Lingue, diritti e cittadinanza
per l’Europa unita nella diversità
di Marco Stolfo
1. Introduzione
Pace, democrazia, sviluppo economico e sociale costituiscono nel contempo le
motivazioni e le finalità del processo di integrazione europea. È quanto si riscontra sia dal punto di vista teorico, come emerge per esempio dagli scritti di Lord
Lothian e Luigi Einaudi, dal celebre ‘Manifesto di Ventotene’ firmato da Altiero
Spinelli ed Ernesto Rossi, o dalla ‘Dichiarazione’ resa pubblica il 9 maggio 1950
dall’allora Ministro francese degli Affari esteri, Robert Schuman, sia sul piano
concreto, alla luce dell’attività del Consiglio d’Europa, delle Comunità europee
e dell’Unione europea che a quelle è definitivamente subentrata.
Quelle stesse ragioni e quegli stessi obiettivi si trovano altresì, in particolare
in Europa, a monte e a valle della tutela delle minoranze, della garanzia dei diritti linguistici e della promozione della diversità linguistica e culturale. Questo
intervento intende affrontare il rapporto tra pluralismo linguistico, tutela e integrazione europea e quindi definire il contesto in cui è stata adottata la Carta
europea delle lingue regionali o minoritarie. L’itinerario proposto unisce documenti ufficiali elaborati in seno al Consiglio d’Europa e alla CSCE-OSCE, iniziative assunte da parte delle istituzioni comunitarie – risoluzioni approvate dal
Parlamento europeo, pareri espressi dal Comitato delle Regioni, progetti finanziati dalla Commissione europea – ed alcune previsioni presenti nei più recenti
Trattati dell’Unione europea, da quello di Maastricht a quello di Lisbona.
2. Minoranze, lingue minoritarie e tutela
Il punto di partenza di questo itinerario consiste in una riflessione introduttiva
su minoranze, lingue minoritarie e tutela.
Ci si limita in questa sede ad alcune considerazioni che partono da quelle
definizioni di minoranza elaborate in sede ONU tra gli anni Settanta e Novan-
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ta (Capotorti 1979; Deschenes 1985; Chernichenko 1997), da cui emerge che
una minoranza è, in generale, un gruppo di persone che è ‘minore’ in termini
quantitativi, è ‘diverso’ sotto un qualche profilo che possiamo chiamare per
brevità ‘qualitativo’ (lingua, cultura, religione) e condivide una certa ‘percezione’ di sé e della propria comune diversità dal resto della popolazione dello
Stato in cui si trova. Ma non solo: normalmente un gruppo minoritario è tale
non tanto per la consistenza numerica o per le sue peculiarità ‘qualitative’,
bensì anche – e soprattutto – perché, all’interno dello Stato, si trova in «posizione non dominante» (Capotorti 1979; Deschenes 1985). Ciò significa, tra
l’altro, che i suoi membri sono oggetto di forme di discriminazione attuate sia
palesemente per mezzo di statuti giuridici che reprimono e vietano, basandosi
sulla/sulle sua/sue diversità, sia in forma meno esplicita attraverso statuti giuridici che, confondendo eguaglianza con omogeneità e omologazione, non riconoscono la/le diversità e non tengono conto degli specifici bisogni che ne derivano. Pertanto le minoranze in sé non esistono, ma si definiscono come tali
soltanto ‘strutturalmente’, vale a dire alla luce dei rapporti con le maggioranze
all’interno di ciascuno Stato e sulla base della struttura degli Stati nazionali che
si presumono espressione di comunità ritenute rigorosamente unitarie ed omogenee dal punto di vista linguistico e culturale (Giordan 1992; Roland 1991).
Ne consegue che le lingue che caratterizzano le diverse situazioni di minoranza – per cui, per esempio nel linguaggio giuridico italiano si usa l’espressione minoranze linguistiche, con riferimento alle popolazioni interessate – sono
lingue minoritarie oppure minorizzate, per sottolineare come questa condizione
sia effetto di una o più azioni di minorizzazione, o ancora lingue meno usate o
meno diffuse (Carrel 1995a, 37). Nel glossario pubblicato nel 1995 dall’Ufficio
europeo per le lingue meno diffuse, la nozione di minority (or minorised, or lesser
used) language corrisponde a ciascuna lingua che, come risultato delle sue strutture, dei suoi suoni, delle sue caratteristiche e della sua storia, è differente e distinta dalla lingua dominante di uno Stato e parlata e/o scritta in un determinato territorio da un inferiore numero di persone. Questa definizione si applica a
diverse situazioni: a lingue sia dotate che del tutto prive di un qualche grado di
riconoscimento formale o ufficiale; a lingue che sono «in situazione minoritaria»
entro i confini di uno Stato ma sono dominanti e ufficiali altrove, come il tedesco in Italia, Belgio o Danimarca, il danese in Germania, il francese in Italia, lo
sloveno in Italia e in Austria; a lingue «che in nessun luogo hanno una posizione
dominante nelle società in cui sono usate», anche se talvolta hanno una diffusione demografica e territoriale che va oltre la minoranza numerica della popolazione di determinate regioni (Giordan 1992, 27, 28). Proprio per questo, accanto a ‘lingue minoritarie’, talvolta si utilizza, come sinonimo, l’ambigua espressione ‘lingue regionali’. È quanto si verifica proprio nel caso della Carta europea
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delle lingue regionali o minoritarie, che all’articolo 1 propone una sintetica definizione di lingua regionale o minoritaria: in linea con quanto sostenuto da
esperti, studiosi e organizzazioni, si tratta di una lingua «diversa da quella/e
ufficiale/i di uno Stato e dai suoi dialetti e tradizionalmente usata in un dato
territorio di uno Stato da cittadini dello stesso che formano un gruppo numericamente inferiore rispetto al resto della popolazione»1.
Nell’attuale Unione europea sono circa 60 milioni le persone che hanno
come lingua propria una lingua minoritaria. Sono più del doppio, se si tiene
conto di tutti i Paesi membri del Consiglio d’Europa.
Le definizioni di minoranza e lingua minoritaria permettono, di per sé, di
chiarire che cosa sia la tutela. Di fronte a situazioni in cui esistono gruppi di
persone che condividono dal punto di vista culturale, linguistico e storico caratteri di individualità e diversità rispetto alla maggioranza della popolazione,
ma che non vengono riconosciuti come tali in termini positivi – e quindi sono
oggetto di assimilazione e di forme di discriminazione implicita, paradossalmente in nome di un’eguaglianza formale che genera diseguaglianze di sostanza – oppure si vedono riconosciuta la propria specificità solo come motivo di
esclusione, discriminazione o addirittura persecuzione, la tutela si concretizza
in una serie di azioni di formale riconoscimento della specificità della singola
minoranza volte alla garanzia sostanziale per tutti i suoi membri di pari opportunità e uguali diritti rispetto agli altri cittadini. Tra queste ve ne possono essere alcune che creano condizioni di particolare favore per i membri della minoranza, secondo una logica che, per analogia con la equa redistribuzione delle
risorse, prevede che si possa dare qualcosa di più a chi ha di meno (Barile 1984,
38; Pizzorusso 1993; Kymlicka 1999).
La tutela delle minoranze, quindi, consiste nella realizzazione di interventi che
limitino e eliminino, eventualmente anche con l’introduzione di condizioni speciali, le forme di discriminazione e minorizzazione che i singoli individui, da soli
e soprattutto in relazione con gli altri, subiscono sulla base della propria specificità linguistica, culturale, religiosa… Se ci si sofferma sulla dimensione linguistica, l’azione di tutela consiste nel riconoscere ufficialmente l’esistenza e la specificità di ciascuna lingua minoritaria e sostenerne e promuoverne, a livello territoriale e in maniera coordinata, l’insegnamento e l’uso nelle scuole e l’utilizzo in
tutti gli ambiti della vita pubblica, dai media alla pubblica amministrazione, dalla toponomastica all’economia e alla produzione culturale (Corbeil 1991).
A tale scopo sono necessari strumenti giuridici di tutela che mettono a disposizione le risorse necessarie per sviluppare azioni di pianificazione linguistiCouncil of Europe (1992), European Charter for Regional or Minority Languages, ETS n.
148, Strasbourg, CoE.
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ca (language planning), che comprendono strumenti – grafia ufficiale (dove
necessario), dizionari, banche dati terminologiche, manuali scolastici – adatti
all’utilizzo della lingua nei diversi ambiti comunicativi e come mezzo di produzione culturale e garanzie circa l’uso delle lingue ammesse a tutela in tutti gli
ambiti, a partire dai rapporti tra cittadini e istituzioni e dall’accesso ai mezzi di
comunicazione di massa (Dell’Aquila, Iannaccaro 2004).
Soffermarsi, seppur brevemente, sulla tutela richiede ancora una riflessione
sui suoi destinatari, che – a seconda delle formulazioni – sono letteralmente le
minoranze, le lingue minoritarie, i diritti delle minoranze, i diritti di coloro che
fanno parte delle minoranze. È necessario tenere conto del fatto che le lingue
esistono solo in quanto sono usate e quindi se c’è chi le usa e del significato che
l’uso della lingua propria ha per un individuo: come segno di appartenenza
alla corrispondente cultura, come fattore di riconoscimento dell’appartenenza
a un gruppo sociale, come manifestazione della volontà di riconoscersi in esso
e nella sua cultura, come strumento e simbolo di relazioni con e in una determinata comunità (Weber 1961, I, 24, 46).
Si può comprendere, così, come sia difficile, in generale, distinguere tra
minoranza e singoli appartenenti alla minoranza e quindi tra lingua, comunità
linguistica e singoli locutori. Le azioni di tutela, se sono effettivamente tali, non
possono che riguardare sia la minoranza sia i singoli individui che ne fanno
parte e quindi sia la lingua, sia i suoi locutori sia la comunità definita dall’uso
– o dalla volontà di maggiore uso – della lingua stessa. Esse ovviamente riguardano anche i diritti – di essere se stesso, di voler essere se stesso, di riconoscersi in un gruppo di cui condivide i valori linguistici e culturali, di garantire se
stesso nei confronti delle leggi e dell’organizzazione dello Stato – di ciascuna
persona che fa parte della comunità di minoranza e, con riferimento alla dimensione linguistica, che usa o vuole usare la propria lingua e pertanto fa
parte della comunità linguistica (Pizzorusso 1993, 185-204). Sono diritti che
possono essere effettivamente goduti solo in una dimensione collettiva: ciò
vale sia in termini generali – l’appartenenza alla comunità si fonda su una condivisione – sia con riferimento dettagliato ai diritti linguistici, che non possono
essere ridotti alla mera possibilità, per un individuo, di parlare da solo e relazionarsi solo con se stesso, usando la propria lingua (Kymlicka 1999, 65;
Rousseau 1992; Lefort 1981; Pizzorusso 2004). Se l’attenzione è puntata principalmente sulla lingua, come strumento di comunicazione e di relazione sociale e se si tiene conto della complessità delle nostre società contemporanee,
l’azione di tutela si traduce nella creazione e nella garanzia di condizioni d’uso
della lingua minoritaria non solo per chi fa parte della comunità minorizzata in
senso stretto ma per tutti coloro che vivono in quella stessa area in cui la lingua
è tradizionalmente usata.
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Oltre che alla sfera dei diritti linguistici, che si collocano tra i diritti fondamentali dell’uomo, la tutela risponde anche ad un’altra esigenza: il riconoscimento di
tutte le lingue e implicitamente di tutte le corrispondenti comunità come parti
del patrimonio culturale dell’umanità (De Witte 2002; Poggeschi 2013).
Allo scopo di poter realizzare azioni di tutela, alle comunità locali, nel cui
territorio vivono gli appartenenti alle minoranze, possono essere riconosciute
forme speciali di autogoverno (Poggeschi 2002; Stolfo 2008a; Woelk 2009).
3. L’Europa per le minoranze, le minoranze per l’Europa. Un percorso in (almeno?)
tre fasi
Se si tiene conto dei fondamenti teorici della tutela, si considera la sovrapposizione sostanziale dei suoi diversi ‘oggetti’ nominali (minoranze, lingue e diritti)
e dunque si comprende il significato delle azioni che ne derivano, si è anche
nelle condizioni di collocare dal punto di vista teorico minoranze, lingue minoritarie e tutela in relazione con il processo di integrazione continentale.
La tutela delle minoranze e il riconoscimento della diversità linguistica e
culturale, in tutte le sue componenti (comprese, quindi, quelle minorizzate),
costituisce una ricchezza culturale per l’Europa e per tutti i cittadini europei.
Poiché la tutela riguarda lingue e culture, e si riferisce al rispetto delle persone
e alla garanzia di diritti fondamentali, essa assume anche un valore politico per
l’unità europea, la quale non può che ispirarsi a saldi principi democratici.
Inoltre, la messa in atto di azioni di tutela delle minoranze e delle lingue minoritarie si configura altresì come un’iniziativa volta a prevenire o a superare situazioni di conflittualità sia tra Stati sia all’interno degli stessi.
Tutto ciò emerge con crescente chiarezza se si tiene conto dei contenuti di
una serie di documenti ufficiali elaborati in seno al Consiglio d’Europa, alla
CSCE-OSCE e in ambito comunitario (Stolfo 2007). La Carta europea delle
lingue regionali o minoritarie si colloca in questo contesto, nel quale è possibile
individuare, dalla fine della Seconda guerra mondiale sino ai giorni nostri, almeno tre fasi diverse e distinte, anche se collegate l’una con l’altra.
3.1 La prima fase: un problema degli Stati e tra gli Stati
La prima fase va dalla fine della Seconda guerra mondiale sino agli anni Sessanta ed è caratterizzata da una grande attenzione, in teoria, su questi temi, in
pratica abbinata ad una ancor più grande cautela. A livello internazionale –
basti pensare alla fondamentale Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
(1948) – ciò si manifesta nella sola esplicitazione del principio di non discriminazione.
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L’attenzione principale è posta nei confronti delle questioni minoritarie che
si configurano come effettive o latenti situazioni di conflittualità all’interno dei
singoli Stati e soprattutto tra Stati confinanti. In questa fase il processo di integrazione europea è agli inizi ed è caratterizzato da una prassi intergovernativa
e da un approccio funzionalista, che privilegia azioni e temi di carattere economico, in particolare nell’ambito comunitario.
Ne consegue che le eventuali questioni minoritarie, che possono creare
problemi alle relazioni tra Stati, sono in sostanza affidate a soluzioni cercate e
trovate dagli Stati stessi. In questo senso diventa un modello l’Accordo di Parigi, concluso il 5 settembre 1946 dal Presidente del Consiglio italiano Alcide
De Gasperi e dal Ministro degli esteri austriaco Karl Gruber, che è così la base
della tutela dei germanofoni sudtirolesi e in parte anche dei ladini della provincia di Bolzano (ma non di quelli della provincia di Trento), sviluppata dallo
Statuto di autonomia della Regione Trentino-Alto Adige del 1948 e, soprattutto, da quello riformato a fine anni Sessanta ed approvato con Decreto del
Presidente della Repubblica nel 1972 (Jenniges 1993, 31; Marko, Ortino, Palermo 2001). La medesima strada sarà seguita pochi anni dopo, nel 1954 con il
Memorandum di Londra che definisce le questioni confinarie tra Italia e Yugoslavia e la tutela della minoranza italiana in Slovenia e Croazia e della minoranza slovena nella provincia di Trieste, e con i Bonner und Kopenhagener
Erklärungen del 29 marzo 1955, con cui Germania Federale e Danimarca si
accordano sulla tutela delle rispettive minoranze oltreconfine (Jenniges 1993,
7, 41; Salvi 1975, 12, 16; Pizzorusso 1975).
Già in questa fase il tema è in qualche modo presente nell’agenda del Consiglio d’Europa. Non può essere altrimenti, poiché si tratta della prima organizzazione intergovernativa europea, fondata il 5 maggio 1949, che opera allo
scopo di conseguire una più stretta unione tra gli Stati membri per salvaguardare gli ideali che costituiscono il loro patrimonio comune, agevolare il progresso economico e sociale europeo attraverso accordi in diversi ambiti, da
quello culturale a quello amministrativo, e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali.
La prima importante iniziativa in questo senso, che ha una rilevanza generale e va aldilà della tutela delle minoranze, è la Convenzione europea sulla tutela dei diritti dell’uomo e sulle libertà fondamentali2, firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore il 3 settembre 1953. Essa si colloca sulla
stessa linea della Dichiarazione universale dell’ONU, in quanto ripropone il
Council of Europe (1951), Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms (Rome, 4/11/1950), Strasbourg, CoE. Disponibile anche in internet: www.
conventions.coe.fr.
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principio di non discriminazione (art. 14), del quale però presenta, agli articoli
5, 6 e 10, esempi di applicazione pratica in materia di uso delle lingue in ambito penale, il cui contenuto è analogo a quello dell’articolo 14 della Convenzione
internazionale sui diritti civili e politici dell’ONU, adottata ben sedici anni più
tardi, nel 1966.
3.2 La seconda fase: da problema di Stato a questione europea
La seconda è una fase ‘di passaggio’, con il Consiglio d’Europa ancora protagonista nell’accompagnare questa transizione, caratterizzata dalla crescente
percezione della necessità di approfondire le questioni riguardanti le minoranze e di non limitarsi alla sola affermazione del principio di non discriminazione.
Ciò emerge per la prima volta in maniera significativa dalla Raccomandazione
285 del 1961 dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa, che contiene
la richiesta che fosse inserito nella Convenzione europea sulla tutela dei diritti
dell’uomo e sulle libertà fondamentali un protocollo aggiuntivo riguardante le
minoranze, sottolineando con un certo risalto che «alle persone appartenenti
ad una minoranza non può essere negato il diritto di avere la propria vita culturale, di usare la propria lingua, di aprire le proprie scuole e di riceverne
istruzione nella lingua di loro scelta»3.
Alla voce dell’Assemblea consultiva si uniscono quelle della Conferenza
permanente delle amministrazioni locali e regionali d’Europa4 e della Conferenza dei Ministri europei della cultura, le cui prese di posizione testimoniano
una crescente sensibilità nei confronti della questione.
I rappresentati degli Enti locali, riunitisi a Galway in Irlanda nel 1971
sottoscrissero una Dichiarazione nella quale si richiedeva che fossero prese le
necessarie misure volte a tutelare e conservare lingue e culture di comunità
etniche periferiche, spesso minacciate di estinzione5. Pochi anni dopo, a Oslo
nel 1976, furono i Ministri della cultura ad adottare una risoluzione nella
quale si chiedeva il riconoscimento del «carattere plurale delle nostre società», dei diritti dei gruppi minoritari e delle loro espressioni culturali e si
esprimeva la necessità di un particolare sforzo a favore dei gruppi sino ad
Council of Europe (Parliamentary Assembly of the Council of Europe) (1962), Recommendation 285 (1961), Strasbourg, CoE. È interessante osservare come anche in questo
caso l’iniziativa assunta in seno al Consiglio d’Europa anticipi sul piano dei contenuti quella
dell’ONU con il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966.
4
La Conferenza permanente delle amministrazioni locali, istituita nel 1957, comprende le
Regioni soltanto a partire dal 1975.
5
Council of Europe (Conference of Local Authorities of Europe - CLAE) (1971), The
Galway Declaration (1971), Strasbourg, CoE.
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allora svantaggiati6. L’anno successivo fu nuovamente l’Assemblea consultiva
a prendere posizione sull’argomento, con la Raccomandazione 814, che prevedeva il riconoscimento della diversità culturale quale insostituibile ricchezza
per il continente e pertanto la necessità della tutela attiva delle minoranze
linguistiche7, e con la Direttiva 364, con cui fu commissionato uno specifico
studio sulla situazione sia delle lingue minoritarie sia dei dialetti8.
La Conferenza permanente delle amministrazioni locali e regionali d’Europa, riunitasi a Bordeaux il 1° febbraio 1978, ritornò ancora sulla questione con
una Dichiarazione in cui si esprimeva la necessità di attribuire carattere prioritario ad un’Europa che «rispetti la pluralità culturale e linguistica» e si sottolineava il bisogno di «rivolgere particolare attenzione al problema delle lingue e
delle culture delle minoranze» e di attribuire alle Regioni una propria autonomia in materia di politiche culturali, dato che quello regionale costituisce il livello istituzionale più adeguato «per conservare e sviluppare ciascun patrimonio culturale» e rappresenta l’ambito «più propizio per il riconoscimento della
diversità etnica e culturale»9. E infine i Ministri della cultura, ad Atene, nel
1979, approvarono una nuova risoluzione in cui sebbene più genericamente e
forse anche con una certa ambiguità si sottolinea l’importanza di promuovere
le «culture regionali»10.
Nel 1975 nacque ufficialmente la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), che si proponeva di essere un ‘luogo d’incontro’ tra i
diversi Paesi del continente, con la funzione di aprire il dialogo tra Est e Ovest
durante la Guerra fredda nei campi della sicurezza militare, della cooperazione
economica e dei diritti umani. In questo contesto è possibile rintracciare alcuni
riferimenti alla tutela delle minoranze: nelle preliminari Raccomandazioni finali
delle consultazioni di Helsinki, dell’8 giugno 1973, nell’Atto finale di Helsinki,
del 1° agosto 1975, e nel Documento finale dell’Incontro CSCE che ha luogo a
Madrid il 9 novembre 1980.
Council of Europe (Oslo Conference of European Ministers with Responsibility for Cultural Affair) (1976), Resolution No. 1 (1976), Strasbourg, CoE.
7
Council of Europe (Parliamentary Assembly of the Council of Europe) (1977), Recommendation 814 (1977), Strasbourg, CoE.
8
Council of Europe (Parliamentary Assembly of the Council of Europe) (1977), Order No
364 (1977), Strasbourg, CoE.
9
Council of Europe (Conference of Local and Regional Authorities of Europe - CLRAE)
(1978), The Bordeaux Declaration (1978), Strasbourg, CoE.
10
Council of Europe (Athens Conference of European Ministers with Responsibility for
Cultural Affair) (1979), Resolution No. 1 (1979), Strasbourg, CoE. Cfr. anche Council of
Europe (Parliamentary Assembly of the Council of Europe), Report on the educational and
cultural problems of minority languages and dialects in Europe (Doc. 4745), 4.
6
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In particolare nell’Atto finale di Helsinki si afferma con forza il principio di
non discriminazione e si riconosce «il contributo che le minoranze nazionali e
le culture regionali possono fornire» alla cooperazione tra gli Stati e il concetto
è ribadito nel Documento finale di Madrid, in cui si sottolinea l’importanza «di
un costante progresso nell’assicurare il rispetto per i diritti delle persone appartenenti alle minoranze nazionali».
Come si può notare, nei confronti di una tematica che in Europa è ormai
entrata pienamente nel dibattito culturale e nell’agenda politica, la CSCE sceglie
di mantenere un approccio minimalista, più vicino a quello prevalente nel periodo che abbiamo identificato come prima fase. Questo basso profilo si spiega con
quelle che allora erano le finalità della CSCE, cioè proprio la sicurezza e la prevenzione per via diplomatica di eventuali situazioni di conflitto tra gli Stati, tra
cui erano messe in conto anche eventuali contese legate alle minoranze.
3.3 La terza fase: minoranze, lingue e tutela come risorsa culturale e politica per
l’Europa
La fine degli anni Settanta del secolo scorso segna il passaggio alla fase caratterizzata dal riconoscimento delle minoranze e della loro tutela non più alla
stregua, rispettivamente, di problema potenziale o effettivo e di sua prevenzione o soluzione negoziata, che riguarda il singolo Stato o Stati confinanti, bensì
nei termini di risorsa culturale e politica per lo sviluppo dell’integrazione continentale. A questa evoluzione non concorsero solo l’attività del Consiglio
d’Europa e della CSCE/OSCE, ma contribuirono anche le Comunità europee,
in seno alle quali la svolta positiva in questa direzione venne impressa dalle
prime elezioni del Parlamento europeo nel 1979, grazie alle quali le istanze di
tutela manifestate con forza da molte minoranze e tutt’altro che assecondate a
livello statale poterono essere finalmente accolte e interpretate in quella sede.
La prima risposta dell’Aula di Strasburgo è stata la Risoluzione su una Carta
delle lingue e culture regionali e una Carta dei diritti delle minoranze etniche,
promossa dal socialista italiano Gaetano Arfè, trovando tra l’altro il convinto
sostegno di Altiero Spinelli, e approvata il 16 ottobre 198111.
La risoluzione si caratterizza per l’elevato profilo qualitativo dei suoi contenuti. Essa, infatti, offre un’immagine ad alta definizione della complessa realtà
delle comunità di lingua e cultura minoritarie presenti in Europa, chiarisce con
profondità le motivazioni e i principi che stanno alla base della necessità di
11
Parlamento europeo, Risoluzione su una Carta delle lingue e culture regionali e una Carta
dei diritti delle minoranze etniche, in Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee (GUCE),
NC 287, del 9 novembre 1981.
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assumere iniziative politiche di tutela e individua una serie di misure concrete
da attuare, in quelli che sono i tre ambiti strategici di intervento, cioè scuola,
media e vita pubblica, proponendole sia ai governi e ai poteri regionali e locali
degli Stati membri sia alla Commissione europea e al Consiglio dei Ministri12.
L’importanza della cosiddetta ‘Carta di Strasburgo’ risiede sia nei suoi contenuti sia nei suoi effetti pratici: essa ha comportato l’apertura di una linea di
bilancio dedicata appositamente a progetti e iniziative coerenti con gli obiettivi,
gli orientamenti e i principi formulati e ha aperto una strada su cui più volte
– dalla seconda Risoluzione Arfè (11 febbraio 1983) alla Risoluzione Kujipers
(30 ottobre 1987) sino alle più recenti Risoluzione su un nuovo quadro strategico per il multilinguismo (19 novembre 2006), Risoluzione sulla situazione dei
diritti fondamentali nell’Unione europea 2004-2008 (14 gennaio 2009) e Risoluzione sulle lingue europee a rischio di estinzione e sulla diversità linguistica
nell’Unione europea (11 settembre 2013) – il Parlamento europeo si è incamminato, sollecitando ad operare concretamente in questo campo sia Commissione
e Consiglio che gli Stati membri (Stolfo 2005, 371-375; Stolfo 2008b).
Conseguentemente, la Commissione europea ha dato il proprio sostegno
finanziario a molteplici iniziative locali e a progetti quadro, come lo studio
Euromosaic, e a reti di documentazione come Mercator, articolata in tre sezioni
tematiche (istruzione, media, legislazione). L’azione della Commissione si è ridotta in seguito ad una sentenza della Corte di Giustizia del 1998 che ha comportato, tra l’altro, l’esaurimento della principale linea di bilancio dedicata, ma
Mercator è tuttora attivo, in particolare per quanto attiene all’istruzione, con la
Fryske Akademy (Accademia frisone) e con la più recente adesione dell’Accademia delle scienze di Budapest (Ungheria) e del Centro di studi finlandesi
dell’Università Mälarden di Eskiltuna, in Svezia (Stolfo 2009, 87, 202)13.
Anche in questo periodo il Consiglio d’Europa continua a giocare un ruolo
di primo piano, sia per effetto degli input che giungono dalle istituzioni locali
e regionali e dall’Assemblea parlamentare, sia in virtù del nuovo e decisivo dinamismo comunitario. Questa azione si concretizza in particolare nella prediSi tratta di azioni (in particolare per quanto concerne l’insegnamento) che coincidono
nella teoria e nella prassi con il concetto di tutela, sopra illustrato, e che si possono in qualche
modo trovare anche in altri documenti ufficiali già adottati o approvati a livello europeo,
tuttavia solo con la risoluzione Arfè vengono presentate con questa organicità e mettendone
in evidenza la complementarietà. È da notare, in particolare, la convergenza su questi punti
tra la ‘Carta di Strasburgo’ del Parlamento europeo e la Raccomandazione 928 approvata
pochi giorni prima dall’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa il 7 ottobre 1981 (Parliamentary Assembly of the Council of Europe [1981], Recommendation 928 (1981) on educational and cultural problems of minority languages and dialects in Europe, Strasbourg, CoE).
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www.mercator-network.eu.
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sposizione e nell’adozione, il 29 giugno 1992, della Carta europea delle lingue
regionali o minoritarie, e, il 1° febbraio 1995, della Convenzione quadro per la
protezione delle minoranze nazionali14.
Dal 1992 ad oggi anche nei Trattati comunitari è possibile trovare qualche
riferimento alla tutela delle minoranze e alla promozione del pluralismo linguistico. Nell’articolo 128 (Titolo IX) del Trattato di Maastricht si individua un
primo generico richiamo (confermato dal successivo Trattato di Amsterdam:
articolo 151, Titolo XII) alla diversità delle culture europee, non soltanto tra
Stato e Stato. Sono più ampie ed incisive le previsioni su questi temi contenute
nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, che però non è mai entrato in vigore. Il Trattato di Lisbona, che lo ha sostituito ed è vigente dal 1° dicembre 2009, ha mantenuto nella sostanza le previsioni più significative in
questo senso presenti nella ‘Costituzione’. Esso, infatti, tra i valori su cui si
fonda l’Unione, elenca la dignità umana, la libertà, l’uguaglianza, il rispetto dei
diritti umani, compresi i «diritti delle persone appartenenti a una minoranza»,
il pluralismo, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà e la non discriminazione,
e annovera tra le finalità perseguite il rispetto della «ricchezza della diversità
culturale e linguistica» e la vigilanza «sulla salvaguardia e sullo sviluppo del
patrimonio culturale europeo».
Pur non includendo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, attribuisce ad essa – comprese le sue
previsioni su eguaglianza e non discriminazione – effettivo valore giuridico
vincolante, mentre la diretta adesione alla Convenzione europea sui diritti umani del Consiglio d’Europa non è prevista, ma è comunque favorita in virtù del
conferimento all’Unione europea di personalità giuridica. Pare interessante
anche la previsione che individua la cultura, l’istruzione e la collaborazione
amministrativa tra i settori in cui è prevista un’azione comunitaria di sostegno,
coordinamento o completamento. Il Trattato di Lisbona, infine, ribadisce la
possibilità, già introdotta dal Trattato di Amsterdam, di ammettere al deposito
negli archivi del Consiglio le versioni del Trattato tradotte «in qualsiasi lingua
determinata da uno Stato membro, che in base al proprio ordinamento sia ufficiale in tutto il suo territorio o in parte di esso», quindi anche nelle lingue
minoritarie riconosciute a livello statale o substatale, alle quali sarebbe così
attribuito lo status di ‘lingua dei Trattati’.
Council of Europe (1992), European Charter for Regional or Minority Languages, ETS n.
148, e Council of Europe (1995), Framework Convention for the Protection of National
Minorities, ETS n. 157, Strasbourg, CoE. Non ci si sofferma sui contenuti delle due convenzioni, in quanto oggetto dei successivi contributi. Si rimanda in particolare ai testi di
Alexey Kozhemyakov, Simone Penasa, Jean-Marie Whoerling e Ernesto Liesch.
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A tutto ciò vanno aggiunte anche diverse recenti iniziative ‘targate’ CSCE/
OSCE, il cui passaggio da Conferenza a Organizzazione, indicato dal Documento finale dell’Incontro di Vienna del 19 gennaio 198915 e realizzato a Parigi
il 21 novembre 199016, ha comportato un crescente approfondimento della
questione, tra documenti conclusivi di Incontri periodici (dopo Vienna, 1989,
anche Helsinki, 1992, e Budapest, 1994), Conferenze sulla dimensione umana
(Copenhagen, 29 giugno 1990, e Mosca, 4 ottobre 1991), Incontri specifici (Ginevra, 19 giugno 1991, dedicato proprio alle minoranze nazionali; Oslo, 15
novembre 1991, sul tema delle istituzioni democratiche), e documenti dell’Assemblea parlamentare, a partire dalla cosiddetta Risoluzione di Helsinki del
1993, dedicata all’Alto Commissario per le minoranze nazionali, istituito alla
fine del 1992, il quale da allora ha presentato una serie di Raccomandazioni, ora
rivolte a singoli Stati, ora di carattere generale17.
4. Riflessioni conclusive. La tutela delle minoranze come ‘misura’ del processo
di integrazione europea
Rispetto al percorso illustrato, si possono in conclusione sottolineare alcuni
elementi e aggiungere alcune ulteriori considerazioni.
4.1 Le prime elezioni europee: una svolta per l’Europa, una svolta per le minoranze
Il primo aspetto riguarda l’assenza, per circa trent’anni, dell’iniziativa comunitaria nel campo della tutela delle minoranze, legata come già evidenziato,
all’approccio minimalista, funzionalista, economicistico e intergovernativo che
ha caratterizzato l’avvio delle Comunità europee. A questo riguardo è interessante sottolineare che il Parlamento europeo che elabora e approva le due risoluzioni Arfè, imprimendo così una svolta positiva in ambito comunitario e
contribuendo più in generale a potenziare l’attenzione a livello europeo nei
confronti della tutela delle minoranze, è il primo ad essere stato eletto direttamente dai cittadini (Chiti Batelli 1982; Levi 1991; Pistone 1982) ed è lo stesso
che il 14 febbraio 1984 (237 voti a favore, 31 contrari e 43 astensioni) vota a
15
CSCE, Document final de Viena relatiu a la continuïtat de la Conferència, in Mercator
Legislation, Data Base, http://www.ciemen.org/mercator/index-gb.htm.
16
OSCE, Carta de París per una nova Europa, in Mercator Legislation, Data Base, http://
www.ciemen.cat/mercator/index-gb.htm.
17
Informazioni al riguardo sono disponibili sul sito internet dell’OSCE (http://www.osce.
org) e consultando il Data Base di Mercator Legislation (http://www.ciemen.cat/mercator/
index-gb.htm).
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larga maggioranza il Progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea promosso da Altiero Spinelli18. L’evoluzione positiva a favore della tutela delle minoranze, quindi, coincide con l’avvio di un più ampio sviluppo, quanto meno in
termini ideali, del quadro istituzionale comunitario.
4.2 Gli influssi dei mutamenti del contesto europeo e internazionale
Una seconda riflessione riguarda il contesto internazionale ed europeo in cui
emergono e si susseguono le diverse modalità, teoriche e pratiche, con le quali
è affrontata la tutela delle minoranze. Quella corrispondente alla ‘prima fase’ è
segnata non solo dall’avvio del processo di integrazione europea, ma anche
dall’inizio della Guerra fredda.
In questo quadro qualsiasi potenziale criticità – e le questioni minoritarie
rientrano pienamente in questa ‘categoria’ – assume dimensioni particolarmente rilevanti e preoccupanti, nel cosiddetto ‘equilibrio del terrore’, e in questa
situazione bloccata le minoranze sono considerate un problema se non addirittura una minaccia, sia per l’omogeneità e per la coesione territoriale, politica e
militare del singolo Stato all’interno dei propri confini, sia per le relazioni di
‘buon vicinato’ tra gli Stati. Inoltre, sebbene ci siano evidenti necessità di mettere in comune quote di sovranità e quanto meno la gestione di risorse economiche strategiche (basti pensare al Progetto Schuman e quindi alla nascita
della CECA nel 1951), lo Stato nazionale continua ad essere il principale soggetto politico-istituzionale della scena internazionale.
La situazione inizia a cambiare nel corso degli anni Settanta con l’avvio
della ‘distensione’ tra Est e Ovest e ciò influisce positivamente anche sul modo
in cui in Europa ci si rapporta con le minoranze e la loro tutela, tanto è vero
che la transizione sopra descritta subisce un’accelerazione positiva proprio in
quegli anni, prima nel quadro degli organi del Consiglio d’Europa e poi per
effetto delle prime iniziative del Parlamento europeo. È interessante sottolineare come la crescente attenzione nei confronti di minoranze e tutela ha uno
sviluppo parallelo a quello del protagonismo delle realtà locali substatali, sia in
ambito europeo – il dinamismo della Conferenza permanente delle amministrazioni locali e (poi) regionali del Consiglio d’Europa, l’avvio di forme di cooperazione territoriale transfrontaliera – sia all’interno degli Stati: basti pensare
alla (timida) regionalizzazione della Francia o all’effettiva nascita delle Regioni
a statuto ordinario in Italia.
Cfr. Parlamento europeo (1984), Risoluzione del 14 febbraio 1984 relativa al progetto di
trattato che istituisce l’Unione europea (doc. 1-1200/83), in Gazzetta Ufficiale delle Comunità
Europee (GUCE), C 77, del 19 marzo 1984, 53-58.
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4.3 Distensione, democrazia, tutela delle minoranze, Europa
Un altro aspetto da sottolineare, riferito alla parte conclusiva della ‘seconda
fase’ e all’avvio della ‘terza’, e collegato sia alla ‘distensione’ internazionale sia
al ruolo delle comunità substatali e delle corrispondenti istituzioni e autorità
territoriali, consiste nella corrispondenza ideale e storica tra le istanze di tutela
delle minoranze, le iniziative assunte per dare loro soddisfazione e il più ampio
processo di democratizzazione in corso in Europa, che riguarda la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e l’emergere di nuovi bisogni, e dunque
nuovi diritti, e l’attenzione nei confronti dei diritti e delle libertà fondamentali.
A tutto ciò va aggiunto il fatto che la fine della Guerra fredda e il superamento della divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti non portano con sé
solo le prospettive di allargamento territoriale e di rafforzamento delle istituzioni
comunitarie, con il Trattato di Maastricht e la nascita dell’Unione europea, ma
anche l’incremento del tasso di ‘europeità’ delle minoranze, del pluralismo linguistico e della loro tutela. ‘Euro-ottimismo’ e valorizzazione della tutela delle
minoranze come risorsa per l’integrazione europea procedono di pari passo. La
‘terza fase’, infatti, conosce il suo decollo con il nuovo Parlamento europeo e la
prima Risoluzione Arfè, ma raggiunge il suo momento più alto proprio negli
anni Novanta, con lo sviluppo di una serie di progetti ‘in rete’ su minoranze e
lingue minoritarie, e proprio con l’adozione e l’entrata in vigore delle due convenzioni del Consiglio d’Europa, i primi richiami alla diversità culturale anche
all’interno degli Stati contenuto nei Trattati di Maastricht e Amsterdam e l’importanza attribuita al rispetto dei diritti umani e alla tutela delle minoranze tra i
cosiddetti criteri di Copenhagen, in base ai quali viene testata l’ammissibilità
degli Stati che aspirano a diventare nuovi membri dell’Unione europea.
4.4 Dopo il 2004: una ‘quarta fase’ per la tutela delle minoranze in Europa?
Non si può negare che esista una significativa differenza tra l’ultimo decennio
del Novecento, che con i cambiamenti introdotti dalla caduta del muro di Berlino e il Trattato di Maastricht ha rappresentato sia in teoria che in pratica un
periodo di avanzamento del processo di integrazione europea, e l’inizio del
nuovo Secolo, nel quale sono emerse le difficoltà di conciliare allargamento e
approfondimento e il ‘metodo intergovernativo’ ha via via preso il sopravvento.
Questa tendenza, già evidenziata dal fatto che a Nizza il 7 dicembre 2000 la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea fu proclamata ma non approvata, si è manifestata in maniera più incisiva con la mancata entrata in vigore
del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa.
In questo stesso periodo si è registrato un calo di tensione positiva anche nel
quadro della dimensione europea della tutela delle minoranze, come emerge da
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diversi elementi. Uno di questi è la chiusura della principale linea di finanziamento della Commissione a favore di progetti locali ed europei di promozione delle
lingue minoritarie (Caprioli 2002). Un altro consiste nella Dichiarazione di Bolzano/Bozen/Bulsan sulla protezione delle minoranze nell’Unione europea allargata,
sottoscritta il 1° maggio 2004 da un gruppo di studiosi e di esponenti di organizzazioni non governative impegnate nel campo della difesa dei diritti umani e
delle minoranze in concomitanza con l’entrata nell’Unione di nuovi dieci Stati
membri, in cui si esprimono preoccupazioni rispetto alle limitate garanzie offerte
dal progetto di Trattato costituzionale19. Un altro ancora è offerto dalle più recenti risoluzioni del Parlamento europeo su questi temi, in particolare la Risoluzione
dedicata al multilinguismo, discussa in aula il 15 novembre 2006, ma non votata
dai suoi principali sostenitori per l’approccio minimalista rispetto alle lingue minoritarie che il testo aveva assunto in seguito all’introduzione di alcuni emendamenti, e la Risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea
2004-2008, approvata il 14 gennaio 2009, nella quale si denunciano le violazioni
dei diritti linguistici, si sottolinea l’importanza della promozione delle lingue minoritarie e si sollecita un’azione più efficace a livello europeo in questo campo20.
A questo punto sorge il dubbio se, in particolare, a partire dal 2004 quella
che è stata individuata come ‘terza fase’ del processo di tutela delle minoranze
a livello europeo non si sia trasformata in ‘quarta fase’. Quel che è certo è la
rinnovata concomitanza tra andamento del processo di integrazione continentale ed evoluzione degli strumenti e delle azioni di tutela delle minoranze in
Europa, la quale si conferma un efficace parametro per valutare il livello di
avanzamento del percorso verso l’unità europea o per rilevarne i contraccolpi
o le battute d’arresto.
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20
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