Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
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QQUESTO E–BOOK:
TITOLO: Autorità e libertà
AUTORE: Rensi, Giuseppe
TRADUTTORE:
CURATORE: Montano, Aniello
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata
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TRATTO
cura e
Napoli
tav. :
DA: Autorita e liberta / Giuseppe Rensi ; a
con un'introduzione di Aniello Montano . : Bibliopolis, 2003. – 155 p., 8! c. di
ill. ; 23 cm.
CODICE ISBN FONTE: 88-7088-433-3
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 3 gennaio 2012
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
2
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
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REVISIONE:
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PUBBLICAZIONE:
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3
GIUSEPPE RENSI
AUTORITÀ E LIBERTÀ
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
A TUTTI GLI ITALIANI
"LI CITTADIN DELLA CITTÀ PARTITA"
CHE IN OGNI TEMPO
FURONO OPPRESSI, BANDITI, PERSEGUITATI,
UCCISI
PER AMORE D'ITALIA
DAGLI ITALIANI
5
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
PREFAZIONE
Geselle dich zur kleinsten Schar
GOETHE
Questo scritto può considerarsi l'appendice, o meglio si
potrebbe dire l'interpretazione autentica, della mia
Filosofia dell'Autorità (Palermo, Sandron); ed è,
insieme, una sintesi, che parmi completa, del mio
pensiero filosofico e filosofico-politico. – Dal mio punto
di vista personale esso serve a scindere la solidarietà tra
le idee di autorità, conservazione, antiparlamentarismo,
«reazione», che io forse per primo ho enunciate in
Italia, e ciò che sembrò essere, immediatamente dopo
tale enunciazione, l'applicazione pratica di siffatte idee.
Poiché la mia posizione ha forse questo di particolare:
pel fatto che condivido, anzi è mio, il principio «sistema
politico d'autorità contro sistema di democrazia
assoluta», sono separato dagli avversari della presente
situazione; ma sono altresì, e più, separato dai
sostenitori di essa perché ritengo che l'applicazione
stata fatta del principio d'autorità sia contradditoria ed
errata da cima a fondo; perniciosa alla vita civile e alla
moralità pubblica in quanto ha creato una condizione
di cose che non si può descrivere meglio che con gli
emistichi virgiliani «multae scelerum facies», «fas
6
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
versum atque nefas»1: definitivamente rovinosa per il
già debole carattere dei cittadini; a lungo andare,
nefasta per la stessa robustezza della compagine
politica; e costituisca perciò il discredito più profondo e
totale gettato sulla stessa dottrina di cui pretendeva
essere l'attuazione, perché ribadisce nelle menti di tutti
i contemporanei l'idea che sistema non democratico,
sistema d'autorità, sia una cosa sola con la crudeltà,
l'assurdo e l'arbitrio, e sembra anzi fornire di ciò una
prova ulteriore e decisiva, l'appiglio cioè a concludere,
additando fatti atroci, rivoltanti od ingiusti; «ecco, una
nuova volta, che cos'è, come è sempre stato, un regime
che non sia di democrazia».
È inutile nasconderlo o negarlo. Costruire in modo
solido e duraturo un nuovo sistema di Stato,
specialmente in antitesi alla mentalità politica sin
allora dominante, si poteva solo sulla base delle idee di
Spinoza ricordate più oltre in queste pagine, sulla base
cioè della massima unità delle coscienze; e, con
qualche senno, ci si sarebbe agevolmente riusciti. Ma
una costruzione statale la quale invece, anche mediante
le espressioni verbali ed altre esteriorità, viene
presentata e accentuata come una creazione di parte,
non lascia affatto tranquilli circa la sua consistenza.
Appunto intanto, dalla contraddizione fondamentale
che corre tra costruzione nazionale e fattura di parte,
zampillano le contraddizioni secondarie. Come si può,
ad esempio, chiamare nazionale, nel senso di sgorgata
1
Georg. I, 505-506
7
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
dalla massima unità di coscienza nazionale e su di essa
basata, un'opera che nel medesimo tempo viene
proclamata «intransigente»? Si può parlare
d'intransigenza quando si tratta dell'opera dei tre o dei
quattro su dieci, contro i sette od i sei. Ma avrebbe
senso dire intransigente l'opera dei nove o dieci su
dieci, cioè davvero della «nazione»? ancora: come si
può dire in questo senso «nazionale» un moto che
proclama il proprio «isolamento» e che dipinge e
considera tutti gli elementi della nazione che non sono
esso (dunque, posto tale suo proclamato isolamento, la
maggioranza della nazione stessa) come sommamente
spregevoli e assai inferiori agli elementi analoghi
esistenti negli altri paesi? Che dice, insomma, che
l'opposizione italiana, il socialismo italiano, la
memoria italiana, sono infinitamente più bassi e vili che
le opposizioni, il socialismo e le massonerie straniere?
Forse che l'esaltazione della «nazione» non
implicherebbe la tesi che tutto ciò che vi è in essa,
comprese le opposizioni, il socialismo, la massoneria,
sono superiori a ciò che v'è negli altri paesi? Altrimenti
dov'è la superiorità d'una nazione rappresentata come
costituita d'una piccola parte di eletti e di eccelsi e
d'una larga parte inferiore a tutto ciò che della
medesima natura vi è altrove nel mondo? –
Cementando, adunque, l'edificio di faziosità e livore di
parte, non si costruisce durevolmente un nuovo sistema
politico e tanto meno un sistema d'autorità. L'edificio
così cementato diventa, per quanti anni esso duri,
8
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
segnacolo d'un odio implacabile, che fa sì che esso sia
sentito da buona parte del paese, non come qualcosa di
proprio, che si è costrutto, si ama e si cerca di
perfezionare, ma come qualcosa di alieno e nemico che
si vuol togliere totalmente di mezzo; – segnacolo quindi
d'un odio che si propone ad ogni costo di demolirlo, che
trasmette dall'una all'altra generazione questo
proposito di demolizione e alla fine riesce a tradurlo in
atto; che dà quindi a un tale edificio, qualunque sia il
tempo per cui di fatto dura, il crisma della
provvisorietà, come alcunché che non affonda
veramente le radici nello spirito collettivo, né attinge
da questo succhi vitali di persistenza, ma vi è solo
estrinsecamente sovrapposto; e che perciò lascia ampio
adito al timore che, anziché trattarsi d'una costruzione
entro la quale la vita successiva del popolo si prospetti
pacifica e fondamentalmente concorde, e si preannunci
come quel «riposato viver di cittadini», quella «fida
cittadinanza», che stava in cima alle aspirazioni di
Dante2, si profilino invece, in causa del modo con cui
alla costruzione si procedette e dei materiali che vi si
usarono, davanti a questo popolo altre fasi di
inquietudini, di turbamenti e di violenza.
Non ostante ogni veemente denegazione questa è la
verità. Verità che ogni mente riflessiva e lucida scorge;
verità che non può non essere presente nel più riposto
animo dei meno ciechi tra coloro stessi che a parole la
negano. Verità che è dovere di coscienza, non già tacere
2
Par., XV, 130.
9
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
o occultare, ma dichiarare apertamente. Chi compie
questo dovere avrà almeno, in ogni evento avvenire, il
conforto di potere, in proporzioni minuscole, ripetere
ciò che davanti a circostanze analoghe scriveva
Cicerone: «Me quidem, etsi nemini concedo, qui
maiorem ex pernicie et peste reipublicae molestiam
traxerit, tamen multa iam consolantur, maximeque
conscientia consiliorum meorum. Multo enim ante,
tanquam ex aliqua specula prospexi tempestatem
futuram».3
G. R.
3
Ad Fam., IV, 3.
10
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
CAPITOLO I
LA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ
In qual senso e per quali ragioni è l'idealismo, nel suo
punto di partenza, filosofia dell'assoluta libertà? Per
questo. Esso dice: l'io, o coscienza, o ragione, cava e
deve cavare unicamente dal suo proprio fondo, sviluppa
e deve sviluppare la sua attività unicamente attingendo
da sé. Nulla di esteriore ad esso io o ragione, ossia nulla
di materiale e di empirico, deve premere su di esso, determinarlo e sottoporlo; ma esso deve invece in perfetta
indipendenza da tutto ciò che non è esso (cioè dall'elemento empirico) svolgere la sua intima potenzialità. Se
fosse determinato da alcunché d'altro da esso (dall'elemento empirico) e vi soggiacesse, sarebbe in istato di
schiavitù. Sviluppando unicamente da sé in assoluta autonomia rispetto all'elemento da esso diverso, ossia empirico, è in istato di perfetta libertà. Filosofia della libertà è la nostra filosofia appunto perché essa afferma, mette in luce, inculca e valorizza questo cavar unicamente
dal proprio fondo senza nessuna pressione o determinazione da parte d'altro da sé o di esterno, che fa lo spirito
od io o coscienza o ragione. E come tale filosofia della
libertà la nostra filosofia si afferma tanto nel campo teorico, quanto in quello etico, quanto in quello politico.
In quello teoretico. Perché è costruendo sopra e mediante le forme e disposizioni insite in lui, e non già riceven11
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
do passive impressioni da parte d'una pretesa realtà esteriore altra da esso, che lo spirito stabilisce il vero. Lo
stabilisce infatti, stabilisce la realtà, mediante determinazioni che scaturiscono da lui medesimo. Forma il concetto d'una cosa, non perché subisca la passiva impressione degli elementi simili presenti in tutti gli esemplari
di essa cosa, ma perché, mediante una attiva sintesi
identificatrice, mediante l'idea di uguaglianza, che appartiene allo spirito stesso e non è data nella natura esteriore, tiene ferma l'identità di alcuni caratteri attraverso
la molteplicità degli esemplari singoli della cosa. Forma
l'unità numerica, non già perché il fatto «uno» o la cosa
«una», l'«uno» insomma sia già là bell'e pronto, all'esterno, e nello spirito si imprima: ma perché esso, lo spirito, fissa in precedenza ciò che deve considerarsi come
uno (talvolta la pianta, e allora il bosco è più; talvolta il
bosco che così diventa uno; talvolta la molecola e allora
il dado è più; talvolta, se trattato e studiato geometricamente come cubo, il dado stesso); perché, insomma, l'idea o sintesi «uno» l'ha in sé e da sé la proietta al di fuori. Forma, quindi, così e non già trova, l'idea di specie
nelle scienze naturali, fissando cioè in antecedenza una
norma ideale o concatenazione costruttiva (p. e., l'importanza prevalente degli organi di respirazione e di generazione) in base a cui classificare, ossia determinare,
ossia far essere, le specie stesse. E persino l'Essere, ciò
che deve valere per Essere, ciò che deve considerarsi
come avente i caratteri dell'Essere (p. e. talvolta ciò che
cade sotto i sensi, talaltra ciò che si lascia costruire con12
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
cettualmente o scientificamente, talaltra ancora ciò che
una religione assicura - a seconda della fase mentale in
cui l'umanità si trova - e questa diversità di possibile determinazione dell'Essere mostra appunto la sovranità anche in ciò dello Spirito) persino l'Essere dunque è una
determinazione che si sprigiona dall'interno e dal fondo
dello spirito, è cioè una libera affermazione sua, non
qualcosa che gli si imponga dall'esterno, e che egli debba, per forza e in condizione di schiavitù, subire dal di
fuori di sé, da alcunché che non è lui.
In quello etico. «Fa quel che vuoi»; in questa
proposizione si racchiude tutta la morale kantiana. Cioè:
fa quel che vuoi tu, veramente tu, quel che vuole il tuo
vero io; non quel che vogliono le tue brame, passioni o
inclinazioni: non quel che queste impongono di fare
all'io, che così è schiavo; ma quello soltanto che vuole il
tuo io stesso, che è la tua ragione pratica, la tua
coscienza, la quale con la sua voce insoffocabile ti fa
udire sempre che cosa essa, ossia il tuo stesso io, contro
la seduzione o la pressione di brame, inclinazioni,
interessi, veramente voglia. Fa quel che vede da farsi, e
quindi vuole, tale tuo stesso vero io, e solo perché esso
vede e vuole così, non perché altre persone o altri
elementi pur tuoi ma non appartenenti propriamente ad
esso tuo io (le inclinazioni della sensibilità) te lo
comandano; che valore avrebbe, infatti, un'azione anche
buona, se tu la compi per obbedienza a ciò che ti pare
un capriccio altrui di farti agire così e non perché tu la
vedi come da farsi e perciò, tu, la vuoi? o che valore
13
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
avrebbe un'azione anche buona, se tu la compi, non
perché la tua coscienza o ragione, in modo spassionato,
imparziale, obbiettivo e illuminato, la scorge e la
giudica da farsi, ma perché la piega o la china dei tuoi
istinti e delle tue abitudini ciecamente vi ti porta? E
ancora: fidati di questo «vedere» della tua coscienza o
ragione, di questo «veder io». Tu sei sicuro di poter
«vedere», di «vedere»; ossia, sei sicuro che il tuo vero
io vede sempre giusto, non erra mai: se ripensi ad
un'azione da non farsi che hai compiuto, avverti che in
quel momento dentro di te una piccola voce ti aveva
ammonito che l'azione non era da farsi: altri elementi in
te hanno fatto tacere e soffocato quella voce; ma essa
c'era, dunque tu «vedevi», il tuo io vedeva. – Fa,
insomma, quel che vuoi tu, e perché lo vuoi tu. Quale
espressione più completa della libertà? Facendo quel
che vuoi tu, fai ciò che è da farsi, sei morale. Non hai
altra legge (comando morale) che questa: fa quel che
vuoi tu. Dunque proprio l'espressione della tua assoluta
libertà è una cosa sola col tuo da farsi, con ciò che devi
fare, con la tua moralità. Questa è unicamente quella tua
assoluta libertà, si risolve interamente in essa.
«Vuoi»; tale, ancora più semplice, la formula in cui si
può riassumere la morale fichtiana. L'io voglia, voglia
continuamente, continui a volere. Che cosa continui a
volere? Nulla che non sia lui. Continui a volere
unicamente se stesso. Non si afflosci mai in lui questo
volere se stesso; non decada mai nell'inerzia, nel
meccanismo abitudinario, che non è più volere ancora
14
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
attivo e progrediente, ma di fronte ad ogni posizione
conquistata, ad ogni abito assicurato, continui a volere
ancora, a volere dell'altro, ad andar sempre più al fondo
di sé, e condurre a realizzarsi questo sempre più fondo
di sé, a volere e ad effettuar ciò che, di fronte ad ogni
effettuazione raggiunta, la sua sempre più interiore
scaturigine gli suggerisce e presenta come ancora da
conseguire, come il suo ancora ulteriore volere, come il
meglio da realizzarsi di fronte ed oltre il bene già
realizzato; ché il processo del volere dell'io (della
coscienza) sia appunto in ciò che esso, non mai pago di
volere se stesso, in presenza di ogni bene già compiuto,
fa udire la voce che suggerisce, esige, cioè esprime che
esso vuole, un meglio superiore a quel bene. Continui
dunque l'io a volere se stesso, sempre più il fondo di se
stesso. Segua questo impulso di sé verso sé, verso
sempre il più fondo di sé. Coordini questo suo impulso
autonomo con gli impulsi naturali (che sono cosa
diversa da esso ad esteriore ad esso) subordinando
questi a quello, per modo da renderli a quello
inservienti, per modo, cioè, da soddisfarli, sì, ma
soddisfarli non per amore e fine di essi, ma unicamente
perché servano a conservare e far diventare sempre più
attivo l'io e il suo impulso di sé verso se stesso. E in ciò,
ossia in questo volere l'io unicamente se stesso, in
questo semplice «vuoi», si realizza completamente la
morale. Anche qui, quale più piena espressione
dell'assoluta libertà che quella consistente nel dire: la
morale si attua nel fatto che l'io voglia solo,
15
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
continuamente e sempre più se stesso?
In quello politico. Sinora, come abbiamo visto, la vita
dello spirito, ragione od io è assolutamente libera,
nessuna costrizione le si impone, e non ha che da essere
libera. È tale dovunque essa si trovi, cioè in ogni uomo.
Se ora gli uomini mettono in comune e fanno esistere al
di fuori del sacrario della loro coscienza, nel mondo
esterno, quel tanto del loro io, spirito o ragione che è
suscettibile di avere una cosiffatta esistenza esteriore,
questo tanto di ragione o spirito, comune a tutti, che
vien ora fatto esistere d'un'esistenza esteriormente
oggettiva, è la legge, le istituzioni politiche e sociali, lo
Stato. La legge, lo Stato, adunque, sono ciò che vuole la
ragione in tutti, la ragione di tutti, l'io di ogni uomo.
Sono il volere della ragione di tutti. Sono la stessa
volontà della ragione od io d'ognuno. Poiché sono ciò
che questo vuole, così sono effettuazione della sua
libera volontà, della sua libertà. Anche la legge è la
stessa cosa della volontà sovrana e libera, ossia della
libertà dell'io, come lo era la verità e la morale.
Per ciò, adunque, l'idealismo, la «filosofia dello spirito»,
è e si vanta di essere filosofia dell'assoluta libertà. La
vita dello spirito (che è poi l'unica realtà) non è e non ha
da essere che assolutamente libera estrinsecazione di sé,
un assoluto far quel che vuole senza pressioni o
determinazioni da parte d'altro da lui o esteriore a lui;
un puro e semplice «inniti sibi», come si potrebbe dire
con una bella espressione di Seneca4; cioè assoluta
4
Ep. 32.
16
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
libertà. E per questo avviene che nei libri di Kant, di
Fichte e di Hegel (come nei libri di Croce e Gentile, che
non hanno fatto se non riprodurre, con varianti di
fraseologia, il pensiero, testé esposto, di quelli) la parola
libertà ad ogni linea troneggi.
Ci sia qui consentita una breve digressione, circa il
capovolgimento che tale idealistica filosofia della libertà
subisce in mano dell'enfant terrible dell'idealismo, di
Schopenhauer.
Implicitamente per Kant, esplicitamente per Fichte, la
volontà, l'attività del volere, è l'immediata realizzazione
della vita morale. Continuando a volere, l'io effettua
necessariamente il bene. La volontà è il bene: così si
può riassumere il loro pensiero. – La volontà è il male;
così invece si può riassumere quello di Schopenhauer.
La filosofia di Schopenhauer è su questo punto
l'integrale elaborazione del motivo fondamentale
d'un'obbiezione che si presenta tosto al kant-fichtismo.
Questa, cioè: che tanto poco è vero che la volontà
continuamente attiva sia identica al bene morale, che
noi vediamo e una volontà in istato di continua e
attivissima tensione la quale pure è amorale (p. e. quella
dello scienziato e dell'artista) e altresì una volontà, pur
sempre più attivamente volente, la quale è decisamente
immorale (p. e. quella d'un Napoleone o d'un Cesare
Borgia). Schopenhauer, in fondo, erige a propria
dottrina morale il senso di questa obbiezione. In lui
confluisce
anche,
ingigantita,
una
direzione
17
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
occultamente presente in quasi tutti i sistemi morali
anteriori. Poiché, sia in Platone, che nel Fedone
presenta come culmine della morale il distacco dalla
vita, sia, com'è evidente, negli Stoici, sia nello stesso
Kant, in quanto egli vuole che l'azione morale sia solo
quella compiuta senza alcun motivo sensibile, giace in
fondo alla maggior parte delle dottrine etiche il pensiero
che il volere qualunque cosa di sensibile, cioè
qualunque cosa, sia male, e che bene quindi sia la
volontà che non vuole nulla di sensibile, ossia che non
vuole, ossia la non volontà5. Ciò diviene esplicito in
Schopenhauer. È proprio nel volere, cioè desiderare,
bramare, concupiscere, che sta il male. È proprio la
volontà, la quale è voglia di avere, di procacciarsi, di
fruire, cupidigia, egoismo, che è il male. Il bene,
viceversa, è lo sradicamento dello egoismo, cioè il
rintuzzamento, la negazione della volontà, il non-volere,
il fatto che la volontà non abbia più alcun motivo
(movente), e al motivo si sostituisca il quietivo. Quindi,
mentre per Kant-Fichte la libertà, come si vide, si
realizza nel fatto dell'io che continua a volere (se
stesso), per Schopenhauer invece il volere è appunto la
schiavitù, l'uomo che vuole è schiavo dei moventi della
sua volontà, delle cose che vuole, ossia delle sue
passioni; e, come il bene morale, così la libertà si
realizza solo nella non-volontà.
Ma la stessa dottrina morale di Schopenhauer si capo5
Concetto assai ben lumeggiato nel libro, ingegnoso e unilaterale, di
PRADINES, L'erreur morale (Alcan, 1909).
18
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
volge da sé, minata da alcune mortali contraddizioni
delle quali non sembrano essersi accorti mai né i seguaci né gli oppugnatori della filosofia schopenhauriana.
Per Schopenhauer il male essenziale è l'egoismo, e il
bene il rinnegamento di questo, rinnegamento di cui uno
degli aspetti importanti è cercar di alleviare le
sofferenze altrui, «la caritas, ἀγαπή, ossia quella virtù
la cui massima è omnes quantum potes iuvas, e dalla
quale scaturisce tutto ciò che l'etica prescrive col nome
di doveri»6.
Ora qui vi è anzitutto un circolo evidente. Esso è questo.
Per Schopenhauer il bene sta nel far del bene. Ma
bisognerebbe prima decidere indipendentemente da ciò
che cosa sia bene o male. Far bene agli altri: curarli se
sono ammalati, dar loro da mangiare e da bere se sono
affamati e assetati. Ma se sono assetati (hanno bisogno)
di vino, di donne? Dovremo dar loro anche ciò? E anche
se pensiamo che ciò non sia bene? La vita, si dirà:
dovremo certo cercar di dare o assicurare o salvare loro
la vita. Però, anche se noi non pensiamo che questa sia
un bene?
Tale osservazione (che, del resto, colpisce anche la
morale evangelica del «fare agli altri»...) è mortale in
particolar modo per l'etica shopenhauriana. Infatti, in
primo luogo. Se la molteplicità degli individui è una
apparenza condizionata alla forma del principio di
ragion sufficiente e io sono in realtà uno con tutto il
mondo (perché radice di questo e mia è la volontà) e
6
Grundlage der Moral 18.
19
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
uno con gli altri, allora che cosa vuol dire la caritas, il
far del bene agli altri, la pietà? Se il fatto di far
elemosina senz'altro scopo che alleviare la sofferenza
altrui si spiega solo perciò che chi la fa riconosce in
colui che soffre il proprio stesso essere 7, che cos'è che
sta in fondo a ciò? È evidente. La pietà non è che
egoismo. Schopenhauer parte dall'affermazione che il
male supremo è l'egoismo. Ma poiché la pietà è da lui
fondata sul riconoscimento dell'identità di tutti gli
esseri, la sua stessa morale finisce per essere fondata su
ciò che egli respinge come male, cioè sull'egoismo. Io
sento pietà per gli altri e agisco pietosamente verso di
essi, perché in essi soffre il mio stesso essere, per amore
dunque del mio stesso essere, che io (più o meno
chiaramente) avverto esser ciò che soffre in loro.
Ma il colpo di grazia alla dottrina morale di
Schopenhauer (il quale non ostante tali contraddizioni
del suo sistema è uno dei filosofi più grandi per i lampi
di veramente diretta aderenza alla realtà che egli
possiede)8 è dato dalla seguente constatazione. Che
cos'è il sommo bene per Schopenhauer? Il rinnegamento
della volontà. Come vi si giunge? Per due vie. Una, che
pochissimi possono percorrere, è quella della
conoscenza (sapienza); per cui una mente dall'intuito
7
8
Grundlage der Moral 22 (Werke ed. Deussen III, 743).
Quando si uniscono a quelle sopra ricordate dell'etica le contraddizioni
formicolanti nella parte teoretica della filosofia schopenhauriana (che ho
cercato di render chiare in Realismo) si vede che del sistema di
Schopenhauer non resta più nulla. Ma rimangono le gemme splendenti e
preziose del suo pensiero, sciolte e non più legate ormai nel monile del
sistema in cui egli aveva volute collocarle.
20
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
potente sa scorgere, per opera puramente intellettuale,
l'identità di tutti gli Esseri, il male del volere e
dell'egoismo, le conseguenze ascetiche che da ciò
necessariamente derivano. L'altra, che è la sola
mediante cui i più possano essere condotti al
rinnegamento del volere, è quella del dolore 9 che
infrange la volontà ostinatamente diretta a fini egoistici.
Per ciò Schopenhauer dice che il fine della vita sta nella
nostra sofferenza, non nel nostro benessere, poiché si
raggiunge il vero fine, quanto più si soffre e quanto
meno si è felici10 e che la sofferenza è necessaria alla
nostra salvezza, sicché si deve invidiare agli altri non la
loro felicità ma la loro infelicità, e le azioni malvage, se
sono per chi le subisce un male fisico, sono però per lui
un grande beneficio metafisico perché conducono alla
sua salute11. Qui si vede chiaro che la dottrina morale di
Schopenhauer fa completa bancarotta. Si è fatta
precedentemente l'osservazione: che cosa cercheremo di
dare come bene agli altri? anche ciò che è riputato bene
da essi se non lo riteniamo tale noi? Adesso viene alla
luce tutta la portata di tale osservazione. Per
Schopenhauer la sofferenza è il bene, perché
infrangendo la volontà, altrimenti ostinata, la conduce al
suo rinnegamento. Che giustificazione ha dunque la
pietà,
caposaldo
dell'etica
schopenhauriana?
Proclamarla, inculcarla è una contraddizione palmare.
Noi dobbiamo, non già pietosamente cercar d'alleviare
9 W. a. W. u. Vol. I, L. IV, 68 (Werke I, 463).
10 Ib., vol. II, L. IV, Cap. 49 (Werke, II, 728-9).
11 Parerga II, § 170, 171 (Werke, V, 346-7).
21
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
le sofferenze altrui, ma, poiché la sofferenza appunto è
la via della salute, dobbiamo invece far soffrire, non
aver scrupolo di far soffrire, anzi proporci come un
dovere di far soffrire perché solo così si guida gli
uomini al sommo bene, cioè alla rinnegazione della
volontà. È, insomma, soltanto perché e finché io sento
in me e relativamente a me che la sofferenza è dolore e
la perdita della vita disperante, che io mi astengo dal far
male agli altri e cerco di alleviare i loro mali: cioè
finché sono sul terreno della volontà affermativa. Se ho
visto che il dolore non è male, ma bene, vinco in me la
riluttanza, meramente cieca e irrazionale, a far male agli
altri e lo faccio con indifferenza, anzi con la
soddisfazione profonda che viene dal compimento di un
dovere e dalla sicurezza di realizzare appunto con ciò il
vero bene altrui.
Chiudiamo qui questo excursus schopenhauriano e
riprendiamo il filo della nostra esposizione.
22
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
CAPITOLO II
LA FILOSOFIA DELL'AUTORITÀ
Alla filosofia cosiddetta dell'assoluta libertà si oppone
una filosofia la quale si può indifferentemente denominare filosofia dell'autorità, o realismo, o scetticismo.
Essa è filosofia dell'autorità, o realismo, o scetticismo.
Essa è filosofia dell'autorità in questo senso preciso e
determinato, che nega i capisaldi fondandosi sui quali la
prima prende il nome di filosofia della libertà; nel senso
quindi che nega la libertà secondo il contenuto che vi dà
e l'aspetto che vi attribuisce quella prima filosofia.
Che cosa significa per questa «libertà»? Lo si vide: il
fatto che l'io o la ragione ricava puramente da sé, in
piena indipendenza da ogni elemento esterno, anzi in
piena negazione di esso, quindi in perfetta autonomia, la
costruzione teoretica, etica, politica del mondo. Libertà,
dunque, per questa filosofia, vuol in sostanza dire
razionalismo (lato sensu): la ragione o lo spirito plasma,
crea, è la realtà; non c'è fuori o sopra di esso un'altra
realtà per sé stante che gli s'imponga: il mondo zampilla
dalla ragione o spirito, si deduce da essa, si risolve in
essa senza residui.
La filosofia dell'autorità è tale ed assume questo nome
perché nega tutto ciò, nega vale a dire l'autonomia, l'assoluta e sovrana libertà dello spirito o ragione nel senso
ora detto, nega cioè il razionalismo inteso come risolu23
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
bilità della realtà in ragione o spirito, afferma l'irrazionalismo inteso come reiezione di tale risolubilità. E
compie tale negazione così nel campo teoretico, come in
quello etico e in quello politico.
Nel campo teorico. Essa dissipa il lungo abbaglio per
cui si intese il percorso del pensiero filosofico da Locke
a Kant come se esso mettesse capo alla conclusione
idealista. Mostra che il cosidetto «io puro», al quale,
anziché all'io empirico, si è costretti alla fine di questo
percorso ad attribuire gli elementi categoriali che
costituiscono l'essenza del reale, tale cosidetto «io
puro», che non può essere pensato come accompagnato
dalla coscienza, non è se non una parola per designare le
cose stesse in quanto posseggono il carattere della
conoscibilità, ossia sono cose (poiché cosa vuol dire
entità esplicata, manifesta, conoscibile). Stabilisce,
insomma, che detto «io puro», è, non coscienza o
pensiero, ma il mondo stesso, le cose stesse, in quanto,
uscendo, per così dire, dal nulla, si fanno cose, ossia enti
visibili, tangibili, percepibili, conoscibili, si rivestono da
sé di questi caratteri della conoscibilità, ossia delle
categorie; sono fenomeni, ma non già fenomeni per una
coscienza, bensì fenomeni in sé, apparimenti in sé, poter
apparire in generale: «Bewusstsein überhaupt», non nel
senso attivo di coscienza che apprende, ma nel senso
passivo di ciò che è suscettibile di presentarsi alla
coscienza e di essere da questa afferrato12. Pone in luce
che il significato stesso intrinseco, primordiale,
12 Cfr. RENSI, Realismo (Milano, Unitas, 1925).
24
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
essenziale del pensiero è il riferimento ad alcunché che
non è esso, che la radice dell'atto di conoscenza risiede
nello sforzo d'afferrare alcunché che vi stia fuori e di
fronte, ossia risiede (nonostante che qui ci si trovi in
presenza d'una «aporia») nel «porre» alcunché di
trascendente la conoscenza stessa, la coscienza, il
pensiero, sicché, come il respirare e il mangiare (Riehl),
così del pari l'atto di conoscenza, già inizialmente e per
il suo stesso essere presuppone e richiede l'esistenza
d'alcunché d'indipendente dalla coscienza e ad essa
esterno che essa vuole afferrare13. Lo stesso apriorismo
è per tale filosofia una prova dell'esistenza del reale
indipendente dal pensiero. Giacché se le concatenazioni
nei fenomeni o fatti d'esperienza le pone il pensiero,
esso le pone però, appunto perché non date
nell'esperienza, come esistenti nella realtà extramentale.
Ma come potrebbe il pensiero essere certo che le sue
categorie sono a priori applicabili ad una realtà
transubbiettiva, se non riconoscendo implicitamente che
è da questa che sono passate in esso, che la ragione per
cui esso ve le può applicare, per cui è a priori sicuro che
vi troveranno applicazione, è che le sue categorie sono,
già prima che sue, le categorie del reale e questo le ha
13 Vedi su questo punto: VOLKELT, Erfahrung und Denhen (II ed. Leipzig
1924); FRISCHEINSEN-KOHLER, Wissenschaft und Wirklichkeit Teubner, 1912);
RIEHL, Der Philosophische Kritizismus (III ed. Lipsia, 1924, specialm. il 2°
vol.); KULPE, die Realisirung Lipsia, 1912-1925); MESSER, Der Kritische
Realismus (Baden, 1923); e sopratutto N. HARTMANN, Grundzüge einer
Metaphysik der Erkenntnis (II ed, Berlino, 1925), opera capitale e che
giunge veramente con rara acutezza e penetrazione fino agli ultimi
particolari della questione.
25
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
trasmesse o improntate nello stesso pensiero, come è
ovvio non essendo il pensiero che una parte del reale
medesimo? – Sicché tale dottrina si può anche
considerare quale la traduzione in termini realistici o
materialistici di quella platonica della reminiscenza.
Come, infatti, quella platonica assevera che le idee
universali sono nella mente umana, non perché da
questa generate, ma perché in un mondo extraterreno in
essa improntate, così questa afferma che è la realtà
universa, ma, qui, spaziale e temporale, che siffatte idee
universali o categorie imprime nella mente umana.
Stabilita così l'esistenza delle cose fuori e di fronte alla
mente, la filosofia dell'autorità conclude che dunque a
nessuna realtà la mente perviene cavando unicamente da
sé, attingendo puramente dal suo proprio fondo; ma solo
vi perviene constatando, ossia subordinandosi agli
elementi empirici, o, come si potrebbe dire per indicare
la negazione della libertà dei razionalisti, soggiacendo
ad essi, accettando la loro sovranità, facendosi schiava
di essi, sottostando al «fatto», al «dato», che non è
«razionale» perché non si cava e costruisce dal fondo
proprio della ragione, che non è formazione dello
spirito, che non si può se non constatare come puro e
semplice fatto, che esiste perché esiste e non già perché
sia «deducibile», perché abbia una «ragione», il voler
trovare la quale nelle cose (nel senso di volere che le
cose siano suscettibili d'una «deduzione» razionale) è
una proiezione antropomorfica cioè per questo, che «la
«ragione» è in noi, e in noi è la capacità della
26
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
«deducibilità» razionale e il bisogno di essa, proiettiamo
ciò nell'universo e pretendiamo che anche nell'universo,
obbiettivamente, una «ragione» e una «deducibilità»
razionale vi sia. Ma l'universo non ha «ragione» non è
«ragione»; è puro e semplice fatto; e il mero esser fatto
è l'unica sua «ragione», come, secondo Spinoza, nel
semplice suo essere di fatto sta tutta la sua «perfezione».
Sicché al pari d'una «perfezione» dell'universo che si
pensi distinta dal suo semplice essere di fatto, così una
«ragione» di esso che non sia la concentrazione di tale
suo essere di fatto, è una di quelle che Spinoza chiama
«notiones quas fingere solemus», «modi solummodo
cogitandi», «praeiudicia»14. Chiedere una «ragione»
delle cose, pretendere che esse abbiano una «ragione»
che soprastia al loro essere di fatto e da cui questo
dipenda e sia determinato e spiegato, voler dedurle da
una «ragione», è immettere nelle cose una nostra finctio,
il nostro, soggettivo, desiderio d'un perché; è
antropomorfizzare il mondo.
La medesima posizione prende la filosofia dell'autorità
contro la filosofia della «libertà», nel campo eticopolitico. Qui il suo pensiero è sostanzialmente quello
della Sofistica genuina (e non degenerata) interpretato
direttamente, e della Scettica che la integrò. La Sofistica
e la Scettica non sono che antirazionalismo. Il
razionalismo pretende che lo spirito o ragione, in quanto
pura, guardando solo in sé, per procedimento deduttivo
14 Eth., P. IV, Pref.; P. I. App. («praeiudicia de bono et malo etc.»). Ep.
XXXII; Ep. LIV.
27
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
puro e indipendente da ogni preteso fatto esterno, possa
ricavare la morale e il diritto: morale e diritto che
sarebbero dunque propri della ragione di tutti, propri
della ragione in sé, universalmente apodittici come le
proposizioni matematiche (le quali posseggono tale
apoditticità, sono interamente risolubili in conoscenza o
ragione, sono costituite sino in fondo di questa, appunto
perché sono interamente formazioni del pensiero; donde
il fatto che tutti gli idealismi, e in particolare quello
della «scuola di Marburgo», usano quasi esclusivamente
di esemplificazioni matematiche a sostegno della loro
tesi che l'oggetto della conoscenza è fatto dalla
conoscenza stessa, e solo di esse possono usare per
cercar di renderla verosimile). Questo è razionalismo, o
idealismo, o filosofia della «libertà» dell'io, nel senso
sopra chiarito. Ma contro tale tesi la Sofistica antica
opponeva che non v'è una morale e un diritto
determinato dalla ragione in sé, ricavabile
necessariamente da questa, esclusivamente conforme
alla ragione e perciò universale. Non esiste morale o
diritto κατὰ ϕύσιν (che è la stessissima cosa come dire
«secondo ragione» ossia tale che la ragione lo ricavi,
quale dunque necessariamente sempre quello, dal suo
proprio fondo sempre identico a sé). Invece morale e
diritto sono formazioni fattizie, opera di τέχνη, di
νόμος, con cui una «città» stabilisce che cosa sia
buono, giusto, santo; espressione di volontà dell'ἄρχον
che con essa determina che cosa sia morale o giuridico.
28
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
La morale e il diritto sono fatti «volontaristici», non
«razionali»; così si potrebbe rendere la dottrina della
Sofistica. Cioè meri fatti, quali la «volontà» diversa, qua
e là diversamente, li pone in essere, non già
univocamente scaturenti dal proprio fondo della ragione
una e tessuti puramente degli elementi di questa. In
parole moderne il pensiero della Sofistica si traduce
così: l'autorità del fatto sociale, formatosi
indipendentemente dall'azione consapevole di ogni io (e
quindi esterno e indipendente da questo), l'autorità
dell'ordinamento e delle istituzioni sociali, del costume,
dell'opinione, del sentimento di questo o quel gruppo
etnico, della Sitte, questa autorità è quella che stabilisce
che cosa sia morale o diritto, o meglio (poiché morale e
diritto non esistono κατὰ ϕύσιν od in sé, ossia non
hanno un'universale essenza secondo ragione) che cosa
deve valere come morale e diritto15.
Anche nel campo etico-giuridico, adunque, come in
quello teoretico, perfettamente al contrario di quel che
crede la filosofia della «libertà» quando asserisce che
tutto è costruzione autonoma dello spirito dal suo
proprio fondo, lo spirito si trova in presenza di meri
fatti, fatti esterni, fatti «naturali», che egli deve
accettare, a cui deve subordinarsi, e a cui in effetto si
15 I positivisti che riluttassero ad accettare questa teoria che la morale e il
diritto nascono dall'autorità devono ricordare che in sostanza essa è anche
del Bain. Cfr. Les émotions et la volonté (Alcan, 1895 pagina 275 e s.);
Mental and Moral Science (Londra, 1884, p. 451 e s.): "The peculiarity of
the Moral sentiment, or Conscience, is identified with our education under
government, or Autority".
29
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
subordina (anche inconsapevolmente, come quando
pretende che sia per deduzione razionale pura che esso
approda precisamente a ciò che in realtà ha trovato
dinanzi a sé empiricamente esistente). Le fondamentali
istituzioni etico-giuridiche si formano originariamente
come un fatto animale, naturale, cieco: così la famiglia,
come mera e ancora solo animale congiunzione dei
sessi, così la stessa società, come estrinsecazione ancor
solo naturale dell'istinto gregario. Quando lo spirito si
affaccia a tali formazioni, se le trova già dinanzi come
prodotti naturali belli e fatti, e sono tali prodotti, nel
carattere qua e là diverso che con cecità casuale
meramente animale e naturale hanno inizialmente preso,
quelli che determinano la «forma» etico-giuridica, e lo
speciale qua e là diverso carattere di questa, nello spirito
che quei fatti naturali si è trovato dinanzi e a cui essi si
sono imposti. E le stesse alterazioni che quei fatti e
prodotti naturali ed esterni, determinanti le forme etiche
dello spirito, subiscono nel corso della storia
(alterazioni, p. e. nel modo di composizione e di
costituzione della famiglia o dell'ordine e
dell'organamento sociale) queste stesse alterazioni, che
determinano alla loro volta modificazioni delle forme
etiche dello spirito, sono fatti esterni, che accadono cioè
fuori e indipendentemente dal controllo e
dall'avvertimento dello spirito, anche quando
scaturiscano, ma senza che esso lo voglia e se ne sia
reso previo conto, da fatti da esso operati. Le istituzioni
etico-giuridiche non sono dunque formazioni compiute
30
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
dallo spirito o ragione cavando unicamente dal suo
proprio fondo, precisamente come non lo è la «cosa».
Come, in quest'ultimo caso, lo spirito si trova dinanzi
una materia, un «dato» ineliminabile e irriducibile, dato
o materia ad elaborare o schematizzare la quale per
farne il suo «oggetto» è vincolato: così, nel campo
etico-giuridico, lo spirito si trova sempre dinanzi a
formazioni (famiglia, società, Stato, ecc.) che esso non
ha interamente creato e attinto dal suo fondo; «materia»
costituitasi mediante una somma di fatti naturali, e, se
anche di fatti di spirito, fatti menomi e del tutto
incoscienti quanto ai loro risultati e alla loro portata;
«materia», dunque, non creata dallo spirito e che invece
crea e determina in esso le sue forme etiche specifiche;
«materia», a cui esso deve sottoporsi e (per tornar ad
usare questa parola) rendersi schiavo, e ad elaborar la
quale, accettandola come qua e là diversamente se la
trova dinanzi, esso è unicamente ridotto. Sicchè, pur
essendo, come vogliono Epicuro e Bentham (e come
ammettono i filosofi tipici dell'autorità, quali Hobbes e
Kirchmann) il piacere ed il dolore i due «sovereign
masters»16 delle azioni umane, la ricerca dell'uno e
l'allontanamento dell'altro sono determinati nella loro
direzione dal carattere e dalla forma presa, qua e là
diversamente, dal fatto naturale-sociale (p. e. la ricerca
del piacere sessuale è determinata nella sua direzione
dalla forma della costituzione famigliare o dalla
16 BENTHAM, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, Ch.
I.
31
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
consuetudine dei rapporti tra sessi, questo – ossia un
fatto di autorità esterna – e ciò che, qua e là
diversamente, determina quale direzione della ricerca di
quel piacere sia lecita o tollerata ovvero riprovata o
condannata; e sotto l'impero d'una data forma di
ordinamento economico, di Stato, di patria, può essere
necessario, «doveroso», affrontare dolori e disagi, che
invece sarebbe possibile e lecito evitare sotto l'impero di
forme politiche diverse). Mentre però, dal suo canto, il
bisogno fondamentale del conseguimento del piacere e
dell'allontanamento del dolore reagisce sul fatto
naturale-sociale, nel senso di renderlo, pur nella
diversità in cui qua e là se lo trova in presenza, pur
sempre più a sé permeabile.
Ma di più. Come, nel campo teoretico, per tutto ciò che
andando al di là della constatazione dei fatti vuol essere
un'interpretazione complessiva di essi, del mondo, per
tutti, insomma, i «problemi ultimi», opposte tesi hanno
sede nella ragione, nessuna riesce né è riuscita mai ad
espungerne l'altra tanto che tutte hanno trovata e
trovano, per opera dei pensatori che le professano,
ragioni a loro sostegno – così, la medesima cosa accade
nel campo etico-giuridico. Opposte concezioni e sistemi
di morale e di diritto hanno trovato e trovano, tutti del
pari, fondamento nella ragione. Dal punto di vista
razionale puro vi sono argomenti per tutti: e basta
ricondursi imparzialmente al pensiero i vari tipi di
morale, lo stoico e l'epicureo, l'utilitarista e il kantiano,
e i vari tipi di ordinamento sociale, monarchia e
32
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
repubblica, democrazia e aristocrazia, proprietà privata
e comunismo, per avvertire che la ragione ha sempre
offerto ed offre ugualmente forti ragioni per tutti, tanto
è vero che mai le ragioni a favore d'una tesi hanno fatto
tacere quelle a favore dell'altra. Ora qui, nel campo
etico-giuridico, cioè nel campo pratico, non potendosi
continuar a discutere e rimandare intanto l'effettuazione
(poiché, la discussione sarebbe eterna, e all'effettuazione
non si passerebbe più), occorre che per altra via
intervenga la decisione. La ragione non può decidere,
avendo ragioni per tutti i sistemi in conflitto. La
decisione non può dunque venire che da un fatto
arazionale: la forza; la forza che tra i sistemi pugnanti
ed ugualmente, «isostenicamente», razionali ne impone
uno. È, in sostanza, questa (ripetiamolo) la teoria del
primato della volontà sulla ragione. La volontà (intesa
in senso larghissimo: impulso, tendenza, temperamento)
è, sopratutto nel campo etico-giuridico, il prius. Essa
sceglie la ragione che vuole: fa ragione di quel che
vuole; e ciò in fondo perché la ragione non è che la
stessa volontà emersa nel campo dell'intelletto e che
fornisce a questo una o l'altra di quelle visuali
primordiali e irriducibili di cui le ragioni non sono che il
riflesso.
La mera forza è dunque il fatto per cui uno o l'altro
sistema di morale e di diritto (parecchi opposti essendo
razionalmente tutti del pari possibili e giustificabili) si
traduce nella realtà in luogo di quello opposto che nel
campo della ragione pure gli tien testa. Perciò
33
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
giustamente Jhering constatava che «chi segna le
trasformazioni giuridiche d'un popolo sino alle loro
ultime origini, arriva in casi innumerevoli alla potenza
del più forte che detta la legge al più debole»17, e che «il
principio che la forza personale è la fonte del diritto è
una delle verità primordiali della storia del diritto
romano»18, e giustamente, per quanto troppo
genericamente, definiva il diritto «la politica della
forza» (cioè misura e assennatezza nel modo di
usarla)19. Perciò, altresì, il Gumplowicz poteva
affacciare la sua geniale teoria secondo la quale gli Stati
sorgono sempre soltanto mediante la sottoposizione
violenta d'un gruppo sociale da parte d'un altro, si
svolgono mediante la lotta tra il gruppo sottoposto e il
gruppo dominante, questa lotta produce alla fine il loro
disfacimento e il loro riassorbimento nel mare
dell'«umanità» da cui sono momentaneamente emersi e
che, nemica, quasi a dire, di tali formazioni statali, è
sempre all'opera per ingoiarle20. – Nè si deve aver
nessuna riluttanza a riconoscere che se si vuole che
qualunque cosa (il cappello di Gessler, una testa di
coccodrillo, o il Santissimo Sacramento) susciti una tale
venerazione che la gente si senta spinta da un impulso
interiore irresistibile a gettarsi in ginocchio quando ne
17
18
19
20
Der Zweck im Recht, v. ed. Lipsia 1916, vol. I. p. 190.
Geist des romischen Rechts, VI ed. Lipsia, 1907, vol. I, p. 107.
Der Zweck im R., vol. I, p. 186 e s. e p. 193.
Cfr. specialmente Sozialphilosophie im Umriss (Innsbruck, 1910). Questo
Zykloismnus, com'egli lo chiama, costituisce un precorrimento della tesi
dello Spengler.
34
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
vede l'immagine e ad avvertire come lesione morale o
misfatto il non scoprirsi il capo davanti ad essa, basta
sottoporre per due o tre generazioni a una persecuzione
inflessibile e costante chi si rifiuta all'ossequio: alla
quarta o quinta generazione, la venerazione è diventata
interiore, spontanea, è nata cioè quell'autorità morale
che, se non è immediatamente una cosa sola con la
forza, però, (come bene mise in luce quel pensatore che
si può considerare quale l'antesignano del movimento
realista contemporaneo, il Kirchmann)21 si genera da
essa. Tanto è vero che morale e diritto (e la stessa
«forma» o attività etica e giuridica) anziché essere,
come vuole la filosofia della «libertà», produzioni che
lo spirito compie attingendo da sé in piena autonomia,
sono fatti che lo spirito riceve originariamente dal di
fuori di sé e della sua libertà, cioè da formazioni di
natura e da situazioni di forza!
Che se alla tesi che sistemi o soluzioni opposte ugualmente razionali hanno tutte luogo sempre nella sfera
della ragione, si obbiettasse che ciò non è vero e che ragionando bene si vedrebbe che una sola è veramente razionale (più opportuna, più benefica, quindi sola comandata dalla ragione), la risposta è che può forse darsi che
rispetto ad una pretesa ragione assoluta ed in sè o rispet21 Die Grundbegriffe des Rechts und de Moral (Lipsia, II ed. 1873). Per la
sua concezione realista in generale si vegga inoltre: Die Lehre vom Wissen
(Heidelberg, 1886); tradotta anche in italiano da Riccoboni, con sue note e
appendice e con un proemio di De Dominicis (Venezia, 1871): Ueber des
Prinzip des Realismus (Lipsia, 1875): Aesthetik auf realisticher Grundlage
(Berlino, 1868).
35
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
to ad un Dio che veda tutto e scorga le più remote conseguenze d'ogni menomo atto, uno solo di più sistemi o
soluzioni opposte sia quello che coincide con la ragione;
può forse darsi che ciò sia rispetto all'insieme stesso delle cose e degli eventi considerato in sé e del tutto obbiettivamente o rispetto ad una sua coscienza totale, se
esso ne avesse una; ma ciò invece non è per l'unica ragione esistente, l'umana. Non fosse altro perché questa
non può percepire sino alla fine le lunghissime e intricatissime linee di conseguenze d'un fatto o d'una disposizione qualsiasi (monogamia, divorzio, voto alle donne,
comunismo, o anche solo aumento o diminuzione
d'un'imposta), poiché nell'enorme complicazione dei fattori sociali, le conseguenze d'ogni sistema o soluzione
rimangono dubbie, suscettibili di previsione diversa,
quindi avvolte dal mistero per la ragione umana. Così ne
viene che quand'anche in sé o per una ragione assoluta
che vegga tutto, una sola sia la soluzione razionale, per
la ragione umana molte lo sono ugualmente, molte hanno uguali titoli ad esserlo; e tra esse non dunque la ragione, ma il mero fatto, il fatto arazionale, il fatto di forza, può decidere quale tradurre in realtà.
Nata, come si disse, con la Sofistica antica, questa
filosofia dell'autorità si trasfuse nella Scettica, col suo
concetto fondamentale che non essendovi un bene o un
male in sé (ϕύσει, πρὸς τὴν ϕύσιν, κατὰ ϕύσιν,
ossia dalla ragione univocamente determinato come
tale) non resta che, attenendosi ai fenomeni (τοῖς
ϕαινόμενοις ούκ προσέχοντες), seguire i dettami
36
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
della natura e i precetti e doveri incorporati nel sistema
etico-giuridico esistente (ἐθῶν δὲ καὶ νόμον
παραδόσει): cioè tra i tanti sistemi razionalmente
possibili e giustificabili accettare quello che,
nell'incapacità di decisione da parte della ragione, il
mero fatto ha reso esistente, ed accettarlo per l'autorità
del mero fatto22. – E questo concetto degli scettici è
anche di portata più ampia di quel che a prima vista
appaia. Che cos'è che nella vita, tanto privata, quanto, e,
più ancora, pubblica, lega effettivamente gli uomini?
Non già le «perfette costituzioni» e nemmeno la
semplice forza delle armi. Dagli Efori di Sparta, alle
magnae chartae e alla divisione dei poteri, quanti
provvedimenti non si sono escogitati per prevenire le
usurpazioni e il conculcamento dei diritti e delle libertà!
Ma sempre tali provvedimenti si dimostrarono vacue
parole di fronte all'atto dell'audace senza scrupoli che è
armato e che osa. L'unica forza che può veramente
legare gli uomini e tenerli stretti in disciplina morale,
civile, politica, è quella del costume, della tradizione,
dei «mores maiorum», dell'«assuefazione», come
direbbe il Leopardi, che ne faceva quasi il perno ed il
centro della sua filosofia – è, vale a dire, la venerazione,
diventata istitutiva, del costume e della tradizione, che
fa sì che ognuno senta un insormontabile orrore
nell'infrangerla; è la barriera, impalpabile ma ferrea,
opposta da questa istintiva venerazione del costume ad
22 Cfr. gli importantissimi §§ 23 e 24 del Lib. I delle Pyrrhon. Hypot. di
SESTO EMPIRICO.
37
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
ogni atto che lo violi. «Omnia sunt incerta, cum a iure
discessum est»23. E proprio la medesima cosa si può dire
riguardo al costume, ai «mores maiorum». Perciò il vero
sacrilego è l'uomo che, sia nella vita privata, sia, e più,
nella vita politica, scavalca o rompe questa barriera
aerea. Perché con tale suo atto esso dimostra a tutti che
la barriera da cui sono tenuti in disciplina è veramente
aerea e che basta solo superare un senso di
«superstizioso» rispetto perché nessuno ne sia più
legato. L'esempio, allora, fruttifica, e veramente «omnia
fiunt incerta».
Nel pensiero medioevale poi la filosofia di cui parliamo
è quella degli scolastici «volontaristi», di Abelardo,
Duns Scoto, Occam, Pietro d'Ailly, i quali rinnovando
esattamente la tesi del sofista Eutifrone, nel dialogo
platonico che porta questo titolo, negano la perseitas del
bene e del giusto, negano che il bene abbia per sé,
indipendentemente e prima della volontà di Dio, una
certa natura, in forza della quale Dio non possa a meno
di volerlo (il che toglierebbe la libertà di Dio); ed
affermano, invece, che bene è quella qualunque cosa
che è voluta da Dio, che Dio con atto della sua
immotivata volontà decide essere bene. «Boni vel mali
discretio in divinae voluntatis dispositione consistit»
(Abelardo). Dio «potest aliam legem statuere rectam,
quia si statueretur a Deo, recta esset, quia nulla lex est
recta nisi quatenus a voluntate divina acceptatur». «Ideo
est bonum, quia a Deo volitum est et non e converso»
23 CIC., Ad Fam. IX, 16.
38
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
(Duns Scoto). «Deus autem ad nullum actum potest
obligari, et ideo eo ipso, quod Deus vult, hoc est iustum
fieri» (Occam). «Divina voluntas nullam habet rationem
propter quam determinetur, ut velit». «Nullum est bonun
vel malum, quod Deus de necessitate sive ex natura rei
diligat vel odiat, nec aliqua qualitas est ex natura rei
iustitia, sed ex mera acceptatione divina; nec Deus
iustus est, quia iustitia diligit, sed potius contra aliqua
res est iustitia, quia Deus eam diligit i. e. acceptat»
(D'Ailly). Teoria che se si libera dalla superstruttura
teologica, o se si dà a Dio il significato spinoziano di
«natura» o di tutto, si vede non essere altro se non il
concetto realistico (ed è infatti significante che a tale
dottrina in quasi tutti questi pensatori si congiunga il
nominalismo, ossia l'empirismo) che il giusto ed il bene
non sono determinati dalla ragione, ma dal mero fatto.
Teoria quindi di cui doveva costituire l'antitesi quella di
Grozio, il quale volendo stabilire un diritto avente
vigore nei rapporti tra le individualità statali, poiché
sopra di queste non impera il mero fatto d'una legge
positiva, non poteva riuscire al suo intento se non
sostenendo che buono e giusto sono tali per sé, hanno
una perseitas, indipendentemente da tale mero fatto
della legge positiva; ed è questa la ragione per cui egli
ha approdato a fondare, ad un parto col diritto
internazionale, il diritto naturale, per cui diritto
internazionale e naturale sorgono insieme. – Nel
pensiero moderno siffatta filosofia dell'autorità fu
rinnovata da Hobbes («Nulla Boni, Mali et Vilis
39
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
communis regula ab ipsorum naturis derivata».
«Regulae quibus difiniuntur bonum, malum, licitum,
illicitum
ab
habente
potestatem
summam
praescribendae sunt»), e, parzialmente, e con una
direzione speciale e una geniale precisazione, come si
metterà in luce più oltre, da Spinoza. Più vicino a noi
(oltre che in pensatori già nominati) la troviamo
riprodotta in Hegel se si scorona il suo sistema della
vana e dottrinaria superfetazione della ragione assoluta
e impersonale, che non è se non i fatti stessi24, la
troviamo cioè nel suo concetto della «realtà etica» 25,
contenuto morale-giuridico dato alla coscienza del
soggetto dal di fuori di essa, concetto che egli oppone al
«vuoto principio» del soggettivismo etico kantianofichtiano26. La troviamo, infine, nella science des
moeurs la quale afferma anch'essa, proprio con la
medesima espressione di Hegel, una «realtà etica», che
lo spirito si trova dinanzi già fatta, che non può pensar
di creare o di ricreare ex novo dall'interno di se
medesimo, ma deve limitarsi a ritoccare e correggere, o,
come sopra si è detto, a rielaborare27.
24 Cfr. RENSI, L'Irrazionale, ecc.; (Milano, "Unitas", 1923), pagine 111-128 e
cfr. anche MEYERSON, De l'explication dans les sciences (Parigi, 1921, vol.
II, p. 37): "Hegel contrairement à Kant, considère l'espace et le temps
comme appartenant aux choses elle-mêmes».
25 Filos. del dir. § 153.
26 Ib. 125, 137, 148.
27 Cf. LEVY-BRUHL, La Morale et la Science des Moeure IV, ed. cap. IX.
"Modifier, par des procedés rationnels, la réalité morale donnée, au mieux
des intérèst humains... Cette fonction méme suppose que cette réalité
existe, qu'elle nous est donnée objectivement, à titre de nature... que nous
n'avons pas faite, et que vraisemblablement une intelligente semblable à la
40
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
Così questa filosofia è filosofia dell'autorità, perché alla
«libertà» dell'altra filosofia, consistente nell'attribuire
all'io l'autonoma e sovrana creazione di tutta la realtà,
oppone che, invece, l'io subisce e deve subire nel campo
teoretico l'azione delle «cose» esistenti fuori e
indipendentemente da esso, nel campo etico-giuridico
l'azione di fatti e formazioni «naturali» e anche della
mera forza. È, nello stesso tempo, realismo, perché
afferma l'esistenza di una realtà esterna e
indipendentemente rispetto all'io. Ed è, altresì,
scetticismo. Che sia anche ciò emerge implicitamente
già da quanto si è detto. Ma poiché grandissima è la
confusione di idee su questo punto, gioverà insistervi.
È opportuno, a tal uopo, prendere le mosse da una
proposizione di J. E. Erdmann. «Gli scettici e i mistici
di questo periodo (egli scrive, parlando della filosofia
del 1600-1700), anche quelli in cui l'interesse
soprannaturalistico è più accentuato, hanno tuttavia
preparato il terreno a coloro i quali integrano
l'affermazione che lo spirito non possa da se medesimo
attingere la verità, non già dicendo che Dio soccorre a
tale deficienza, ma dicendo che soccorre ad essa il
mondo esterno»28. Basta riflettere un momento
attentamente a questa proposizione per capire che il
realismo non solo è la necessaria conseguenza dello
scetticismo, ma che non è se non un altro aspetto di
esso.
nôtre n'a pas faite pour nous» (pag. 268).
28 Grundriss der Geschicht. der Philosophie, IV. ediz. § 276.
41
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
E per vero, come già si accennò, lo scetticismo non è
che antirazionalismo, non è che la negazione del
razionalismo. Questo dice (per usare l'espressione
dell'Erdmann), che lo spirito attinge da sé la verità, ossia
che tutta la realtà è senza residui formazione della
ragione (dello spirito), quindi interamente una con la
ragione, con lo spirito, con la coscienza, e perciò, come
è ovvio, aperta sino in fondo a questa, poiché è fatta da
questa, non è che questa. Lo scetticismo, invece, nega la
conoscibilità totale della realtà, nega cioè che lo spirito
possa attingere da sé la verità. Pur ammettendo che noi
possiamo conoscere a priori certe forme generali della
esistenza del reale, cioè il fatto che questo si presenta
categorialmente concatenato nello spazio e nel tempo e
che solo è reale ciò che ha queste forme, scorge con
Kant che questo nostro potere di conoscere a priori non
va oltre siffatta «Gesetz-mässigkeit der Erscheinungen
in Raum und Zeit»29, e tra il conoscere ciò, tra il sapere
soltanto che ogni reale è nello spazio, nel tempo e nelle
concatenazioni categoriali, e il conoscere tale reale, c'è
un abisso, e conoscerlo non possiamo se non
apprendendolo empiricamente. Lo scetticismo scorge
ancora che (per usare i concetti di N. Hartmann) la
«cosa» che sta di fronte alla conoscenza è infinita, non
già perché, o non solo perché, l'universo è un numero
infinito di cose, ma perché proprio una cosa singola è
infinita perciò che è un serbatoio inesauribile di
proprietà le quali vengono scoperte in progressione
29 Kr. d. r. V., II ediz. orig., p. 165.
42
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
senza fine. Una parte di tale cosa infinita è «obiettivata»
(cioè afferrata dalla conoscenza diventata oggetto di
questa); di là di tale parte «obbiettivata» sta in ogni
direzione una parte «transobiettiva» sconosciuta, verso
la quale gravita di continuo la conoscenza
trasformandola via via in «obbiettivata» senza mai
esaurire tale compito (e siffatto essenziale gravitare
della conoscenza fuori di sé, verso l'elemento non
ancora conosciuto, è già la prova evidente dell'esistenza
della «cosa» indipendente e fuori dal pensiero. Questa
parte «transobbiettiva» è, sì, ontologicamente omogenea
alla parte «obiettivata», è, vale a dire, idealmente,
potenzialmente, conoscibile. Ma, anzitutto, poiché la
«cosa» è infinita, infinita è dunque questa sua parte
«transobbiettiva», o, in altre parole, ogni questione
risolta suscita questioni sempre più profonde e difficili,
sicché si finisce col constatare che l'elemento
«transobbiettivo» ossia sconosciuto, prepondera
immensamente su quello «obbiettivato» ossia
conosciuto, e questo diventa pressoché nulla di fronte a
quello. Ben di più. La illimitata suscettibilità dell'Essere
a diventar «obbiettivato» (oggetto di conoscenza) è
puramente ideale o potenziale; sta, cioè, rispetto a un
supposto intellectus infinitus, non rispetto alla ragione
umana; nell'essenza dell'Essere o della «cosa» non vi
sono limiti alla conoscibilità, ma ve ne sono invece
nell'essenza della conoscenza stessa, umana; e siccome
questa è l'unica conoscenza o ragione esistente ed è
anch'essa Essere, così la limitatezza della conoscibilità
43
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
da psicologica o gnoseologica diventa ontologica: la
parte «transobbiettiva» della cosa nasconde in sé anche
il «transintelligibile», l'eterogeneo alla conoscenza,
l'irrazionale, e «nulla ci garantisce che il mondo
dell'Essere non sia costituito di innumerevoli relazioni
che sono inaccessibili alla conoscenza»30. Negando
dunque lo scetticismo, in tal guisa, la conoscibilità totale
della realtà, esso non può far ciò se non negando il
postulato fondamentale dell'idealismo o filosofia della
«libertà» quello della riduzione della realtà a ragione o
coscienza: non può far ciò, quindi, se non ponendo un
reale fuori della coscienza che questa non può mai
interamente penetrare e risolvere in sé. Insomma, lo
scetticismo ha luogo, non quando l'oggetto sia una
formazione del pensiero, sia lo stesso pensiero; in
questo caso la conoscenza è assoluta; ma quando di
fronte al pensiero e fuori da esso sta l'oggetto, diverso
da esso, che esso apprende a poco a poco, senza esaurire
mai questo compito che, nell'infinità dell'oggetto, è esso
30 N. HARTMANN, o c., p. 197, 216, 299 e s., 266. Anche relativamente al punto
in discussione bisogna riconfermare che non c'è forse libro nella letteratura
filosofica, il quale come questo risponda, con analisi finissime e veramente
esaurienti, a tutte le esigenze suscitate dal problema della conoscenza e dei
rapporti della conoscenza con l'Essere. Quale differenza dalla faciloneria e
dai luoghi comuni dell'idealismo l'unico appunto che si potrebbe fare
all'autore è di aver aspettato la seconda edizione per aggiungere il cap. 33
a, e di non aver già fin dalla prima scorto che il concetto in esso svolto era
un punto capitale per la sua tesi. Quanto poi allo sforzo che esso fa nel cap.
33 d, per sostenere che la sua dottrina non è scetticismo o agnosticismo,
esso si deve alla solita paura accademica che ha ogni filosofo di passare per
scettico, ma non toglie menomamente che (come già si vede dal riassunto
datone sopra) tale dottrina di questo davvero profondo pensatore sia
prettamente scettica.
44
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
stesso infinito. Realismo e scetticismo si congiungono,
dunque, naturalmente: l'una visuale dipende dall'altra,
condiziona e determina l'altra; meglio, sono due faccie
inseparabili della medesima concezione. E a conferma:
quanto più si asserisce l'esistenza, o si accentua
l'importanza, di elementi razionali puri, a priori, della
nostra conoscenza, tanto più si posano i piedi sul terreno
d'un sapere certo (sebbene, in realtà, di mera forma,
vuoto); ma il carattere d'incertezza e di mera opinabilità
del sapere, è una cosa sola col negare l'esistenza degli
elementi razionali puri, apriori della conoscenza, o con
l'abbassarne l'importanza di fronte agli elementi
empirici di essa. L'incertezza della conoscenza è una
conseguenza
della
dipendenza
del
pensiero
31
dall'esperienza , dipendenza che l'esistenza di un reale
esterno ad esso pensiero (cioè la concezione realistica)
ci costringe a riconoscere32.
Ecco, adunque, come «filosofia dell'autorità», «realismo», «scetticismo», siano denominazioni diverse di
31 Cfr., del l. c. del VOLKELT, il capitolo intitolato appunto, significamente per
la questione discussa «die Ungewissheit der Erkennens als Folge der
Abhängigkeit des Denkens von der Erfahrung».
32 «Ceuz qui, de tout temps, ont interrogé la nature à l'aide d'experiences
affirmaient par là implicitamente qu'ils renonçaient à la deduire», «Du fait
qu'il a recours à des experiences, l'homme proclame son incapacité a
pénétrer les choses par l'effort seul de sa raison, c'est à-dire affirme que les
voies de la nature diffèrent de celles de l'ésprit». (MEYERSON, De
l'explication dans les sciences, Parigi 1921, vol. I, p. 225, vol. II p. 349).
Molti altri spunti e argomentazioni collimanti con la tesi suesposta si
potrebbero raccogliere da questo libro. Ed è significante circa la tendenza
della filosofia contemporanea, la coincidenza di pensiero tra Meyerson, N.
Hartmann e chi scrive queste righe, indipendentemente l'uno dall'altro
approdati al binomio irrazionalismo-realismo.
45
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
una concezione unica, o, se si vuole, concezioni che
stanno tra di loro in evidente intima correlazione e
ognuna delle quali trae con sé necessariamente l'altra.
46
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
CAPITOLO III
DALLA LIBERTÀ ALLA
TIRANNIDE
Ma al punto sino al quale (prima di toccare di Schopenhauer) l'abbiamo seguito, il processo del pensiero idealistico prende la seguente direzione.
La Legge e lo Stato, come la morale ed il vero, sono ciò
che vuole la ragione propria di tutti, a quella stessa
guisa che il bello è ciò che piace al gusto proprio di
tutti. Ma potrebbe però darsi che questa ragione propria
di tutti e che è in tutti, in tutti non venisse a galla e alla
luce e non si facesse valere. Potrebbe darsi che in
taluno, pur anche in lui esistendo e facendo udire, per
quanto fievolmente, la sua voce, venisse soffocata da
altri elementi estranei ed esterni al vero io o ragione,
presenti in lui. Potrebbe darsi che essa, pur esistendo,
restasse sepolta sotto la greve mora di questi altri
elementi. Precisamente come, pur essendo il gusto
estetico proprio di tutti, potrebbe darsi che in questo o in
quello o nei più venisse deviato e falsato da elementi
estranei, così da non poter far più ascoltare e obbedire la
propria voce. La ragione di tutti, la cui vita è e ha da
essere libertà, che non ha che da essere libera, su cui
nessuna prescrizione incombe tranne questa (la quale in
realtà non è una prescrizione perché significa: fa quel
47
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
che vuoi tu), tale ragione di tutti, non è sempre quella
che l'uno o l'altro uomo dice e crede essere la sua
ragione e il suo io. Né la volontà di quella ragione è
sempre la volontà che l'uno o l'altro uomo designa come
volontà della sua ragione e del suo io. Quella ragione è
la ragione propria di tutti; che v'è, sì, in tutti, ma che in
questo o quell'uomo potrebbe non venire o non venire
interamente in luce e attività. È, dunque, la ragione che,
quand'anche non sia in tutti in luce e attività, dovrebbe
esservi, dovrebbe venirvi, deve venirvi. Non si tratta di
stabilire che cosa voglia tale ragione propria di tutti,
contando i voti. Precisamente come non si contano i voti
per stabilire che cosa sia vero. Il vero è ciò che è
designato (voluto) come tale dalla ragione propria di
tutti, da quella che dovrebbe o deve essere in tutti se
anche di fatto in molti è oscurata e tace; non da ciò che
questo o quell'uomo dice essere designato come vero
dalla ragione in lui (spesso erroneamente, perché questa
designazione è data in lui talvolta da elementi altri dalla
ragione, e la ragione invece giace in fondo a lui bendata
e imbavagliata). Il vero è determinato dalla ragione in
sé, propria di tutti, sì, sebbene in taluno o in molti possa
giacere sepolta. E poiché tale ragione in sé è appunto la
stessa cosa del vero, ciò è come dire che il vero è
determinato, non dai pareri degli uomini, che costoro
credono dettati dalla ragione in loro e di frequente lo
sono invece non da questa ma da altri fattori che essi
stessi prendono, spesso in buona fede, per ragione; bensì
il vero, ciò che sia vero, è determinato dallo stesso vero:
48
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
vale a dire dall'intima forza di evidenza e dimostrabilità
che esso possiede, cosicché se anche un sol uomo contro
tutti, e persino nessuno, lo scorgesse, rimarrebbe sempre
il vero. «Verum index sui et falsi»; «veritas norma sui et
falsi»33. Così precisamente per quanto riguarda la legge.
Essa è la libera volontà, non già di ciò che questi o
quegli dice e crede essere la ragione in lui, non già
dunque sempre della volontà che si esprime coi voti;
bensì di quella ragione che è di diritto, se non sempre
esplicitamente di fatto, propria di tutti, e che perciò deve
diventar esplicita in tutti quand'anche di fatto non lo sia.
Insomma, alla ragione che è in tutti, alla volontà di tutti,
va sostituita e si sostituisce la ragione di diritto o
idealmente propria di tutti, che dovrebbe e deve essere
propria di tutti: la ragione in sé. La ragione che è (deve
essere) di tutti è la ragione in sé. Alla ragione degli
uomini, va sostituita e si sostituisce la ragione umana,
cioè la ragione.
Quale è ora questa ragione propria di tutti, che deve
diventar di fatto, se anche talora non lo sia, esplicita in
tutti? Che deve diventare in tutti esplicita se anche ora
sia in taluno o nei più così implicita e sepolta da essere
da essi stessi non vista e negata? Quale è questa ragione
vera ragione, questa ragione in sé?
Il modo per determinare quale questa ragione sia è uno
solo ed è necessariamente quello. Semplicissimo.
La ragione e lo spirito e l'io che esprime in me la sua
parola e la sua volontà, è sicuramente la vera ragione, la
33 SPINOZA, Ep. 76, Eth. P. II Prop. 43, Sch.
49
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
ragione in sé, la ragione (che dovrebbe e deve essere)
propria di tutti. Lo so, per l'«evidenza» di cui essa è in
me provvista. Lo so, per il modo luminosamente «chiaro
e distinto» con cui in me si esprime, si palesa, si
dimostra; anche qui, il vero è indice e norma di se stesso
e del falso: pronuncia cioè l'inappellabile sentenza che
quel che c'è in me è esso, è il vero, quel che c'è nell'altro
che da me diverge è il falso. Lo so, perché, potendo
vedermi all'interno, sono sicuro della sincerità, della
spassionatezza, della coscienziosa maturazione che tale
ragione in me possiede. Quindi quelli che nella loro
espressione esteriore di volontà divergono da tale
ragione in me e dalla sua volontà, divergono dalla
ragione e dalla volontà della ragione. Perciò io ho il
diritto di costringerli, perché, costringendoli, li
costringo alla ragione. Anzi costringendoli non li
costringo, non violo la libertà, bensì l'affermo, non
intacco bensì realizzo, la vita di assoluta libertà dello
spirito. Infatti, coloro che divergono dalla ragione in me,
poiché questa è la vera ragione, la ragione in sé, quella
che è propria di tutti, divergono dalla stessa loro
ragione, dalla ragione che è anche nel loro fondo,
sebbene sepolta sotto altri elementi (pregiudizi, errori,
passioni). Costringendoli, io non faccio altro che
liberare la ragione in sé, propria di tutti, che è, benché
oppressa e nascosta, anche in loro, dalla grave mora di
questi elementi e riportarla alla luce. Costringendoli,
libero lo spirito o la ragione in loro; quindi, in quanto
uomini, esseri cioè la cui essenza consiste nello spirito o
50
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
ragione, costringendoli li faccio liberi. Perciò io, ossia la
ragione, io come veicolo di quella che è certamente la
vera ragione, la ragione in sé, (che deve essere e di
diritto è) propria di tutti, ho il diritto di costringere e
appunto costringendo attuo l'assoluta libertà della
ragione.
Così già Fichte34. E così gli odierni ripetitori della sua
dottrina. Quando il Gentile pronunciava la celebre frase:
«qualunque sia l'argomento adoperato, dalla predica al
manganello, la sua efficacia non può essere altra che
quella che sollecita interiormente l'uomo e lo persuade a
consentire: e quale debba essere la natura di questo
argomento non è materia di discussione astratto» – egli
non enunciava già una proposizione casuale, isolata,
occasionale. Enunciava invece la conclusione
pienamente logica e necessaria della sua filosofia, della
«filosofia dello spirito». Nel conflitto scoppiato fra
Croce e Gentile bisogna perciò dar ragione al secondo
in questo limite e senso che la «filosofia dello spirito» è
necessariamente dispotismo. Chi ammette che la
ragione è una, che lo spirito è uno, che c'è una ragione o
spirito assoluti, ossia chi è idealista, deve
necessariamente ammettere la legittimità della
coercizione e del dispotismo, perché coloro che
divergono da quella ragione o spirito che sono uni e
fuori dei quali non c'è altra ragione o spirito (ossia
coloro che divergono dal come in me con «evidenza» e
34
Die Staats lehre, oder über das Verhältnis des Urstaates zum
Vernunftreiche (Dritter Abschnitt).
51
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
«chiarezza» la ragione una si rivela essere), sono fuori
della ragione o dello spirito. Chi non ammette la
legittimità della coercizione e del dispotismo deve (se è
logico) essere antidealista, cioè realista, irrazionalista,
scettico (tre aggettivi che dicono la medesima cosa).
Infatti, l'illegittimità della coercizione e del dispotismo
non può fondarsi se non sul pensiero che non vi è
ragione una, che le ragioni sono non una, ma più, che
non esiste la ragione o lo spirito ma le ragioni e gli
spiriti; e che, essendo queste varie e antitetiche ragioni
tutte con pari diritto ragione; non essendovi mezzo per
stabilire quale tra esse sia la vera ragione, anzi non
esistendo affatto tale prototipo di ragione, tale ragioneragione, tale ragione in secondo grado, ossia non
esistendo la ragione; così nessuna di queste ragioni può
coercire le altre. Siete idealisti? Dovete aderire al
dispotismo e all'Inquisizione. Non vi aderite? Dovete
essere scettici, cioè riconoscere che non esiste la verità,
la ragione, non essere sicuri di essa, dubitare (e questo è
lo scetticismo); se la verità e la ragione esiste, se è
quella che avete in mano, se ne siete sicuri, non potete
[fare] a meno di imporla. Idealismo vuol dire tirannide;
tolleranza vuol dire scetticismo. Invano il Croce, per
allontanare dal suo capo la responsabilità delle
conseguenze del moto intellettuale ch'egli ha iniziato e
suscitato, sostiene ora che essa filosofia dello spirito
non può essere messa in servizio di nessun partito, e, per
conto suo, dà adesione al partito liberale. Questa
contraddice (sia pure come una felix culpa) le
52
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
conseguenze di cui la sua filosofia è pregnante. Le
conseguenze vere ed ovvie di essa sono quelle che ha
ricavato il Gentile: la legittimità, anzi il dovere della
universale e violenta costrizione su tutti i punti in cui i
cittadini non pensano come la ragione in sé giunta al
potere (cioè come la ragione in coloro che detengono il
potere). Filosofia dello spirito è dispotismo. O per
essere più giusti ed esatti essa è o anarchia o dispotismo.
Anarchia, se accentua la cosa così: volere delle ragioni
di tutti. Dispotismo se la accentua così: volere della
ragione (che di diritto è e deve essere anche di fatto)
propria di tutti. Ma, o anarchia o dispotismo, la
«filosofia dello spirito» non è mai né può mai essere la
dottrina dello Stato legale o ordinato, d'una convivenza
politica civile.
Il processo di pensiero dell'idealismo, testé descritto, si
tradusse effettivamente una volta nella realtà politica.
Ciò fu durante la rivoluzione francese, nel periodo
giacobino di essa.
Il Taine, in mirabili pagine35, mette in luce, come lo
spirito e il moto giacobino scaturisse precisamente da
questo punto di partenza; cioè la credenza nella ragione,
nella ragione in sé, nella ragione assoluta, nella ragione
come alcunché di eterno, uno ed universale, propria
dell'uomo-tipo, dell'uomo in generale, dell'uomo uomo,
e che deve quindi diventar propria di tutti: precisamente,
35 Les Origines, etc., L'Ancien Régime L. III. C. III e IV. Non c'è lettura che
possa essere più di quella di quest'opera proficua e degna di meditazione
agli italiani di oggi.
53
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
il pregiudizio che forma il centro del razionalismo,
dell'idealismo, della «filosofia dello spirito» (solo,
relativamente a quest'ultima, se si sostituisce la parola
«spirito» alla parola «ragione» – mutazione di parole,
che, circa il punto qui in discussione, non altera la cosa);
quel pregiudizio che risale alla dottrina di Aristotele,
anzi, sotto diverse mascherature non è che sempre
ancora questa dottrina, la dottrina cioè del ποιοῦν (o
ποιητικὸς νοῦς degli aristotelici) l'intelletto
speculativo o attivo, distinto dall'anima vegetale e
animale e dall'intelletto puramente percettivo o passivo
od empirico (νοῦς παθητικὸς) intelletto attivo che
reca e suscita nell'altro le idee universali, le forme
concettuali eterne e supreme dell'Essere, le categorie,
che è esso stesso eterno, non è prodotto «naturale», non
è «natura», ma proviene «dal di fuori» (θύραθεν) di
questa, non dipende nella sua attività ed esercizio da
alcun organo corporeo, e, esso solo, sopravvive alla
morte del corpo: dottrina di cui, specialmente sotto
l'aspetto datovi da Averroè dell'intellectus agens, come
eterna ragione della specie umana, che non appartiene in
proprio ad alcun soggetto, del quale nemmeno l'anima è
il vero soggetto, che è puro potere senza substrato36, e al
quale solo, non all'individuo, spetta l'immortalità,
(«error indecentior» secondo S. Tommaso), la teoria
idealista contemporanea dello spirito o ragione pura,
36 Cfr. RITTER, Geschichte der christlichen Philosophie. (Amburgo, 1945, vol.
IV, pag. 140): "Unstreitig hat in diesen Sätzen die Lehre des Aristoteles von
der Energie und dem thätigen Verstande ihre Wirksamkeit".
54
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
assoluta, in sé, è l'evidente riproduzione37. Precisamente,
cioè, quel pregiudizio contro il quale, appunto
sopratutto in antitesi al giacobinismo, chi scrive queste
linee in Italia e immediatamente dopo il Rouger in
Francia38, diressero le loro argomentazioni.
«Ciò che noi nell'uomo chiamiamo la ragione (scrive il
Taine, con visuale perfettamente scettica) non è già un
dato innato, primitivo, persistente, ma un'acquisizione
tardiva e un composto fragile». «Essa è uno stato
d'equilibrio instabile, che dipende dallo stato non meno
instabile del cervello, dei nervi, del sangue, dello
stomaco». Ogni più semplice operazione mentale è il
risultato del giuoco d'una meccanica complicatissima di
milioni d'ingranaggi; «se la lancetta segna l'ora a un
dipresso giusta, è per effetto d'una combinazione che è
una sorpresa, per non dire un miracolo, e l'allucinazione,
37 Essa, veramente, risale, non soltanto ad Aristotele, ma ai popoli primitivi.
Nell'Egitto primitivo, precedente al periodo menfita, dominava, la credenza
che l'uomo possedesse, oltre il corpo, un secondo esemplare di questo fatto
di materia meno densa, una sostanza costituente l'essenza della natura
umana (Bai), e inoltre una parcella di fiamma e di luce detta Khou, la
luminosa. Il secondo esemplare del corpo viveva nella tomba. Il Bai andava
nell'«altra terra». Il Khou abbandonava il mondo senza ritorno e si univa
agli dei della luce. (MASPERO, Histoire ancienne de peuples de l'Orient, IV
ed., p. 36). Il Khou è esattamente il Nus poieticos dell'aristotelismo, la
Ragione assoluta o Spirito degli idealisti. – È interessante l'espressione con
cui il Maspero introduce la sua esposizione di questa credenza: «Chex les
Egyptiens, l'homme n'avait pas comme nous un corps et une âme: il avait
d'abord un corps, puis un double etc.». Lo storico non ha intuito che
l'egiziano primitivo, conoscendo la dottrina corrente tra noi, avrebbe detto
con eguale ironia: presso gli Europei l'uomo non ha comme nous un corpo,
un «doppio», un Bai e un Khou, ma, credenza strana!, solo un corpo ed
un'anima.
38 Cfr. specialmente Les Paralogismes du Rationalisme (Alean, 1920).
55
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
il delirio, la monomania, stanno di casa alla nostra porta,
e sono sempre in procinto d'entrare in noi. A rigor di
termini, l'uomo è pazzo, come il corpo è malato, per
natura». E «quanto la ragione è zoppicante nell'uomo,
altrettanto è rara nell'umanità»39. Questo concetto della
ragione come mero prodotto incerto e vario
dell'organismo umano (cioè il concetto dell'esistenza
delle ragioni e non della ragione) è quello che il Taine
oppone al concetto d'una ragione una, tipica, assoluta,
avente nella sua assolutezza in qualche guisa un Essere,
e operante in fondo a tutte le ragioni umane, costituente
l'essenza unica di tutte; concetto che, in forme diverse, è
proprio di tutti gli idealismi.
Ma il perfetto giacobino non la intende. Per lui la
ragione, tipica, una, assoluta, esiste. Essa è quella che è
in lui. La verità, ossia la ragione, dunque si manifesta: e
«il suo diritto è supremo giacché essa è la verità» 40. Da
ciò il fatto (precisa conferma storica della proposizione
dianzi enunciata che anarchia e dispotismo sono le due
alternative all'una o all'altra delle quali l'idealismo mette
necessariamente capo) che il dogma tipico giacobino,
quello della «coscienza della nazione», o della
«sovranità popolare», «interpretato dalla folla produrrà
la perfetta anarchia, fino al momento in cui, interpretato
dai capi, produrrà il perfetto dispotismo»41, e il
giacobino che «testé denunciava il minimo esercizio
dell'autorità pubblica come un delitto, presentemente
39 Ib. ib. p. 311 e seg.
40 L'Ancien Régime, p. 266 e seg.
41 Ib. p. 319.
56
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
punirà come un delitto la minima resistenza all'autorità
pubblica»42. Da ciò il fatto che «caratteristica del
giacobino è il considerarsi come un sovrano legittimo e
il trattare i suoi avversari non da belligeranti, ma da rei.
Essi sono rei di lesa nazione, fuori della legge, buoni da
uccidere in ogni tempo e in ogni luogo, degni del
supplizio, anche quando non sono affatto o non sono più
in stato di nuocere»43. Da ciò il fatto che egli «divide i
francesi in due gruppi: da una parte gli aristocratici, gli
egoisti, insomma, i cattivi cittadini: dall'altra parte i
patriotti, gli uomini virtuosi, cioè la gente della setta.
Niente di più chiaro adesso che l'oggetto del governo. Si
tratta di sottomettere i cattivi ai buoni, o ciò ch'è più
spiccio di sopprimere i cattivi»44.
E infatti, si sopprimono, tanto «legalmente» (con le
«sentenze», dei tribunali rivoluzionari) quanto
«illegalmente» (con le noyades e simili). Non solo, ma
si diffonde sempre più un'atmosfera mentale secondo la
quale siffatte soppressioni o manomissioni sono lecite,
anzi patriottiche. Il principale assassino del fornaio
François «dichiara che ha voluto vendicare la nazione, e
molto probabilmente la sua dichiarazione è sincera;
nella sua mente l'assassinio è una delle forme del
patriottismo, e il suo modo di pensare non tarderà a
prevalere... nessuna opposizione od obbiezione sembra
loro tollerabile... ogni dissenso è un segno sicuro di
42 Le Gouvern. Révol. p. 7.
43 La Conquête Jacobine, XIV ed. p. 266.
44 La Conquéte Jacobine, p. 31.
57
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
tradimento»45; né in ciò i capi sono dissimili dai gregari,
anzi è dai primi che parte l'incitamento: «la plebe
giacobina ha trovato lo stato maggiore che le conviene;
l'uno e l'altra si intenderanno senza difficoltà; perché il
massacro
spontaneo
diventi
un'operazione
amministrativa, i Neroni delle fogne non hanno che da
prendere la parola dai Neroni del Palazzo di Città»46.
Non solo ancora. Ma, naturale conseguenza, sotto le
minaccie del partito dominante le cui turbe si lasciano
invadere le sale di deliberazione, i magistrati sono
costretti ad assolvere gli assassini. «In questo processo,
la Montagna è in causa. Se costoro sono colpevoli
anch'essa lo è. Essa non può tollerare la loro punizione
senza consentire alla sua. Bisogna dunque che essa li
proclami eroi e martiri»47.
Si capisce quindi che non c'è affatto bisogno di
conoscere, mediante la votazione, che cosa voglia
(esattamente creda e dica che la ragione in essa vuole) la
maggioranza. «Si conosce la volontà del popolo e la si
conosce in precedenza; quindi si può agire senza
consultare i cittadini; non si è obbligati ad aspettare il
loro voto. In ogni caso, la loro ratifica è certa; se per
accidente essa mancasse, ciò sarebbe da parte loro
ignoranza, sbaglio o malizia, e allora la loro risposta
meriterebbe d'essere considerata come nulla: quindi, per
precauzione e per evitar loro la cattiva, si farà bene a
45 L'Anarchie, p. 312.
46 La Conquête Jacobine, p. 262.
47 Le Gouvern. Révol., p. 45 ("Minus crimine quam absolutione peccatum
est", SENECA, Ep. XCVII, 3).
58
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
dettar loro la buona»48. Perciò al giacobino «poco
importa la volontà reale dei francesi viventi, il suo
mandato non gli viene da un voto; esso discende da
qualcosa di più alto; gli è conferito dalla Verità, dalla
Ragione, dalla Virtù. Solo illuminato e solo patriota, egli
solo è degno di comandare e il suo orgoglio imperioso
giudica che ogni resistenza è un delitto. Se la
maggioranza protesta è perché è imbecille o corrotta; e
questi due titoli, essa merita di essere domata, e la si
domerà»49. E intanto il presidente dell'Assemblea,
quando questa è giacobina, diventa «il presidente della
nazione»50.
Ma di qui ancora (cioè sempre dal concetto che esiste la
ragione una, assoluta, e che essa, naturalmente si trova
in me) la violentazione o la soppressione delle elezioni.
L'operazione elettorale «intrapresa dal club locale è
stata condotta dal club locale, esso ha battuto a raccolta
intorno allo scrutinio, vi giunge in forza, vi parla alto,
nomina il seggio, fa le mozioni, stende il processo
verbale»; quest'è «il segreto del plebiscito»51. Ovvero
addirittura: «nel governo ordinario, dice finalmente
Couthon, il diritto di eleggere appartiene al popolo, voi
non potete privarnelo. Nel governo straordinario, è dal
centro che devono partire tutti gli impulsi, è dalla
Convenzione che devono venire le elezioni. Voi
nuocereste al popolo affidandogli il diritto di eleggere i
48
49
50
51
La Conquête Jacobine, p. 23.
Le Gouvern. Révol., p. 5.
La Conquête Jacobine, p. 186.
Le Gouvern. Révol., p. 15.
59
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
funzionari pubblici, perché l'esporreste a nominare degli
uomini che lo tradirebbero»52. Quindi le strade e le sale
invase da «ces terribles aboyeurs armés de bons
gourdins noueux longs de deux pieds et qui sont
d'excellents casse-tête»53 «les tape-durs, comme ils
s'appellaient eux-mêmes»54. Quindi il club giacobino
che costringe gli «ufficiali municipali a dare le loro
dimissioni»55 o che «fa sospendere fino a nuovo ordine
le elezioni municipali»56. Quindi la chiusura di quei
circoli costituzionali contro cui si sferra l'ira e l'assalto
dei giacobini («la municipalité fait murer incontinent les
portes du cercle assaillé et lance contre ses membres des
mandats d'arrêt») e la curiosa pratica di mettere in
prigione la gente per difenderla dalle aggressioni
(«quatrevingt membres, meurtris de coups, sont
enfermés, pour leur sûreté, à la citadelle»)57.
Sempre da quel concetto, inoltre, la manomissione
violenta e arbitraria della stampa, come quando una
commissione si presenta a Mallet Dupan e gli intima di
cessare i suoi attacchi «senza di che si eserciterebbero
contro di lui le estreme violenze»; e alla sua risposta che
egli intende obbedire solo alla legge, gli altri replicano:
«voi siete contro la volontà generale. La legge è
l'impero del più forte. Noi vi esprimiamo la volontà
52
53
54
55
56
57
Ib., p. 62.
La Conquête Jacobine, p. 80.
Le Gouverne Révol., p. 48.
Le Conquête Jacobine, p. 53.
Le Gouverne Révol., p. 67.
La Conquête Jacobine, p. 81.
60
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
della nazione e questa è la legge. Voi non dovete
opporvi alla volontà del popolo; altrimenti, è un
predicare la guerra civile e irritare la nazione». Lo si
minaccia «di trattare la sua casa come quella di de
Castries dove tutto era stato frantumato e gettato dalle
finestre»58, tutto ciò giustificando col dire che è naturale
che l'«impazienza dei buoni cittadini faccia loro
prevenire gli ordini legali e che essi non possano
assoggettarsi alle forme lente della giustizia quando è
questione di salvare la patria»59). Sempre da quel
concetto la teoria del «trema, muori o pensa con me» 60,
la teoria del «noi faremo un cimitero della Francia
piuttosto che non rigenerarla a modo nostro»61. Sempre
da quel concetto l'avversione alla cultura, poiché è
chiaro che chi ha già in sé, per intuizione infallibile», la
ragione e la verità, non sappia che fare di «sottigliezze»;
il dilemma di Omar è sempre proprio del perfetto
giacobino; o la cultura asserisce quel che è la (sua)
verità ed è inutile, o vi contraddice ed è falsa e dannosa;
la frase di Coffinhal a Lavoisier che gli chiedeva di
prorogare per alcuni giorni la sua esecuzione capitale
per dargli tempo di finire alcuni esperimenti: «la
repubblica non ha bisogno di scienziati»62, è il simbolo e
l'espressione eterna di ciò che pensa il giacobinismo
della cultura. E, concomitantemente a ciò, la gente nulla
58
59
60
61
62
La Conquête Jacobine, p. 51.
Ib., p. 160.
Id., p. 53.
Le Gouverne Révol., p. 276.
Ib., p. 459.
61
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
o discreditata, Desmouline, Loutstolat, Brissot, ecc.,
balzata improvvisamente ai primi posti63; quel fatto
cioè, comune a tutte le situazioni analoghe, che
Cicerone prevedeva così bene in quella, simigliante, che
gli stava dinanzi («turpissimorum honores»)64, e che da
Catullo strappava l'accento di profondo sconforto:
Quid est, Catulle? quid moraris emori?
Sella in curuli struma Nonius sedet:
Per consulatum peierat Vatinius;
Quid est, Catulle? quid moraris emori?65.
Ancora, per conseguenza, l'illusione, tipica del
giacobinismo, di iniziare l'êra nuova e definitiva della
vita dell'umanità. «All'avvicinarsi del 1789 è pacifico
che si vive nel secolo dei lumi, nell'età della ragione,
che precedentemente il genere umano era nell'infanzia,
che oggi è diventato maggiorenne. Finalmente la verità
si è manifestata, e, per la prima volta, si sta per vedere il
suo regno sulla terra». «Tutti unanimi in ciò che la
tradizione è il nemico». E Barrère scrive: «Voi siete
chiamati a ricominciare la storia»66. Da ultimo, sempre
da quel concetto che la ragione una ed assoluta esiste e
che essa è in me, la teoria giacobina dello Stato:
costruzione concettuale d'un tipo umano, «sforzo per
adattarvi l'individuo vivente, ingerenza dell'autorità
pubblica in tutte le sfere della vita privata, costrizione
63
64
65
66
L'Anarchie, p. 118 e s.
Ad. Att. X, 8.
C. 52.
L'Ancien Régime, p. 266, 282, 303.
62
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
esercitata sulla religione, sui costumi e i sentimenti,
sacrificio del privato alla comunità, onnipotenza dello
Stato, tale è la concezione giacobina»67.
Siffatta concezione, e, in generale, siffatta pratica
politica, deriva necessariamente, come s'è mostrato,
dalla credenza nella ragione o spirito uno, proprio di
tutti, che deve essere in tutti, che è assolutamente libero,
naturalmente in quanto in sé, il che significa in quanto
nel suo in sé si rivela in me; e che io ho dunque il diritto
e il dovere di imporre agli altri, senza lesione, anzi con
rivendicazione, della libertà di esso spirito in loro. Tale
credenza stava davanti ai giacobini nella formulazione
datavi da Cartesio e da Rousseau, la proposizione del
quale, che il sovrano (ossia, per lui, il popolo) non può
obbligarsi, perché per obbligarsi occorre avere di fronte
l'altro con cui si stringe il patto, altro che qui non c'è,
essendo il sovrano (il popolo) la totalità, sicché, non
potendo egli obbligarsi contrattualmente verso se stesso,
non può nemmeno esistere alcuna legge fondamentale
(costituzione, statuto) regolatrice o limitatrice del suo
potere, che egli sia tenuto ad osservare68, tale
proposizione costituiva precisamente il punto di
trapasso dalla «ragione e volontà di tutti» come libertà
alla «ragione e volontà di tutti» come tirannide, e in
mano quindi del giacobino, che è colui nel quale,
s'intende, parla la ragione e la volontà (che deve essere)
propria di tutti, del giacobino, che è quindi colui che,
67 Le Gouvern. Révol., p. 120.
68 Du Contrat social, L. I., C. VII
63
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
s'intende, impersona la vera volontà di tutti, la vera
«coscienza nazionale» (quand'anche questa, negli altri,
per errata interpretazione che essi fanno della loro stessa
profonda volontà e ragione, si esprima diversamente)
conduce alla conseguenza che «in luogo della mia
volontà, v'è ormai la volontà pubblica, ossia, in fatto, la
rigida arbitrarietà dell'individuo che detiene il potere
pubblico»69. Tali effetti pratici produceva all'epoca
giacobina quella teoria nella sua formulazione
cartesiana-roussoviana. Non perché essa prenda la
formulazione datavi da Kant e da Fichte (o dai loro
ripetitori contemporanei) può produrre risultati concreti
diversi. Essa finisce sempre necessariamente per
formare quello stato di mente che asserisce: ciò che io
penso è la verità, son certo che è la verità; ciò che
penso, dunque, poiché è la verità, deve
intransigentemente, intollerantemente, a costo d'ogni
violenza, attuarsi. Ogni volta che è presente una tale
mentalità (qualunque sia la definizione e il linguaggio
con cui si ammanta), prodotto inevitabile del
razionalismo o idealismo, si è in presenza d'una
mentalità giacobina»70.
69 TAINE, La Conquête Jacobine, p. 327.
70 Che Tocqueville ironizzava con queste parole, sempre di attualità: "La
république, suivant quelques uns d'entre nous, ce n'est pas le règne de la
majorité, comme on la cru jusq'ici, c'est le règne de ceux qui se portent
forts pour la majorité. Ce n'est pas le peuple qui dirige dans ces sorts de
gouvernements, mais ceux qui savent le plus gran bien du peuple:
distinction heureuse, qui permet d'agir au nom des nations sans le consulter,
et de réclamer leur reconnaissance en les foulant aux pieds... On avait
pensé, jusq'à nous, que le despotisme était odieux, quelles que fussent ses
formes. Mais on a decouvert de nos jours qu'il y avait dans le monde des
64
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
Lo Stato «etico» od «organico», quindi, che viene
opposto allo Stato «agnostico», lo Stato «etico», od
«organico» che ha appunto la missione di far penetrare
nelle coscienze l'eticità (quella che come «verum index
sui et falsi» si svela per tale nella mente di chi così
predica); lo Stato che vuol dare alle generazioni una
«forma mentis», quella che corrisponde alla ragione o
spirito in sé, alla ragione o spirito cioè che con
irrecusabile «evidenza» e certezza si dimostra essere in
sé in coloro che lo propugnano – tale Stato è nient'altro
che lo Stato giacobino. Quando si insorge contro la
concezione politica della rivoluzione francese e si
pretende di avere, mediante lo Stato «etico», od
«organico» fondata una concezione politica opposta, di
solenne importanza storica, che si sostituirà a quella, si
cade, ingannati dalla parola con cui ci si è ai propri
stessi occhi mascherata tale concezione, in un abbaglio
incredibile, si dimostra di essersi resi ciechi al fatto
evidente che siffatta concezione è, invece, quella stessa
dominante nella rivoluzione francese: è, vale a dire, la
riproduzione esatta dello Stato giacobino. «Volontà del
popolo», «volontà generale», «coscienza nazionale»,
«nazione», sono appunto i principî o miti tipici del
giacobinismo. E quando si illustra la concezione dello
Stato «etico» o «organico» dicendo che si tratta di
affermare la superiorità dell'organicità statale sulla
disintegrazione molecolare individualistica propria dello
tyrannies légitimes et de saintes injustices, pourvu qu'on les exerçât au nom
du peuple» (De la Democratie en Amérique, Parigi, Pagnerre, 1848, vol. II,
p. 385-6).
65
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
Stato «agnostico», ossia, in sostanza, di stabilire che
piuttosto l'individuo è per la totalità e per lo Stato
(patria, nazione), anziché lo Stato per l'individuo, non si
fa altro se non ripetere precisamente quel che voleva
Rousseau, il grande evangelista della rivoluzione
francese: «Les bonnes institutions sociales sont celles
qui savent le mieux dénaturer l'homme, lui ôter son
existence absolue pour lui en donner une relative, et
transporter le moi dans l'unité commune; en sorte que
chaque particulier ne se croie plus un, mais partie de
l'unité, et ne soit plus sensible que dans le tout»71.
Quindi non si fa altro se non-continuare l'opera di
Robespierre, che egli enunciava così: «Tutto ciò che
tende a concentrare le passioni umane nell'abbiezione
dell'io personale dev'essere respinto e represso»72.
71 Émile, L. I (ed. Nelson, vol. I pag. 30).
72 TAINE, Le Gouvern. Révol., p. 105.
66
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
CAPITOLO IV
DALL'AUTORITÀ ALLA LIBERTÀ
Opposto è il percorso, che, del pari per necessaria
conseguenza delle sue premesse, segue la «filosofia
dell'autorità».
La «filosofia dello spirito», dice: esiste una ragione una,
in sé, assoluta, propria di tutti e che deve essere quindi
in tutti; io la posseggo; dunque ho il diritto e il dovere di
imporla.
Perciò, la «filosofia dello spirito», trapassando in
politica, diventa sempre necessariamente la politica che
si vide in azione nell'epoca giacobina della rivoluzione
francese, la politica cioè che pretende estendere il suo
imperio illimitatamente e su tutti i campi, appunti cioè
su tutta la sfera dello spirito, perché, dato il punto di
partenza, tutta questa è legittimamente e di diritto a sua
esclusiva disposizione: dal modo di vestire e salutare
alla religione da insegnarsi e da professarsi; dal partito a
cui bisogna appartenere per essere retti («patrioti»,
«nazionali») alle associazioni, anche innocue, cui
appartenere non si può, a quello che, pur non vietando la
legge, si può scrivere o dire. Ossia, per necessaria
conseguenza del suo punto di partenza speculativo, la
«filosofia dello spirito», diventa sul terreno politico
quello che si chiama propriamente dispotismo,
dispotismo terribile ed implacabile, come fu appunto il
67
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
giacobismo73.
La «filosofia dell'autorità» dice al contrario: non c'è una
ragione una, non c'è la ragione; vi sono invece tante
ragioni più, che tutte sono, col medesimo diritto,
ragione. Nel conflitto tra di esse non può decidere la
ragione perché tutte sono ugualmente ragioni. Non può
decidere che un fatto extrarazionale, come la forza o la
mera autorità, la quale ha dunque, in tale concezione, il
medesimo significato e la medesima importanza
dell'estrazione a sorte cui può essere necessario ricorrere
per decidere su punti circa i quali nessun argomento o
motivo razionale indica una piuttosto che l'altra
soluzione. Ma appunto perché questa concezione
implica (perfettamente al contrario di quel che ha luogo
nella «filosofia dello spirito») la consapevolezza che la
ragione che si impone non è già più ragione di quel che
lo sia la ragione che l'imposizione subisce, ne deriva che
in tale concezione l'imposizione e la forza viene limitata
ai soli pochissimi punti essenziali e in tutto il resto
esercitata la massima tolleranza. Impongo – dice questa
concezione – non perché io possegga la ragione in sé e
avrei diritto d'imporre. Impongo unicamente perché,
dovendosi alla fine uscire dalla discussione e passare
all'azione, bisogna che una delle due opposte visuali,
per ciascuna delle quali militano pur sempre ragioni,
ciascuna delle quali pure la ragione suffraga, trapassi nei
fatti. Impongo dunque solo per la disgraziata necessità
73 «L'intolérance, d'abord théorique, puis pratique, dérive de la foi a l'absolu
sous ses diverses formes» (GUYAU, L'Irreligion de l'Avenir, II ed. pag. III).
68
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
che essendo le ragioni più, esse non possono decidere,
che non v'è la ragione che possa emanare la sentenza
legittima. Impongo, consapevole che la mia non è già la
ragione, vale a dire la ragione in sé, assoluta, e l'altra
una contraffazione, simulazione o falsificazione della
ragione. Impongo, insomma, consapevole che potrei
aver torto. Perciò, onde espormi il meno possibile ad
imporre ciò che non ha nessun diritto a dirsi la ragione,
restringo quanto posso, restringo ai soli punti
fondamentalissimi ed essenziali della vita politica, la
sfera dell'imposizione. Per tutto il resto, appunto perché
sono conscia di non aver in pugno la ragione, lascio alle
varie ragioni diverse libero giuoco.
Perciò la concezione statale della «filosofia
dell'autorità» è, essa sì veramente, l'antitesi di quella
della rivoluzione francese; il suo Stato l'antitesi dello
Stato giacobino (o «etico» o «organico»), che è poi
anche quello dell'Inquisizione medioevale, quello cioè
sempre necessariamente proprio, sotto queste diverse
denominazioni, della «filosofia dello spirito», della
filosofia, cioè, che afferma l'esistenza d'una ragione o
spirito uno ed in sé, assoluto, universale, il quale è
implicitamente e di diritto, e deve diventare
esplicitamente e di fatto, comune a tutti. Lo Stato,
invece, della «filosofia dell'autorità» è lo Stato che,
fermo, saldissimo e risoluto in quello che impera, pone
però da sé a se stesso limiti assai circoscritti a questa
sfera del suo imperio, e la restringe a ciò che è
assolutamente imprescindibile all'esistenza della
69
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
compagine civile e politica. Lo Stato il quale, conscio
che non esiste ragione una, spirito uno, assoluto, che
come tale quindi sia quello che deve esistere in tutti, che
perciò un uomo, sicuro di possederlo, abbia diritto di
imporre agli altri; conscio invece che la ragione è non
una ma più, che esistono più ragioni ciascuna delle quali
è ragione con la medesima legittimità dell'altra;
ponendosi su tale terreno realista, o irrazionalista, o
scettico, partendo dal quale soltanto è possibile
approdare nel campo politico pratico a queste
conclusioni; capisce che l'azione e l'autorità dello Stato
deve essere limitata alle poche cose essenzialissime alla
convivenza sociale, e per tutto il resto, poiché sa che
non c'è ragione una, che non c'è la ragione, che esso non
ne è in apodittico e sovrano possesso – per questi motivi
pei quali cadde l'Inquisizione – lascia spazio alla libera
azione individuale e al nonconformismo74. È perciò lo
Stato che, appunto in contrapposizione allo Stato
giacobino, maestrevolmente delinea il Taine75, lo Stato
che emerge dalle considerazioni del Mill nel libretto On
Liberty; lo Stato di cui W. v. Humboldt, nel suo celebre
volume, ha segnato le funzioni e i confini. È lo Stato
limitato, sì, nella sua sfera d'azione, ma che nell'interno
di questa è tutt'altro che «agnostico», se agnostico vuol
dire imbelle, e che anzi, appunto perché consapevole di
74 «E giudicava che dalla misura assoluta della singolarità possibile a trovarsi
nelle persone di un luogo o di un tempo qualsivoglia, si possa conoscere la
misura della civiltà degli uomini del medesimo tempo e luogo». (LEOPARDI,
Detti Mem. di Filippo Ottonieri, C. I.).
75 Le Gouvernem. Révol, L. II, C. II.
70
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
sé e dei suoi limiti, consapevole dell'inesistenza della
ragione in sé ed assoluta, consapevole dei limiti della
ragione, sa tenere ogni ragione (ogni visuale, ogni
partito), nei limiti di tale consapevolezza, impedire cioè
che si arroghi la funzione di ragione assoluta e faccia
quindi suo libito dello Stato – il che equivale a dire sa
difendere la propria concezione dei limiti del potere,
ossia se stesso.
Di qui l'apprezzamento, così esatto e misurato in entrambe le direzioni da escludere con tutta precisione tanto il troppo quanto il troppo poco, che la filosofia dell'autorità è in grado di fare del principio della maggioranza.
Si vide che la filosofia dello spirito è filosofia della
libertà nel senso che essa asserisce che l'io o la ragione
ricava e svolge, e deve ricavare e svolgere, unicamente
dal suo proprio fondo, senza essere determinata e
dipendente da nulla di esterno a sé, ossia di empirico. In
una parola, la «filosofia dello spirito» è filosofia della
libertà unicamente in quanto è razionalismo assoluto
(cioè per essa la ragione è assolutamente indipendente
dai dati empirici, sovrana su questi). Ma si vide anche
come, proprio perché è ciò, essa vada necessariamente a
sboccare nel dispotismo.
Si vide pure che la filosofia dell'autorità è tale
sostanzialmente nel senso che essa è antirazionalismo,
anziché razionalismo. Nel senso cioè che essa dice: la
ragione od io prende e deve prendere ogni suo
contenuto dal di fuori di sé, dal campo empirico:
71
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
anziché possedere rispetto a questo quell'assoluta
indipendenza da esso, in cui consiste la «libertà» per la
«filosofia dello spirito», è da esso totalmente
dipendente; il fatto esteriore, empirico, la domina e la
dirige e deve dominarla e dirigerla; senza questo e la sua
guida essa non approda a nulla, nulla ricava dal suo solo
fondo, anzi non è nulla.
Mentre, insomma, la filosofia della libertà diviene
effettivamente la dottrina della violenza bruta e
dell'oppressione capricciosa, la filosofia dell'autorità
non intende, con quest'ultima parola, autorità d'un uomo
o d'un partito (che in questo caso si tratterebbe ancora di
libertà, cioè della sua libertà, del suo capriccio), ma
intende principalmente autorità obbiettiva, del fatto
esteriore naturale e sociale, che s'impone all'uomo e alla
sua ragione.
Ora tra i fatti empirici esteriori da cui la filosofia, che
perciò si chiama dell'autorità, non può non riconoscere
che la ragione dev'essere dominata e diretta, c'è anche il
fatto, puro fatto empirico e non razionale, del parere,
della volontà, degli istinti, delle consuetudini della
maggioranza; tra gli altri, questi puri fatti empirici ed
extrarazionali devono, per la filosofia dell'autorità,
diventar dominanti sulla pretesa «pura» ragione, essere
da questa tenuti in conto, guidarla e determinarla76.
Ma, nel medesimo tempo, la filosofia dell'autorità
76 Anche a questo riguardo sono assai istruttive, le considerazioni per le quali
il TAINE (L'Ancien Régime, p. 270 e s.) oppone alla "ragione" dei giacobini
che pretende, attingendo unicamente da sé, di creare il novus ordo, le
formazioni storiche, il "pregiudizio ereditario", la tradizione, il costume.
72
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
scorge i limiti di questo principio della maggioranza. Li
scorge appunto perché essa non è razionalismo, e questo
principio non rappresenta affatto per essa (come per la
dottrina democratica) un principio di ragione pura,
assoluta, un principio «razionale». Invece, detto
principio non è per essa che un espediente empirico, un
mero fatto, e precisamente un fatto di forza (forza cui si
è dato convenzionalmente un'espressione civile in
sostituzione di quella brutale) onde chiudere lo scambio
oramai inutile, perché senza fine, delle ragioni, con la
decisione di fare quel che sancisce la maggioranza, non
già perché questa sia più nel giusto o nella «razionalità»
della minoranza (molte volte si vede poi che la cosa sta
all'opposto), ma semplicemente perché si presume che
da parte della maggioranza stia la prevalente forza
materiale, che essa quindi avrebbe il sopravvento nella
lotta fisica la quale affinché si possa passare dalla
discussione all'effettuazione, dovrebbe conchiudere lo
scambio interminabile degli argomenti a pro dell'uno e
dell'altro divisamento77. Ma appunto quando il principio
della maggioranza viene così ravvisato (a differenza che
nelle dottrine democratiche) non già come un principio
assoluto e «razionale», ma come un semplice fatto e un
espediente empirico, si è anche in grado di scorgerne e
fissarne i limiti. Si acquista allora la consapevolezza che
vi sono sfere (p. e. la religione, il pensiero, la libertà di
locomozione e domicilio, ecc.) in cui alla volontà della
maggioranza, e nemmeno dell'unanimità meno uno, è
77 Cfr. RENSI, La Filosofia dell'Autorità, p. 118 e s.
73
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
lecito imporsi, e che uno Stato è veramente autorevole e
civile precisamente solo quando sa rintuzzare ogni
pretesa della maggioranza di far valere la sua volontà
sopra l'individuo nell'ambito di queste sfere. Alla luce di
questa concezione realistica del principio di
maggioranza il più esatto criterio del limite da porsi a
questo è forse quello del Popper; «per i bisogni
secondari, il principio della maggioranza; per i bisogni
fondamentali, il principio dell'individualità garantita»78:
criterio che forse si potrebbe precisar meglio così: per i
bisogni fondamentali rispetto alla vita spirituale
dell'individuo e secondari rispetto all'esistenza politicaeconomica dello Stato, il principio dell'individualità
garantita; per i bisogni fondamentali dal secondo punto
di vista e secondari dal primo, il principio di
maggioranza.
Un'analoga visuale reca la filosofia dell'autorità nel
problema della libertà. Essa scorge benissimo la
contraddittorietà e l'astrazione che v'è nell'idea di
libertà, se questa si tiene presente e si reclama come
principio avente carattere di assolutezza, totalità,
universalità: ciò da un lato perché libertà vuol dir
sempre potere da esercitare, quindi azione su altri,
dominio, sicché nella sua assolutezza, essa diventa
tirannide79; dall'altro lato perché la libertà in generale è
insignificante, vuota, irreale, impossibile e solo è
significante la libertà di qualche cosa e da qualche cosa.
78 Fundament eines neuen Staatsrechts (1905).
79 Cfr. RENSI, Principi di politica impopolare (Bologna, Zanichelli p. 121 e
s.).
74
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
Ma accanto a ciò essa scorge altresì che bene ha un
senso richiedere, non la libertà in astratto e in generale,
ma determinate libertà in concreto, non la libertà, ma le
libertà, ossia poteri, facoltà; e che, come la libertà è
irreale e impossibile, così le libertà sono ineliminabili
da un consorzio umano (come pure scorge che molte
volte la richiesta, apparentemente astratta, della libertà
in generale, non significa se non la richiesta d'una certa
libertà concreta). Respingendo ogni astrazione,
rifiutando ogni ossequio a pretesi «immortali principî»
astratti, la filosofia realistica dell'autorità avverte però
chiaramente che uno Stato civile non può quindi, per
essere «organico» e non «atomistico», menomare o
lasciare indifesi poteri o facoltà concrete dell'individuo,
quali l'inviolabilità del domicilio, l'integrità personale,
la libertà di locomozione, di residenza, di espressione
del pensiero, l'habeas corpus. Anzi uno Stato che vuol
essere «organico» deve proteggere con somma cura e
inflessibilità siffatti diritti degli individui, non perché
sono degli individui, ma perché sono il diritto, quel
diritto la cui costruzione obbiettiva è appunto parte
essenziale dello Stato «organico». Il carattere
«organico» dello Stato non ha senso che in ciò: nel far
rispettare rigorosamente da tutti, anche dai più potenti
partiti, anche dalla maggioranza che non lo volesse,
anche dalla unanimità meno e contro uno, il diritto
perché è diritto, il diritto che è sempre di individui
viventi; altrimenti c'è non già «organicità», ma
disorganizzazione dello Stato. In sostanza, il pensiero
75
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
d'una filosofia dell'autorità su questo punto non può
essere dissimile da quello che il più grande teorico del
conservatorismo prussiano, lo Stahl, difendendo dagli
attacchi dei liberali l'opera in senso conservatore che
egli aveva svolto alla Camera prussiana dopo il 1848,
esprimeva così: «Io e i miei amici ci siamo opposti al
ripetuto sforzo di instaurare per via legislativa una
forma di governo assoluto e abbiamo sempre guarentiti i
diritti di rappresentanza territoriale compatibili con la
monarchia. L'infrangibile diritto della persona e la
libertà di pensiero e di moto spirituale non è meno il
nostro fine di quello che sia per il partito liberale. Il
governo arbitrario, l'assolutismo, la sottoposizione
mediante forze meccaniche non è, perciò, veramente il
nostro ideale e nemmeno il nostro interesse. Noi, per di
più, non abbiamo niente di comune col consiglio di
ristabilire l'ordine e la possibilità del governo (o forse
solo la comodità del suo esercizio) mediante atti di forza
e violazione della legge e del giuramento; niente di
comune con l'eccessivo lealismo, secondo il quale tanto
maggiore è la correttezza politica, quanto più completa
la rinnegazione di tutto ciò per cui da un secolo si lottò
come libertà e bene... Colpa dell'autorità è anche, in
grado non minore, trascorrere oltre la legge e il
giuramento; in luogo della via della legalità prescritta da
Dio, la quale richiede pazienza e persistenza, battere,
scegliendola di propria testa, la via della violenza, o
sfruttare per i propri capricci o fini particolari l'ufficio
76
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
consacrato al bene pubblico»80. Così pensa una filosofia
politica che caldeggia un'autorità solida e duratura, e,
appunto per ciò, la vuole non capricciosa, arbitraria e
avventata, ma assennata e misurata.
Infine, una soluzione analoga, cioè rispettosa
ugualmente delle opposte esigenze, è in grado di
arrecare la filosofia realistica dell'autorità alla questione
dell'elettorato. Il quale non ha per essa (come per le
dottrine democratiche) alcun titolo o particolare
privilegio di «razionalità» per dover essere l'unica fonte
del potere. Quella filosofia, invece, pensa che accanto
ad esso, e precisamente per togliere la sua onnipotenza o
anche solo la sua eccessiva potenza, altre fonti di potere
(come l'eredità o il possesso di determinate funzioni o
attività sociali, tra le quali forse la proprietà) vi debbono
essere81. Ma non per questo essa ritiene che l'elettorato
non debba anch'esso essere una delle fonti del potere,
accanto alle altre, nè può quindi opinare che esso debba
essere soppresso o ridotto a un'irrisione, poiché con ciò
(come emergerà da considerazioni che seguiranno) ne
scapita precisamente la forza, ossia l'autorità, dello
Stato. Su questa questione una filosofia realistica
dell'autorità può fare interamente proprio il pensiero di
S. Tommaso, che giova richiamare nella sua genuinità, e
che è questo: «Circa bonam ordinationem principum in
80 FR. J. STAHL, Die Philosophie des Rechts, II B. Rechts-und Staatslehre auf
der Grundlage christlicher Weltanschauung, II Abt. Die Staatslehre und
die Principien des Staatsrechts (v. ed., 1878, p. VIII).
81 Cfr. RENSI, Teoria e pratica della reazione politica (Milano, 1922, pag.
121-2, ma anche pag. 124 e s.).
77
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
aliqua civitate vel gente, duo sunt attendenda. Quorum
unum est, ut omnes aliquam partem habeant in
principatu; per hoc enim conservatur pax populi et
omnes talem ordinationem amant et custodiunt. Unde
optima ordinatio principum est in aliqua civitate vel
regno, in quo unus praeficitur secundum virtutem, qui
omnibus praesit, et sub ipso sunt aliqui principantes
secundum virtutem, et tamen talis principatus ad omnes
pertinet, tum quia ex omnibus eligi possunt, tum quia
etiam ab omnibus eliguntur. Talis vero est omnis politia
bene commixta ex regno, inquantum unus praeest et
aristocratia inquantum multi principantur secundum
virtutem, et ex democratia, idest potestate populi,
inquantum ex popularibus possunt eligi principes, et ad
populum pertinet electio principum; et hoc fuit
institutum secundum legem divinam»82. V'è qui, in
queste parole di S. Tommaso, una precisa delineazione
d'un perfetto sistema di governo misto, la
determinazione della funzione dell'elettorato in esse, e
l'indicazione del motivo fondamentale che richiede tale
compartecipazione mista e in forma e grado diverso di
tutti al potere: il motivo della forza che da tale
universale compartecipazione viene allo Stato, motivo
che, come fra un momento diremo, Spinoza fu quegli
che mise con maggior vigore in piena luce.
Resta alla filosofia dell'autorità di cercar di stabilire
come si possa distinguere la forza che genera il diritto,
82 Summa Theol. Prima secundae, Qu. 105, art. 1°; nell'ediz. di Leone XIII,
vol. II, p. 789.
78
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
da quella che non lo genera, la forza giuridica
dall'antigiuridica. Poiché è chiaro che v'è una forza (p.
e. quella del rapinatore) che nessuno può pensare come
fondatrice d'una situazione di diritto.
Questo esame ci permetterà di precisare e circoscrivere
la concezione sin qui svolta.
In via preliminare va osservato che se, come si disse,
non c'è cosa, la quale mediante la persecuzione
costantemente applicata per generazioni, non possa
diventar oggetto di spontaneo rispetto e venerazione,
non giova a chi possiede ed usa la forza trascurare una
distinzione essenziale. Fuor d'ogni cavillo, la distinzione
è chiara. Vi sono soluzioni o disposizioni le quali
fuoriescono completamente dalla sfera della ragione
(poniamo 2 + 2 = 5, o l'obbligo di salutare il cappello di
Gessler infisso ad un palo); vi sono invece altre
soluzioni, le quali, pur essendo antitetiche tra di loro,
trovano tutte sede nel campo della ragione, la ragione
cioè non riesce ad espungerne definitivamente una, la
ragione fornisce di continuo ragioni per tutte (poniamo,
monarchia o repubblica; collettivismo o industria
privata, ecc.). Quest'ultimo è appunto il campo, in cui,
non essendo la ragione capace di decidere, utilmente,
anzi necessariamente, interviene la forza ed opera essa
la scelta; e in questo caso la forza è generatrice di
diritto. Ma se la forza, invece, pretendesse imporre
qualcuna delle cose del primo tipo, una soluzione o
disposizione che fuoriesce del tutto dalla sfera della
ragione, vi riuscirebbe, sì, per un certo tempo. Però
79
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
poiché la ragione non può essere definitivamente posta
in silenzio: poiché non ostante ogni repressione essa,
presto o tardi, mette in opera la sua lima roditrice; così
sotto l'azione incessante di questa, a poco a poco le
costruzioni di forza, fondate fuori da quella raggiera di
soluzioni, tutte, per quanto opposte, giustificabili
dinanzi alla ragione, e fondate invece su ciò che è con
questa in incolmabile contrasto, finiscono per andare in
rovina83. Qui la forza, invece di fondare il diritto,
pretende di fondare l'assurdo, e in questa pretesa
distrugge se stessa. L'insuccesso del tentativo, pur
poderosamente condotto, dei poteri pubblici medioevali
per obbligare il mondo a rimaner fermo nella credenza
alla religione cattolica, può servire di prova.
Ma inoltre. La dottrina dell'autorità asserisce che non
esiste il diritto o la morale, bensì più sistemi contrastanti
ed ugualmente valevoli (ugualmente giustificabili di
fronte alla ragione) di diritto e di morale, dei quali
diventa il diritto o la morale quello che è suffulto da
maggior forza. Si deve dunque anzitutto trattare d'un
sistema di diritto o di morale, d'una concezione di diritto
o di morale, vale a dire concezione d'un complesso di
norme o di pratiche o di idealità con le quali regolare la
condotta umana nel suo insieme, concezione che risulti
tale, che risulti cioè di diritto o di morale, a coloro stessi
che la impongono, e che possa dimostrarsi o
giustificarsi tale davanti alla ragione, (vale a dire che
appartenga alle πιθανά o probabilia della Scettica
83 Cfr. RENSI, Teoria e pratica, ecc. p. 251 e seg.
80
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
accademica). Resta quindi negata la giuridicità o il
carattere di genetratrice di diritto alla forza di origine e
fini individuali e personali (sia d'un uomo sia d'un
partito), alla forza, anche spiegata nel campo politico, in
quanto o per quel tanto che essa sia, non già
disinteressatamente diretta ad instaurare un sistema di
diritto o di morale, ma semplicemente ad effettuare o
consolidare la conquista del potere in mano d'un uomo o
d'alcuni uomini e ad assicurare lo sfruttamento dei
vantaggi personali che da ciò derivano; e resta, nel
medesimo tempo, negato quel carattere alla forza che,
come sistema di diritto, pretenda imporre degli
ἀπιθανά, principii o pratiche in palese contrasto con i
bisogni, le tendenze, le opinioni d'un determinato
momento storico, visuali capricciose e personali, in
piena contraddizione con le condizioni generali e che
appaiono assurde al maggior numero delle ragioni.
Forza, spiegata nel campo politico, è tanto quella di
Washington e di Cromwell, quanto quella di Gessler, di
Cesare Borgia o dei Giacobini negli episodi che
abbiamo sopra ricordati. Ma forza generatrice di diritto,
perché provvista del carattere testé indicato, è solo la
prima. E da ciò deriva altresì la possibilità di
determinare l'aspetto esteriore che presenta la forza
suscettibile di generare ciò che è diritto e non capriccio
od arbitrio. Essa, cioè, come forza ordinata a servizio di
un sistema di idee, ossia di un sistema di morale o di
diritto, non è mai forza di parte (come quella dei clubs
giacobini nel periodo rispettivo della rivoluzione
81
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
francese), ma forza che emana dalla stessa complessiva
struttura politico-sociale, e quindi che è per gran parte
costituita, come si disse, dall'adesione a quel sistema di
idee della grande maggioranza del gruppo sociale in
questione.
Tutti questi caratteri distintivi di ciò che, pur generato
dalla forza, è diritto, in confronto di ciò che è mero
arbitrio, si concentrano forse nella formula dello
Stammler. Il quale dopo aver constatato che il diritto è
coazione («Zwangsbefehl»), quindi atto di forza, si
preoccupa appunto di vedere come si distingua dagli
altri comandi coattivi quello che è «diritto», quali note
dunque rendano possibile di separare il «diritto» dagli
atti d'arbitrio soggettivi. La sua soluzione è la seguente.
Siamo in presenza del mero arbitrio, e quindi di una
forza bruta, quando colui che emana la prescrizione
«non considera questa come una norma che debba
obbiettivamente vincolare le relazioni degli uomini, ma
piuttosto vi dà il significato d'un soggettivo
appagamento dei desiderii del detentore del potere
mediante il vincolo imposto solamente agli altri». Siamo
invece in presenza di diritto «quando quegli stesso che
comanda vuole essere vincolato dalla regola da lui
emanata;... allorché chi comanda non è vincolato, si
tratta di bruta forza d'arbitrio; non c'è un comando che
abbia validità inviolabile e quindi non c'è diritto. Colui
che comanda deve essere anch'egli vincolato al
comando; finché questo sta per i sottoposti, deve stare
anche per coloro che comandano». In siffatto carattere,
82
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
che egli chiama «il concetto dell'inviolabilità»
(«Unverletzbarkeit»), lo Stammler trova la nota che
distingue quel comando di forza che è diritto da quello
che è semplice violenza bruta84. E il pensiero è
sostanzialmente giusto, e, debitamente interpretato e
allargato, permette in realtà di operare efficacemente
tale distinzione nei casi concreti che la vita socialepolitica presenta. Si tratta in fondo del criterio
dell'uguale applicabilità a tutti di ciò che (pur essendo
prodotto e ingiunzione di forza) è però pensabile come
alcunché d'essenzialmente diverso dalle ingiunzioni, per
es. d'un Passatore, e come invece appartenente alla sfera
della giuridicità, al diritto. Ciò che vuole e impone la
forza, promana da una sua volizione giuridica, da un suo
sentimento di diritto, e diventa quindi una di quelle
disposizioni che vanno obbiettivamente definite come
«diritto», quando la forza lo vuole riguardo a tutti senza
fare eccezioni, né dichiarate né mascherate; è arbitrio e
violenza bruta (e promana in modo più o meno
consapevole, non da un sentimento di diritto, ma da
cupidigia egoistica o partigiana) quando lo vuole solo
rispetto ad alcuni: e il mezzo appunto con cui l'uomo o
il partito, che tiene il potere, può rischiararsi gli occhi,
spesso offuscati, circa il punto se ciò che esso vuole ed
impera sia diritto o arbitrio (interesse personale,
partigianeria, ecc.) è proprio quello di scrutare
coscienziosamente se ciò che essa comanda lo comanda
e lo vuole sopra, in considerazione, a riguardo d'alcuni
84 STAMMLER, Wirtschait und Recht, IV ediz. 1921, p. 478 e s.
83
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
soltanto, ovvero della totalità. Insomma, uso la forza:
posso usarla sia per rubare, o, come Clodio, per
invadere il domicilio di Cicerone, distruggerlo e
appiccarvi fuoco, sia per dare ad un popolo una nuova
costituzione o un nuovo codice. Quando il prodotto
della forza è diritto, quando è delitto? È diritto quando
ciò che impongo con la forza intendo debba valere come
una norma che vincoli tutti, compreso me e i miei
partigiani. È delitto nel caso contrario. Così, tale criterio
ci permette di discernere in generale che ci si trova di
fronte a un prodotto di forza che è pura brutalità e non
diritto, quando il partito, la classe o la religione al potere
usa di questo per imporre alcunché solamente riguardo
agli altri, a coloro che non appartengono ad essa classe,
partito o religione, e per far soggiacere solo questi altri
a determinati obblighi o divieti, per es. a limitazioni
nella espressione del pensiero, nella propaganda, nella
facoltà di associazione e riunione, nell'esercizio del
culto. Così ancora, e per dare qualche più particolare
esemplificazione, quel criterio ci darà modo di scorgere
come l'atto di imperio e forza che limiti (o anche
sopprima) l'uso della parola in pubblico o della stampa
va definito, quantunque sia stato effettuato per opera di
vera e propria forza materiale, quale atto appartenente al
«diritto», generatore d'alcunché che si classifica nel
«diritto», se la disposizione che esso impone si applica
a tutti; ma è pura brutalità ed arbitrio, se la disposizione
si applica solo ad alcuni, se solo per alcuni, sia pure in
via di mero fatto, sta il divieto ed il limite, mentre ad
84
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
altri è espressamente o tacitamente lasciata la libertà di
agire come vogliono (quindi quando il divieto si applica
singolarmente, caso per caso, ad arbitrio del potere).
Così, ancora, l'ordinamento dei rapporti dei sindacati
con lo Stato, sarà, quantunque sgorghi da una
imposizione di forza, atto di «diritto», e la forza in
azione possederà la natura di forza produttrice di un
sistema di diritto, se l'ordinamento si applica a tutti i
sindacati del pari: si tratterà invece di quella forza che è
arbitrio e mera violenza, ossia, per ripetere le parole
dello Stammler, «d'un soggettivo appagamento dei
desiderii del detentore del potere, mediante il vincolo
imposto solamente agli altri», se solo ai sindacati
appartenenti al partito detentore del potere si accordano
funzioni politiche. Clodio invade ed incendia il
domicilio di Cicerone. Perché questa è quella forza che
è delitto e non diritto? Perché è assolutamente
impossibile fare anche soltanto il tentativo di dare di
tale fatto una costruzione concettuale che lo mostri
come l'applicazione d'una norma generale ed imparziale,
e resta perciò in esso, non solo non cancellabile, ma in
piena evidenza, il carattere di mero arbitrio e di forza
bruta.
85
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
CAPITOLO V
SPINOZA
La concezione dell'autorità dianzi svolta, e nel medesimo tempo quella esattezza, ponderazione e misura nell'interpretazione e applicazione di essa su cui abbiamo
testé insistito, si trova riflessa, come in un'acqua calma e
profonda, nella dottrina di Spinoza, la quale offre dunque di essa concezione l'illustrazione più solida e ad un
tempo più atta a mostrarne i fondamenti e insieme a dar
le ragioni del mondo e dei limiti con cui dev'essere applicata.
È un grosso errore, per quanto antico, solidissimamente
piantato e probabilmente non sradicabile, quello di credere
che Spinoza sia un razionalista, anzi il prototipo del
razionalismo dogmatico. Egli lo è, se mai, soltanto per
ciò che riguarda la conoscenza (ed anche questo non va
ammesso se non sotto molte riserve); ma non già per ciò
che riguarda l'Essere. Razionalista (sia pur concesso),
come gnoseologo, egli è un perfetto irrazionalista e
scettico come ontologo. La sua realtà suprema non ha
volontà, non ha intelletto, non ha fine, non ha «valori».
Bontà, bellezza, ordine, perfezione sono semplici
concetti umani. Egli li toglie alla realtà in sé. Ma il
toglierli alla realtà è despiritualizzare la realtà stessa; è
srazionalizzarla, poiché quei concetti sono appunto
elementi della ragione. Non vi è per Spinoza una
86
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
ragione sopra le cose, le cose non sorgono (come per
Hegel) da una ragione, non esiste una ragione
precedente ai fatti a cui questi si debbono uniformare
per giustificarsi razionalmente, e a cui si possa e debba
dimostrare che si conformano affinché restino così
giustificati. Invece le cose sorgono da una cieca
sostanza senza volontà, intelletto e fini. Non esiste
dunque che l'Essere, ossia i fatti, ed essi hanno in sé, pel
semplice fatto di essere, la loro ragione; ossia l'unica
loro ragione è il loro essere, e la loro perfezione è
nient'altro che il loro essere come sono: ogni dover
essere cioè è pienamente esaurito nell'essere. Con ciò la
ragione, come per sé stante, indipendente dai fatti,
superiore ai fatti, giudicatrice legittima dei fatti, è
annientata, scomparsa, di fronte al fatto, all'Essere. La
negazione della teleologia e dell'esistenza obbiettiva dei
«valori» compiuta da Spinoza, è negazione del deismo e
insieme del razionalismo. Perciò il mondo di Spinoza è
arazionale proprio identicamente a quello di
Schopenhauer: ché dire col primo che la Natura
naturans o Dio non ha volontà, né intelletto, né fini, e
dire col secondo che il mondo è originato da una
Volontà ma cieca, che non agisce, come la nostra, per
fini, e non vuole che per volere, cioè senza alcuno scopo
fuori di sé, è manifestamente la stessa cosa. Spinoza,
insomma, è il contrario dell'idealismo razionalista.
Esprime cioè lo sforzo, non già, come questo, per
assoggettare le cose alla ragione o spirito e farnele
dipendere, ma per assoggettare la ragione alle cose,
87
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
all'Essere com'è. Realismo ed irrazionalismo.
Ciò anche nel campo etico. Spinoza è in etica un
perfetto scettico e un intrepido realista. Non esiste né
male né bene assoluto ed in sé, e per ognuno è bene ciò
che corrisponde alla sua natura, male ciò che vi
contraddice. «Existit unusquisque summo Naturae iure,
et consequenter summo Naturae iure unusquisque ea
agit, quae ex suae naturae necessitate sequuntur, atque
adeo summo Naturae iure unusquisque iudicat quid
bonum, quid malum sit, suaeque utilitati ex suo ingenio
consulit»85. Questa è la tesi sofistica pretta e insieme la
più pretta verità, l'espressione coraggiosa, fuor di tutte
le abituali menzogne filosofiche, del come stanno
realmente le cose. Perciò un'artificiosa ubbia quale
quella kantiana-crociana dell'esistenza d'un'attività etica
distinta dall'attività utilitaria, è una ridicolaggine agli
occhi realistici di Spinoza. Una sola attività esiste,
l'attività utilitaria, quella che tende all'appagamento
della propria natura. Bene è dunque tutto quel che piace
di fare. Tutto quello che uno fa per soddisfare la sua
natura è bene. Nemmeno il matricidio di Nerone si può
dire un male86, poiché, data la natura di lui, il matricidio
era ciò che vi corrispondeva; si può dire male il fatto
che una tigre sbrani un agnello e anche un bambino? Se
e poiché è una tigre, questo è quel che corrisponde alla
sua natura, il suo da farsi, il suo bene. Non esiste,
d'altronde, una natura umana in generale, perché per
85 Eth. P. IV Prop. XXXVII Sch. II.
86 Ep. XXIII (36).
88
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
Spinoza, che all'irrazionalismo realistico ontologico e
allo scetticismo morale, congiunge, come regolarmente
avviene, il nominalismo, non esistono «universalia»87.
Ognuno ha la sua natura, agisce in modo da appagarla,
questo è il suo bene, questo è ciò che, senza distinzione
(si noti) tra «fatuos, delirantes et sanos», senza
distinzione tra chi giudica «ductu sanae rationis» e chi
giudica «ex affectuum impetu», ognuno ha il diritto di
fare, cercando in qualunque modo «sive vi, sive dolo,
sive precibus» di conseguire ciò che in tal guisa giudica
utile88. Solo in maniera del tutto astratta possiamo, pel
fatto che la ragione è la peculiarità dell'uomo, costruire
il concetto interamente suppositizio d'una natura umana
in generale che consisterebbe nella vita conoscitiva e
razionale89, e, allora, mentre in realtà una tal vita è bene
solo per quelli che posseggono effettivamente una
natura siffatta, che sentono la passione per tale vita, nei
quali tale passione vince ogni altra, e pei quali essa già
da sé offre la massima felicità, possiamo dire, sempre in
base a quella fittizia costruzione di una natura umana in
generale, che tale vita è il bene e la virtù dell'uomo.
La stessa visuale realistico-scettica porta Spinoza nella
87 Eth. P. II Prop. XL. Sch. I e II; Prop. XLVIII Sch.; Ep. I.
88 Trac. Theol. Pol. C. XVI.
89 Tutta la parte propriamente morale dell'Etica di Spinoza è denominata da
queste parole della Pref. alla IV Parte: "Nobis tamen haec vocabula (bene e
male) retinenda sunt (sebbene non significhino nulla di esistente
obbiettivamente): Nam quia ideam hominis, tanquam naturae humanae
exemplar, quod intueamur, formare cupimus" ecc. Cioè perché ci
costruiamo un tipo-uomo, un concetto-generale-uomo del tutto
suppositizio, ciò che è bene e male pel quale, chiamiamo bene e male per
l'uomo in generale. Dunque per mera astrazione.
89
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
filosofia politica. Anche lo Stato, come l'individuo, ha il
diritto di fare tutto quello che ha la forza di fare. Diritto
e forza si equivalgono interamente, sono una cosa sola,
non v'è un preteso diritto che si stacchi per così dire
dalla forza per limitarla e giudicarla. Come l'individuo,
così lo Stato una cosa sola non può (non ha il diritto) di
fare; quello che non può (non ha la forza). E come
l'individuo, una cosa sola è sciocco che lo Stato faccia:
ciò che diminuisce il suo essere, cioè la sua forza. Per la
prima considerazione, lo Stato non può (non ha il
diritto) di coercire il pensiero, proprio perché non può,
perché non ha la forza di farlo, perché non è capace di
farlo, non potendo penetrare nell'interno delle coscienze,
farle pensare e credere in un certo senso, anzi nemmeno
vedere come esse credono o pensano. Per la seconda
considerazione è sciocco che lo Stato faccia ciò che urta
e scontenta i più perché la sua forza nasce appunto
dall'unione dei più, che con ciò vien meno. Lo Stato è
veramente il Leviatano di Hobbes, l'uomo gigantesco le
cui cellule sono i piccoli uomini di carne e d'ossa, ma
appunto perciò se l'uomo gigante non vuol alienare da
sé le sue cellule e con ciò deperire in forza e in essere,
non deve malcontentarle o trattarle a capriccio. Lo Stato
è forza, è potenza, questo è il pensiero di Spinoza. Ma
da che cosa deriva allo Stato tale sua potenza?
Dall'unione dei cittadini e dall'unità di coscienza fra
essi. Quando tale unione e tale unità di coscienze vien
meno è come se le cellule tendessero a staccarsi dal
corpo di cui fanno parte, riluttassero ad esser parte della
90
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
comunità. La forza, la salute robusta del corpo statale
vien meno90.
Perciò la risoluta ed estrema filosofia dell'autorità di
Spinoza logicamente mette capo a una misurata dottrina
della libertà: logicamente, perché questa soltanto può
offrire all'autorità fondamento solido. Già nell'Etica egli
osserva che «animi non armis, sed amore et generositate
vincuntur», e che «solet concordia ex metu plerumque
gigni sed sine fide»91. E nel Trattato Politico svolge in
pieno la dimostrazione della sua tesi. Come l'individuo
così «civitatem illam maxime protentem, maximeque
sui juris esse, quae Ratione fundatur et dirigitur».
Quindi la «civitas, cuius subditi metus territi, arma non
capiunt, potius dicenda est, quod sine bello sit quam
quod pacem habeat». E, conseguenza finale e decisiva:
«servitutis igitur, non pacis interest, omnem potestatem
ad unum transferre: nam pax, ut iam diximus, non in
belli privatione, sed in animorum unione sive concordia
consistit»92.
90 Perciò esattamente Spinoza poteva segnare la differenza tra sé ed Hobbes
in questo che egli, a differenza di Hobbes, salvaguarda nella sua dottrina il
diritto naturale, e non attribuisce al governo un potere maggiore di quello
che gli spetta conformemente ai rapporti reali tracciati dalla natura stessa
delle cose (Ep. L.).
91 P. IV C. XI, XVI.
92 Tract. Pol. C. v. § 1 e 4, C. VI 4 e 5. Non è senza interesse notare come
questa stessa sia la conclusione a cui pervengono gli scrittori latini
dell'epoca delle guerre civili. Le proposizioni al riguardo che troviamo
nelle loro opere non sono, come sembrano quando si leggono nelle scuole,
formule letterarie, ma, come si scorge invece ripensandole alla luce degli
avvenimenti politici che si sono visti e vissuti, il succo dell'esperienza che
essi avevano fatto sugli eventi del loro tempo e della loro meditazione su
questi: "Nec vero ulla vis imperi tanta est, quae premente metu possit esse
91
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
Realismo e irrazionalismo ontologico. Scetticismo etico.
Scetticismo e autoritarismo politico. Tale è Spinoza.
Perciò abbiamo detto che in lui poteva rispecchiarsi e
confermarsi la concezione precedentemente svolta. Ma
altresì, poiché egli è un filosofo dell'autorità profondamente logico, ponderato, capace cioè di vedere le concatenazioni lontane che certe premesse comportano, così
nella sua dottrina può anche utilmente specchiarsi, per
riuscir a scorgere bene se stessa e se occorre a correggersi, ogni pratica politica d'autorità che sia coscienziosamente pensosa di sé e dei destini del paese su cui impera.
diuturna" (CIC De Off. II. 25), "Nullum esse imperium tutum, nisi
benevolentia munitum" (CORNELIO, Dion., C. V). E Seneca, poi, con la
consueta sua forza e ingegnosità, esprime, mediante le parole "non minus
principi turpia sunt multa supplicia quam medico multa funera» (De Clem.
III, 22), un concetto che si potrebbe tradurre così: quando un governo per
reggersi ha bisogno di essere oppressore e "intransigente" vuol dire che
malcontenta, offende, indigna i più.
92
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
APPENDICE
LE COLPE DELLA FILOSOFIA93
Il carattere prevalente della vita contemporanea italiana
è il falso. Falsa religione, falsa filosofia, falsa politica,
falsa morale, falsa letteratura. Si sente dappertutto il
falso, come il fesso nel bronzo di una campana.
Proclamano la restaurazione e la supremazia del
cattolicesimo
uomini
che
arrossirebbero
ad
inginocchiarsi davanti ad un confessionale e a farsi
vedere con le mani giunte sul petto a ricevere l'ostia
consacrata, e che professano la dottrina essenzialmente
atea dell'immanenza dell'essere nel pensiero e viceversa,
cioè della negazione che oltre la sfera a noi pienamente
comprensibile possa esservi una qualsiasi realtà. Nel
linguaggio di un poeta che sarebbe come il Tirteo della
nuova Italia, ha acquistato ormai palpabilmente
l'esclusivo predominio un artificio di studiato e
manierato arcaismo, che, negazione della schiettezza la
quale sta e si sente in semplice diretto, immediato
contatto con la vita quale è d'attorno, rasenta, echeggia,
richiama spontanea la caricatura94. Non si sa bene se il
93 Publicato nella «Critica sociale» del 1-15 luglio ed 1-15 agosto 1924.
94 «Ils outrent chaque année davantage la saillie de leur talent, ils en faut une
sorte de grimace. Le public est blasé, il faut crier trop haut pour qu'il
écoute. Chaque artiste est comme un charlatan que la concurrence trop âpre
oblige à forcer sa voix». (TAINE, Vie et opinions de M. Graindorge, XV ed.
p. 134).
93
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
S. Paolo dell'ora non sia invece Alcibiade che taglia la
coda al suo cane, perché gli Ateniesi si voltino a
guardarlo per le strade. Sommi sacerdoti nostrani del
buddismo attestano la serietà della loro convinzione,
dimenticando, onde soddisfare il prurito irresistibile di
prosternarsi al potente, sia pur bastonatore, che il loro
maestro aveva sancito: «di fronte ad ogni Essere ponga
giù il bastone con cui si colpisce»95. E, tipica
caratterizzazione della fase, la notorietà acquistata con
lo scrivere libri osceni eleva al grado di leader della
ricostruzione.
Le parole stanno in sempre più diametrale, gonfia e
sfacciata antitesi con le cose: al massimo decadimento
della moralità della vita pubblica e della dignità del
comportamento dei singoli in essa, corrisponde la sonora e reboante tonalità romana dei discorsi e la vacua e
verbosa celebrazione dei «radiosi destini» della nazione,
quasiché questi (comunque si concepiscano) possano
aver per fondamento e materia prima altra cosa che non
la forza di carattere dei cittadini e la stessa loro non già
flaccidezza, ma energia di resistenza. Il pensiero filosofico è diventato un mosaico ingegnoso di formulette meramente verbali, nell'accozzare abilmente le quali nell'una o nell'altra guisa, si consegue e si afferma la grandezza speculativa, e ci si apre la via, non solo alla celebrità,
ma agli istantanei ed impensati sbalzi all'innanzi all'in
su, che il senile e pedantesco criterio di regolarità di un
95 OLDENBERG, Reden des Buddha, pag. 352. E v. anche nel Dhmmapada il
cap. X intitolato Il bastone.
94
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
regime ormai sorpassato rendeva follia sperare. E l'agile
genialità, di questo pensiero filosofico risplende in guisa
peculiarissima nella sua capacità di dimostrare che,
quando compie atti che sono, per l'occhio comune, in
perfetta contraddizione con le sue teorie, pure, se si
guarda bene in fondo di queste, si vede che quegli atti,
che le contraddicono, scaturiscono invece coerentemente dalle interne complesse loro circonvoluzioni.
Accanto al falso, l'altro carattere dominante è quello
dell'avventatezza convulsiva. In perfetta antitesi con la
assennata ponderazione e posatezza, con la rigorosa
parsimonia nei segni verbali usati a significare le cose e,
quindi, con l'immensa momentosità delle cose in
confronto delle parole, propria di quella romanità che si
pretende, ma solo coi gesti e con le frasi, d'aver
rinnovata96 - e in perfetta antitesi anche con l'altra nostra
grande creazione politica autoctona, la «venezianità» –
non mai il disgustoso bagordo delle parole precipitate,
avventate, numerose, «colorite», «pittoresche», dilagò
come oggi. Dalle labbra o dalla penna di uomini di
governo scendono frasi e boutades leggere, impulsive,
quali sarebbero appena ammissibili sotto la stilografica
96 Massimo d'Azeglio, uno dei pochi italiani di saldo buon senso respingeva
l'ammirazione per Roma e la tendenza a riattaccare ai ricordi di questa
l'Italia nuova (cfr. I Miei Ricordi cap. XX, in principio). E aggiunge: "Fra
tutti gli Stati dell'antichità, è Roma quello che ho in maggior stima, fino
all'epoca dei Gracchi, intendiamoci! Io ammiro quei tempi durante i quali
dominò la legge"; ma "la cieca adorazione" per Roma, nella sua opera di
oppressione e di secolare prepotenza, "pare a me la più colossale delle
corbellerie che abbia mai procurate a se stessa l'umanità" (ib., ed. Barbera,
p. 261-2).
95
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
d'un giornalista, in un articolo frettoloso. Lo stile della
maggior parte dei giornali è diventato secentesco sino
alla comicità, o più esattamente «spagnolesco», perché
insieme alla gonfiezza c'è quella stessa repugnante
servilità di cui sono così largamente imbrattati i nostri
scrittori del cinque o del seicento; quella servilità che i
dotti studiano e severamente condannano nel XVI
secolo, senza accorgersi che è la medesima che si svolge
sotto i loro occhi e che essi stessi largamente praticano;
quella servilità, la quale, se allora si manifestava con la
consegna delle chiavi cittadine, che su piatti d'oro o di
argento le capitali ed i borghi gareggiavano a porgere
all'imperatore spagnuolo, ora si manifesta con la
cerimonia, diversa soltanto nella forma, del
conferimento di cittadinanze.
Insieme, anche qui, i fatti, sono in recisa opposizione
con le parole; né mai s'è tanto parlato di «obbedire in
spirito di umiltà» quanto ne parlano coloro che vogliono
invece avere la loro sfera, sia pure subordinata, di
assoluto, dispotico, superbo spadroneggiamento. La
violenza, non ostante ogni tentativo di compressione,
trabocca fuori continua e incontenibile come il ribollire
d'un vino dalle doghe mal connesse, perché è
connaturata con la convulsiva e nevrastenica mentalità
dell'ora, la quale comporta che la visione che passa pel
cervello (si tratti d'una concezione politica, d'un voto
elettorale, d'un'assoluzione o d'una condanna, d'uno
sfratto da effettuare o da impedire) come quella che non
può non essere giusta e vera, debba attuarsi a forza.
96
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
Conseguenza della nevrastenia del periodo e fomite ulteriore ad essa, suonano di continuo, con le frequenti dichiarazioni ufficiali che la «rivoluzione» è appena all'inizio, preannunci di nuovi rivolgimenti (spesso specificatamente accennati con capricciosa varietà), di travolgimenti e sussulti, il tutto non disgiunto da preannunci
di sangue. Mentre si combatte, perché inorganica, la forma sin qui consueta, cioè elettorale, di manifestazione di
volontà da parte del popolo e si stanno escogitando forme più «organiche» (rappresentanze di classi, professioni, sindacati) per sostituirla, si reitera il ricorso alla più
inorganica, confusa, indistinta forma di quella manifestazione, cioè all'interrogazione della folla tumultuante
nelle piazze; e nell'atto in cui si nega importanza al consenso quando si manifesti nella forma sin qui reputata
come la forma sua regolare, si instaura e si pregia proprio solo quella demagogica, imprecisa, inconsulta, caotica forma di consenso.
Uno dei più alti personaggi del regime attuale, in uno
schizzo autobiografico, proclama «ho tre lauree e me ne
infischio», onde siano con inequivocabile chiarezza
educati i giovani nuovi al concetto che i curricula
regolari sono scipitaggini di nessuna importanza in
confronto con l'avventurosità. Generali lodano militi
fascisti partenti per la Tripolitania, perché «anime forti
cui pesa il ritmo della vita usuale». Si proclama
l'avvento della moralizzazione, compiuta col bruciare o
sequestrare le bibbie protestanti o i romanzi del
Maupassant; ma si fomenta la demoralizzazione
97
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
effettiva con l'introduzione ufficialmente sanzionata
(ripugnante immistione nella untuosità cristiana, d'altro
lato professata, d'uno spirito orgiastico da decadenza
pagana), degli «sports dei tempi passati, che la legge
aveva proibiti a cagione della loro brutalità», dei «vizi
che promuovono il rimbarbarimento»97, del barbarico
spettacolo di sangue delle corse dei tori; col dar lustro di
ausiliatrice di gloria nazionale alla brutalità pugilatrice;
più con un'azione, che, diretta a costringere o a sedurre
tutti ad inchinarsi al partito dominante, contribuisce ad
infiacchire sempre più il già fiacco carattere politico, e
più ancora con la fama, trasvolata di bocca in bocca fino
nei più remoti borghi, di troppo grandi ricchezze troppo
rapidamente accumulate e di troppi spassi goduti da
molti personaggi, che, per essere gli ispiratori o le guide
di un regime di ricostituzione severa e penosa per molta
parte di popolo, avrebbero invece dovuto dare esempio
di austerità e povertà. «Misera respublica, quae istos
divitiarum cupidos et divites patitur... Audisti
praefectum praetorii nostri Philosophi (s'intende, Marco
Aurelio) ante triduum quum fieret, mendicum et
pauperem, sed subito divitem factum. Unde, quaero, nisi
de visceribus reipublicae provincialumque fortunis?»98.
Sintomi accessorii ma significanti. Col rinvilire del
valore del danaro, col flusso sempre più facile e largo di
esso, e, insieme, col senso oscuro ma radicato che la
97 SPENCER, Fatti e commenti, pag. 125.
98 Hist. Aug. VULCANI GALLICANI, Avidius Cassius, «Nearly all have done well
materially out of the venture (JAMES MURPHY, The parabola of Fascism in
The Fortnightly Review, dicembre 1925).
98
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
presente situazione economico-sociale europea è
fondata sulla sabbia, e sotto ad essa può aprirsi domani
il baratro, il danaro ha perduto totalmente il pregio
morale che prima poteva condensarsi in esso; il
risparmio che, quando si leggeva Smiles, era una virtù, è
diventato una ridicolaggine; ogni giovane della nuova
èra si sentirebbe immeschinito se non spendesse, senza
pensarci su, quanto ha o guadagna. E sempre più di
frequente avviene che fanciulli e fanciulle fuggano dalla
casa paterna, perché non possono sopportarne la
monotonia e il tedio, perché pesa loro «il ritmo della
vita usuale», e hanno bisogno d'avventure.
Questa situazione è l'esatto opposto di una situazione
romana, classica. Cioè è una situazione prettamente
romantica, nel significato originario del vocabolo. Non
la ponderatezza, la calma e matura riflessione, prima di
parlare ed agire, sulla realtà quale è, non la misura, la
forza tranquilla o la tranquillità forte, l'aequanimitas;
non insomma, i caratteri con cui si designa la classicità.
Ma impeto irriflessivo, capricciosa e tumultuaria
violenza di parole e di atti, divergenza da un giorno
all'altro, come l'umore detta, di direzioni e di
linguaggio, impulsività e celebrazione di essa, slanci
«dinamici» verso mete imprecise, nebulose, cangianti,
non segnate con spigoli precisi dal senno chiaro ed
adulto, Sturm und Drang, romanticismo. Se
«romantico» è l'antitesi di «classico», siamo proprio agli
antipodi della romanità, che viene, sì, contraffatta con le
99
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
parole, con gli atteggiamenti esteriori, con le
«stilizzazioni» del viso e le pose del corpo, ma dal cui
spirito si è mille miglia lontani. Lo stesso elevamento
della «giovinezza», perché tale, alla direzione politica, è
ciò che si può pensare di più antitetico alla classicità,
dove «persona investita dell'esercizio del potere» e
senex sono sinonimi, e il pericolo del governo dei
giovani è espresso dalla constatazione: «maximas
respublicas ab adulescentibus labefactas»99.
Nulla, non parlo dei cortei, ma dei fatti e degli animi,
che somigli alla severa compostezza classica. Molto che
ricorda l'incompostezza e la nervosa agitazione d'ogni
«decadentismo», se non richiama addirittura alla mente
una clinica neuropatica.
Quando si confronti questo, che è lo stato mentale del
primo quarto del secolo XX, con quella che era l'assai
più armonica, disciplinata, ordinata situazione degli
spiriti dell'ultimo quarto del secolo XIX, si affaccia da
sé la constatazione che concomitante all'infrangimento,
che la mente ha fatto, di ogni freno classico di norma,
prudenza, saviezza, ritenutezza e sobrietà, al suo
sferrarsi nel campo dell'impulsivo, del tumultuario, del
singolare, dell'impreciso e dell'esaltato, al suo diventare,
insomma, nei più, elata e gestiens – tutte tipiche
caratteristiche, per i Romani, della non sapienza («qui
moderatione et constantia quietus animo est sibique ipse
placatus ut nec alacritate futili gestiens deliquescat, is
99 CIC., De Senec. cap. VI.
100
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
est sapiens»)100; concomitante a tutto ciò è stato il
prevalere del pensiero filosofico idealistico su quello
positivista. La filosofia idealista è l'espressione adeguata
della presente anormalità, convulsività, «elatio gestiens»
di spiriti, ed è il fattore che per tre quarti ha contribuito
a crearla.
Riproduzione letterale del pensiero tedesco di un secolo
fa, che nella Germania d'allora fece appunto esplodere
in tutta la sua virulenza l'originario movimento
romantico, ispirò la concezione e la pratica di
un'esistenza sfrenatamente libera da ogni vincolo
esterno o «convenzionale» secondo detta l'io sovrano
plasmatore d'ogni esterno e d'ogni reale, le vite alla
Lucinda e gli sforzi di Novalis per saltar addirittura,
mediante un puro atto di volontà, fuori dall'esistenza
corporea; essa non poteva, nella sua tarda riproduzione
ed introduzione in Italia, di cui falsa definitivamente il
genio autoctono e in cui cancella anche le ultime tracce
della «classicità», non produrre le medesime
conseguenze spirituali, tanto più che a queste lo stato
mentale post-bellico forniva condizioni particolarmente
propizie. Lo squilibrio psichico del dopo-guerra veniva
quindi ad essere il terriccio specificatamente destinato a
fecondare tale filosofia e ad esserne alla sua volta
fecondato: quello su cui essa poteva fabbricare le sue
fortune. Contro la prudente e severa, veramente latina
mentalità positivista, quale il Gabelli la incarnava, che
sopratutto si dirigeva appunto a togliere sovranità e fede
100 CICERONE, Tusc. Disp. IV, 17.
101
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
alle «rivelazioni», ai «principii eterni» della coscienza,
opponendovi la necessità della cauta, paziente,
sperimentale investigazione del fatto reale esterno, il
dovere del riconoscimento obbediente di esso, la
supremazia di esso su quelle pretese «rivelazioni»,
l'idealismo tornò a ripristinare il sommo dominio,
l'assolutezza inconcussa, la onnipotenza dell'io, nella cui
fluidità immateriale la solida realtà si rappresenta
liquefatta e si abituano le menti a pensarla liquefacibile.
La sconclusionata sovreccitazione dell'ora trovò in
questo concetto la sua magna charta. Esso la
giustificava e la incoraggiava nella soddisfazione della
sua più spiccata tendenza, la tumultuarietà nell'azione,
la improvvisazione, la convinzione che un'idea sia vera,
giusta, attuabile, che sia anzi necessario attuarla solo
perché è pensata con «passione» e senza bisogno che
l'esercitata competenza, il controllo oculato dei fatti, il
cimento con gli argomenti lo accertino. E poiché è
impossibile fornire un criterio preciso e saldo con cui
l'individuo distingua i principii e i postulati dello
«Spirito» dalle visuali (forse capricciose ed aberranti)
evidenti al suo spirito, così il concetto centrale
idealistico dell'assolutezza dello «Spirito» doveva dar
incentivo a far apparire queste visuali come
costantemente e infallibilmente rivestite dalla luce di
quei principii, doveva reinverare perciò l'osservazione
sallustiana: «ea, ut libido tulit, facere»101: determinare
cioè l'individuo a prendere il suo spirito e ciò che in
101 De Rep. ord., I, 11.
102
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
esso si presenta, come l'Assoluto, e quindi ad attuare
con la pronta e diuturna violenza qualsiasi postulato o
«rivelazione» del proprio spirito, posto che questo
(ossia, lo «Spirito») assurge ora all'incontrollata e
sovrana assolutezza, il criterio della cui infallibilità esso
attinge solo dall'interno di sé, da ciò che esso in sé con
evidenza o con «passione» vede.
La congenialità di tale filosofia con l'ora violenta, torbida, fanatica, mentalmente confusa, e, appunto perché
estolle sopra la calma riflessione ed osservazione dei
fatti il «moto passionale che esalta e travolge», essenzialmente incoerente e contraddittoria, si manifesta ancora in un altro aspetto. Cioè nella virtuosità che col
lungo esercizio di applicazione d'un suo supremo principio speculativo l'idealismo ha acquistata, mediante cui
esso, giocoliere di idee, sa togliere le barriere che separano le contraddizioni e far insensibilmente, con abili
sotterfugi, trapassare un concetto nel suo opposto in guisa da poter sostenere che tale opposto di quello è pur
sempre il medesimo concetto.
Siffatto «trasformismo» filosofico è stato forse ciò che
più ha giovato a cementare l'idealismo con lo spirito
della fase presente come sua specifica filosofia, appunto
perché questo spirito, privo di ogni coordinazione e direzione precisa, sentiva l'oscuro bisogno di espedienti
mentali per poter persuadere e persuadersi che le sue incoordinazioni, la divergenza successiva ed anche contemporanea delle sue direzioni, i suoi «moti di
passione», eccitati dal variante impulso e capriccio del
103
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
momento, che soli ne dominano l'azione, pure, visti, non
superficialmente, ma dal «profondo», manifestano una
sottostante riposta unità.
Filosofia atea nella sua vera essenza, perché il reale è
per essa identico al pensiero, cioè reale è soltanto ciò
che si risolve nei concetti interamente comprensibili
della mente umana, essa poté diventare (in grazia della
«dialettica» per cui la religione è rappresentata come l'idealismo messo in simboli per le menti incolte e l'idealismo come il superamento della religione mediante la
trasposizione in concetti della stessa materia che questa
adombra con miti essoterici) lo strumento di una clericalizzazione dello Stato sguaiata, petulante, procacciante,
esibizionista, agli antipodi dall'equilibrio con cui un regime di conservazione, costituito da persone serie come
quello della vecchia destra, attestava, senza sbilanciarsi,
il suo rispetto alla religione dei più; e poté così uno degli aforismi oggi più in voga: «indietro non si torna», ricevere implicitamente l'interpretazione contraddittoria
che non è possibile tornare indietro dal 1924 al 1919,
ma sì dal XX al XII secolo. Filosofia, inoltre, dello spirito quale assoluta libertà, esso poté diventare la filosofia della reazione.
Su quest'ultimo punto gioverà però soffermarsi un momento.
L'idealismo è, nella sua natura sostanziale, filosofia
della libertà assoluta e, più precisamente, dell'anarchia.
Il suo principio è che l'io o lo spirito con padronanza
104
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
piena, che di nulla di estrinseco subisce la pressione o il
controllo, cava unicamente dal proprio fondo tutto:
condizioni della conoscenza, condizioni della realtà,
condizioni dell'azione. Da lui primordialmente
zampillano gli elementi fondamentali dell'Essere, che
solo fallacemente appare quindi a lui diverso, disgiunto,
indipendente. A lui appartengono a priori gli elementi
conoscitivi che, essendo i medesimi di quelli esistenziali
che egli ha impartito all'Essere o Natura, rendono questa
prona e intima al pensiero che s'affaccia a conoscerla.
Da lui, mente monadica che circola unicamente in sé,
che non ha finestre aperte verso l'esterno e non ne ha
necessità perché tutta l'essenza dell'esterno è già in essa,
sorgono senza bisogno ch'egli guardi altro che in sé, le
leggi dell'azione, la legge morale. Tutto ciò è dettato con
assoluta sovranità dall'io. Egli possiede perciò l'assoluta
libertà dell'assoluta sovranità. Le condizioni e le
esigenze dell'io, ossia della ragione, sono le verità e
leggi supreme del mondo, a cui nulla deve far remora.
Nessun fatto «esterno», sì della «realtà» materiale che di
quella sociale e convenzionale, deve star contro a questa
assoluta sovranità-libertà dell'io o ragione, né pretendere
di limitarla. Quando, come nella rivoluzione francese,
l'io o la ragione spezza violentemente i vincoli che in un
lungo corso di anni le erano esteriormente cresciuti
attorno, e riafferma la propria assoluta libertà, anzi
divinità, Kant e Fichte scorgono in ciò l'attuazione della
loro filosofia. Il robespierrismo della «dea Ragione» è,
non ostante ogni contrario asserto, l'espressione più
105
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
precisa dell'essenziale significato dell'idealismo. E
siccome l'io esiste solo nell'individuo ed anche un io
superindividuale che si asserisca esistente non è se non
pensamento d'un individuo ed assume quindi la natura,
le qualità, i principii, le verità di cui questi lo dota e che
sono quelle che egli trova in sé, così è proprio l'io, quale
nell'individuo pensa e vive, quello del quale l'idealismo
implicitamente esige la continua liberazione da tutta la
«natura», da ogni pressione ad esso estrinseca, da tutto
ciò che esso, nell'incontrollabilmente sovrano giudizio
che in ogni individualità pronuncia, vede come nonragione. La riduzione idealistica della realtà all'io, la
cancellazione d'ogni configurazione del reale ferma,
«obbiettiva», indipendente dall'io, la subordinazione
totale della realtà alle leggi dell'io, significa dunque da
ultimo, se interpretata lealmente e senza sotterfugi e
cavilli, piena anarchia.
Ciò non ostante, in grazia dell'opportuna applicazione
pratica del suo canone dell'identità dei contrarii, che gli
permette di far scivolare ogni principio nel suo opposto
e di sostenere nel contempo che rimane lo stesso,
l'idealismo, teoricamente filosofia dell'assoluta libertà,
diventa praticamente sempre filosofia del dispotismo.
Per una singolare cecità non se ne sono accorti i giornali
dei partiti avanzati, che, aprendo le loro colonne a
scrittori idealisti, per la maggior parte ex-preti (quasi
che questo sia un carattere sicuro di sensi democratici e
non avvenisse invece che l'ex-prete trovi di regola
nell'idealismo il surrogato laico dei pregiudizi
106
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
chiesastici e delle intolleranze teologiche, da lui, nella
nuova veste, conservate intatte), si scaldarono in seno il
serpe che li ha morsi, cioè contribuirono a far diventar
di moda un pensiero diretto a scalzare le loro dottrine
politiche.
Ma ecco Fichte il quale sostiene che, poiché colui che sa
insegnare non fa se non rendere esplicita agli occhi del
discepolo la verità che sta già risposta nell'anima di
costui, che è dunque la sua, così se egli, invece di
persuadere insegnando, costringerà, in effetto non
costringerà, poiché la verità che egli ora impone è
ancora la stessa che c'è già nell'anima di chi
l'imposizione subisce, è la verità sua; e quindi non c'è
nessuna imposizione. Ed ecco Gentile, proprio nella sua
qualità di guida suprema dell'educazione nazionale,
asserire che il bastone è veicolo dello spirito assoluta
libertà, del tutto pari in valore e dignità agli argomenti
intellettuali102. La volgare definizione ironica
«argomento persuasivo», applicata alle bastonate ed ai
pugni, è, per costoro, assurta a principio supremo di
filosofia.
Ma qui è necessaria una distinzione. Quale è in particolare la specie di dispotismo di cui l'idealismo diventa regolarmente la filosofia?
Vi sono due specie di dispotismo, o, con termine più
generale, di autorità. Una è l'autorità delle confische,
delle proscrizioni e dei bandi, quella di Silla, e,
102 Discorso di Palermo del 1° aprile 1924. L'Italia doveva avere anche questa
vergogna: che chi sta a capo dell'educazione nazionale ufficialmente
teorizzasse l'uso del bastone.
107
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
potenzialmente, di Catilina. L'altra è l'autorità di Cesare,
che, sebbene nel suo partito vi fossero due fazioni, delle
quali una «desiderava soltanto che Cesare fosse in
Roma un cittadino potente ed eminente, un'altra, più
violenta e turbolenta, la quale voleva far Cesare
onnipotente per prevalere essa al suo seguito e con il
suo favore»103, pure muove «dalla massima di
riconciliare i vecchi partiti», segue «la giusta
considerazione dell'uomo di Stato, secondo la quale i
partiti vinti si assorbiscono più presto e con minor
danno dello Stato, entro lo Stato, che quando si cerca di
disperderli coll'esilio e di allontanarli dalla Repubblica
col bando», crea il suo edificio pietra a pietra «senza
mai precipitare o dissestare, appunto come se per lui
esistesse soltanto l'oggi e non il domani»104. Una è
l'autorità romana di Augusto, che la rivolge alle cose
veramente essenziali allo Stato; l'altra quella cantonale
di Gessler che la consacra a far salutare il proprio
cappello. Una è l'autorità che possiede la forza di
autoinibizione di restringere il suo comando all'assai
piccola sfera di ciò che realmente importa per la
ricostituzione della compagine statale; l'altra è l'autorità
pettegola e capricciosa che vuole affermarsi davanti agli
occhi altrui e proprii comandando una folla di cose
insignificanti: la foggia dei vestiti o il codino,
l'antimassonismo e la «scrittura diritta», i libri che si
possono vendere e il catechismo, le insegne che si
103 FERRERO e BARBAGALLO, Roma antica, II, 82.
104 MOMMSEN, Storia di Roma antica, III, 393, 397.
108
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
debbono salutare e la forma in cui il saluto deve farsi, le
canzoni che si debbono e quelle che non si possono
cantare, il colore della cravatta permesso e quello
vietato, l'esposizione di stemmi e l'irregimentazione in
certi clubs. Autorità che, nel contempo sarà in generale
sempre quella delle liste di proscrizioni o bandi105 e
delle «confische». Per queste ultime si può ricorrere,
secondo i casi, alla forma di leggi, illegalmente
retroattive, mediante cui si strappano a coloro che li
avevano regolarmente conseguiti per concorsi e
onorevolmente esercitati per decennii, posti, uffici,
funzioni per farne la preda della fazione vincitrice nella
guerra civile o di coloro che a tempo opportuno si
accostino ad essa; oppure si può ricorrere a
manipolazioni arbitrarie delle fondazioni testamentarie.
Forme, per quanto diverse dalle antiche, sempre del
medesimo fatto, la «confisca», le quali ribadiscono la
configurazione d'uno Stato che vien meno alla sua
parola e manca ai suoi impegni, e scoraggiano da ogni
fiducia in esso, e persino da ogni disposizione di ultima
volontà diretta a pubblica beneficenza, i cittadini, i quali
veggono che non già esiste uno Stato che perpetui lungo
105 L'epoca di Silla è sempre, rispetto alla nostra, feconda di benefici esempi.
In essa, almeno le liste di proscrizione finirono per essere ufficialmente
redatte dal detentore della pubblica autorità e non lasciate al capriccio dei
suoi liberti. "In questo sistema di terrore lo spavento maggiore era
cagionato dalla mancanza di precisione nelle categorie dei proscritti, contro
la quale fu tosto fatta rimostranza in Senato, e a cui Silla stesso cercò di
rimediare facendo pubblicamente affiggere i nomi dei poscritti. Per quanto
questa tabella di sangue eccitasse il giusto raccapriccio dei cittadini, essa
valse tuttavia a porre qualche freno all'arbitrio degli scherani" (MOMMSEN,
Op. cit., II, 292).
109
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
i tempi la sua fedele, permanente, coerente identità di
persona giuridica, ma che il parere o il capriccio degli
individui che si impadroniscono di esso può spezzare la
continuità della persona giuridica statale, annientare i
diritti acquisiti regolarmente in una fase precedente di
questa, mettere nel nulla disposizioni di cui una fase
precedente di essa aveva garantito l'osservanza.
Autorità, quindi, a cui trova sempre applicazione
un'altra sentenza di quel Sallustio (un «preludio» al
quale, e specialmente alle due lettere, che si dicono sue,
dirette a Cesare, intorno all'ordinamento dello Stato, o
anche solo ai paragrafi 2, 3 e 6 della seconda di esse,
sarebbe ora assai più fecondo di insegnamento che ogni
preludio al Machiavelli): «proinde quasi iniuriam facere
id demum esset imperio uti»106.
La pratica della seconda specie di autorità è quella che
discredita la dottrina dell'autorità in generale, e rivalorizza nelle coscienze di tutti le idee a questa opposte.
Ora la doppia contraddizione dell'idealismo è questa,
che filosofia, in essenza, dell'assoluta libertà dello spirito diventa sempre, in pratica, la filosofia del regime autoritario; ma precisamente di quello della seconda specie, ossia di quello che serve al discredito e alla confutazione dell'autorità in generale.
La filosofia dell'autorità seria, poniamo quella di Federico il Grande, è la filosofia di Voltaire. Filosofia dell'autorità gretta, piccina, capricciosa, e che, solo per i suoi
capricci, commette crudeltà o arreca dolori, poniamo
106 SALLUSTIO, De Cat. con., XII.
110
Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
quella di Federico Guglielmo III, è l'idealismo assoluto,
è la filosofia dello spirito come, a parole, assoluta libertà, è la filosofia di Hegel.
Con ciò non si vuol negare che l'idealismo assoluto, nella sua opportunistica duttilità e approfittando delle contrarie direzioni che esso raccoglie in seno, non sia suscettibile di diventare anche, a tempo e luogo, la filosofia del bolscevismo e (ciò che soprattutto importa) di
mantenere a galla o portare in alto i suoi seguaci anche
in regime bolscevico. Ma solo del bolscevismo o del fascismo, e così soltanto dei due regimi squilibrati in senso opposto e perciò così affini che l'uno, anche nelle polemiche giornalistiche, trae da ciò che fa l'altro le più
forti armi di sua giustificazione, può essere filosofia l'idealismo. Non è coincidenza senza significato questa
che il periodo in cui la coscienza italiana fu così mancante di equilibrio da non saper dare se non una forma
anomala e dissennata di politica di rinnovazione e una
forma altrettanto anomala e poco savia di politica di
conservazione, sia stato e sia il periodo sul quale ha imperato ed impera l'idealismo assoluto. Filosofia, essa
medesima, nella sua riduzione della realtà al pensiero
puntualmente pensante, cioè a un sogno che sogna se
stesso, interamente pazzesca, non poteva accompagnarsi
che ad una fase d'azione altrettanto vaneggiante.
L'unica parola seria agli Italiani venne dal positivismo, e
la disse il Gabelli. Conservatore, critico cauto ma ponderato del socialismo e della democrazia, non egli patro111
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Autorità e libertà
cinò i «moti di passione», i «dinamismi», la intolleranza
del «ritmo della vita usuale». Proprio in queste tendenze, che divennero caratteristiche di quella «nuova èra»
che pretende di attuare la ricostituzione morale d'Italia,
egli scorse invece il vizio peggiore degli Italiani: la propensione ad eseguire con trascuranza e dispetto i compiti modesti e necessari, per la presuntuosa opinione che
essi siano inferiori al nostro genio infuso, allo slancio
del nostro vasto spirito verso le cose grandiose, l'impero, la gloria, i radiosi destini. Il male d'Italia, egli scrisse
cento volte, sta in ciò, che il commesso di negozio misura la stoffa con senso di ira e disgusto, perché ritiene di
essere un poeta che l'avverso destino ha condannato al
banco, o l'impiegato postale si arrende a malincuore a
registrare una raccomandata perché ciò lo distrae da una
lettura o discussione di politica alla quale si sente chiamato dalla sua vocazione. Coordinarsi e subordinarsi al
«ritmo della vita usuale», eseguendo in essa, ciascuno al
suo posto, il compito che ci spetta, in ciò appunto, in
questa visuale ordinata, calma, riflessiva, «classica»,
non nei dinamismi, nella tumultuarietà esterna ed interna, cioè nei caratteri del «romanticismo» decadente,
vide il Gabelli il mezzo per «fare gli Italiani». E siffatta
visuale, profondamente sana, saldamente latina, veramente ricostitutrice, egli poteva professare e predicare,
perché, positivista, respingeva totalmente l'idea di un'io
o spirito le cui «rivelazioni» o i cui «slanci», sovraneggino o facciano la realtà, anzi siano la realtà, e teneva
invece fermo all'idea di un'«obbiettiva» realtà esterna a
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Autorità e libertà
cui lo spirito deve subordinarsi. Solo se il pensiero del
Gabelli avesse potuto far presa tra di noi e non fosse stato travolto dalla «filosofia dello spirito», avrebbe potuto
formarsi a poco a poco veramente una «nuova êra» morale.
Quanto sotto l'influenza e con l'accompagnamento di
tale filosofia durerà invece l'êra dello «spirito» che fa a
sua posta il reale, dello spirito elatus e gestiens, cioè del
caos spirituale, del capriccio individuale sovrano, e
quindi della violenza e dell'illegalità, sarebbe vano
cercar di determinare. Questo è certo, che il ritorno (se
avverrà) alla compostezza ed al senno, il ritorno ad
un'epoca in cui, dunque, in politica, sia la rinnovazione,
sia la conservazione, si prospettino in forme coerenti e
saggie e non sbilanciate e farneticanti, sarà
contrassegnato dal fatto che sulla filosofia dello spirito,
cioè praticamente del soggettivo impulso capriccioso,
del «moto di passione» preso per prova di verità
assoluta, dell'evaporazione del reale esterno di fronte
all'interno (idest al mio interno, a ciò che passa per la
testa di chiunque parteggiando diventa un Marcello, un
Alessandro o un Napoleone, o ad ognuno dei suoi
generali), prenda di nuovo il sopravvento, rifatto
criticamente più forte dall'essere passato sotto la prova
del fuoco della dottrina idealista che temporaneamente
lo abbatté, lo spirito del positivismo realistico.
«Spero non possa rimanere dubbio che lo scrittore fu
buono italiano, amò virilmente la patria. Ma potrebbe
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Giuseppe Rensi
Autorità e libertà
parer forse ch'ei l'amasse troppo severamente.
Risponderò prima con molte e gravi autorità, poi con
una sola ragione. Le autorità, sono quelle di Dante con
tutti i cronacisti del trecento, il Compagni, Petrarca,
Machiavello, Ariosto, Muratori, Alfieri, Botta in molti
luoghi, e Colletta, cioè tutto ciò che abbiamo di
prosatori o poeti più o meno virtuosi; dai quali ed altri
minori si potrebbe far una raccolta, che non sarebbe
inutile, di ammonizioni tanto severe, che io credo sia
forse per liberarsene che s'è venuto ora a quel darsi
buon tempo e lusingarsi vicendevolmente di tanti
presenti. Ma, remota ogni autorità, se non siamo
naturalmente inferiori, bisogna dire che il siamo per
errori passati, i quali dunque si tratta di scoprire e
correggere. Ei non sono se non i contentissimi, i
pienamente soddisfatti, i non desiderosi di nulla per la
patria, i quali debbano difendere su tutto i maggiori, su
tutto i contemporanei, per procacciare un tutto simile ai
nepoti. Ma io non iscrivo a nessuno di questi»107.
107 BALBO, Pensieri sulla Storia d'Italia, pref.
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Autorità e libertà
INDICE
Prefazione
I. La filosofia della libertà
II. La filosofia dell'autorità
III. Dalla libertà alla tirannide
IV. Dalla autorità alla libertà
V. Spinoza
APPENDICE - Le colpe della filosofia
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