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è u n a b e n p o v e r a m e m o r i a q u e l l a c h e f u n z i o n a s o l o a l l ' i n d i e t r o q u e s t o v e l ' h o d e t to t revolteeperciòèverosonosuunamontagnarussachevasoloinsalitahadettoedèmi oprivilegioemiaresponsabilitàsalirefinoincimacontehodettoiocredichesiatot a l m e n t e a s s u r d o c e r c a r e d i d a r s i u n p o' d a f a r e n o n c e r c h i a m o h o d e t t o f a c c i a m o e b a s t a q ui d e v i c o r r e r e p i ù c h e p u o i p e r r e s t a r e n e l l o s t e s s o p o s t o s e v u o i a n d a r e d a q u a l c h e altrapartedevicorrerealmenoildoppioognicosahalasuamoralesesisatrovarlapo veromepoverome arriveròinritardoprimal'esecuzionepoiilverdetto.seognuno s i facesseicavolisuoiringhiòladuchessa inviperitail mondogirerebbeunbelpo'pi ù sveltoilchenonciporterebbeaffattoavantidissealicefelicedipoteresibireunas saggiod ellasuaculturanonmiparechestianogiocandoconlealtàprotestava alice epoibattibeccano tutticonquantofiatohannoingolacheunonon 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t a q ui d e v i c o24 r rmarzo e r e p2009 iùchepuoiperrestarenellostessopostos evuoiandaredaqualchealtrapartedevicorrerealmenoildoppioognicosahalasuam oralesesisatrovarlapoveromepoverome arriveròinritardoprimal'esecuzionepo iilverdetto.seognuno si facesseicavolisuoiringhiòladuchessa inviperitail mon dogirerebbeunbelpo'più sveltoilchenonciporterebbeaffattoavantidissealicefe licedipoteresibireunassaggiod ellasuaculturanonmiparechestianogiocandoco nlealtàprotestava aliceepoibattibeccano tutticonquantofiatohannoingolacheu nonon riesceneancheasentirelapropriavoceeleregolepoicosìimpreciseammess ochecenesianonon lerispettanessunomaiononvoglioandarefraimattiosservòali c e b e' n o n h a i a l t r a s c e l t a d i s s e i l g a t t o q u i s i a m o t u t t i m a t t i i o s o n o m a t t o t u s e i m a t t a c omelosaichesonomatta dissealiceperforzadisseilgattoaltrimentinonsarestive n u t a q u i b a d a a l s e n s o e i s u o n i b a d e r a n n o a s é s t e s s iè u n a b e n p o v e r 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una volta per tutte, il suo cappotto. Dopo tante parole, prese i suoi foglietti, e quel cappotto lo lasciò lì, sull’attaccapanni. Era un cappotto che ci faceva caldo sin dalla giovinezza. Di panno, grigio. Tarlato, dal fumo. Così cominciò il suo cammino. A piedi. A piedi, perché aveva la convinzione che anche i passi hanno un ritmo. Che pure quello è un linguaggio: muto, ma non silente. Era scuro, fuori. Ma ci si vedeva tutto. Poca gente per strada. Camminò. Camminò per circa mezz’ora, Jacqueline. A un tratto scorse le luci della piazza del paese. C’era parcheggiata un’automobile targata NA. Lì, solo lei: una 500 L, della fine degli anni Sessanta, blu, come il cielo del suo stare nel mondo. Jacqueline la puntò come una preda. Il suo passo si fece più deciso. Come se, in quel momento, avesse riconosciuto ciò che cercava da anni. Lo aveva finalmente trovato: ecco perché il suo passo era più deciso; non più veloce. La raggiunse. La sfiorò ripetutamente, con lo sguardo. La avvolse, con le ciglia. La circumnavigò, con il respiro. Snurfiandola, la riempì di tutte le carezze che aveva chiesto e non aveva ricevuto. E poi. E poi, con un movimento repentino, quasi furtivo, tagliò il tettuccio di quella 500, e vi ci si infilò di dentro. Qui viene il bello. Perché chiunque si aspetterebbe che, a quel punto, Jacqueline collegasse i fili dell’accensione, e via! L’aveva detto tante volte. Lo sapevano tutti. Non tollerava più l’assenza. Ripeteva che l’assenza – da sé o dagli altri non cambia – non è una mancata presenza, ma una presenza senza contenuto. Era normale che, a un certo momento, fuggisse da quel carnevale, da quei coriandoli, da quelle stelle filanti che ingolfavano la sua vita. Logico. E invece no. Jacqueline, quella sera, aveva rotto il cordone ombelicale con il suo cappotto. La linearità della sua ricerca se la portava addosso, sulla pelle. Quella non era un sera in cui, per l’ennesima volta, si era staccato un bottone. No. Quella, quella era la sera dell’epifania. È che nessuno glielo aveva mai detto che te lo porti dietro quel cordone. Jacqueline, anche Jacqueline, l’aveva capito da sé. Di colpo. Senza un perché. Mica te lo spiegano; mica ci pensi. Già, la scuola. La scuola, a Jacqueline, ci aveva sostanzialmente insegnato a leggere e scrivere. Ma si trattava solo della trama. È dalla vita che Jacqueline rubò la narrazione. Dalla vita, non dalla scuola, imparò l’ordito. Ecco. Ecco, dunque, che Jacqueline vi ci si infilò di dentro quella 500. Ravanò un pochino. Legò bene alla leva del cambio un bastone da tenda alto più di due metri e fissò, su lato che spuntava fuori dal tettuccio, una sorta di cartellone. Il suo cartellone. C’erano immagini. Solo immagini, su quel cartellone. Dodici. In silenzio. Senza passi. Ma con movimenti circolari. Come un pesce. E, come un pesce, ci sguisciò di sopra quella 500 e afferrò con la sinistra il suo stendardo. Era come se, a quell’asta, avesse issato sé. Non il cartellone. Ecco. Ecco, in quella sera senza vento, Jacqueline si muoveva così sinuosamente da sventolare. Con dolcezza. E, al contempo, con fermezza: da quella sera, Jacqueline prese a sentirsi più tronco che foglia. Con i piedi puntati sul tettuccio di quella 500, quasi la cavalcasse, Jacqueline cominciò a raccontare favole irripetibili. Favole reali, non immaginarie. Sue. Ma non solo sue. Magie verbali. Un aurora boreale di sussurri, toni, timbri, enfasi, modulazioni, pause, tempi, ritmi, specchi gutturali, orizzonti sonori, contrappunti vocali. I presenti nella piazza si avvicinarono man mano. Le finestre delle case cominciarono ad aprirsi. Le porte via via si schiusero. La curiosità traboccava. Curiosità di capire. Di capire non cosa stesse succedendo. Ma cosa si stesse succedendo. Al farsi del mattino Jacqueline era ancora lì a raccontare. La piazza era gremita di persone inchiodate al racconto di quelle favole. Il treppo! Nessuno ricorda quei racconti. Nessuno ha neppure memoria in che razza lingua si svolgeva quell’esposizione. Perché non erano i racconti che Jacqueline ci voleva dare. Non morali. Ma gesto. Segno. Narrazione. Vibrazioni e gentilezze. Scossoni e carezze: di dentro. Quelle sue parole non si aggrappavano alla mente. Si poggiavano sulle emozioni: come piume. Quel cartellone, grazie al suo racconto, non aveva immagini fisse. Aveva scene in movimento: come ali. Angelo Di Sapio