Mantra: il suono tra pensiero e parola
Krishna Del Toso
Polse di Côugnes, Zuglio, Udine
4 giugno 2011
1. mantra e dhāraṇī
I termini mantra e dhāraṇī indicano due metodi per esercitare la meditazione e la
concentrazione mentale (dhāraṇī, infatti, è la voce femminile di dhāraṇa e si può tradurre
con “colei che regge”, “colei che fortifica”) attraverso l’utilizzo di alcune parole, frasi o,
semplicemente, suoni privi di un effettivo rinvio semantico (come nel caso del noto mantra
OṀ). L’utilizzo dei mantra e delle dhāraṇī ha lo scopo – si dice – di proteggere il meditante
durante l’atto della concentrazione, consentendogli di erigere una sorta di barriera psicologica
benefica contro i fattori che potrebbero turbare la pratica. Inoltre, mantra e dhāraṇī
rappresenterebbero un veicolo per la liberazione, a patto che essi siano effettivamente
sperimentati negli stadi più profondi della concentrazione: infatti, la semplice ripetizione di
tali formule ad alta voce, senza che siano supportate da una corretta pratica meditativa, non
sortisce alcun risultato sulla via verso l’emancipazione spirituale. Va sottolineato, anche, che
il mantra è ritenuto realmente potente, cioè efficace, solo se ricevuto dal proprio maestro
spirituale (guru) e questo perché mediante l’atto dell’iniziazione il maestro conferisce al
discepolo, oltre al mantra stesso, anche il suo significato più profondo o esoterico. Ne risulta
che ripetere un mantra semplicemente letto in un testo sacro o anche ascoltato da un
praticante, ma non ricevuto dalla bocca del maestro a suggello di un conseguimento
spirituale, è cosa totalmente priva di quel significato profondo che ne dovrebbe costituire la
forza salvifica. Tutto questo perché, quando correttamente ricevuto e correttamente recitato, il
mantra non rappresenta ciò che significa ma ‘è’ ciò che significa: ovvero, il mantra non è un
semplice insieme di parole o suoni (poiché le parole rappresentano, cioè ri-inviano a ciò che
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esse stesse significano) ma è una realtà o, meglio, è un suono mistico col quale accedere alla
realtà e, di conseguenza, alla verità. Tutto ciò rimanda inevitabilmente all’altissima
considerazione che i saggi di epoca vedica avevano nei confronti della Parola (Vāk), la quale
era ritenuta la più potente delle divinità, poiché mediante la parole la realtà e – per così dire –
conosciuta e “plasmata”. Il fatto, poi, che il mantra sia la realtà sottintende una
corrispondenza tra il suono mistico e il Cosmo (cioè ciò che è reale) poiché il mantra è, a un
tempo, la realtà simboleggiata dal suono (il Cosmo) ma anche il segno simboleggiante (il
suono o la vibrazione sonora). Inoltre, alla luce delle corrispondenze che si sono ricercate in
contesto vedico tra Cosmo e corpo, se, come s’è appena detto, il mantra corrisponde al
Cosmo, ne consegue che attraverso di esso si potrà avere influenza anche sul corpo. A partire,
quindi, dalla corretta pratica di mantra e dhāraṇī, si riesce ad agire su tutti i principali livelli
della realtà (proprio perché questi suoni sono essi stessi la realtà). In aggiunta, il mantra è
veicolo di verità in quanto riassume – nel suono che esso è – il vero significato del reale. Per
questo motivo in talune tradizioni, importanti parti dell’insegnamento che sono
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Se, i n fa t t i , di co “t a vol o” vogl i o ch i a r a m en t e i n dica r e a qua l cun o l ’ogget t o t a vol o (sul
qua l e m a ga r i c’è qua l cosa ch e m i ser ve) e n on cer t o l a pa r ol a ‘t a vol o’ ch e h o a ppen a
pr on un ci a t o. Qui n di , di r e “t a vol o” si gni f i c a i l t a vol o con cr et o, fa t t o, a esem pi o, di l egn o,
oppur e si gni f i c a i l con cet t o di t a vol o, ci oè l ’i dea gen er a l e di t a vol o com e di quel l ’ogget t o
ch e possi ede det er m i n a t e ca r a t t er i st i ch e per l e qual i può esser e a n n over a t o n el gen er e
‘t a vol o’.
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originariamente esposte e spiegate in testi più o meno prolissi, sono state ridotte a dei mantra.
Esempio di questa tendenza è, nella tradizione buddhista, il prajñā-pāramitā-mantra (il
“mantra della saggezza trascendente”):
Le 8000 stanze del voluminoso trattato mahàyàna Aṣṭasāhasrikā-prajñāpāramitā
sono state condensate nelle poche stanze che costituiscono il Prajñā-pāramitāhṛdaya-sūtra [“Sutra del cuore della saggezza trascendente”]; questo breve trattato è
stato ridotto alle poche righe della Prajñā-pāramitā-dhāraṇī, che, a sua volta, è stata
concentrata in una [sic!] Prajñā-pāramitā-mantra; infine, questo mantra è stato
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ridotto alla sua “semente”, il bīja-mantra: praṁ.
Tutta la dottrina contenuta in uno scritto scolastico può essere dunque condensata, come ci
dice il testo ora citato, in un mantra o, meglio ancora, in un bīja-mantra. Il termine bīja
significa “seme”, “semente” e indica il germe originario, l’essenza fondamentale. Cogliere il
bīja, e meditarvi, equivale a fare l’esperienza della comprensione: si tratta, cioè, di
un’esperienza attiva, di un concreto atto di penetrazione all’interno della verità ultima.
2. attha/artha: l’oggetto, il significato, l’emancipazione spirituale
Il termine attha è l’equivalente pāli del vocabolo sanscrito artha, sostantivo derivato dalla
radice √arth, da cui il verbo arthayate («egli desidera», «egli vuole», ma anche «egli espone
il senso di», «egli commenta a»); ampio è il campo semantico del termine artha ma, in linea
di massima, di questa parola si possono mettere in evidenza i seguenti principali significati:
«scopo», «proposito» e, da qui, «motivo», «ragione». Parimenti, artha è «cosa», «oggetto»,
inteso nel senso di «oggetto percepibile», «oggetto proprio della percezione sensoriale». Più
strettamente connessi alla derivazione da √arth sono: «senso», «significato», «nozione». Per
quanto concerne la presente trattazione, i valori semantici di artha che è il caso di mettere in
evidenza sono: «scopo» e «senso». (Va notato, in aggiunta, che sia artha, sia l’equivalente
pāli attho, possono anche intendersi col valore di «interesse», «vantaggio», «profitto» e,
quindi, «necessità», «volere»). Non è difficile immaginare come, a livello semantico, si sia
passati dal senso stretto della radice verbale √arth (che indica un “volere”, un “desiderare”),
al significato di attha come «scopo», «proposito», in quanto causa finale – vale a dire
«ragione» o «motivo» – di un atto desiderativo e, da qui, al significato di «senso» inteso
come “scopo” peculiare di ciascun termine linguistico. Ogni parola, infatti, custodisce un
senso, che è proprio lo scopo per cui quel preciso termine è pronunciato: è il significato, in
quanto scopo della comunicazione, che emerge dalla pronuncia di una parola. In quest’ottica
il linguaggio è assunto esclusivamente in qualità di mezzo, con un preciso fine che trascende
il linguaggio medesimo: le parole non si dicono semplicemente per comprendere le parole
medesime, ma per comprendere il significato di esse (vale a dire ciò a cui esse rimandano). E
il significato delle parole indica null’altro che un “oggetto” (intendendo questo termine nel
senso più ampio possibile, come indicante un oggetto fisico, come un tavolo, una sedia, ecc.,
ma anche un oggetto mentale, come il concetto di triangolo, l’idea di bellezza, e così via).
Va precisato che l’“oggetto” in questione sembra doversi intendere non tanto – o non
esclusivamente – come oggetto esterno rispetto al soggetto percipiente, quanto come oggetto
in qualche modo già “appropriato”, ossia fatto proprio dalle strutture categoriali del soggetto.
artha, in questa accezione, indicherebbe l’oggetto in qualità di significato di un termine, ossia
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M. E LIADE , Lo Yoga, i mmort al i t à e l i be rt à , BUR, Mi l a n o 1995, pa g. 206.
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quel qualcosa a cui quel termine fa riferimento (la cosa indicata dalla parola). Si prenda ad
esempio il costrutto padārtha, formato da pada («passo», «impronta», «traccia» e «segno»,
anche nel senso di «caratteristica» ovvero «dato», inoltre «posizione», «dimora», e «parte»,
«porzione», da cui «piede [di un verso]» e «parola»; vedi: SED, p. 583), e appunto arthaḥ.
Per chiarire in che senso artha, nel termine padārtha, significhi «oggetto», mi limiterò a
prendere in considerazione – in modo del tutto generale e solamente a puro titolo esplicativo
– due esempi particolari.
Nel darśanaṃ Nyāya, padārthaḥ indica il «significato di un termine», come nel caso di
NyāyaS II, II, 66: vyaktyākṛtijātayastu padārthaḥ («Ora, il significato di un termine è
[connesso a] individualità, figura e genere»); si veda, anche e specialmente, la spiegazione di
questo sūtraṃ data dal Vārttika di Uddyotakara (VII sec. d.C.): yadā bhedavivakṣā
viśeṣagatiśca gaustiṣṭhati gaurniṣaṇṇeti tadā vyaktiḥ padārthaḥ aṅgaṃ jātyākṛtī | jātāvākṛtau
ca sthānagamanāsaṃbhavāt yatra saṃbhavaḥ sa padārtha iti | yadā punarbhedo na
vivakṣitaḥ sāmānyagatiśca tadā jātiḥ padārthaḥ | yathā gaurna padā spraṣṭavyeti | […] kva
punarakṛteḥ prādhānyaṃ dṛṣṭam yathā piṣṭakamayyo gāvaḥ kriyantāmiti («Quando v’è
l’intenzione di significare la differenza [di una cosa dalle altre] e v’è una situazione
particolare, [frasi del tipo] “la vacca sta ferma”, “la vacca giace stesa”, là il significato della
parola [“vacca”] è l’individualità [o l’individuo particolare, mentre] il genere e la figura sono
elementi [secondari]: poiché non v’è la possibilità di stasi e movimento nel genere e nella
figura, perciò questa possibilità è in ciò che è significato dalla parola [ossia la concreta
“vacca”]. Quando, d’altra parte, non è intesa la differenza [di una cosa dalle altre] e v’è una
situazione generale, allora il significato della parola [“vacca”] è il genere [o l’universale],
come [nel caso della frase] “la vacca non dovrebbe essere toccata con il piede” […]. Inoltre,
quando si intende la prevalenza della configurazione? [In una frase] come: “siano preparate le
focaccie [in forma di] vacche”»). Quello che qui è interessante mettere in rilievo è il fatto
che, indipendentemente dall’anteposizione del termine pada al vocabolo artha, quest’ultimo
(così, almeno, mi sembra per il Nyāya ed il Vaiśeṣika) pare indicare in qualche modo il
legame esistente tra oggetto e parola, senza tuttavia coincidere completamente con l’uno o
con l’altra: secondo Uddyotakara, come s’è visto, in certi casi artha è l’oggetto-individuo
significato da pada (come la prima accezione di “vacca”, quella seduta, che è pur sempre una
vacca in carne ed ossa); in altri casi, arthaḥ si riferisce a una categoria di oggetti (come la
seconda “vacca”, che stava ad indicare l’intero genere-vacca o l’universale-vacca); e per
finire, il caso di artha relativo alla figura (ākṛti) implica il riferimento ad un oggetto che
richiami più o meno direttamente un’idea (come nel caso della “vacca-focaccia”, dove solo la
figura ricorda una vacca, laddove gli elementi costitutivi della focaccia no: qui la figura
sollecita la mente ad individuare l’oggetto ad essa più simile, fungendo in tale modo,
appunto, da richiamo o categoriale o specifico, dipendentemente dai casi). Il medesimo
termine (ossia “vacca”) è significato in tre modi differenti: da un lato, un singolo oggetto
specifico, dall’altro, un insieme di oggetti aventi caratteristiche generali comuni, in terzo
luogo, la parola costituirebbe una serie di rimandi concettuali tra il genere, la specie e
qualcosa di altro rispetto a questi.
L’oggetto – a cui la parola fa riferimento – significato da artha non è il semplice oggetto
tout-court, quanto l’oggetto in qualità di elemento di un processo conoscitivo-cognitivo
(l’oggetto che è assunto dal soggetto secondo un procedimento logico-categoriale, ovvero
seguendo i padārtha, proprio delle strutture percettivo-cognitive, VS I, I, 4 dice, infatti,
tattvajñānān). Detto altrimenti: arthaḥ può essere un oggetto, ma solo un oggetto così come
l’oggetto è per il soggetto. In tale caso, data la riconduzione del significato entro un puro
ambito concettuale (ossia facendo dipendere il significato, che è la cosa, dal significante, che
è il linguaggio: artha sta proprio tra questi due) i buddhisti non avrebbero tutti i torti quando
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affermano che il linguaggio è l’atto con cui si modella la realtà a partire da personali schemi
mentali o categorie, come è messo in chiaro in VIÉVARD, 2002, p. 67: «Loin de refléter le
monde, le langage le met en forme selon les schémas inhérents à sa propre structure. Elément
indispensable de compréhension parce qu’il permet le “decoupage” du monde, il est en même
temps un voile opacifiant».
Il buddhismo, pur accogliendo, dal canto suo, questa peculiarità del linguaggio – peculiarità
che consiste in un continuo intreccio di rimandi, una sorta di rispecchiamenti reciproci –, ne
mette altresì in evidenza le imperfezioni: le parti in gioco, vale a dire parola, oggetto e
significato, non sarebbero – e non sono – totalmente equivalenti. Notare questo, vale a dire
notare i punti, per così dire, “deboli” della struttura significativa del linguaggio rappresenta il
nodo centrale della concezione buddhista del linguaggio stesso (come si vedrà in seguito) e
tuttavia questa relativa imperfezione, qui, non implica affatto la rassegnazione
all’inutilizzabilità del mezzo linguistico. Tale imperfezione risiederebbe proprio nel fatto che
il linguaggio si limita a indicare, a “puntare il dito verso” qualcosa che esso non è. Se,
tuttavia, questo indicare non presenta alcun problema nel caso di “oggetti” che potremmo
definire semplici, quotidiani o familiari (intendendo con ciò quegli oggetti significati nella
prospettiva del livello inferiore di retta visione), diventa però massimamente “nonsignificativo” per quanto riguarda “oggetti” complessi e affatto familiari, come nel caso dei
concetti di vimutti, nibbāna, ecc. (ossia, gli oggetti propri del secondo livello linguistico di
retta visione). Esattamente per tale motivo l’insegnamento del Buddha è detto più volte essere
«profondo» (gambhīra), nel senso di insondabile alla conoscenza ordinaria (ma, si badi,
conoscibile dalla persona sapiente). La non-significatività, qui, si riferisce all’impossibilità di
comunicazione efficace mediante lo strumento del linguaggio; la profondità
dell’insegnamento buddhista non è altro, allora, che una sorta di “luogo” estremamente
lontano dal linguaggio stesso e, di conseguenza, estremamente distante dal gioco di significati
operato continuamente dal linguaggio ordinario, tutto ciò senza nulla togliere al ruolo
fondamentale che il medesimo linguaggio svolge nell’atto della trasmissione della dottrina.
Ma torniamo ad attha; da quanto ora considerato, è emerso come la natura del linguaggio sia
di rimandare a qualcosa di altro da sé, e come esattamente questo sia il senso peculiare del
termine attha: lo scopo, infatti, anche inteso nell’accezione di “scopo di un termine”, vale a
dire il suo significato, si configura come un qualcosa verso cui tendere, ove il “tendere a” è
strettamente connesso, da un lato, all’“interesse” ovvero al “vantaggio” e, dall’altro, al
“bisogno” o, meglio, al “bisogno cosciente”. Attha, dunque, è il senso o scopo che viene
avvertito come vantaggioso o coscientemente necessario, volutamente necessario.
L’intervento della volontà, poi, oltre che a collegarsi strettamente al valore del tema radicale
√arth, richiama un impegno o uno sforzo personale: questo vantaggio, in altri termini, deve
volersi perseguire. Tutto questo permette di inquadrare due distinte caratteristiche proprie del
linguaggio (vācā): visto che colui che parla deve esprimersi secondo lo scopo, questo
medesimo esprimersi sarà sia vantaggioso, sia voluto. Il vantaggio di un dire conformemente
ad attha consisterebbe nel circondarsi di persone moralmente nobili che fungano da guida
verso l’emancipazione; il “volere” è, qui, collegato, da un lato, al desiderio di salvazione (da
parte del discepolo) e, dall’altro, al desiderio di aiutare gli altri esseri senzienti ad ottenere
tale salvazione (da parte del nobile virtuoso). Per questo motivo, il senso proprio e profondo
che nel buddhismo è conferito ad attha è, appunto, vimutti, ovvero nibbāna.
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