoni, e rimanda a Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Cino da Pistoia, Dante e Petrarca per i casi di ballate costruite su quattordici versi. 6 Il Quattrocento fiorentino è la base dell’elaborazione formale già dell’Isotteo (1886), con Lorenzo come fonte privilegiata (si vedano almeno la Cantata di Calen d’Aprile e Il Trionfo d’Isaotta, e la chiosa dell’autore). L’atteggiamento dannunziano nei confronti delle fonti è descritto chiaramente dall’autore stesso nell’autocommento ad Undulna: «nella ode e lode a sé medesima Undulna s’elegge un numero noto, la stanza di quattro versi, la quartina alterna del 3 La formulazione del refrain sviluppa invece il modello originario, e ben noto, della lauda francescana. Lo fa scopertamente nel sintagma d’apertura, «Laudata sii», modellato sulle sequenze del Canticum di Francesco; lo fa formalmente, componendo il terzetto in anisosillabismo netto. E proprio questa mimesi del ritmo diseguale della sequenza francescana fa scattare la prima deformazione della norma tradizionale, risalendo dal refrain alla strofe maggiore: come abbiamo visto, la struttura strofica non garantisce, nella sola identità d’estensione a cornice, l’uniformità del dettato, componendosi all’interno di libere combinazioni mensurali. Secondo aspetto di destrutturazione: l’assenza di un riconoscibile schema rimico che abbia valore strutturante. Questa l’organizzazione delle terminazioni nelle tre strofi (segnalo solo la distinzione, indicata con le maiuscole e le minuscole, tra misure endecasillabiche ed ipermetre da un lato, inferiori all’endecasillabo dall’altro; si intende che le terminazioni varino di strofe in strofe): I ABBCacbBDeCDEf Fed; II: ABbACCDEdFeGGh HFe; III: ABABcBCDedEfFg GFe. Nella resa degli schemi ho tenuto conto delle sole rime, ma va segnalato che alcune uscite si pongono in rapporto di assonanza. Si tratta delle serie A, C e F in I (rispettivamente ai vv. 1, 5 sera : annera; vv. 4, 6, 11 lenta : inargenta : senta; vv. 1415, vederla : perla); e delle uscite C e G in II, entrambe a contatto (vv. 22, 23 viti : diti e vv. 29, 30 olivi : clivi). Ora, si sa come l’assonanza sia stata assunta, proprio all’altezza di Alcyone, quale stilema alternativo alla rima in funzione strutturante. L’Annunzio, per citare l’esempio più prossimo, trova unità eufonica alternando rispondenze rimate ad altre assonanti, (su questo F. GAVAZZENI, Le sinopie di Alcyone, cit., pp. 13-19; più avanti, pp. 20-21 l’autore descrive un analogo impiego dell’assonanza nei coevi Silenzi di Pisa e Ravenna), e quest’alternanza contraddistinguerà un numero significativo di liriche alcionie. Ma non la Sera: anche volendo segnalare le corrispondenze garantite dall’assonanza, rimaniamo di fronte ad una struttura che non si sviluppa serialmente di strofe in strofe, replicando cioè una medesima struttura sottostante, come appare evidente negli schemi che seguono (sottolineati le serie che cambiano di sigla in virtù della parificazione assonanza-rima): I: ABBAaabBDeADEa AEd; II: ABBACCDEdFeCCh HFe; III: ABABcBCDedEfFg GFe. Come possiamo osservare, poco cambia: si regolarizza solamente la testa strofica, organizzata in quartine in tutte e tre (ma con variazione nell’ultimo dalle incrociate alle alternate); e quello che si guadagna in testa, lo si perde in coda (in I abbiamo una discesa dell’uscita A nel refrain, cosa che non succede in II e III). Dunque non c’è ritorno seriale dello schema. 7 L’elemento ritmico, periodico, è dato dalla presenza delle sequentiae, queste sì organizzate in un sistema di rispondenze Chiabrera […] Per fare della vetustà nota una modernità ignota, una invenzione novissima». La citazione è tratta dal Libro Segreto, in G. D’ANNUNZIO, Prose di ricerca, II, Milano, Mondadori, 19684, p. 716. 7 A questo proposito ricordo la proposta di Gavazzeni (Le sinopie di Alcyone, cit., pp. 25-30), che suggerisce una sottostante, celata e variata struttura quadripartita nelle strofi della Sera, a suo parere organizzata in due quartine + due terzine (secondo assonanza, riporto solo le strofi lunghe I: ABBA aabB DeA DEa; II ABBA CCD EdFe CCh; III: ABAB cBC Ded EfFg). La 4 rimiche che le legano alla stanza che le precede: in tutte e tre il verso d’attacco si lega in concatenatio interstrofica al verso conclusivo della strofe appena conclusa (sempre con movimento breve-lungo, passaggio quinario/endecasillabo l’opposto di quello suggerito dalla composizione strofica), risalendo poi, a ritroso, per recuperare le ulteriori due uscite (in I specularità perfetta gelo, pace, vederla : perla : tace : cielo; in III con raddoppiamento della serie mediana nella strofe lunga novelle, pare e amare, forte : morte, palpitare, stelle; in II si risale fino al decimo verso di strofa, e si esclude il distico baciato che occupa i vv. 29-30 falce, trascolora [olivi : clivi], sorridenti : aulenti, salce, odora). A ritmare la costruzione della Sera è, insomma, non tanto un astratto schema sottostante le singole strofi, ma piuttosto il ritorno periodico di elementi nella loro evidente identità: in questo senso interpreto i refrain e il rientro rimico che avviene tra i refrain stessi e le rispettive “teste” strofiche. Il che porta verso i ragionamenti svolti da Capovilla attorno alla ballata, confrontata con forme quali il sonetto e la canzone:8 La ballata può essere considerata, nella tradizione metrica italiana, come l’unica forma chiusa a progressione ciclica, caratterizzata cioè dalla replicazione distanziata d’un medesimo segmento strofico, a differenza della progressione, diciamo, rettilinea che pertiene alle restanti figure strofiche, fondate sulla replicazione contigua (o, meglio, sulla duplicazione) dei costituenti strutturali. Sarebbe dunque la Sera una ballata? Certamente no, mancandone l’elemento iniziale, la ripresa. Ma il testo si dispiega al modo di una ballata. A ben guardare, abbiamo anche un ulteriore elemento che congiunge l’attacco strofico con la sua conclusione, e qui per conclusione intendo il refrain relativo alla singola strofe: in I e II la discesa del termine topico sera, posto in punta al verso d’apertura (v. 1 e v. 18) e in attacco, in evidente isomorfismo, del secondo verso del refrain (vv. 16 e 33); in III la posizione del secondo termine resta la stessa (secondo verso del terzetto conclusivo, v. 50), mentre a variare è la posizione del termine di lancio, qui sceso, e con valore universalizzante e conclusivo, al penultimo verso della strofe superiore (v. 47 che ogni sera l’anima le possa amare). Quello che mi importa mettere in evidenza è la ricerca di una rispondenza ciclica, non seriale (il che, opponendosi al funzionamento tipico delle forme “alte” della nostra tradizione, viene percepito come altro) nella costruzione del componimento: alla ripetizione di uno schema astratto, percepibile in quanto norma ma non individuabile in una concreta identità di elementi testuali, si sostituisce qui un fluire più libero, regolato debolmente da una cornice strofica sempre uguale (la misura dei quattordici versi) e pausato da un ritorno ritmico di segmenti di testo.9 soluzione è brillante ma antieconomica, perché presuppone un ritorno intellettualizzato di moduli tetrastici e ternari non supportati da una serialità posizionale (prima due quartine e due terzine, a criptare un sonetto; poi un’alternanza quartine/terzine e poi un chiasmo con le quartine agli estremi e le terzine all’interno). Inoltre non convince il fatto che all’interno delle strofi stesse i segmenti isolati si presentino simili, ma non identici (per variazioni mensurali e disposizione delle rispondenze rimiche). 8 Capovilla, Guido (1978b), Occasioni arcaizzanti della forma poetica italiana fra Otto e Novecento: il ripristino della ballata antica da Tommaseo a Saba, «Metrica», I, p. 97. 9 Con lo stesso principio sono organizzate le altre due liriche alcionie composte nell’estate 1899: Bocca d’Arno si struttura su 5 strofi composte da una testa di 11 versi, libera combinazione di endecasillabi, settenari e quinari (anch’essa sempre aperta da un settenario, e sempre conclusa da un quinario), e da una coda pentastica, questa sempre realizzata secondo 5 Entra qui in gioco la questione della musicalità del testo dannunziano: una musicalità ottenuta attraverso la ripetizione di elementi che ritornano in una progressione di identità, passando per motivi dall’estensione simile ma costruiti attraverso frasi differenti, che come vedremo si svolgono intrecciando le rispettive cadenze.10 Per quanto osservato, e quanto osserveremo in seguito, la Sera realizza un concetto strofico formulato da Conti sulla base delle osservazioni del musicologo e compositore belga François-Auguste Gevaert,11 e condiviso da d’Annunzio, che l’illustra per due volte nel Fuoco: Dice il Gevaert che, nella sua origine primitiva, la strofa è una cornice destinata ad essere riempita da una serie bene ordinata di movimenti corporei, formanti una specie di quadro animato, al quale la melodia comunica la pienezza della vita.12 Allora, quasi a ricondurre verso il gioco delle apparenze lo spirito rapito “di là dal velo”, una figura di danza si disegnò sul ritmo dell’ode morente. Entro un parallelogramma inscritto nell’arco scenico, come entro i confini di una strofe, la danzatrice silenziosa con le linee del suo corpo, redento per alcuni attimi dalle tristi leggi del peso, imitò il fuoco l’acqua il turbine le evoluzioni delle stelle.13 Cerca di rappresentarti la strofe in guisa d’una cornice, entro le cui linee si svolga un serie di movimenti corporei, una espressiva figura di danza, che la melodia animi della sua vita perfetta.14 Dunque la strofe come contenitore, riconoscibile nella sua identità mensurale esterna (e l’isostrofismo rimarrà anche nelle esperienze di maggiore decostruzione formale, ovvero nelle strofi lunghe), all’interno del quale il discorso si muove con intuitiva libertà ed intuitive associazioni, a rendere il ritmo fluido e pieno della vita. l’ordine seguente: settenario + quinario + settenario + decasillabo + settenario. Anche in Bocca d’Arno il primo verso della coda rima in combinatio con l’ultima terminazione della fronte. La Tenzone ricrea invece più da vicino la struttura di una ballata, pur incredibilmente espansa: il testo si compone di una testa di sei versi, seguita da un lungo segmento (34 versi) cui segue, in chiusa un quartetto che replica i quattro versi conclusivi della testa. Una sorta di macro-ballata con macro-ripresa: qui lo stilema ciclico si concretizza non nel ritorno di una rispondenza fonica, ma di un’ampia porzione di testo. Un fatto, questo, che tornerà anche in alcune strofi lunghe alcionie (si pensi alla Pioggia nel pineto e alle Ore marine). Questo senso della forma mi sembra essere una caratteristica che va sviluppandosi e precisandosi nella produzione dannunziana almeno dal 1886. Dall’Isotteo in poi troviamo infatti tutta una serie di componimenti che si costruiscono su base più ciclica che seriale: si pensi alle ballate, intanto, ma anche nelle romanze e nei rondò contenuti nella Chimera e nelle sestine del Paradisiaco. 10 La musicalità dannunziana sembra essere quindi più materica di quella, razionale ed astratta, che regola forme tradizionali come il sonetto e la canzone. D’Annunzio ha colto la natura ormai solamente teorica del metro, privo da tempo del supporto della melodia ad esso originariamente associato. Ha come portato lo sviluppo musicale all’interno della forma. 11 L’opera da cui Conti cita è l’Histoire et théorie de la musique de l’antiquité, Gand, AnootBraekman, 1875-1881 (vedi La beata riva, cit., p. 69, n. 168). 12 La Beata riva, cit., p. 75. 13 Il Fuoco, in G. D’ANNUNZIO, Prose di romanzi, II, Milano, Mondadori, 20013, pp. 296-97. 14 Ivi, pp. 355-56. L’associazione di poesia, musica e danza nell’analogia dannunziana è anch’essa eredità delle formulazioni estetiche contiane. Per l’amico critico le tre arti sono accumunate dal medesimo principio che ne regola la messa in forma, ovvero il ritmo (opposto alla simmetria, che norma invece le arti apotelestiche – architettura, scultura e pittura). 6 Quanto osservato vale, innanzitutto, per le rispondenze rimiche: queste simulano una regolarità di disposizione, ma di fatto continuamente disattendono una norma riconoscibile che ne organizzi la struttura. Nella prima strofe i vv. 1-5 si dispongono a chiasmo, figura che si realizza però slittando da assonanza a rima nel passaggio finale (sera : foglie : coglie : lenta : annera); e la figura non è chiusa, dal momento che la quarta uscita (lenta) apre verso il successivo inargenta (v. 6), con cui rima esattamente. Segue un distico in rima baciata (vv. 7-8 spoglie : soglie, quasi identica), poi l’introduzione di un nuovo rimema (v. 9, velo), momentaneamente lasciato irrelato nella coppia successiva (giace, nuova, v. 10 e senta, v. 11, con la quale il rintocco risale al v. 6 e al v. 4). Si chiude con la coppia gelo e pace (vv. 12-13), che richiama, nel medesimo ordine, i precedenti velo e giace, e con vederla, in testa al quinario conclusivo, irrelato come rima ma assonante con le serie –era (per cui si recupera anche il verso d’apertura) e -enta. La stanza risulta, se si considera l’assonanza, completamente relata, in una saturazione di rispondenze foniche che si aggregano più per ondulazioni che per simmetrie. La strofe seconda si apre con una quartina perfetta (vv. 18-21, rimemi sera : bruiva : fuggitiva : primavera), cui segue un distico a rima baciata (vv. 22-23, viti : diti) che rimane isolato fino al rientro, tramite assonanza, nel distico che precede il quinario conclusivo (vv. 29-30 clivi : olivi). Al centro della strofe succede qualcosa di simile a quanto osservato relativamente ai vv. 1-5: i vv. 24-26 iniziano quella che sembra essere una rispondenza quadrimembre di rime alternate (perde : ancora : verde), ma la serie s’interrompe al v. 27 sull’inserimento del rimema falce, irrelato all’interno della strofa e recuperato nella seconda uscita del refrain (salce, v. 33), per poi chiudersi nel quinario che occupa il v. 28 (e trascolora). Sempre su distico baciato più quinario in concatenatio con l’apertura della sequentia si chiude la strofe conclusiva, questa formata su un passo più regolare: quartina a rima alternata (vv. 35-38, rimemi reami, fonti, rami, monti), terzina con rientro della seconda rima della quartina precedente (vv. 39-41 segreto, orizzonti, divieto), quartina a rime alternate (vv. 42-45 dire, belle, desire, novelle).15 L’ondulazione impressa dal rispondersi delle rime si interseca con la sintassi, fluida e quasi evanescente nelle prime due strofi: la prima delle quali costruita in un’unica colata, pausata solamente dai tagli di fine verso e dalla gestione delle curve intonative (lo vediamo più avanti). L’unico elemento d’ordine, il nesso mentre posto in testa al v. 8, cade nel secondo membro del distico a rima baciata posto ai vv. 7-8 (con le sue rame spoglie | mentre la Luna è prossima a le soglie), instaurando una specie di concatenatio al centro della stanza. Il passo sintattico è quello, paratattico e giustappositivo, costruito attraverso addizioni progressive, riconosciuto dalla critica come caratteristico del d’Annunzio lirico: a 15 Non c’è, evidentemente, una realizzazione eufonica veramente equivalente di stanza in stanza. Significativo a questo proposito mi sembra l’inserimento del primo rimema della serie D, rimema che gioca, nell’economia strofica, il ruolo di un cambiamento di chiave (perché interrompe la serie di rispondenze precedenti, marcandosi come segnale di sviluppo ulteriore piuttosto che di rispondenza anaforica): in I questo entra in nona sede (velo), in II in settima (perde), in III nell’ottava (dire). 7 questo proposito si veda l’anafora che gestisce la seconda parte della stanza (v. 9, in con slittamento dalla sede iniziale dovuta al rejet, «e par che innanzi a sé», poi reiterata al v. 11, stavolta in battuta iniziale «e par che la campagna»). Realizzazione simile, e ancor più esibita, nella stanza seconda, che dal quinto verso si stende in nominazione seriale,16 battuta sull’anafora polisindetica che sviluppa l’elenco di elementi paesistici (su i gelsi e su gli olmi e su le viti | e su i pini dai novelli rosei diti etc.). L’elenco si estende fino ad occupare l’intero rimanente spazio strofico, replicando la tensione intonativa (la curva di un elenco risultando tesa e sospesa, contrapposta a quella discendente di un’intonazione non marcata)17 fino alla chiusura del segmento metrico. Più regolata, almeno nella parte superiore, la terza stanza, gestita in anafora lessicale e strutturante nelle aperture dei vv. 35 e 39 (Io ti dirò… e ti dirò), con il secondo termine a reggere due subordinate tra loro coordinate (vv. 39-41: per qual segreto | le colline su i limpidi orizzonti | s’incurvino e vv. 42-44 e perché la volontà di dire | le faccia belle | oltre ogni uman desire). La gestione dell’informazione è, tuttavia, più pragmatica che sintattica, costruendo il messaggio sugli strumenti elementari dell’anafora e dell’istanza fatica. È interessante osservare come questa sintassi elementare e giustappositiva venga portata a reagire con il découpage: in alcune zone, soprattutto nelle prime due strofi, si succedono segmenti tra loro relati ma che si distendono pianamente sull’estensione versale. La tensione inarcante è, in questi casi, minima, e si ha l’impressione che i versi scivolino l’uno nel successivo. Mi riferisco ai vv. 4-7 (e ancor s’attarda a l’opra lenta | su l’alta scala che s’annera | contro il fusto che s’inargenta | con le sue rame spoglie), ai vv. 9-13, regolati dalla replicazione del connettore (e par che innanzi a sé distenda un velo | ove il nostro sogno si giace | e par che la campagna già si senta | da lei sommersa nel notturno gelo | e da lei beva la sperata pace); la seconda strofe si costruisce così dal v. 22 fino alla conclusione, sul passo del lungo catalogo di elementi paesistici (su i gelsi e su gli olmi e su le viti | e su i pini dai novelli rosei diti | che giocano con l’aura che si perde | e su ’l grano che non è biondo ancora | e non è verde | e su ’l fieno che già patì la falce | e trascolora | e su gli olivi, su i fratelli olivi | che fan di santità pallidi i clivi | e sorridenti.). A questi casi di piano scivolamento versale si intessono invece numerosi esempi di inarcature che si presentano tra loro piuttosto simili, pur nella differenza delle loro realizzazioni puntuali. Ad unirle è una comune tendenza a sottolineare la sfasatura tra metro e sintassi sfruttando l’inserimento di una pausa immediatamente dopo il termine posto in rejet (o prima del sintagma d’innesco). Quello che tali figure ingenerano è una 16 L’oratio perpetua così descritta da Jacomuzzi: «tra i due estremi del procedimento comparativo per collationem, per accostamento di membri paralleli e con un loro autonomo e più o meno ampio sviluppo, e di quello per brevitatem, gli esempi […] si collocano nell’area del secondo; ma la brevitas appare immediatamente corretta e bilanciata dalla fitta repetitio» (A. JACOMUZZI, Una poetica strumentale: Gabriele d’Annunzio, Torino, Einaudi, 1974, p. 40). 17 Vedi P. M. BERTINETTO, M. MAGNO CALDOGNETTO, Ritmo e intonazione, in A. SOBRERO (ed.), Introduzione all’italiano contemporaneo, vol. I Le strutture, Bari, Laterza, 1993, p. 143 e A. DE DOMINICIS, Intonazione. Una teoria della costituenza delle unità intonative, Roma, Carocci, 2010, p. 103. 8 sincope o inversione di battuta: creazione di una pausa appena dopo (o appena prima) la pausa “istituzionale” di fine verso, proprio in quel segmento di verso (quello iniziale) in cui ci si attende il lancio di una nuova campata melodica. Ai vv. 1-2 (e, identico, vv. 18-19 Dolci […] ne la sera | ti sien) Fresche […] ne la sera | ti sien l’iperbato estende la curva melodica fino all’ausiliare, posto in apertura del secondo verso, che si apre quindi sul chiudersi del profilo intonativo iniziato nel verso precedente. Il movimento è sincopato, uno slittamento di battuta che mette in concorrenza il passo versale con quello melodico.18 Lo stesso accade ai vv. 2-3, nello stacco tra sostantivo e complemento di specificazione: le foglie | del gelso; ai vv. 3-4 (chi le coglie | silenzioso) la figura è rafforzata dal valore di modificatore avverbiale (in piena maniera simbolista) 19 dell’aggettivo silenzioso, che isolato alla destra dell’enunciato va a costituire un profilo intonativo indipendente e viene seguito, pertanto, da pausa sincopata.20 Ancora: ai vv. 8-9 abbiamo il taglio soglie | cerule, stacco tra sostantivo ed aggettivo, con il secondo, sdrucciolo, a battere in 1a, poi seguito da pausa precedente l’ingresso della coordinata introdotta da e (e par che innanzi a sé); ai vv. 36-37 uno dei due casi (l’altro ai vv. 46-47, consolatrici, sì che pare | che) di segmento d’innesco isolato in punta: il fiume, le cui fonti | eterne: qui la pausa s’inserisce a ridosso del taglio di fine verso, con l’effetto di un doppio stop, il primo dei quali anticipato ed inatteso. Altri casi di taglio con rejet + pausa li troviamo ai vv. 40-41 (le colline su i limpidi orizzonti | s’incurvino), ai vv. 41-42 (che un divieto | chiuda) e ai vv. 45-46 sempre novelle | consolatrici. In sostanza, il dettato si organizza attorno a due elementi fondamentali (la giustapposizione e la sincope), entrambi deputati a mantenere tesa la dizione attraverso la perturbazione della linea melodica: il profilo melodico continuativo (alto-piatto) dell’elenco si sovrappone al segnale di discontinuità rappresentato dall’a capo, con il risultato di rimotivare la pausa di fine verso. L’isolamento dei termini in rejet (e, in misura minore, in innesco) introduce una pausa ulteriore a ridosso di quella imposta dal découpage, frammentando in sincope la ripresa della curva discorsiva. L’attenzione dannunziana per lo sfruttamento delle pause, dei silenzi della dizione poetica trova anch’essa radicamento teorico nel pensiero di Angelo Conti: cito solamente dal Fuoco,21 dal momento che il passo in questione, che riporta le parole di Daniele Glauro (ricordiamo, alter ego di Conti) è preso direttamente dalla Beata riva:22 18 Che lo stilema sia voluto ce lo conferma il fatto che sia modifica introdotta dall’autore: inizialmente il verso suonava Dolci sien le mie parole ne la sera (si veda l’apparato di dell’ed. critica di Alcyone, curata da P. GIBELLINI per l’Edizione Nazionale delle Opere di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 1988). La soluzione è poi ripetuta in apertura della strofe successiva. 19 L. SPITZER, Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna, Torino, Einaudi, 1971 p. 63. 20 M. GRICE, M. P. D’IMPERIO, M. SAVINO, C. AVESANI: Strategies for intonation labelling across varieties of Italian, in SUN-AH JUN, Prosodic tipology. The phonology of intonation and phrasing, Oxford, Oxford University Press, 2014, p. 375. 21 Il Fuoco, cit., p. 359. 22 Questo il passo nel trattato: «L’essenza della musica non è nei suoni, ma nel silenzio che segue i suoni e nel silenzio che precede i suoni che verranno. Il ritmo appare e vive in questi istanti di silenzio. Ogni suono e ogni accordo svegliano nel silenzio che li precede e che li segue 9 E tu mai hai pensato che l’essenza della musica non è nei suoni? – domandò il dottor mistico. – Essa è nel silenzio che precede i suoni e nel silenzio che li segue. Il ritmo appare e vive in questi intervalli di silenzio. Ogni suono e ogni accordo svegliano nel silenzio che li precede e che li segue una voce che non può essere udita se non dal nostro spirito. Il ritmo è il cuore della musica, ma i suoi battiti non sono uditi se non durante la pausa dei suoni. E in effetti la compaginazione anisosillabica, la gestione dell’intonazione e l’uso dell’inarcatura sembrano voler mettere in rilievo i momenti d’arresto del dettato. Prendiamo la prima stanza: questa si organizza in un terzetto di testa, endecasillabico, dall’apertura variata (il v. 1 batte in 1a, il v. 2 ha scontro d’accenti in 2a-3a, il terzo si apre in 2a) ma omogeneo nelle parti centrali e, ovviamente, nella battuta conclusiva (tutti endecasillabi di 6a). Potremmo dirla la frase d’apertura:23 Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscìo che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie Il v. 4 ha il ruolo di forte segnale di discontinuità: dodecasillabo (per la discesa in rejet, lo ricordiamo, del modificatore silenzioso) dal netto passo trocaico (ictus in 3a 5 a 7 a 9 a 11a): silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta Segue una coppia di novenari che mantiene il passo staccato, il primo configurandosi sull’andamento giambico (2a 4a 8a), il secondo trocaico (1a 3a 8a). I due versi sono in rapporto di reciproca progressione, data dall’ampliarsi della zona atona mediana, e risentono della sospensione intonativa data dalla costruzione per addizioni: su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta Al centro della stanza troviamo il punto di raccordo anche sintattico del lungo periodo, gestito come abbiamo visto attraverso la combinatio in rima baciata e realizzato con tre una voce che non può essere udita se non dal nostro spirito. Il ritmo è il cuore della musica, ma i suoi battiti non sono uditi se non durante le pause dei suoni.» (Beata riva, cit., p. 104). Autorizzano l’estensione di quanto teorizzato riguardo alla musica anche all’ambito poetico le parole di Conti in un luogo di poco successivo (p. 109): «La poesia e la musica vivono nella notte, sono le sole arti notturne, le sole che non abbiano bisogno di luce per mostrarsi agli uomini, le sole che, nate dal silenzio che precede l’apparire della vita, generino il silenzio in cui parla la vita. La poesia e la musica si manifestano nel tempo, cioè a dire in una forma di conoscenza più profonda di quella nella quale si manifestano le arti che vivono nello spazio. Nel tempo il mistero parla nel ritmo dei versi e nel ritmo dei suoni, appare nella natura l’unità di tutte le cose.». 23 Un discorso simile si può fare per il terzetto d’apertura della strofe seconda (ed era prevedibile, condividendo questa la costruzione del primo verso e lo stilema del rejet + pausa con la strofe inaugurale). Qui l’identità sulla battuta in 6a viene estesa anche al v. 21, quarto di strofa, che però oltre l’appoggio di cui sopra estende una zona atona molto ampia, pentasillabica, che da un lato suggerisce un ictus etimologico sulla prima sillaba del termine primavera, dall’altro sfora la misura endecasillabica con il risultato di non rintoccare in decima sede. 10 moduli prosodicamente affini: un settenario, un endecasillabo ed un tredecasillabo tutti costruiti attorno agli ictus centrali di 4a e 6a (anche qui in progressione, tanto mensurale, quanto nell’accordo degli accenti, condividendo l’endecasillabo ed il tredecasillabo anche l’appoggio d’apertura, in 1a, e quello in 10a): con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo Segue, a marcare il passaggio verso la fase conclusiva, un novenario (che ha qui, ma anche nella strofe terza, v. 39, lo stesso ruolo giocato dai vv. 5-6) che stacca sul precedente passo giambico con la sua andatura trocaica (1a 3a 5a 8a). ove il nostro sogno si giace Il quartetto conclusivo raccoglie la cadenza appena accennata dal precedente novenario, ovvero la battuta in 8a sede, condivisa dai tre endecasillabi posti ai vv. 11-13. I tre versi presentano quindi la stessa clausola ritmica, e se si include il novenario vanno a costituire una doppia coppia anche morfologicamente ben identificabile: si giace > si senta vs notturno gelo : sperata pace. Chiude un quinario, che replica la battuta in 4a dell’endecasillabo che lo precede. e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla. Non possiamo parlare di regolarità ritmica, ma certo abbiamo ravvisato come delle zone dallo stesso colore prosodico. Gruppi di versi che condividono gli appoggi fondamentali, variando i rimanenti, a suggerire un ritmo condiviso ma al tempo stesso in evoluzione. Prendiamo ora il lungo elenco con cui si chiude la seconda strofe: e su ‘l grano che non è biondo ancora e non è verde, e su ‘l fieno che già patì la falce e trascolora, e su gli olivi, su i fratelli olivi che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti Si combinano qui endecasillabi e quinari, i primi tutti con clausola giambica in 8a e 10a (ad esclusione dell’ultimo, il v. 30, che sfuma la corsa verso la chiusa con l’inserimento dello sdrucciolo pallidi), i secondi tutti battenti sulla sola 4a. Proprio attorno all’ictus di 4a si segna lo stacco tra misure brevi e lunghe: i vv. 25 e 27 hanno un attacco, morfologicamente comune, in 3a (e su ’l grano > e su ’l fieno), che anticipa l’apertura in quarta dei quinari che li seguono; il v. 30 si apre con ictus di 2a. L’unico endecasillabo a portare accenti sia in quarta che in ottava è il v. 29, con la geminatio ad isolare proprio un quinario in cui troviamo il lancio dell’epifrasi (e su gli olivi). Qui si replica dunque la combinazione tra misure diverse, e l’instabile equilibrio tra il passo breve e quello lungo, fatto di differenze ma anche, come abbiamo visto, di un 11 punto di contatto che, va detto, si inserisce sul termine che varia la serie (cioè terzetto composto da due endecasillabi + quinario, opposta alle due precedenti coppie endecasillabo + quinario). Per finire, un paio di osservazioni sulla strofe conclusiva: la quartina iniziale, l’unica a presentarsi in perfetta combinazione rimica, attacca con lo stesso passo i tre endecasillabi di testa (ictus portante in 4a), ma scioglie l’identità nella configurazione centrale: il primo è endecasillabo dattilico, il secondo anticipa l’appoggio in 6a, il terzo lo ritarda in 8a. Il passo endecasillabico si diluisce poi nel verso d’uscita dal quartetto, ipermetro (dodecasillabo) e con ampia zona atona iniziale (batte in 1a 6a 8a 11a): l’andamento è impresso dallo sdrucciolo posto in apertura, che fa correre il verso, e la relativa quartina, verso la propria conclusione. Io ti dirò verso quali reami d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne a l’ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti; Separati dal v. 39, novenario che stacca ritmicamente sul verso precedente (ma recupera l’appoggio in 4a) e ti dirò per qual segreto seguono i vv. 40-42, organizzati in un accenno di metrica scalare: un endecasillabo anapestico, un dodecasillabo aperto da due anfibrachi (appoggi in 2a e 5a), un endecasillabo con attacco in 1a e 4a. I moduli ternari non si realizzano perfettamente nei secondi emistichi dei singoli versi, in modo tale che non si ha un completo scorrere monoritmico, ma una serie di sussulti euritmici negli emistichi d’apertura: le colline su i limpidi orizzonti s’incurvìno come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire Consideriamo che quanto osservato riguardo alle tre strofi va inteso in alternanza al ritorno di un refrain isometrico e contrassegnato da un’identità strutturale ben riconoscibile (soprattutto per quanto riguarda il verso d’apertura e il primo emistichio del verso mediano): la Sera ci appare insomma costruita su di un ritmo suo proprio, un ritmo marcato più dall’intuizione che dalla progettualità. Davvero d’Annunzio ha composto questa poesia con la libertà di un passo di danza, anzi, meglio, con la regolata libertà di un musicista jazz che riprenda uno standard: inserendo frasi e motivi frutti del momento in una traccia recante dei punti di passaggio obbligati, ma non per questo vincolanti. Questa concezione della forma, già elaborata all’altezza del giugno 1899, è la stessa da cui d’Annunzio prenderà le mosse, appena un mese più tardi, per comporre i primi versi della Laus Vitae e le prime due strofi lunghe (Il Novilunio e Le ore marine). 12