Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti di Modena
(fondata nel 1683)
ATTI E MEMORIE
MEMORIE
SCIENTIFICHE, GIURIDICHE, LETTERARIE
SERIE VIII - VOL. XVI - Fasc. II, 2013
Modena 2013
Acc. Naz. Sci. Lett. Arti di Modena
Memorie Scientifiche, Giuridiche, Letterarie
Ser. VIII, v. XVI (2013), fasc. II
Patrizia Paradisi
LO SCRITTOIO DEL PASCOLI LATINO
E LA PRIMA RICEZIONE DEI «CARMINA»
(Seconda parte) *
ABSTRACT
Pascoli became immediately known and appreciated in Europe as a Latin
poet: he was even translated into Hungarian, while the Dutch Latinist J.J.
Hartman (first a competitor and then a judge at Certamen Hoeufftianum
in Amsterdam) had meantime become his friend, and on his deathbed
dedicated an important exegetical essay to him. There were several
newspapers written in Latin in circulation (not only in Italy) at that time
(‘Vox Urbis’, ‘Praeco Latinus’, ‘Alaudae’ and ‘Rosa Melitensis’), a
context in which Pascoli considered founding another one: ‘Fanum
Vacunae’. However, the success of his carmina at home began with
Veianius, the first short poem awarded in 1892 with the gold medal, as
confirmed in the dedicationes composed for various figures (from the
Pope to the Minister of Education), and the various translations published
by others (making it possible to retrace a number of interpersonal
relations previously ignored). Numerous Odi barbare by Carducci and
the Elegie Romane by d’Annunzio were translated into Latin and printed
in those years: the competition and rivalry of the two national prophetpoets with the poet of San Mauro is therefore apparent also in this area.
For 1911, the 50th anniversary of the Unification of Italy, Pascoli wanted
to publish the volume of Res Romanae that brought together his carmina
(with parallel translations), as explicitly and also publically declared to
various parties; the project, however, never got off the ground, more for
personal motives associated with his poetic inspirations than for objective
reasons.
*
La prima parte è uscita nel precedente fascicolo delle Memorie, pp. 71-118
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6. Pascoli latino in Europa
Pascoli mantiene rapporti di ‘buon vicinato’ con i concorrenti non
italiani che si piazzano come lui al certamen Hoeufftianum fra ori e
lodi. A Francesco Saverio Reuss (1842-1926), ad esempio, padre
Redentorista di origine alsaziana, ma, subito dopo l’ordinazione, a
Roma presso la casa generalizia per quasi sessant’anni, che aveva
ottenuto nel 1901 la magna laus col carme Rus Albanum,1 invia il
Centurio con una cerimoniosa dedica (PE XLIV): Te rus Albanum
cupiebam visere. Vidi / et cupio, Reusso vate, videre magis. Col
latinista Jakob Johann Hartman (1851-1924) i rapporti, benchè solo
epistolari e a distanza, divennero addirittura amichevoli. Il professore
olandese (la cui carriera, prima alle scuole superiori, poi, dal 1891,
all’Università di Leida, è assai simile a quella del nostro) partecipò per
diversi anni al Certamen, vincendo due volte l’oro nel 1898 e ’99,2
prima di diventarne giurato (dal 1906). Quando nel 1905 Pascoli vinse
l’oro col Fanum Apollinis e Hartman conseguì ben tre magnae laudes
con altrettanti poemetti, l’italiano gli inviò una copia del Fanum con
questo affettuoso distico: Hartman, non vinci, magis est vicisse pudori /
cum victor victi carmina saepe lego (PE XXXVII).3 Questi rapporti
dovettero continuare negli anni sotto il segno della stima e addirittura
della simpatia reciproca. Ne è viva testimonianza un passo di una
lettera di Pascoli a Finali del giugno 1911 in cui il poeta, rivelando
1
Fra il 1900 e il 1925 ottenne tredici lodi e un oro nel 1915 col Mnemosynon (TONDINI).
Si piazzò fra i lodati nel 1897, 1900, 1904 e 1905 (sempre secondo).
3
Datato Pisis, a.d. XIII Kal. Iunias (PIANEZZOLA, p. 9 s.). I versi manoscritti trovati su un biglietto
da visita di Hartman, pubblicati e attribuiti da Marinella TARTARI CHERSONI a Pascoli (2006, pp.
137-142, e con questa paternità ripresi nella seconda edizione dell’AP, pp. 79 s.), sembrano in realtà proprio dello stesso Hartman. Nell’occasione di un viaggio in Italia, passando per Pisa (dove
alloggiava all’hotel “Nettuno”?) avrebbe desiderato incontrare il collega-rivale italiano, e per
questo gli invia i suoi poemetti con l’invito per l’abboccamento, ovviamente in latino, l’unica lingua in cui i due potevano comunicare. I cinque esametri sono scritti immediatamente sotto la stampigliatura centrale del biglietto, Prof. J. J. Hartman in elegante corsivo, che funge da soggetto della frase che segue: «vocem audire Tuam et dextram Tibi iungere gestit: / hospitium tenet hic Neptuni nomine dictum, / visere te cupiens teque expectare paratus, / sit modo nota domus, Tua sint
tempora nota». L’amico non vuole essere invadente e auto-invitarsi a casa di Pascoli, ma propone
l’incontro in albergo (sit modo nota domus), ed è disposto ad aspettarlo (Tua sint tempora nota).
L’aggiunta finale «sul fondo, nel centro»: «Ante diem medium cras Pisae tecta relinquet» che precisa l’imminente partenza, se di mano dell’olandese, come qui si propone, giustificherebbe meglio
anche l’irregolarità di Pisae. Il fatto che sul retro dello stesso biglietto si trovino i due distici latini
pascoliani di dedica allo stesso Hartman e a Giorgini (PE XXXVI) è la conferma della presente
ricostruzione (che non necessita così ipotesi di spostamenti di Pascoli, altrimenti non documentati,
tra Nettuno nel Lazio, Pisa e Castelvecchio, né di identificazione di destinatario [Pietrobono o Pistelli], né di datazione).
2
448
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
all’amico i retroscena del famigerato concorso romano di poesia latina
per il Natale dell’Urbe appena concluso, ha modo di esprimere tutta la
propria amicizia nei confronti dell’olandese:
il concorso non fu giudicato con diligenza. Invero un ottimo dell’Un.[iversità] di Leiden, uno che una volta mi vinse nel certame
Hoeufftiano, Giovan Giacomo Hartmann, aveva concorso e non fu
nemmeno menzionato. Io ebbi da lui il suo carme, una graziosa epistola
oraziana, fatta non a centone come il sermone di Leone XIII, ma con un
garbo, un’arguzia, una eleganza, una disinvoltura mirabili. Così altri
valenti olandesi furono offesi da un disdegno inconcepibile! Sono cose
che ho saputo dopo […]4
L’Hartman che, secondo l’aneddoto divenuto subito celebre, aveva
riconosciuto alla prima lettura l’autore di Thallusa, fu poi tra i primissimi critici del Pascoli latino: se ne occupò in vari articoli stesi subito
dopo la morte, e nel 1919 pubblicò (in olandese e in latino) il saggio su
La poesia latina di Giovanni Pascoli, che nel 1920 fu anche tradotto in
italiano (e in testa al volume volle stampato il distico gratulatorio pascoliano).
Nel 1905 il carme Paedagogium registra una traduzione in ungherese
a cura di G. Jànosi,5 ciò che probabilmente favorirà la notorietà del Pascoli poeta latino (e italiano) in terra magiara: testimonianza di una singolare fortuna fuori dai confini nazionali del nostro, che ancora nel
1934 riceverà nella Storia della letteratura europea di Mihàly Babits
una penetrante interpretazione, basata proprio sulla poesia latina, di cui
viene rivendicata l’universalità sulla base dello strumento linguistico,
solo in apparenza anacronistico.6
4
CENCETTI 2008, p. 298.
Seguita da diverse recensioni su riviste locali: vd. FELCINI 1982, nn. 475, 488, 489, 508, 509, 593
(Non esiste ancora uno studio che si occupi delle eventuali traduzioni dei carmina nelle lingue
europee, come quello di TINTI per la poesia italiana). Sarebbe anche da accertare, ad es., se ebbe
qualche seguito l’interesse mostrato dall’amico Vittorio Fiorini nel 1895, dopo aver ricevuto
l’opuscolo Nelle nozze di Ida: «Il Grimm, l’autore della vita del Goethe, vuol farti conoscere in
Germania: mandami qualche notizia biografica tua. Non ti chiedo che l’anno di nascita e i titoli
delle tue opere latine ed italiane» (LV, p. 460).
6
«Poeta assai più grande, semplice e profondo [di d’Annunzio] fu invece Pascoli. […] Pascoli ha
scritto nel XX secolo le proprie opere migliori come grande poeta nazionale della latinità, il che
significava al tempo stesso poeta universale nel senso virgiliano della parola, l’ultimo di questo
genere. I suoi epilli latini, che rievocavano il tempo delle origini del cristianesimo, non erano
soltanto la pura e semplice ricostruzione di una poesia morta da tempo. Quella poesia continuava
infatti a vivere in lui anche se il mondo non la comprendeva. Essa parlava al mondo intero, e
direttamente al mondo moderno. La poesia latina di Pascoli può essere presa a simbolo della
situazione in cui si trova oggi la poesia in generale. All’inizio del XX secolo […] i poeti non
5
449
P. Paradisi
Un altro settore rimasto piuttosto in ombra, finora, nell’ambito degli
studi pascoliani, è quello della stampa periodica che utilizza il latino
come lingua veicolare (e che quindi quasi ‘per statuto’ dovrebbe trovare
il proprio bacino naturale di lettori e collaboratori fra i poeti neolatini).
I decenni a cavallo dei due secoli ne vedono una fioritura solo apparentemente inaspettata: positivismo e modernità convivono ancora pacificamente con quello che continua ad essere lo status-symbol della cultura ‘alta’ e della tradizione, in cui i nuovi contenuti vanno solo innestati.
La rivista romana «Vox Urbis» solo nel 1907 per la prima (e sembra
unica) volta segnala una vittoria del Pascoli al Certamen Hoeufftianum.7 Il bimestrale «Vox Urbis, de litteris et bonis artibus commentarius», pubblicato a Roma fra il 1898 e il 1913, fu fondato e finanziato
dall’ingegnere-umanista Aristide Leonori (Roma 1856-1928). Educato
al Collegio Romano (e dal 1886 terziario francescano), progettò numerosissimi edifici religiosi non solo a Roma e in Italia, ma in tutto il
mondo, soprattutto quello anglosassone, dall’Inghilterra agli Stati Uniti
all’Australia.8 Nel proporre un giornale completamente scritto in latino
(a cui egli stesso diede numerosi articoli), Leonori esplicitamente raccoglieva il testimone da «Alaudae», pubblicato a L’Aquila tra il 1889 e
il 1895 e diffuso in tutta Europa dal giurista Karl Heinrich Ulrichs, singolare figura di erudito teutonico ottocentesco (1825-1895), convinto
fautore del latino ‘vivo’,9 e si ispirava pure all’esperienza dell’americano «Praeco Latinus», pubblicato a Philadelphia tra il 1894 e il 1902
dall’oriundo ungherese Arkád Mogyoróssy (1851-1935), più noto col
nome latinizzato Arcadius Avellanus), lui pure attivissimo esponente
negli Stati Uniti del latino vivo, svincolato dal ciceronianismo vigente
nella cultura umanistica tradizionale.10 «Vox Urbis» aveva già accolto
un articolo di Alfredo Bartoli su Giovanni Pascoli nel 1902, e ancora lo
stesso latinista lo commemorerà in occasione della morte. Il Bartoli, già
tenevano più in considerazione la possibilità di essere compresi dal pubblico, per questo non li
turbava la scelta di definizioni che sapevano fin dall’inizio essere accessibili soltanto per pochi.
Questo spiega […] la scelta di Pascoli per la lingua latina» (BABITS, pp. 387-389).
7
Con l’articolo di H. T. Karsten, Ex Batavia. De certamine poetico Hoeufftiano (a. X, n. VIII, aprile 1907, p. 30). Il Karsten era un componente della giuria del Certamen.
8
Se ne veda la voce redatta da F. Di Marco nel DBI, 64, 2005.
9
Dopo la sua morte, la regina Margherita, che aveva ricevuto il periodico, ne chiese notizia alla
deputazione aquilana andata ad ossequiarla (COLAPIETRA, p. 323).
10
SACRÈ, pp. 11-14. Nel 1914, al posto della «Vox Urbis», l’avv. Giuseppe Fornari fondò la rivista
mensile «Alma Roma» che durò fino alla morte del suo direttore nel 1942.
450
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
definito “ultimo erede del Pascoli latino”,11 quando fu a Malta professore di latino nella locale Università, fra il 1908 e il 1910 fondò, diresse
e scrisse a sua volta un giornale in latino che fin dal titolo, «Rosa Melitensis» si ispira a Pascoli.12 Il romagnolo infatti nel 1902 aveva composto un canto latino (accompagnato dalla traduzione italiana) per celebrare l’incontro fra studenti di Malta e i colleghi dell’Università di
Messina, che inizia proprio domandando: Priscamne fragrans fert Melite rosam? («Produce tuttora l’odorata Mèlite quelle rose di un
tempo?», PE XI), e la rosa di Malta diventa poi il tema conduttore del
breve carme. Il Bartoli riprodurrà l’autografo dell’Ad sodales Melitenses sulla sua rivista (febbraio 1910), come aveva già ristampato il Iugurtha nel maggio del 1909 (e sembra che Pascoli stesso avesse promesso la sua collaborazione al periodico).
Su questo sfondo allora acquista un significato molto meno stravagante l’intenzione manifestata da Pascoli più volte di pubblicare un
giornalino in latino, il cui fulcro ideale si coagulava nel titolo Fanum
Vacunae, quell’emistichio oraziano ad altissima concentrazione simbolica, che poi si trasformerà nell’omonimo poemetto-testamento spirituale del 1911.13 Anzi: forse proprio l’assordante silenzio con cui queste riviste registravano la sua produzione latina (non casualmente: Pascoli col suo latino era irriducibile alle loro istanze neo-umanistiche di
latino vivo, addirittura parlato) indusse il romagnolo a colorire il suo
disegno con sempre maggiore precisione (perfino tipografica), in una
lettera all’editore Giusti del 7 gennaio 1897:
un giornalino mensile, insomma, o quindicinale, tutto in latino e greco,
con piccole note critiche e piccole poesie. Deve essere elegantissimo.
[…] Darei premi agli abbonati (a metà prezzo), opuscoli poetici o
prosastici latini che via via pubblicherei o ripubblicherei. […] Io lo
faccio: primo, per non disperdere al vento tutte le osservazioni nuove che
non sono nelle note dei miei libri scolastici; secondo, per difendere dai
tedeschi (che sono echi d’italiani nostri, creda!) le mie cose, e penetrare
rispettato in tedescheria, in Olanda, in Francia, in Inghilterra; terzo, per
diffondere i miei libri e il mio indirizzo. Ne darei una copia gratis a ogni
liceo e ginnasio italiano. […] a ogni modo, io lo faccio il giornalino mio,
dal titolo Fanum Vacunae. Sarà la bandiera della nuova scuola italiana,
11
RAGAZZINI; molto più recentemente è stata documentata «la forte adesione, sentimentale e
istintiva prima ancora che teoretica, che lega Bartoli al poeta romagnolo» (DI STEFANO, p. 306).
12
Sfuggito finora, se non ho visto male, a chi si è occupato del Bartoli: SACRÈ, p. 16 (con bibliografia precedente); PARADISI – TRAINA, p. 134 s., 169 s.
13
TRAINA 1977, p. XVI s.
451
P. Paradisi
che, senza sprezzare i tedeschi, si ricongiunge però, meglio che a loro, ai
nostri umanisti del ‘400 e del ‘500. È una rivistina personale, dove non
sono altri collaboratori che Johannes Pascoli.14
La prima traccia del progettato giornalino si trovava già in un foglietto ms. che porta un «Index operum in annum MDCCCXCIV»:
Fanum Vacunae edendum – inerunt poemata latina minora & italica;15
e ripetute sono le ‘anteprime’ comunicate agli amici per lettera, col
tentativo di coinvolgerli direttamente nell’impresa, da De Bosis (nell’aprile 1895),16 ad Antony de Witt (giugno 1897),17 a Luigi Valli
(ancora nel 1901),18 a Luigi Siciliani (giugno 1902).19 Nel 1903 Fanum
Vacunae diventa solo un ex-libris chiesto a De Carolis col disegno di
«un tempio in rovina, pieno d’ellera e di rovi» (e il medesimo motto
oraziano post fanum putre Vacunae),20 ma le prime date che abbiamo
visto si sovrappongono perfettamente alle date di chiusura di
«Alaudae» e di esordio di «Vox Latina»: non si può escludere quindi
che almeno una suggestione non sia derivata al Pascoli da questi
precedenti per il suo giornalino.
7. Il successo del Veianius: traduzioni, dedicationes e altri progetti
Tutto era iniziato con l’inaspettato successo del Veianius. Solo contestualizzandolo opportunamente nella storia del Certamen Hoeufftianum,
14
Con l’editore tornò più volte alla carica, nei mesi successivi: in una lettera da Messina del marzo
1898 c’era anche una specie di sommario del primo numero (PESCETTI, pp. 405 s., 421 s.; cfr. anche BIAGINI 1963, p. 293 s., 490 s.).
15
Pubblicato da NASSI, p. 308, e cfr. p. 295.
16
GHELLI 1998, p. 38 s. = GHELLI – CEVOLANI, p. 44 s.
17
PACCAGNINI, p. 282 s.
18
«penso ora […] di fondare un giornale settimanale a Roma […] che avrà la sua rubrichetta Post
Fanum putre Vacunae, in latino, prosa e versi […]»; «nella mia rubrica latina, vorrei ogni settimana illustrare poeticamente un monumento, una natura, un luogo di Roma!» (CAPECCHI 1999,
pp. 164, 166 s.; cfr. LV, p. 674 n.1).
19
Ma ancora nel dicembre 1904 gli scriveva: «compiacciamoci di sognare che ci sia dato fondare
ben presto un periodico o giornale libero, veramente libero. Coi primi dell’anno voglio scriverne il
programma. Chi sa non si riesca trovare qualche capitale? I collaboratori sarebbero legione, perché
ormai tutti hanno, vago quanto si voglia, nell’anima profondo il desiderio di libertà» (GHIDETTI,
pp. 276, 291).
20
FERRI, p. 393 (ma già ne manifestava l’intenzione scrivendone a Caselli nel settembre 1901:
FLORIMBII, pp. 174 s.). Anche Maria non può che ricordare con rammarico il progetto: «A me, che
stavo sempre nel suo studio mentre egli lavorava, ne parlava spesso, e sembrava che lo vedesse il
suo giornalino tanto se ne compiaceva. Era un sogno, un sogno che accarezzò per vario tempo, ma
che non doveva mai divenire realtà» (LV, p. 413; cfr. anche TAVONI-TINTI, p. 93, con qualche
imprecisione).
452
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
ci si può rendere conto di quale fu, per l’autore e per l’‘opinione pubblica’ italiana, l’impatto della medaglia d’oro conferita al carme nel
1892. Nei tre anni precedenti per due volte il massimo riconoscimento
non era stato assegnato (1889 e 1891), e l’anno in cui era stato assegnato (1890) non c’era stata nessuna ‘lode’. Nei due anni senza oro, invece,
c’erano stati solo tre poemetti ‘lodati’ (due nel 1889 e uno nel 1891).
Due lodi le aveva ottenute il veronese don Andrea Sterza (1847-1898):
laureato a Padova e cultore appassionato dei classici, ne avrebbe
conseguite altre due nel 1893 e 1894, sempre con poemetti di argomento religioso.21 Per una fortuita occorrenza, abbiamo la possibilità
di sentire in diretta che cosa pensava Sterza di Pascoli nel 1898:
dietro quali norme quei barbassori di giudici pronuncino il loro verdetto,
io non saprei. A mio parere il Barnabita Rosati è molto migliore del Sig.
Pascoli: eppure quest’ultimo è sempre il preferito e premiato con
medaglia d’oro. […] L’esperienza mi fa considerare quel concorso come
un giuoco di sorte [c.d.a.], più che una gara degl’ingegni, quindi per me
ha poco allettamento, benchè la sorte mi sia stata buona mamma quattro
volte (GIONTA, p. 199).
Prima della comparsa di Pascoli, due poeti si potevano definire veramente abbonati al certamen: l’olandese J. Van Leeuwen, che per più di
trent’anni tra il 1856 e il 1888 venne premiato o lodato tredici volte,22 e
lo svizzero di Friburgo Peter Esseiva (1823-1899), con quindici fra premi e lodi (12 + 3) in neanche vent’anni fra il 1870 e il 1889: poeta e
uomo politico, fra il 1849 e il 1870 fu anche a Roma al servizio di Pio
IX nella Guardia Svizzera Pontificia, e successivamente deputato conservatore nel Gran Consiglio della sua città. I suoi carmi erano di argomento religioso (ma una volta anche satirico-reazionario in senso antifemminista): basta leggere qualche titolo per rendersi conto del personaggio.23 Nel 1892 la medaglia d’oro al Veianius rimane in uno splendido isolamento, non essendoci alcun altro carme lodato: il risalto del
premio quindi è massimo. L’entusiasmo indotto nell’autore dal successo riportato24 si manifesta in una serie di propositi che, se anche nella
21
Adam et Christus (1889), Maria virgo in monte Calvariae (1891), Machabei septem fratres
(1893), Poeta a Musis christianis edoctus (1894): tutti in esametri tranne il primo, un’elegia.
22
Già Tommaseo si era lamentato, ancora nel 1870, dello strapotere dei due nel Certamen, a suo
parere assolutamente non giustificato dalle loro competenze di latinisti (vd. PARADISI 1998, p. 51 s.).
23
In mulieres emancipatas (1880), Juditha (1884), Judas Machabaeus (1886), Esther (1887),
Susanna (1888), Servi Eliezer ad Abraham epistola (1889).
24
Cfr. LV, pp. 325, 328, 330.
453
P. Paradisi
maggior parte rimarranno senza attuazione, testimoniano col loro fervore l’importanza che vi attribuì, anche in vista di risultati concreti e vantaggi per la carriera di professore che si aspettava di ottenere – come ho
già detto, piuttosto ingenuamente – ipso facto. Li indico per punti.
Il primo è l’accurata revisione a cui sottopose il testo stesso in fase di
correzione delle bozze olandesi (ricevute il 1° aprile 1892), per cui il
poemetto spedito originariamente al concorso (ne resta il ms. a Castelvecchio), rispetto alla redazione definitiva stampata, è di sette versi più
breve e presenta un buon numero di lezioni divergenti.25 Per i carmi
successivi non risulterà più una cura così immediatamente esasperata,
al punto da modificare in fase di bozze il testo già premiato o lodato,
anche se il ‘demone correttorio’ lo accompagnerà per tutta la vita (come
è documentabile dai mss. per molti carmi), manifestandosi già durante
la prima stesura come proposito di futuro perfezionamento e adeguamento a obiettivi prefissati (di numero di versi ecc.).26
Più significativo per noi oggi è l’abbozzo di versione in sciolti che
iniziò ad elaborare l’anno successivo, nella primavera del 1893, pressato dalle sollecitazioni che gli venivano dall’esterno. Maria racconta
bene il retroscena e le intenzioni autentiche del poeta sulla questione
della traduzione dei suoi carmi latini (che rivelano una coerenza che si
manterrà fino alla fine dei suoi giorni):
il Del Lungo, lodato il Veianius, chiudeva: «E perché non lo fa italiano?
Nessuno potrebbe meglio di Lei; e una ristampa con la versione
gioverebbe a diffonderlo». L’idea di tradurre il suo latino egli l’aveva già,
ma non intendeva cominciare allora perché allora voleva creare. Sarebbe
stato, diceva, il lavoro riposato e delizioso della sua vecchiaia, se avesse
potuto averla; e avrebbe fatto delle versioni alquanto libere come poemi
ricomposti in italiano. Quando vedeva qualche suo poema tradotto da
altri, pativa: nelle versioni non riconosceva più il suo poemetto. Un
giorno, siccome io m’ero divertita a tradurre in prosa e in versi
endecasillabi il Veianius, egli per darmi un saggio del come avrebbe
inteso di fare, ne sbozzò il principio […]. Poi lasciò stare ché non poteva
mettere il suo tempo lì.27
25
Se ne è accorto e ne ha dato conto PERUGI 1985, p. 301 s.
Si veda ad es. per Pecudes, da una lettera a Mariù del 13 dicembre 1898: «L’hai letto, eh? C’è
tutto […]. Poi lo rifarò, così: 30 proemio, 100 prima parte, 100 seconda, 100 terza» (PARADISI
1992, pp. 18).
27
LV, p. 349 (l’episodio è riferito in modo un po’ impreciso nel capitolo Progetti mai realizzati di
TAVONI – TINTI, p. 73).
26
454
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
Questo principio di traduzione del Veianius, che si estende per un
tratto più lungo dei sei versi riportati nelle Memorie, e di cui il Vicinelli
prometteva in nota la pubblicazione nel fantomatico volume degli Scritti sparsi mai usciti, dopo essere rimasto annidato nelle pieghe del volume del GANDIGLIO (1931, p. 195 s.), e quindi praticamente ignoto, ha
goduto di un singolare revival in anni recenti. I fogli mss. che riportano
ben leggibili questi versi sono stati riprodotti nel Catalogo della mostra
L’officina di un poeta, tenuta a Lucca nel 2000;28 il frontespizio e la
prima pagina del quaderno con la traduzione di Mariù compaiono ora
nel volume celebrativo voluto dalle due dimore storiche per l’attuale
centenario, Giovanni Pascoli vita, immagini, ritratti;29 mentre Garboli,
nella sua antologia mondadoriana, presentava ancora i venti versi iniziali della traduzione di mano del Pascoli come se fossero una primizia.30 Il passo delle Memorie di Maria ci fornisce comunque due indicazioni fondamentali, alle quali mi sembra non sia stato dato finora il
dovuto rilievo. La prima è la consapevolezza del poeta della opportunità di uno strumento come la traduzione ‘a fronte’, che rendesse accessibile la fruizione dei suoi carmi latini a un pubblico più vasto (altro
che ‘autismo’!); l’altra è la modalità della auto-traduzione, «versioni alquanto libere quasi come poemi ricomposti in italiano», sorprendentemente precoce: è infatti la modalità che sarà messa in atto solo per i due
Inni a Roma e a Torino del 1911 rispetto ai corrispettivi Hymni. Quanto
alle traduzioni degli altri, in cui «non riconosceva più il suo poemetto»,
ne aveva fatto prova, appunto, fin dal Veianius: nel giro di pochi mesi
fra 1893 e ’94 ne erano uscite tre, a firma rispettivamente di Giuseppe
Checchia,31 Carlo Luigi Torelli ed Enrico Cocchia (il più autorevole e
titolato dei tre, essendo cattedratico a Napoli già dal 1884, dopo aver
28
ANDREOLI 2000, pp. 28-29: Veianius Italicus.
CERVETTI, p. 171: la generica didascalia, peraltro, non precisa che è opera di Maria, come si evince chiaramente dalla sigla che compare sul frontespizio: «Traduzione del Veianius in Italiano.
Prosa e versi sciolti M.P.»; cfr. anche WEINAPPLE, p. 123, che descrive il «piccolo quadernetto,
[…], scritto in bella calligrafia e senza correzioni (chiaramente una “bella copia”)» e fornisce la
data appostavi, 21 settembre 1892.
30
GARBOLI 2002, I, pp. 807-809 (evidentemente senza conoscere il precedente del Gandiglio e
senza indicare, peraltro, che già PERUGI 1985, p. 303 n. 1 aveva segnalato la presenza di diverse
stesure dello stesso passo iniziale). Inoltre, «Nell’entusiasmo del primo poemetto», come dice Vicinelli (LV, p. 327 n.1), «pensò anche di farlo musicare» dal musicista veronese Carlo Della Giacoma, direttore di banda reggimentale a Livorno proprio in quegli anni, che incontrava alla Fiaschetteria Cipriani in un clima di profonda amicizia (cfr. AP, p. 77 s.).
31
Stampata addirittura in tre sedi diverse: «Biblioteca delle scuole italiane», 16 luglio 1893, pp.
315-318; «Il pensiero italico» (Milano), ottobre 1893, pp. 148-150; «L’Aurora» (Foggia), 7 dicembre 1893, pp. 121-123 (di nuovo, interamente rifatta, comparirà come omaggio funebre in «Classici e Neolatini», gennaio-aprile 1912, pp. 96-107).
29
455
P. Paradisi
trascorso un anno per perfezionarsi all’Ateneo felsineo nel 1882, e avervi quindi conosciuto il laureando Pascoli).32 Altre due si sarebbero
aggiunte mentre Pascoli era ancora in vita:33 si può comprendere il disappunto del poeta, che si vedeva subito ‘scippato’ del successo del carme da altri che cercavano una qualche forma di notorietà alle sue spalle.
Emblematico è il caso dei rapporti col professore pugliese Giuseppe
Checchia (1860-1943).34 Alcuni passaggi delle lettere inviategli da Pascoli sono importanti perché, confermando altre testimonianze che vedremo subito dopo, mostrano la rapida elaborazione del progetto che aveva già in mente riguardo al complesso della sua poesia. La prima lettera rimasta (19 gennaio 1893) indica una conoscenza fra i due già avviata (probabilmente tramite qualche comune amico urbinate, visto che
allora Checchia insegnava italiano, storia e geografia presso la Scuola
tecnica di Pergola, vicino Urbino):
Caro amico, […] ti mando l’unica mia copia: una copia distinta quali ne
furono fatte solo otto copie [sembra trattarsi del fascicolo olandese del
Veianius]. Questo ti dico per impreziosirti il dono, che altrimenti avrebbe
poco valore. Godo nell’anima che tu traduca il mio Veianius. Non so
ancora quando il Giusti si deciderà a ristampare le Myricae, tra le quali,
meglio pensando non vorrei ristampare il Veianius (destinato a
ricomparire corretto e ampliato in un libro di versi latini che pubblicherò
tra qualche anno).
Quando Checchia sta per pubblicare la sua traduzione, Pascoli lo invita ripetutamente a non riprodurre il testo latino: «oggi succintamente
ti dico che desidererei moltissimo che tu non insistessi a stampare an32
Nel 1905 COCCHIA ne ricorderà le performances alle lezioni del Gandino in questi termini: «il
bardo gentile […] giovane e biondo compagno d’armi, il triplice vincitore dell’agone hoeftiano
[…] lo riveggo ancora di fronte a me, […] mentre scandisce con voce melodiosa il ritmo sonante
del senario plautino, annebbiato alla coscienza dei tardi nepoti, o mentre riannoda la classica orditura della prosa leopardiana a quel tipo eterno di bellezza e di armonia, che più d’ogni altro era agile a sorprendervi nella forma perfetta della esterna trasfigurazione» (p. 12). La sua traduzione del
Veianius uscì sul «Bollettino di Filologia Classica», dicembre 1894, pp. 126-129 (su Cocchia si
veda il profilo di P. Treves nel DBI, 26, 1982, pp. 483-487).
33
Di Arnaldo Bonaventura, nella sua antologia di traduzioni La poesia neo-latina in Italia dal secolo XIV al presente. Saggio e versioni poetiche, Città di Castello, Lapi, 1900, pp. 344-347 (Vejano), e di Odoardo Gori nel 1908, stampata prima in rivista («Nuova Rassegna di Letterature moderne», pp. 459-465) come «rifacimento», poi in volume: Il “Vejanio” di Giovanni Pascoli, testo
latino e traduzione ritmica di O.G., Firenze, Spighi, 1908 (sul Gori inaffidabile traduttore dei carmina vd. infra p. 465 e n. 57, 58).
34
Notizie e documenti, già resi noti negli anni Cinquanta da G. B. Gifuni, sono stati ora ripresi e
interamente riconsiderati nella monografia di Sebastiano VALERIO, da cui citiamo le lettere che
seguono (pp. 113-120).
456
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
che il testo latino. Ho molte ragioni per questo desiderio e te le esporrò
domani» (da Livorno, 1° luglio 1893); ancora due giorni dopo:
ti dirò quelle ragioni. La prima è che tra un anno, al più due, voglio
pubblicare un volumetto di poematia latina e il Veianius potrebbe dare,
se fosse quasi ignoto, curiosità alla raccolta. Un’altra è che la cartolina
del Finzi [critico letterario e latinista] mi pare un po’ altezzosa. Ma
davvero crede che io vada cercando colpi di gran cassa? Si vede bene che
non mi conosce affatto.
Checchia non diede retta al Pascoli, pubblicando il testo latino assieme
alla propria traduzione, e il poeta ne fu fortemente contrariato (tanto da
interrompere bruscamente i contatti), come confessò apertamente a Carlo Luigi Torelli in una lettera del 27 febbraio 1894:
Il Veianio latino fu ristampato con abuso pessimo da Checchia al quale
pure avevo scritto stampasse quante sue traduzioni credeva, non il testo,
che volevo io dar fuori molto corretto e con aggiunte in una raccolta di
carmi alla quale, esso premiato, doveva dare un poco d’interesse.35
Insomma Pascoli in qualche modo era compiaciuto delle attenzioni
che riceveva e sembra aver gradito queste traduzioni, purchè lasciassero
(anzi contribuissero a destare) la curiosità per il testo originale: posizione che manterrà con incoercibile coerenza fino agli ultimi anni.
Ultimo ma non meno importante è il proposito delle 19 Dedicationes Veiani, quale è apertamente manifestato in una lettera a Domenico
Mosca del 4 ottobre 1892, ovvero una serie di odicine, sempre in latino,
da apporre sulle copie del carme da inviare a destinatari ‘importanti’, a
mo’ di dedica personalizzata.36 Ne verranno realizzate però solo alcune,
35
VALERIO, p. 80. Ma anche il Torelli (Apricena 1863 – 1918; cultore dei classici latini e italiani,
nonchè di storia, fu sindaco della sua città fra il 1902 e il 1905; allora insegnava al ginnasio-liceo
di Montecassino) pubblicò la sua traduzione del Veianius con testo a fronte presso l’editore Valdemaro Vecchi di Trani, non mancando di avvertire in nota che si attendeva «dall’Autore una nuova
edizione modificata ed accresciuta» (dopo avere pubblicato la sola traduzione su «La Rassegna pugliese» [Trani], luglio 1894, pp. 213-216). Del lavoro del Torelli interessa soprattutto l’introduzione, straordinariamente precoce come prima vera analisi di un carme latino, invero non disprezzabile nelle sue osservazioni sul rapporto con Orazio, la struttura e il significato ultimo del
componimento.
36
Lo spunto potrebbe essergli derivato dal precedente di Albini (ancora lui!) che dieci anni prima,
orgoglioso di potergli offrire il suo primo carme lodato ad Amsterdam, Sponsa nautae (1882),
l’aveva accompagnato con un’elegante asclepiadea di tono personale e riflessivo vergata sulla copertina del fascicolo, Ad J. Pascoli (scovata a Castelvecchio e pubblicata da TRAINA 1985, pp. 154
s. [= 1989, pp. 277-279], poi in TRAINA 2010, p. 12).
457
P. Paradisi
cinque delle quali entreranno poi nella raccoltina della Silvula (PE IV).
Di questi testi ci si è ampiamente occupati per il loro contenuto, soprattutto il valore programmatico di tutta la poesia latina che alcune di
esse assumono. Minore attenzione è stata rivolta invece alla loro genesi
collettiva ‘paratestuale’ in senso genettiano, forse proprio anche per il
fatto che il progetto è stato abbandonato e la serie prevista è rimasta incompleta.37 Ecco cosa diceva allora Pascoli a Domenico Mosca: «Nella
seconda edizione (illustrata) delle Myricae avrà luogo… anche l’odicina latina che ho scritto sul Veianius… con altre diciotto in metri
differenti sotto il titolo Dedicationes Veiani o che so io».38 Si trattava evidentemente di un’anticipazione del progetto che sarebbe stato attuato
quasi vent’anni dopo col Fanum Vacunae (1911): le diciannove dediche
dovevano corrispondere, in una specie di tour de force metrico, ai diciannove metri oraziani. Pressochè contemporaneo è un appunto ms.
con un elenco di nomi in latino, fatto conoscere dal Gandiglio accanto
al brano della lettera:
Ad Leonem 1
Ad Finalium 2
Ad Martinium 3
Ad Romizi 4
Ad Rossi 5
Ad Pinelli 6
Ad Balsimelli 7
Ad Martinozzi 8
Ad Setti 9
Ad Severinum 10
Ad Gandinum 11
Ad Ianninium 12
37
Sintomatica l’indifferenza di DAL SANTO, che nella sua lunga e minuziosa analisi delle tre odi in
cui è presente «la tragedia familiare del Pascoli», cioè PE XV, XVI, XVII (1958, pp. 416-442),
non tenendo conto del programma originario, si può addirittura meravigliare del fatto «che i carmi
XV e XVII sono scritti in metri rimasti isolati in tutta la silloge di PE: il P. volle che questi carmi,
rivelatori della sua pietas di figlio, spiccassero fra tutti gli altri, presentandosi sotto una veste,
anche metrica, inconfondibile e particolare. Dopo gli anni 1892 e 1893 la sua musa latina non ripetè più questo grido, né più tornò a pregare movendo da questo umanissimo anelito» (p. 442, corsivo mio).
38
La frase (già con i tagli segnalati dai puntini) è riportata dal Gandiglio nella sua Appendix critica
(p. 726): egli dice di avere ricevuto copia (exemplum) della lettera dal Mosca stesso nel 1920 (sembra quasi impossibile poterne rintracciare l’originale). Sarà da attribuire almeno allo stesso autunno del 1892 (e non «agli anni anteriori al 1890») l’appunto pubblicato da IMBRIANI, p. 224 che
contiene un programma molto significativo per il nostro discorso: «Orazio per le scuole / Programma. (Combinare i lavori da stamparsi con le lezioni da farsi) / Gladiatores, Iugurtha, Cena. // Poesie latine di dedica / Poesie italiane [ecc.]» (corsivo mio).
458
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
«Il Pascoli non aveva ancora in mente a quali altre persone avrebbe dedicato i rimanenti scritti della sua collana; aveva una precisa ambizione,
ed un’indicazione metrica».39 Per farla breve: delle progettate odi-dedica ne sono state composte nove: cinque furono poi passate a Ermenegildo Pistelli perché fossero stampate nell’aprile 1894 in opuscolo per
Nozze Fuochi-Turris, sotto il titolo complessivo Iani Nemorini silvula
ad Hermenegildum Pistelli, e portano le dediche, nell’ordine: ad H. P.,
ad D. Mosca, ad A. Romizi, ad F. Martini, ad H. Vitelli. Nella lettera di
dedica allo sposo premessa alla Silvula, Pistelli chiarisce il debito di
riconoscenza che ha con Pascoli:
Giovanni Pascoli ha stralciato da un suo codicetto prezioso una sua
siluula e me l’ha mandata in regalo, con licenza di usarne a mio piacere.
[…] Da me non avresti avuto nulla: al più qualche lettera inedita d’uno
dei soliti, o forse – inorridisci – qualche varia lectio alle disquisizioni
aritmetiche del mio dolce Giamblico. Ora invece hai dei versi, e quali
versi! Poiché, come sai, e come ormai sanno tutti (forse anche i Ministri
della Pubblica Istruzione) il Pascoli è latinista vero e poeta vero; e perciò
a lui, che ne scrive di così splendidi italiani, è permesso di far versi anche
in latino.40
È interessante per il nostro assunto la duplice pointe polemica del Pistelli (tipica manifestazione del suo carattere, che non rinuncia ad esibirsi anche in un’occasione festosa come il matrimonio), da un lato, auto-ironica, nei confronti della consuetudine di pubblicare, nelle plaquettes nuziali, campioni di bieca erudizione,41 dall’altro, a difesa e onore
39
GOFFIS, p. 83, nel capitolo Veianius e il Liber dedicationum (che comunque non si occupa della
questione ‘filologica’ delle dedicationes).
Riprendo da TAVONI – TINTI, p. 154 (ho integrato il taglio nella citazione con BIAGINI 1963, p.
207 e corretto «Giambico» in «Giamblico»; nella storica edizione dei Carmina curata dallo stesso
Pistelli si reperisce, a p. 569, l’indicazione della «tipografia difficile da identificare», cioè la Tip.
Calasanziana di Firenze che pubblicò la plaquette). L’elemento unificatore dei cinque componimenti è ancora quello metrico: sono infatti «cinque asclepiadee, ossia un’ode per ciascuno dei cinque sistemi asclepiadei usati da Orazio, disposte nell’ordine solitamente accettato dai metrici e dallo stesso Pascoli» (PIGHI 1980, p. 60). È singolare il modo anodino con cui Vannucci accenna,
pressochè casualmente, alla pubblicazione della Silvula: «Il Pistelli […] tenendo sempre a diffondere la conoscenza e la buona fama di lui curò a volte premurosamente la stampa di scritti del Pascoli: per esempio [!], nel 1894, delle cinque poesie latine che sono raccolte sotto il titolo Jani Nemorini Silvula ad Hermenegildum Pistellium»: sembra piuttosto una difesa postuma del confratello
scolopio dal sospetto di ‘parassitismo’ nei confronti del poeta (VANNUCCI, p. 154).
41
Consuetudine già stigmatizzata anche da Pascoli, nella lettera dedicatoria all’amico Giulio Vita
che apre l’opuscolo stampato per le sue nozze nel 1887, con ben altra consapevolezza e ironia che
si trasforma in altrettante stoccate: «potresti imaginare che io li avessi tratti da qualche codice obliato; […] io potrei lodarmi d’averli copiati, […]; e i dotti e gli studiosi mi farebbero della loro
schiera onorata. Tanto più, quanto […] avrei fatto un’edizione diplomatica», ribadita peraltro tra40
459
P. Paradisi
dell’amico, contro la burocrazia statale che continua a ignorarne il valore di latinista-poeta.
Altre quattro dediche sono state identificate in componimenti finiti
dispersi nei Poematia et epigrammata: Ad Leonem XIII Pontificem maximum (XXXIV); Ad Fridericum Balsimelli (XV); Ad Gasparem Finalium hospitem paternum (XVI); [Mater] ad H. Pistelli (XVII).42 Non ci
si è mai chiesti finora, mi sembra, perché proprio questi personaggi fossero stati selezionati dal poeta come dedicatari (e chi fossero, i meno
conosciuti, almeno). Intanto, il più ignoto di tutti, forse, è proprio il Domenico Mosca al quale Pascoli rivela il suo intento, e che risulta titolare
del secondo pezzo della Silvula: doveva essere sicuramente in grande
intimità, per ricevere tale confidenza. Mettendo insieme con un po’ di
pazienza vari tasselli dispersi nei rivoli della bibliografia pascoliana si
riesce forse a saperne qualcosa. ‘Ufficialmente’ ai pascolisti è noto (si
fa per dire) come il «gentile amico» al quale si deve la versione engadinese di Orfano ospitata a partire dalla Nota bibliografica della terza edizione di Myricae,43 e che fece avere in copia al Gandiglio per lettera,
nel 1919, la traduzione latina della stessa poesia, a firma Maria soror,
che lo studioso pose a suggello della sua Appendix critica come poema
plenum Pascolianae illius elegantiae (facendo così sospettare più di
uno zampino di Giovanni nel latino, non si sa quanto credibile, di Maria, AC p. 733). Vicinelli, nell’Indice delle persone e dei luoghi di LV,
scrivendo e commentando la stessa lettera nella Nota bibliografica alla sesta edizione delle Myricae del 1903 (dove non sentirei la «malcelata amarezza», il «risentimento», il «rancore» di cui parla GARBOLI nei confronti dei «“dotti e studiosi” della cerchia carducciana [che] si erano trasformati col tempo nei dantisti e nei recensori delle antologie latine» [2002, I, p. 630 s.], quanto piuttosto l’orgogliosa rivendicazione del suo rango di poeta, «perché è lavorìo fondamentale bensì
[quello degli «eruditi»], ma facile; e ai lavori più facili si trovano atte più persone, e non sempre inette quelle che fanno lavori più difficili e rari», e quindi «non è ragionevole che ne menino tanto
vanto».
42
È la «lirica così bella e così personale» che il Pistelli ricevette «in una lettera del 1893, dove
[Pascoli] gli parlava del Collegio di Urbino. Pochi mesi dopo gli chiese licenza di pubblicarla per
le nozze del prof. Mario Fuochi, ed egli gli rispose: - No, quella no: quella è sua e per il mio Collegio: le manderò altri versi scritti apposta -. E mandò infatti la Silvula». Il Pistelli si decise a pubblicarla solo in chiusura del volume dei Carmina (cfr. VANNUCCI, p. 242). Il titolo Mater apposto
dal Gandiglio (senza citare la precisazione del primo editore), e ripetuto dal Valgimigli, alla luce di
questa nota appare forse non molto congruo, e rischia comunque di fuorviare i lettori. Soprattutto
non è di immediata evidenza che vada considerata fra le Dedicationes.
43
Nessuna indicazione sul personaggio (e sull’origine della versione) nei commenti più autorevoli
della raccolta (Nava, Latini); solo G. P. Borghello rimanda agli articoli di Perugi citati infra. Ora
Paolo Tinti rivela che la traduzione di Neve (titolo originario di Orfano, così modificato solo nel
1897) apparve in una «plaquette nuziale, finemente allestita e altrattanto finemente rilegata, frutto
di Men Mous-Cha, ossia dello svizzero Domenico Mosca, collega di Pascoli negli anni livornesi»
(non si danno però altre indicazioni su questa plaquette, mentre nella nota successiva si indica un
«dattiloscritto» con relativa collocazione, con questa traduzione: TAVONI - TINTI, p. 179 s.).
460
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
dà un generico «collega a Livorno» accanto al solo cognome, ricavandolo da un passo di una lettera di Giovanni alle sorelle da Siena del 22
agosto 1892 (p. 336): «Mi dispiace dello Staffetti e del Mosca: avevo
tanto desiderio di rivederli e risentirli». Ma Luigi Staffetti44 era stato allievo di Pascoli al Liceo di Massa, e ne era rimasto affettuosamente
legato: quindi anche Mosca sarà stato un altro allievo (come peraltro
confermano tutti i documenti citati poco oltre). I due, evidentemente,
erano capitati a Livorno proprio quando egli era impegnato come commissario d’esami a Siena; furono dunque ricevuti dalle sorelle, e dopo
quella visita si ebbe il contatto epistolare di cui sopra. Allegato alla lettera, il poeta inviò copia del Veianius con l’ode di dedica in latino autografa,45 firmata e datata Johannes Pascoli amico dulcissimo S. / A.D. V.
Nonas Octobris MDCCCXCII [appunto 3 ottobre], redazione abbastanza differente da quella poi stampata dal Pistelli nella plaquette nuziale
del 1894 (e di lì ovviamente passata ai Carmina, curati dallo stesso Pistelli), tanto che ebbe vita propria, approdando a stampa nell’opuscoletto per Nozze Meyer – Mosca [Ida, figlia di Domenico], Berna, 2
ottobre 1911.46 Il Mosca infatti risulta residente in Svizzera anche da tre
documenti conservati a Castelvecchio: due libri con dediche autografe e
una cartolina postale, spedita al Liceo di Livorno da Berna il 23 novembre 1893:
Carissimo professore,
sarei troppo sfacciato se le chiedessi una copia della sua pubblicazione
per le nozze Martini-Benzoni? Quel che il Casini mi [sic: refuso o cattiva
lettura per ne] ha detto nella «Nuova Rassegna» m’ha invogliato a
leggere le sue due odi, che mi sarebbero graditissime, come fu a suo
tempo il «Vejanius» e sarà (tra breve, spero) il volumetto delle
«Myricae». Guardi dunque, carissimo professore, di contentarmi. […] Se
non fosse possibile altrimenti, potrebbe mandarmi la sua copia della
pubblicazione nuziale, ch’io le respingerei subito dopo aver copiato le
due odi. Scusi l’ardire. […] Una stretta di mano dal suo aff.mo amico
Mosca (PERUGI 1986, p. 53 n. 12)
44
Qualificato dal Vicinelli nell’Indice allo stesso modo: «collega a Livorno». Ma si veda PALLA,
p. 50; PELLEGRINETTI 1991, pp. 34-44.
45
Copia finita per donazione nel 1978 alla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano (PISANI, p.
147 mostra un evidente fraintendimento nella nota, asserendo che «il carme fu inviato dal Pascoli a
Domenico Mosca nel 1892, in occasione delle nozze della figlia Ida con il Sig. Emilio Meyer [sic].
In seguito i versi furono pubblicati in questo opuscolo di nozze, a cura di Manfredo Vanni»: ma
l’opuscolo per “Nozze Meyer Mosca” in cui furono pubblicati per la prima volta, - vent’anni dopo
la composizione e l’invio! -, stampato a Berna con data 2 ottobre 1911, è bensì quello per la figlia
del Mosca, dove compaiono come repêchage di un’amicizia illustre).
46
Su tutta la questione vd. PERUGI 1985, p. 340 s. (e, indipendentemente da Perugi, TARTARI
CHERSONI 2007, pp. 159-174).
461
P. Paradisi
L’intraprendente ex allievo fa riferimento alla segnalazione di Casini
relativa a Crepereia e Gallus moriens di cui si è dato conto sopra (il che
dimostra la capacità delle recensioni efficaci, allora come ora, di creare
curiosità e interesse intorno a un evento letterario); si trova altresì conferma che la trascrizione manuale di poesie ‘per uso personale’ era assai diffusa all’epoca, e contribuiva, soprattutto fra i giovani, ad alimentare miti letterari con le relative partigianerie.
La maggior parte degli altri dedicatari sono autorità scolastiche di
vario rango: si va da due somme autorità ministeriali ‘romane’ come il
senatore Finali47 e il Ministro Ferdinando Martini,48 a due autorità scolastiche locali, come il Provveditore di Livorno Augusto Romizi, al
quale si deve niente meno se Pascoli ritentò la fortuna al certamen
Hoeufftianum dieci anni dopo l’infelice esordio del 1882,49 e il Preside
47
Che, appena ricevuto il fascicolo con la dedica (assieme ad alcuni altri simili da ‘smistare’ a Roma, come si vedrà), così rispose il 30 maggio 1892: «Ha fatto benissimo, a creder mio, mandando
il poemetto a Leone XIII […]. Nella dedica a Leone, e in quella a me parmi vedere rinato M. A.
Flaminio, che forse le ho scritto essere a mio gusto il primo tra i poeti della nuova latinità. Era romagnolo anch’esso come romagnolo fu il più antico poeta latino, di cui ci restino le opere, ed è
ancora il primo poeta comico dell’antica e della nuova Italia [ovviamente Plauto]» (CENCETTI
2008, p. 47); e ancora il 4 settembre: «il latinista Leone le ha fatto pervenire alcun segno d’avere
ricevuto il suo carme? E Martini se l’è fatto spiegare, per poternela degnamente ringraziare e
lodare?» (p. 52); e infine il 1ottobre: «Il silenzio di Leone XIII mi fa ricordare una arguzia del Re
Vittorio Emanuele […] che si può essere santissimo e villano al tempo stesso» (p. 56) (cfr. anche
GARBOLI 2002, I, p. 941).
48
Per le nozze della figlia, nel 1893, Pascoli avrebbe appunto scritto le due odi citate sopra.
49
Il rapporto fra i due meriterebbe un approfondimento dedicato, anche perché potrebbe mostrare
qualche influenza del Romizi su Pascoli. Il Romizi, infatti, già docente negli anni Settanta di latino
e greco al liceo di Bologna, fino al primo decennio del Novecento fu autore di fortunati manuali
scolastici pubblicati per lo più dall’editore torinese Paravia (come Nozioni di letteratura greca e
Compendio storico della letteratura latina ad uso dei licei, Antologia omerica e virgiliana nelle
migliori versioni italiane), ma soprattutto di volumi dal chiaro taglio ‘intertestuale’, come i
Paralleli letterari tra poeti greci, latini e italiani, pubblicato in seconda edizione ampliata dal
Giusti di Livorno nel 1892 (!), e Le fonti latine dell’Orlando Furioso (Torino, Paravia, 1895). Alla
fine di dicembre 1892 risulta «collocato in aspettativa per motivi di salute» («Gazz. Uff.» 29
dicembre 1892), e una lettera di Finali a Pascoli del 3 dicembre (forse in risposta a una
sollecitazione del protetto) aiuta a comprendere le reali motivazioni del provvedimento: «Vidi il
prof. Romizi: quella sua fissazione di stare a Roma può essere plausibile, ma è poco conciliabile
colla carriera d’impiegato. Da Roma a Livorno non fu poi un brutto passo: se lo avessero mandato
a Potenza, a Sassari od a Caltanissetta!? […] In quanto poi all’essere chiamato a Roma, dopo la
così risoluta negativa del Ministro Martini, che il prof. Romizi mi fece vedere, bisognerebbe avere
col Martini più intima relazione di quella che io abbia per potere assumere di fare uffici»
(CENCETTI 2008, p. 58). Evidentemente il Romizi riuscì poi ad avere un incarico al Ministero, se
Pascoli nel giugno 1895 potrà scrivere alle sorelle: «scrivo dal Ministero dove sono installato nella
stanza del Romizi, assente temporaneamente» (LV, p. 433). Alla luce di questi dati si può
comprendere che il rapporto fra i due fu piuttosto intimo, fatto di favori reciproci, e così risulta
ancora più evidente quale dovette essere non solo l’interessamento da parte di Romizi per far avere
a Pascoli il bando del certame olandese (come racconta Maria, cfr. LV, p. 319), ma anche
probabilmente la stessa sollecitazione preliminare a concorrere. Sul Romizi si veda il profilo-
462
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
del Liceo di Massa Crescentino Giannini, già destinatario in precedenza
di alcuni distici latini.50 Coesistono in questi indirizzi sia il desiderio da
parte dell’autore di farsi conoscere come latinista, per cercare di ottenere una sistemazione scolastica più compatibile con l’esercizio della
poesia, sia la sincera gratitudine per chi aveva mostrato di intuire e apprezzare le qualità del giovane insegnante e gli aveva offerto sùbita e
spontanea stima e amicizia. Appartengono al cotè più privato e personale del romagnolo, invece, i nomi presenti nell’elenco autografo, a cui
non sembra abbia fatto séguito – significativamente – la composizione
delle odi: Severino Ferrari,51 il maestro bolognese Gandino,52 il collega
del liceo di Livorno (l’unico col quale divenne veramente amico), Giuseppe Martinozzi (vd. infra, p. 479), l’altro amico Giovanni Setti. La
tragedia famigliare tuttavia trova la sua espressione in due di queste
dediche (non a caso destinate a religiosi), quella rivolta ad Fridericum
Balsimelli, cioè il parroco di San Mauro che era andato a prendere al
convento degli Scolopi d’Urbino i fratelli Pascoli, per ricondurli a casa
dopo l’assassinio del padre, e quella priva di dedicatario (ma a E.
Pistelli) intitolata da Gandiglio Mater. Il primo nome della lista è
l’autorità somma a cui poteva pensare un poeta neolatino nel solco della
tradizione, l’allora ottantaduenne Leone XIII, pontefice umanista, egli
stesso poeta in latino. Dall’epistolario di Finali sembrerebbe ora
assodato che il fascicolo con la dedica fu effettivamente inoltrato al
pontefice (vd. supra n. 47); ma, non avendone ricevuto alcun riscontro,
necrologio steso da T. Casini nel Proemio alla seconda edizione del suo commento all’Orlando
Furioso, uscita postuma nel 1912 (pp. 5-8).
50
Ad Ianum Crescentium (PE XIX, non del 1885, come detto da Pistelli e ripetuto da Gandiglio e
Valgimigli, ma del 1886-87). Il Giannini (Sant’Agata Feltria [Pesaro] 1818 – Roma 1912, già docente al liceo di Ferrara) fu tra i primi a rendersi conto della non comune perizia e originalità di latinista di Pascoli, e a incoraggiarlo sulla strada della poesia latina. Autore di numerosi libri scolastici di italiano e latino, studioso di Dante (pubblica il commento di Buti), è ricordato con affetto e
gratitudine da Giovanni stesso («Io non ebbi Crescentino Giannini a maestro nei primi studi; lo ebbi a Preside nei primi passi della mia carriera di insegnamento. Ma allora, ed in quell’anno di Massa quante cose mi insegnò! Per quante mi si fece ammirare! Per quante e quante amare! Sì che da
allora mi si dipinse nell’anima quella buona e soave immagine di paterno amico, maestro, la quale
mai non svanirà»), e da Maria nelle Memorie: «C’era un nuovo preside, Crescentino Giannini, che
subito prese a volergli molto bene accorgendosi […] che era un insegnante di una diligenza e di
una bravura insuperabili» (LV, p. 257).
51
Sembra un’assenza piuttosto singolare, quella dei carmina olandesi dal Fondo Ferrari conservato
a Casa Carducci: si potrebbe giustificare forse con la scarsa dimestichezza giovanile del Ferrari col
latino (si ricorderanno le lezioni di latino chieste da Severino ancora studente liceale a Pascoli, che
furono all’origine della loro amicizia, LV, pp. 48 s.), proseguita anche in età adulta come scarsa
propensione verso l’antica lingua e civiltà di Roma (?), ciò che potrebbe avere indotto Pascoli a
non ‘sprecare’ copie dei poemetti per un lettore poco intendente e interessato.
52
Si veda la lettera alle sorelle riportata infra, n. 81 p. 476.
463
P. Paradisi
il poeta si sentì autorizzato a ‘riciclarla’, con qualche lieve aggiustamento, per l’amico Pietro Micheli, critico letterario e giornalista
livornese.53 L’unica dedica composta «allora» (cioè al momento della
richiesta di Pistelli per le nozze dell’amico), ed estranea all’elenco
ms.,54 ma che indica senz’altro il rapporto più prestigioso e gratificante
per Pascoli, è quella a Gerolamo Vitelli (dal quale subito «ebbe una
bella lettera di lodi» il 26 aprile 1894, LV, p. 371): una delle tante
attestazioni di stima ricevute privatamente dal grande studioso, che solo
dopo la morte di Pascoli però, come si è detto, si risolse a scriverne in
pubblico.55
Quando scrisse il Veianius, nel 1891, a Livorno, riportando la prima, inaspettata medaglia d’oro, il progetto di una storia di Roma era
lontanissimo dai propositi del Pascoli. Veianius è un teso occasionale,
soggettivo, autoreferenziale, un sogno, un incubo sanguinoso e
pulvurulento, più drammatico di tutti i sogni che seguiranno nelle
Myricae.
Così Garboli col suo solito tono oracolare (2002, I, p. 63): siamo
proprio sicuri che sia andata così?
8. Il progetto incompiuto degli ultimi anni: l’edizione dei carmina
Pascoli aveva dunque ben chiaro, fin da subito, come avrebbe voluto
pubblicare i carmi latini per il pubblico italiano. L’interlocutore privilegiato a cui esporre il suo piano non poteva che essere l’editore livornese delle Myricae, Raffaello Giusti. Il 12 luglio 1896 infatti gli scriveva: «Sulla mia sepoltura, quando verrà l’ora, voglio il titolo di tre opere: Myricae; Dante spiegato; Res Romanae (questo è il volume di canti
latini che lei pubblicherà in edizione Didotiana in latino e in edizione
italiana con illustrazioni per le scuole e per le persone colte)».56 Ma è
solo dal 1907-08 che si infittiscono i documenti epistolari che annun53
Cfr. GARBOLI 2002, I, p. 937.
Allo stato attuale non sono riuscita a identificare i due nomi Rossi e Pinelli (assenti negli Indici
di LV e BIAGINI 1963).
55
Si veda ora GIANNINI, il primo, meritorio contributo dedicato esplicitamente al rapporto fra Giovanni Pascoli e Girolamo Vitelli, che però non si occupa di questo aspetto della poesia latina.
56
PESCETTI, pp. 410 e 419; ancora il 22 marzo 1897, in un momento di crisi fra i due, si rammaricherà: «Chè il mio nuovo successo olandese [Reditus Augusti] se reca piacere ed utile a me, maggiore ne recherà, dell’utile se non del piacere, all’editore delle mie cose latine; e meritava pure da
lui una parola» (pp. 404 e 421).
54
464
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
ciano il progetto della raccolta della poesia latina, con la prospettiva
temporale dell’«anno santo della patria» 1911. In una lettera al padre
Pietrobono del 30 luglio 1907 il poeta chiede di bloccare una iniziativa
del tutto inopportuna dell’intraprendente padre Gori:
Caro Bonino, Odoardo Gori vorrebbe stampare ora la traduzione dei miei
poemi latini. Tu sai quanto io ami quell’opera mia, che è incompiuta e di
molto, e che, appena ho il modo di passare qualche mese a Roma e a
Pompei, compirei con sommo piacere. Devono, come sai, formare un
libro della Vita dei Romani, in pace e in guerra, in città e in campagna
(tutto questo non va ripetuto!!!), nei diversi tempi di Roma dal principio
alla fine. Tu comprendi quanto verrebbe danneggiata la mia futura
pubblicazione (che essendo latina, non potrebbe reggersi che sulla
curiosità ispirata da quei molti premii) da questa acerba mietitura del
bravo e buon Gori. Sicchè fammi il piacere di persuaderlo tu a rimettere
la cosa a miglior tempo e di convincerlo che il mio non è un dispetto o un
capriccio, e che lo stimo e lo amo infinitamente.
È evidente che non si tratta di eccessiva o assurda «gelosia» di Pascoli,
che gli fa «considerare come una indesiderata intrusione e manomissione l’intervento di un qualsiasi traduttore», come chiosò Vannucci
pubblicando la lettera (p. 386). Il quale difendeva in questa situazione
la propria ‘parte’, essendo Gori (1869-1943) uno scolopio, collegaallievo (come lui) del Pietrobono al Collegio Nazareno di Roma (dove
il Gori insegnò a lungo, pare fin dal 1906), ma «temperamento difficile», dotato di un «orgoglioso protagonismo», e soprattutto arbitrario
traduttore dei poemetti latini del Pascoli.57 Aveva esordito nel 1907
pubblicando presso Zanichelli la «traduzione in isciolti» del Sermo (col
testo a fronte), e l’approvazione ricevuta dal poeta in quell’occasione
gli aveva evidentemente fatto presumere di poter continuare in quella
direzione.58
57
Nelle postille al Fanum Apollinis non si perita di confessare candidamente di aver «piuttosto ceduto alla tentazione della parafrasi che obbedito alla legge della traduzione: e una volta m’è persino venuto fatto di travisare addirittura lo spirito del testo. Dove e come, veda chi vuole. Io per me,
confessata pari pari la colpa, non ho che da augurarmi si ripeta dagli intendenti: ‘O felix culpa!’»
(VALLONE, pp. 161 s., 165 s.). Emblematica poi la vicenda di una riedizione di Fior da fiore negli
anni Quaranta, inizialmente affidata al Gori dall’editore Mondadori su indicazione di Mariù, e che
invece procurò «tanti dispiaceri» da dover essere affidata al Pietrobono stesso (ivi, pp. 165-167).
58
Dalla Prefazione, datata Pistoia, 3 settembre 1906: «Il carme, che, col gentile consenso dell’Autore esce ora alla luce tradotto da me in isciolti, fu composto nel 1894, e comparve la prima volta
stampato meschinamente [!] su un numero unico a beneficio dei colpiti dal terremoto siculo- calabrese […]. Il titolo del carme era “Sermo”, il titolo del numero unico “Fata Morgana”, e là i curiosi
potranno, con un po’ di buona volontà, scovarlo, quasi vergognoso di sé – di sé? – a p. 9» ecc.
465
P. Paradisi
Sembra di avvertire addirittura l’ombra di un sorriso nel Vannucci
quando in nota alla lettera precisa: «era – non si può negare – un progetto grandioso, che il Pascoli potè attuare solo in parte con gli undici
poemetti del Liber de poetis, con i sei di Res Romanae e con i sette
Poemata christiana», la cui eco (infelicemente) ironica affiora ancora
in coloro che l’hanno ripresa in tempi più recenti.59 Ma lo stesso rifiuto,
motivato da ragioni profonde che muovono dall’intima necessità di
questa poesia e dalla consapevolezza della sua importanza, opporrà anche ad un altro personaggio con cui pure era in grande amicizia, Luigi
Siciliani, come vedremo fra poco.
Eppure questo ‘divieto’ non fu assoluto e totale: ad esempio, quando
ebbe la fortuna di incontrare un personaggio ‘all’altezza’ come l’ottantenne (e cieco) senatore Giovanni Battista Giorgini, genero del Manzoni, col quale era entrato in devota e affettuosa relazione negli anni di
Pisa, ammirandone l’eccezionale cultura classica e la finezza di lettore
di Virgilio e Orazio, il Pascoli stesso era ben felice di far tradurre i suoi
poemi. Dopo averne visto la traduzione del Centurio,60 mandò il Fanum
Apollinis e poi ancora dieci poemetti precedentemente premiati («buon
passatempo» per il vegliardo, che li imparava a memoria e li traduceva
mentalmente nottetempo), con affettuose dediche in italiano e latino, invitandolo a tradurli, e sollecitando poi la figlia Matilde Schiff-Giorgini
a pubblicare le traduzioni dei primi tre, portate a termine dal padre prima della morte; anche al Giorgini aveva rivelato l’intenzione di raccogliere in volume tutti i poemetti latini.61
Il piano più esteso e completo sembra quello raccontato al giornalista milanese Augusto Guido Bianchi il 25 febbraio 1908, quasi con le
stesse parole rivolte al Pietrobono (anche qui si trattava di bloccare il
‘movimentismo’ del pittore Vico Viganò, il quale, informato del progetto del volume per eventuali illustrazioni, a sua volta aveva incautamente comunicato la cosa addirittura a Marinetti):
59
Da Biagini a Vicinelli (LV, p. 943) alla Montibelli (vd. infra, n. 62), fino a Capecchi (2011, p.
127 s.: «Pascoli recalcitrante», «progetto naufragato per volontà dello stesso poeta»).
60
Per la quale ebbe parole altamente elogiative: «Oh mirabile vecchio! oh lampada antica che
brilla inestinguibile! Gli dica che questa sua traduzione è un prodigio: ha saputo concretare il mio
pensiero anche là dove non erano che accenni e sfumature, pur non mettendo mai una parola di
troppo. Lo ringrazi, lo ringrazi tanto» scriveva alla figlia (GIORGINI, p. 6; cfr. LV, p. 749).
61
«In una gita che feci a Castelvecchio pochi mesi dopo la sua morte, il Pascoli s’informò con premura delle traduzioni, mi disse che le facessi stampare, che egli, all’occorrenza, avrebbe anche ritoccate, ove ne fosse stato il caso: altre due volte di poi mi ripetè l’invito – purtroppo passarono i
mesi, passarono gli anni…» (GIORGINI, p. 12; cfr. anche PELLEGRINETTI 1988, pp. 22-47; 1991,
pp. 50-54). Per una traduzione dell’ode Victori regi (pubblicata sul «Resto del Carlino» nel 1911),
stampata da un prete romagnolo e accolta benevolmente dal poeta, nonostante la qualità non
eccelsa, si veda PIERI.
466
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
E non so se Vico t’abbia detto la cosa come è. Voglio, cioè vorrei,
pubblicare per il 1911, la silloge completa dei miei poemetti latini, con
note pure latine, con incisioni in rame, nei modi e formato, preferibilmente, delle edizioni olandesi imitate poi dal Didot per Virgilio e
Orazio e Anacreonte. Questi poemetti fanno un tutto organico. Descrivono la vita romana antica, in tutti i tempi, in tutte le condizioni, in pace
e in guerra, in terra e in mare, nella politica e nella domesticità, in città e
campagna, poeti, artigiani, grandi uomini e donne, e piccoli e piccole, e
paganesimo e cristianesimo, e le origini e la fine – non definitiva –. Molti
di questi poemi mancano, ma molti ce ne sono. Mi ci vuole quiete,
tempo, e un po’ d’otium a Roma, a Napoli, in tanti altri posti – E dunque
silenzio! silenzio! silenzio! Diglielo anche tu a Vico, e che ripari il mal
fatto alla meglio.
E ancora dopo aver chiuso la lettera con data e firma aggiungeva:
Contemporaneamente pubblicherei, in altro volume, la traduzione, non so
se in versi o in prosa, ma mia o tutto al più in parte di Mariù. Non vorrei
che Vico mi cercasse, come l’editore, così il traduttore!62
L’importanza di questa lettera è nota da tempo,63 ma per lo più è stata
letta dai non latinisti come prova della megalomania velleitaria dell’ultimo Pascoli, mentre in realtà è una dichiarazione di poetica di rara coerenza e lucidità. Di nuovo, pochi mesi dopo (il 18 ottobre 1908), scrive
a Luigi Rava, allora Ministro della Pubblica Istruzione, in maniera più o
meno analoga:
Per il 1911 […] io sto approntando due libri: uno di poesia latina,
ROMA, dai suoi principi pastorali e selvaggi alla lampada accesa nel
sepolcro di Pallante, nella fosca età di mezzo. Roma, a Roma. E un altro
di poesia italiana […]. Questo è ITALIA o a dir meglio il risorgimento
italiano, e mi parrà di dovere dedicarlo a Torino.64
Bene commenta a questo proposito Garboli:
Si può anche capire come davanti all’ammucchiarsi dei poemetti il
62
MONTIBELLI, p. 144 (= GHELLI-CEVOLANI, p. 330 s.); ma già era stata parzialmente citata in
LV, pp. 868 s., 943 e da BIAGINI 1963, p. 409, 617, 681, 706 s.
63
Cfr. TRAINA 2001, p. 26; GARBOLI 2002, I, p. 60.
64
RAVA, p. 61 (brani della lettera sono riportati anche da Vicinelli in LV, pp. 936 e 943, ma in modo ambiguo: sembra che la attribuisca al 1910). Ancora in una lettera del 23 giugno 1909 a un amico romagnolo, il capitano Giovanni Ricci, ripeteva: «Poi per l’11 avrò anche una delle collezioni
di poemi latini – ROMA –» (DONI, p. 21).
467
P. Paradisi
Pascoli intendesse intitolarli […] con una sola parola potente: “Roma”.
Gran titolo, documentato dalle testimonianze di Maria e dalle carte
autografe. Titolo d’autore e d’artista. Di qua il sangue dei gladiatori,
degli schiavi, dei legionari; di là il sangue dei fanciulli innocenti sedotti
dai palpiti della pietà, incantati dal martirio […] e dalla droga del cuore
(I, p. 61).
All’inizio del 1909 il progetto sembra finalmente prendere corpo. Un
programma trovato fra le carte di Castelvecchio, datato al 30 gennaio di
quell’anno, suddivide le Res Romanae in ben nove libri:
Lib. I. Poesia epica delle origini. Conviviali e laudes maiorum. Mitologia
romana. Preghiere. Luna. Agricultura…
Lib. II. Religione. Poesia epico-religiosa. Lib. III. Poesia comica. Grex
Turpionis. Mestieri e costumi popolareschi in coliambi… Lib. IV. Guerre
civili. Famiglia… Annibale in Italia. Costumi e riti cartaginesi
(Salambô). Catullo-calvos. Lib. V. Poesia oraziana e virgiliana. Lib. VI.
Cristianesimo delle origini. Centurio. Corruzione romana. Riti orientali,
Babilonia (Apocalypsis) occidentale… Lotta tra Crist. e Pag. Lotte
filosofiche. Persecuzioni. Lib. VII. Sopravvento del Crist. e persecuzione
del pag. Lib. VIII. Barbari… Lib. IX. Leggende della fine. Lampas…65
Nonostante l’articolazione quasi scolasticamente didascalica (soprattutto nelle prime tre parti, rimaste non a caso incompiute, mentre dal
Catullocalvos in poi riconosciamo gran parte dei carmina già realizzati), nel suo valore di bilancio ‘consuntivo’ questo schema va letto a
specchio con i programmi ‘preventivi’ cadenzati di anno in anno fra il
1893 e il ’97, che da un lato danno pienamente ragione a quanto affermato da Maria all’altezza (non a caso) del 1894,66 dall’altro dimostrano
65
Cart. LX, b. 1, f. 1 (TRAINA 2008, p. 28 = 2001, p. 26 s.). Strettamente associato a questo sembra anche il programma in latino rinvenuto da Vicinelli fra le pagine dell’agenda del 1911, ma che
egli propone di datare all’estate del 1909 (la sua collocazione nell’agenda potrebbe indicare che era un pro-memoria attuale ancora nell’11): «Idibus septembribus absolutum esse iubeo carmen de
Graecina, inchoatum et lineatum Fanum. Quod carmen summa cum voluptate sensim componam,
ita ut ante reditum typis describatur. Interea summam carminum italicorum statuero, et coniurationes, carceres […] destribuero. Post idus aliquid temporis inserviam in lectionibus. […]In tabellis ad hoc institutis adnotabo quidquid erit necesse ut Romae aliisque locis visatur (e.g. Bononiae
unum diem lectioni, alterum poematis dabo. (ecc., LV, p. 945 s.).
66
«Io ci avevo un gran gusto con quel concorso annuale perché, a parte la sorrisa aspettazione del
premio, era una buona occasione per indurre Giovannino a eseguire via via qualcuno di quei poemi, che aveva a dovizia nella sua mente, pei quali non avrebbe trovato altrimenti l’opportunità
d’impiegarvi del tempo, specialmente in quegli anni che ne aveva così poco. Ero io che lo incitavo,
che lo spronavo, che non lo lasciavo aver bene fin che non mi avesse contentata. Ritenevo, e ritengo, che ci fosse, e ci sia, molto più merito nel creare che nel commentare e spiegare le opere esistenti anche se di grandi autori» (LV, p. 403).
468
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
che l’ispirazione dei carmina (cioè del fare poesia in latino), dopo l’ ‘esca’ accesa dal Veianius, si sviluppa indipendentemente rispetto al concorso e vive di vita propria, in parallelo alla gestazione di tutte le raccolte di poesia in italiano. La scadenza annuale del certamen funge solo
da catalizzatore perché i singoli fantasmi poetici, già da tempo concepiti, coagulino e si condensino in esametri. Ora poi che per la prima
volta possediamo la trascrizione sistematica (addirittura in triplice versione) dei quaderni di appunti conservati a Castelvecchio dove sono
registrati, man mano che si presentano all’ispirazione, senza soluzione
di continuità, titoli e appunti delle poesie italiane e latine, e il loro
susseguente organizzarsi in cicli di più vasto respiro,67 questo processo
risulta assolutamente evidente. Per i carmina si potrebbero finalmente
allineare in ordine cronologico e confrontare fra di loro queste bozze di
lavoro (solo parzialmente conosciute, fino a qualche tempo fa, grazie
alle ricerche compiute nell’archivio di Castelvecchio da Gandiglio e
Traina, che ne avevano intuito per tempo l’importanza),68 per seguire il
giungere a maturazione dei singoli poemetti. Non si possono purtroppo
riprodurre in questa sede neppure parzialmente. Merita solo un accenno un titolo, che si ritrova in tutti questi elenchi, fin dai più antichi, ma
che non verrà però mai sviluppato in poemetto: incuriosisce la persistenza di così lunga durata di questo fantasma poetico nella mente del
Pascoli.69 È Grex Turpionis, ancora presente nel prospetto riportato sopra, dove avrebbe dovuto far parte del «libro III»: non possiamo far altro che domandarci quale sviluppo avrebbe avuto la storia del capocomico Lucio Ambivio Turpione, uno dei più grandi attori del suo tempo,
che con la sua compagnia mise in scena tutte le commedie di Terenzio,
e la cui fama era ancora viva ai tempi di Cicerone e oltre. Forse (pensando al ruolo di Turpione nei prologhi terenziani) avrebbe avuto una
funzione metaletteraria, o forse rappresentava nel mondo latino la passione (frustrata) di Pascoli per il teatro: e anche per questo, forse, non
giunse mai a compimento.
Anche all’amico olandese Hartman, mentre esprimeva tutto il suo disappunto per il mancato conferimento della medaglia d’oro all’Ecloga
XI (pur ritenuta dai giudici superiore a tutti i componimenti rivali – l’oro quell’anno non fu assegnato –), Pascoli non si peritava di confidare,
67
Per LXXI, 3, c. 6 (EBANI, p. 333; APOSTOLICO, p. 73; NASSI.p. 282); LXXIII, 1, cc. 15, 102
(EBANI, p. 353, 361; APOSTOLICO, pp. 184, 226), ecc.
68
GANDIGLIO 1931, p. 143; TRAINA 1985, p. 152 s. = 1989, p. 276 s.; 1993, p. 9 n. 5.
69
Cfr. EBANI, pp. 333, 353, 361; APOSTOLICO, pp. 184; NASSI, pp. 301, 308.
469
P. Paradisi
nella primavera del 1909, il progetto del libro di carmi latini da mettere
fuori nel 1911:
Cur praem. aureum Virgilio invidistis meo, quo nummo aedificaturus
eram mihi columbarium, non quo urna mea inferretur, sed ubi germanae
nidularentur columbae? Timeo ne imitatores putiduli vobis satietatem
induxerint poematum, quibus antiquitates et res Romanas concelebro.
Non perperam quidem fecistis, nam odio mihi quoque sunt, sed ego
distineor argumento usque ad annum MCMXI, quo anno semisaecularia
celebrabit regnum Italicum, ego autem Romae gentium capiti et Italiae
arci librum dedicabo. Postea vero, si vita suppeditaverit, in alia
70
argumenta, quae spero vobis fore ut valdius probentur, transiliam…
Il livello di confidenza che aveva acquisito col giudice olandese gli permetteva addirittura di discuterne il giudizio;71 la lettera dimostra tuttavia anche una notevole dose di consapevolezza, quando parla della «sazietà» che potevano indurre ormai nei lettori le res Romanae, ma anche
dell’impegno assunto con se stesso per il traguardo del cinquantenario
del Regno.
Ecco infine la preghiera rivolta all’amico Luigi Siciliani il 25 maggio
1910, per frenarne l’entusiasmo di scrivere un saggio sulla poesia latina
(come aveva già fatto per i Conviviali e Odi e Inni):
Caro Gigetto
la prego di smettere ogni pensiero di fare articoli o studii sui poemi latini.
Articoli e studii si potranno fare quando comparirà l’opera intiera e
organica. Il che credevo potesse avvenire quest’altr’anno; e non avverrà,
tanto è il tempo che mi consuma la scuola con quel che la circonda d’altri
obblighi e doveri. Solo a questo patto di silenzio (che è necessario anche
per altre ragioni che è inutile dire) le manderò Pomponia quando verrà da
Amsterdam e gli altri quando sarò a Castelvecchio dove li ho lasciati.72
70
La minuta della lettera fu pubblicata da GANDIGLIO 1931, p. 61 («Perché avete negato la medaglia d’oro al mio Virgilio, con la quale avrei costruito un colombario, non per collocarvi la mia urna funebre, ma per far fare il nido a una coppia di colombe? Temo che gli importuni imitatori vi
abbiano indotto sazietà dei poemi con i quali celebro la storia antica di Roma. Non avete fatto
male, infatti ormai li detesto anch’io, ma sono occupato da quell’argomento fino all’anno 1911, in
cui si celebrerà il cinquantesimo del regno d’Italia, e io finalmente dedicherò il libro a Roma capitale del mondo e rocca d’Italia. Dopo, se avrò vita a sufficienza, passerò ad altri argomenti, che
spero saranno da voi maggiormente graditi…»).
71
Probabilmente basato su un errore materiale d’interpretazione in cui erano incorsi, come già
ebbe modo di dimostrare il GANDIGLIO (1924, pp. 99 e 105).
72
E ancora ribadiva il concetto in settembre da Barga: «I due canti non ho qui, ma né da Bologna
li manderò e a lei e a Don Pasca’, se prima lei non promette di non occuparsene per le stampe»
(GHIDETTI, p. 303 s.). L’invio dei carmina al Siciliani era diventata una consuetudine: si è già
470
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
L’ultimo e forse più significativo tra i documenti di questo tipo è la
nota che fu pubblicata da Fulvio Cantoni sul «Resto del Carlino» del 22
aprile 1911 come intervista, col titolo Un grande poema latino del Pascoli su Roma, basata in realtà su di una dichiarazione autografa del
poeta (la data, e il motivo dell’intervento, non sono casuali: è infatti il
giorno successivo la lettura, a Roma, «in una solenne cerimonia» dell’Hymnus in Romam, segnalato bensì, ma non ritenuto degno della medaglia d’oro, il cui autore, ancora anonimo, era già stato correttamente
identificato proprio in Pascoli):
Da molti anni – dall’anno in cui vinsi il premio Hoeufftiano col poema
Veianius – attendo a un grande poema composto di molti poemi minori,
che descrive la vita di Roma antica dalla sua fondazione alla decadenza.
Volevo che il poema fosse pronto per questo cinquantenario del Regno.
Le molte occupazioni e preoccupazioni scolastiche mi hanno impedito di
sciogliere il voto. Non posso quest’anno offrire il mio lavoro a Roma
Eterna. Dovrò aspettare il cinquantenario della Breccia. Speriamo che
non mi prevenga la morte. Quest’anno tuttavia, se lo Zanichelli od altro
editore vorrà stampare e ornare il volume in modo degno, quest’anno, il
XX Settembre darò alla nostra Madre una parte del poema: quella che
tratta dei poeti. Saranno 11 o 12 carmi: un 2000 versi su per giù, dal
«contrasto» di Catullo e Calvo (poemetto che contiene tutti i metri di
Catullo) a Ultima linea, che esprime la mala contentezza di Orazio alla
vigilia della sua morte. Ne farà parte il poema premiato quest’anno
dall’Accademia di Amsterdam, Fanum Vacunae, che contiene tutti i
metri di Orazio, XX odi ed epodi, non compresi gli esametri che
collegano le singole parti. (MAIOLI 1956, p. 116)
Il Maioli, pubblicando nel 1956 la corrispondenza con Cantoni, consapevole della rilevanza di questo testo, che, dettato dallo stesso poeta,
ebbe la massima diffusione pubblica essendo stato stampato su un
quotidiano (per di più in occasione della polemica per il premio romano
del 1911), lo sottopose a Vicinelli, che stava curando le Memorie: ma
quest’ultimo lo snobbò, col risultato che, pur essendo stato stampato
due volte, è rimasto praticamente ignoto alla critica pascoliana.73 Non
vista sopra la dedica sulla Cena, da Pisa nel maggio 1904 Pascoli aveva inviato ben tre copie del
Paedagogium o Alexamenos, oltre che per il giovane amico, anche «una per Don Pasca’, la terza
per l’innominat…. Metta lei la terminazione» (l’editore intende «ovviamente femminile,
trattandosi della fidanzata del Siciliani», ib. p. 284: interpretazione che non darei per così
scontata). L’insistenza del Siciliani doveva essere stata anche assillante, se il 10 giugno 1907 ad
es. il poeta rispondeva: «Non ho ancora i due poemetti latini».
73
La stessa Marinella Tartari Chersoni, pur segnalando l’articolo sul quotidiano e la nota autografa
recuperata da Maioli, non ha ritenuto di ripubblicarla integralmente (1992, p. 119).
471
P. Paradisi
hanno dunque ragione di essere, così, le interpretazioni correnti della
poesia latina con le quali abbiamo iniziato questo saggio.
Quasi prevedendo in qualche modo, dentro di sé, l’impossibilità della
realizzazione del vagheggiato volume, Pascoli trova un singolare escamotage: la donazione dell’intera raccolta dei fascicoli olandesi alla biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, rilegati insieme a mo’ di volume unitario. Aveva già un precedente utile in tal senso: fin dal 1896, infatti, aveva fatto dono alla Biblioteca Nazionale di Brera a Milano dei
primi quattro carmi premiati (Veianius, Phidyle, Myrmedon, Cena in
Caudiano Nervae) e due lodati (Laureolus e Castanea). Nella lettera
con cui li accompagnava al Direttore della biblioteca, Egidio Martini,
spiegava ancora una volta il progetto d’insieme:
poiché dei carmi di soggetto romano intendo fare una silloge diretta a
descrivere la vita romana nelle sue parti e voglio perciò emendarli e
allargarli, e degli altri, come Myrmedon e Castanea, mi riserbo fare
edizioni più piene e ricche di osservazioni mie proprie – fatica deliziosa
che destino al placido inverno, se l’avrò, della mia vita, nel quale patirò
un po’ di freddo e di torpore – io non ho sparsi prima questi opuscoli e
non desidero essere giudicato su loro. Ma non ho saputo resistere
all’amabile invito della S. V. Ill.ma.74
Nell’estate del 1909, dunque, avviene la donazione della «raccolta
completa delle sue opere, comprese quelle latine» (con la dedica «Alla
Biblioteca Comunale di Bologna, e per lei a Bologna la buona»). Il Pascoli accompagnava l’invio con una lettera ad Albano Sorbelli, direttore dell’Archiginnasio; il Sorbelli a sua volta ne dava subito notizia nel
periodico da lui appena fondato «L’Archiginnasio».75 Leggiamo come
racconta l’episodio, cogliendone il significato profondo al di là dell’aneddotica, Mario Pazzaglia (p. 149 s.):
Il Pascoli donava, raccolti insieme, gli opuscoli che contenevano i suoi
poemetti in latino […] ne aveva radunati quindici [svista per sedici]:
74
Evidentemente da Milano c’era stata la richiesta di poter leggere questi carmi, e il direttore si era
attivato presso il poeta stesso. La lettera è stata pubblicata da Vicinelli su «La fiera letteraria» del
13 aprile 1952 (si troverebbe nella biblioteca del Collegio di Merate, ma non risulta segnalata nel
repertorio di PISANI).
75
A. Sorbelli, Cospicuo lascito del prof. Giovanni Pascoli alla Biblioteca dell’Archiginnasio,
«L’Archiginnasio» 4, 1909, pp. 253-254 (il «Carlino» ne dava poi la notizia il 6 gennaio 1910,
TARTARI CHERSONI 1992, p. 97). Si veda ora la pubblicazione del carteggio fra i due, in cui
ritroviamo dettagliatamente rievocato questo episodio (RUGGIO, pp. 51-54, 66-68).
472
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
Veianius, Phidyle, Laureolus, Myrmedon, Cena in Caudiano Nervae,
Castanea, Reditus Augusti, Iugurtha, Catullocalvos, Sosii fratres
bibliopolae, Centurio, Paedagogium, Fanum Apollinis, Rufius Crispinus,
Ultima linea, Ecloga XI sive ovis peculiaris; e il Sorbelli li elencava
scrupolosamente, ritenendo “la serie di questi poemetti latini non così
nota come l’altra delle poesie” e considerando quindi “profittevole” ai
lettori il darne “un ordinato elenco bibliografico”. […] Nel 1912
l’Archiginnasio avrà i due del 1910 e del 1911, Pomponia Graecina e
Fanum Vacunae, mentre l’ultimo premiato, Thallusa, giungerà,
nell’edizione olandese, soltanto nel 1916, donato da Mariù. Questo
secondo dono del Pascoli [dopo le poesie italiane] era accompagnato
anch’esso da una dedica: Bononiae / magnae studiorum Matri / Nutrici
studiosorum dulcissimae / Iohannes Pascoli / D. D. / A. D. 1909, VI eid.
Quintileis / A. U. C. MMDCXII. Anche qui, dunque, il ricordo della città
buona, con allusione a chi allora gli aveva voluto bene […]. Inoltre quel
tradurre subito la data del 1909 nell’anno contato dalla fondazione di
Roma era indicativo del piano orgoglioso d’una poesia che ripercorresse
e illuminasse, nei carmi latini e nella progettate poesie italiane, tutto il
percorso plurimillenario della civiltà italiana.
Il volume fatto rilegare da Pascoli con tutti i Carmina è stato esposto
nella bella mostra tenuta all’Archiginnasio nella ricorrenza del centenario della morte:76 chi gliel’avrebbe detto che, dopo un secolo, sarebbe
stato ancora un oggetto abbastanza misterioso?
A questo punto s’impone un post scriptum. Sulla conoscenza e la
diffusione dei carmi latini dopo la morte del poeta ha pesato non poco
l’erede unica Maria, tenace esecutrice di quella che lei riteneva la
volontà del fratello. Come abbiamo visto, l’edizione della sua opera latina avrebbe dovuto essere completa di testi e traduzioni dell’autore; ciò
non poté avvenire; di conseguenza per lungo tempo Maria almeno non
consentì la stampa degli originali latini a fronte delle traduzioni che diversi studiosi venivano elaborando. Già all’altezza del 1912, appena
morto il poeta, ad es., la proprietà letteraria dei carmi latini risulta di
Zanichelli, che non ne concesse la riproduzione neppure a Matilde
Schiff-Giorgini per le traduzioni del padre. Zanichelli e Mariù non potevano impedire evidentemente che venissero stampate delle traduzioni,
ma non fu concesso ai traduttori il consenso per la stampa del latino a
76
Da studente a professore. Pascoli a Bologna, a cura di G. NEROZZI e S. SANTUCCI, Biblioteca
comunale dell’Archiginnasio, 28 febbraio – 28 aprile 2012. Meriterebbe di essere controllata la
frase contenuta in una lettera inviata da Pistelli a Zanichelli durante l’allestimento del volume dei
Carmina: «so che nelle copie che sono alla Biblioteca di Bologna è qualche correzione. Chi le
riscontra?» (TAVONI-TINTI, p. 249).
473
P. Paradisi
fronte. Fu così che, dopo l’edizione prestigiosissima del Pistelli (ma
praticamente inaccessibile: fu stampata in 500 copie numerate, dal costo esorbitante), solo nel 1930, sempre presso Zanichelli, uscì l’edizione critica del Gandiglio, che solo teoricamente poteva sembrare più accessibile (cioè per il prezzo di copertina),77 mentre in realtà la sua
concezione filologicamente inappuntabile di edizione critica secondo i
crismi dei classici antichi (cioè con gli apparati scritti a loro volta in
latino), la rendeva di ardua lettura e consultazione per un pubblico non
specialista. Si creò così inevitabilmente uno iato fra testi originali e traduzioni, pubblicati separatamente, che ha contribuito in generale a penalizzare la diffusione, la conoscenza (e quindi la valutazione) dell’opera latina del poeta: le numerose traduzioni delle diverse sezioni dei
carmina, che pure vengono realizzate negli anni Venti e Trenta (di solito in versi), senza il supporto del testo a fronte, non possono evidentemente sostituirsi agli originali.78 Sarà solo con il passaggio da
Zanichelli a Mondadori e con l’affidamento del volume dei Carmina a
Valgimigli che si avrà la prima edizione integrale tradotta, e solo da
allora, cioè negli anni Cinquanta, in concomitanza con gli anniversari
del ’55 e del ’62, inizierà il riscatto della poesia latina. Maria questa
volta diede la sua approvazione, come testimoniano due lettere inviate a
Valgimigli all’inizio e alla fine della decennale impresa. La prima, del
12 giugno 1941, conferma ancora la diffidenza e i timori che avevano
prevalso fino ad allora:
Sono molto contenta che il Mondadori abbia affidato a Lei e al prof.
Mocchino l’edizione dei poemi latini con la versione in prosa. Chi
saranno questi prosatori? Certo se potesse farle Lei le traduzioni sarebbe
un gran bel servizio che renderebbe a Giovannino! Ci vuole una prosa
fedele e che non perda la sua natura poetica. I due inni a Roma e a Torino
tradotti in versi da Lui, sì, ho piacere che restino. Sono per modo di dire
77
Si veda quanto scriveva il Pietrobono al Gandiglio nell’agosto 1929: «Non le dico poi il gran
piacere che mi fa l’apprendere che alla fine i Carmina del Pascoli saranno ristampati. Lo chiedevo
da tempo alla sorella Maria, ma sempre con esito negativo. Diceva che pochi li possono leggere e
gustare. Non discuto; ma so che molti li cercano. E speriamo che l’edizione non sia di lusso, come
la prima curata dal Pistelli. Basta e si chiede una bella edizione, come quella, per esempio, delle
poesie italiane. L’Italia tutta le sarà grata, e forse anche qualche straniero» (PIGHI 1980, p. 98).
78
Per i Poemetti cristiani, di R. De Lorenzi (Napoli 19161, Firenze 19222), Q. Ficari (Imola 1925;
tradusse anche le Res Romanae, pubblicandole su «La Romagna», 1927-28), A. Belardinelli
(Lanciano 1926); Carmi latini, trad. e annotati da L. Vischi, Bologna 1920; Dai carmi latini di G.
Pascoli, versione di T. Barbini (Pistoia 19211, 19262), fino agli stessi Poemetti latini di soggetto
virgiliano e oraziano per la prima volta tradotti da Adolfo Gandiglio, stampati da Zanichelli in
prima edizione nel 1920 e in seconda edizione «accresciuta di traduzioni varie dagli altri carmi e di
notizie attinte dai manoscritti pascoliani» nel 1931.
474
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
traduzioni; si potrebbero considerare quasi concepiti a dirittura in
italiano. Ma Lui, le cose sue, poteva manovrarle come gli piaceva. Altre
traduzioni non ci sono: si riserbava di farle nella vecchiaia, poverino!
A libro pubblicato, invece, l’ottuagenaria ma sempre presente e vivace
Mariù non nasconde la propria soddisfazione, scrivendo il 4 gennaio
1952:
[…] avevo tanto desiderio di esprimere a Lei la gioia di aver avuto i
Carmina e la soddisfazione provata per la bella Prefazione da Lei fatta.
M’è piaciuta molto molto molto. Ora poi leggerò il carme da lei tradotto
e proverò, ne sono certa, un altro grande conforto. Oh sole, che splendi,
dimmi tu quante parole debbo dire al dolce amico del mio Giovannino
per ringraziarlo di così impareggiabile favore a Lui e a me fatto? Non ci
sono parole che valgano. Posso soltanto assicurarlo che la mia gratitudine
e la mia riconoscenza saranno eterne, sì, anche nell’altra vita.
(VALGIMIGLI 1993, pp. 188 s., 206)
9. L’«ultimo figlio di Virgilio», tra Carducci e d’Annunzio (tra Albini e
Tenneroni)
Contrariamente a quanto comunemente si immagina (e per quanto
ignorate nei rispettivi ambiti critici), le frequentazioni sia di Carducci
che di d’Annunzio con la poesia neolatina erano abituali: nei loro ambienti il latino era addirittura di uso comune a livello cerimonialeerudito (e addirittura ludico). In tale contesto, evidentemente, la poesia
latina di Pascoli si rivela molto meno singolare di quanto sia apparsa ai
lettori del secondo Novecento, ma anche, paradossalmente, molto di
più, proprio per la mancanza di contatti diretti specifici su questo terreno da parte del romagnolo. Non si potrà più eludere, comunque, la questione che la partita fra ciascuno dei due ‘vati’ e Pascoli si è giocata anche su questo tavolo.
Carducci gradì e apprezzò a tal punto le traduzioni in latino delle
Odi barbare che gli venivano periodicamente sottoposte (negli anni
stessi in cui Pascoli, già noto come ‘fenomeno’ fra i compagni per la
competenza di latinista, era studente, suo e di Gandino, all’università),
da pubblicarne una scelta di quattordici pezzi in appendice alla terza edizione definitiva del 1893 (ma già le Nuove odi barbare del 1882 re-
475
P. Paradisi
cavano simile appendice).79 Pascoli tuttavia, né in quegli anni né poi, risulta che abbia mai tradotto in latino un solo verso del maestro. Eppure
si sa che come insegnante di liceo faceva tradurre in latino ai suoi allievi testi letterari italiani. Addirittura in esametri omerici greci volse la
“leggenda garibaldina” scritta da Carducci (ma in prosa) per la morte
dell’eroe, mentre era docente al Liceo «Duni» di Matera
(Bεσσοµαχος, AP, pp. 43-50); e a Messina, l’unica volta in cui fu
titolare di Letteratura latina all’Università (non Grammatica greca e latina, come prima a Bologna e poi sarà a Pisa), – la cattedra, per intenderci, tenuta da Gandino a Bologna per 45 anni –, egli, sulle orme
dell’antico maestro, dedicava un’ora alla settimana alla traduzione in
latino.80 Ma anche allora non si hanno notizie di sue traduzioni carducciane. È mancato quindi completamente quell’omaggio dell’allievo
(forse il più competente e capace) al maestro, che aveva attirato decine
di abili versificatori in latino, dal giovanissimo Gandiglio ancora studente liceale, al vegliardo senatore Giorgini genero del Manzoni. Questa ‘omissione’ non sarà sfuggita al maestro, che ovviamente si era
sempre ben guardato dal sollecitare tali performances da parte di alcuno, ma che evidentemente ne era anche piuttosto gratificato, quando gli
pervenivano come attestazioni spontanee di ammirazione e devozione.
Carducci ripagherà questa ‘disattenzione’ dell’allievo con pari trascuratezza nei confronti delle sue prove di poeta latino. Vediamo come.
Pascoli non si era dimenticato del maestro al tempo del Veianius e
gliene aveva subito inviato copia a Bologna, con una dedica tenera
nella sua ingenuità: Trepidans libens Laevius (citazione di un verso del
poeta neoterico Levio, riportato in Lyra: «con gioia trepidante»).81 Ma
79
Almeno ottanta versioni, di quarantatrè poesie, più o meno contemporanee al poeta, da parte di
ventuno traduttori (tutti italiani) ha potuto contare GAMBERALE 2001 (si veda anche GAMBERALE
2007). Quanto scarsa considerazione goda tuttora questo fenomeno emerge dal fatto che l’edizione
critica delle Odi barbare curata da G. A. Papini nel 1988 (che pure assume precisamente l’edizione del 1893 quale testo definitivo) non riporti queste traduzioni, ma le menzioni solo nella scheda descrittiva (cfr. CAPOVILLA 2012, p. 31).
80
SANTINI 1951, p. 104.
81
È l’unico fascicolo dei carmina olandesi presenti a Casa Carducci (se ne veda la scheda
realizzata per la mostra citata supra, a n. 76): non si può tuttavia escludere (in mancanza di altri
documenti positivi che assicurino sul destinatario, tipo buste o lettere di accompagnamento) che ci
sia arrivato per via indiretta, e che quindi fosse stato originariamente indirizzato a qualcun altro
(ad es. Severino Ferrari), che poi lo passò al maestro. Vari indizi farebbero propendere per questa
ipotesi: soprattutto l’assenza del nome di Carducci nell’elenco sopra riportato dei destinatari delle
dedicationes Veiani, e la conversazione con Brilli a Siena nell’agosto 1892 riferita alle sorelle:
«Come è scipita e sconfortante la conversazione con quel frutto secco del Brilli! Gandino?
Carducci? Casini? Nulla, nulla. Io non ho fatto nulla, io non sono nulla. Una volta ha fatto una
discreta allusione al mio cavalierato, ma senza appulcrarci parola. Myrificae? Non esistono.
Veianius? “Hai fatto poi stampare i tuoi versi latini?” “No; li hanno stampati in Olanda.” “Li hai
476
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
imparò subito come regolarsi per il futuro. L’unico riscontro che ne
aveva avuto era stato un secco biglietto di Carducci, del 14 marzo ’93
(anche questa data, per accusare ricevuta del dono, – un anno dopo? –,
desta qualche perplessità),82 con la richiesta di un omaggio del fascicolo
per l’amico Del Lungo:
Caro amico mio Pascoli,
fammi il piacere di mandare a Isidoro Del Lungo, che me ne mostrò gran
desiderio ed è buon lettore e scrittore di versi latini, il tuo bellissimo
Veianius. Addio. Tuo Giosue Carducci
Qui pare di avvertire più la seccatura per l’insistenza del collega
(«fammi il piacere», «me ne mostrò gran desiderio») che la lietezza per
il successo dell’allievo, e il «caro amico mio» e il «bellissimo» sembrano solo dovuti al rispetto minimo delle buone maniere per ottenere il
favore.
E così nel ’94, quando ebbe i fascicoli di Phidyle e Laureolus, Pascoli, memore della lezione, evitò di farli avere all’antico maestro bolognese. Questa volta però la risposta, alquanto piccata anche se indiretta
– ma pubblica, sui giornali! –, arrivò a stretto giro di posta. Dopo aver
letto sulla «Gazzetta dell’Emilia» del 1° aprile 1894 la notizia della
recente vittoria conseguita dal Pascoli nella gara olandese, dove era
qualificato come Liburnensis, cioè livornese (secondo l’indicazione
fornita peraltro dall’autore stesso all’Accademia di Amsterdam), il Carducci coglieva subito l’occasione, con la scusa di rettificarne la provenienza, per ragguagliare il direttore del giornale Ugo Pesci su alcuni
episodi e notizie biografiche riguardanti il passato e il presente del suo
antico alunno, non senza manifestare fuggevolmente la propria opinione sul poeta italiano (la lettera finirà praticamente tal quale sul quomandato [sic] a Gandino?” “No.” E bott lì. “Ce ne hai delle copie?” “Qualcuna”. E bott lì. Ma io
me ne… infischio di lui e di tutta la bolognaggine e carducciaggine e somaraggine vecchia, invida
e barbogia» (il 22); e ancora il 24: «Quello che m’avete detto […] mi ha consolato di tante cose
che sento dal mio collega. Eccone un saggio: “Al Gandino?” “ Non glielo mando (storia vecchia);
“e nemmeno al Carducci”. “Perché?” “perché si secca a ricevere le cose di noi piccini”. “O
come?” “Sicuro: io sono un seccatore; mentre Severino è quello che sarebbe l’Heine se… il Petrarca se…: il Mazzoni è il tale, il Marradi è il tal altro”. “Vedi (ecco la risposta untuosa del Brilli)
il Carducci è un uomo superiore… un grande fra tanti pigmei…, che cosa vuoi? [ecc.]» (LV, p.
335-336).
82
Dopo «un tratto non breve di silenzio», commenta Vicinelli, visto che l’ultima missiva, peraltro
una cartolina collettiva in cui figurava anche il saluto del maestro, era del marzo ’90 (LV, p. 348
s.; Omaggio, p. 366: ma l’assenza di lettere si spiega col fatto che in quegli anni si vedevano
abbastanza spesso di persona a Livorno, quando Carducci si fermava dalla figlia Bice sposata con
Carlo Bevilacqua, collega di Pascoli al Liceo).
477
P. Paradisi
tidiano il giorno dopo, sotto il titolo Il Pascoli è romagnolo). È un episodio molto noto e citato, ma soprattutto per il riferimento finale alle
«poesie italiane finissime», che sembra essere l’unico giudizio pubblico
di Carducci sulle Myricae (e per la rivelazione incongrua dei ‘trascorsi
politici’ del giovane studente).83 Qui interessa invece il fatto che la precisazione sia stata ‘scatenata’ proprio dalla notizia del premio olandese
per la poesia latina:
Caro cav. Pesci,
Giovanni Pascoli di cui è parola nella Gazzetta di questa mattina, non è
livornese; è romagnolo, di San Mauro; al Liceo di Livorno è professore di
greco e latino.
È il secondo premio che riporta per la poesia latina dalla R. Accademia
d’Olanda.
Fu alunno di questa nostra Facoltà filologica; e a’ suoi bei giorni, o
cattivi, fu anche socialista e in prigione.
Il prof. Gandino e io lo confortammo e richiamammo agli studi. Scrive
anche versi greci; ed è autore di poesie italiane finissime, forse troppo, ed
eleganti e animose.
Non dia a stampa questa lettera come sta, ma ne cavi tutto quello che
vuole. La saluto
Suo Giosue Carducci
In pochissime righe il ‘caro maestro’ riesce a ridimensionare non poco la ‘gloria’ internazionale dell’allievo. Oltre a quanto già osservato da
Felcini e Nava sui meriti che si arroga Carducci (associandosi doverosamente Gandino), oltre che umani (per il salvataggio in extremis del
giovane ‘traviato’), soprattutto culturali, per la bravura raggiunta ora
(sembra dire: «se è così bravo, lo deve a noi…»; ma la precisazione che
«è professore di greco e latino», in qualche misura attenua la bravura
stessa: è un’abilità connessa alla professione…), nell’inciso «scrive anche versi greci» è la pointe a mio avviso velenosa (e solo in apparenza
ammirativa/elogiativa): lo fa passare infatti per una specie di monstre
capace dei più strani, assurdi (e inutili) virtuosismi, con ciò stesso squalificando anche l’autenticità dell’ispirazione del poeta latino per ridurla
a un fenomeno di pura abilità tecnica (di sicuro aveva in mente l’epigramma greco Ο„νèτριος, che Pascoli aveva scritto per celebrarlo nella
fiaschetteria frequentata da entrambi a Livorno: testo che, pur non
83
LV, pp. 366-368 e n.1; BIAGINI 1963, pp. 205, 213; BIAGINI 1971, p. 689; FELCINI 1984, pp.
206 s; NAVA 1987, p. 195; CENCETTI 2009, p. 89; CENCETTI 2011, p. 150 s.
478
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
avendo alcun contenuto offensivo, doveva riuscire inevitabilmente parodistico della prosopopea del maestro nelle sue performances poetiche
pubbliche).84
La reazione immediata dell’interessato (non a torto stupefatta e profondamente dispiaciuta) si legge in una lettera del maggio ’94 al fedele
amico e collega Giuseppe Martinozzi (che gli aveva mandato il
trafiletto del giornale…), insegnante al Liceo «Galvani» di Bologna,
dove era stato appena trasferito da Livorno:
Caro Beppe,
ricordi quella rettifica nella Gazzetta dell’Emilia? «Il Pascoli non è
livornese – è romagnolo – era socialista – prigione – Carducci e Gandino
lo riconfortarono – etc. etc.». Bene: devi metterti una mano sulla
coscienza e dirmi se ti pare scritto da amico o nemico; se ne puoi
indovinare l’autore; se l’autore ha voluto farmi piacere o dispiacere, bene
o male.
Credimi tuo Gio. Pascoli (SERRA, p. 44)
Fatto sta che da allora in poi sicuramente Pascoli non inviò a Carducci
alcuno dei fascicoli coi suoi poemetti premiati dall’accademia olandese.
Esclusione che diventa ancora più significativa se paragonata agli invii
a personaggi originariamente molto più ‘estranei’ a Pascoli, coi quali
anzi ha scambi epistolari molto precisi su particolari e dettagli dei
singoli carmi (da Barnabei a Nigra). Da parte sua, Carducci, mentre
continuava ad ignorare i successi del Pascoli, ebbe invece parole di
elogio per Giuseppe Albini poeta latino, suo «raccomandato di ferro».85
Ma, a onor del vero, bisognerà pur precisare che Carducci era abituato a
(e quindi concepiva) un uso del latino per lo più strumentale in
funzione celebrativo-cerimoniale, quale ebbe occasione di manifestarsi
in due momenti-cardine del suo magistero: le celebrazioni dell’ottavo
centenario dell’Alma Mater nel 1888, e i festeggiamenti solenni per il
giubileo del suo insegnamento bologense nel 1896. Il 12 giugno 1888,
84
BIAGINI 1963, p. 153.
«Un de’ meglio scrittori in latino e in italiano, in versi e in prosa» lo definiva in una lettera del
1892 (LEN XVIII, p. 46), «uno dei latinisti più profondi e di gusto» (citazioni da BIAGINI 1971, p.
661, 683). Ma di massima eloquenza è la lettera di Carducci del 13 settembre 1899 al Ministro
della Pubblica Istruzione: «la nostra Facoltà nell’ultima adunanza dell’anno propose e raccomandò
per ordinario il prof. Albini insegnante grammatica latina e greca. Niun voto fu mai più giusto e
savio di questo. L’Albini è giovane valentissimo egualmente nelle tre letterature; e V.E. può gustare e giudicare superiormente ciò ch’egli ha scritto in versi e in prosa latina. Del suo valore critico e
filologico attestano il commento a Persio e alla Bucolica di Virgilio. Se V. E. nomina ordinario
l’Albini premia un ingegno elettissimo e uno spirito nobile, e fa gran piacere a me che ebbi l’Albini discepolo e ora l’ho amico» (VEGLIA, p. 232).
85
479
P. Paradisi
nel cortile dell’Archiginnasio, alla presenza dei sovrani Umberto e
Margherita, il Gandino, prima dell’orazione ufficiale di Carducci,
rispose con un’allocuzione in latino alle parole dei delegati delle cento
università straniere presenti.86 Il 9 febbraio 1896, nell’Aula Magna
dell’Archiginnasio, l’orazione, naturalmente latina, fu detta – non letta
– dallo stesso Gandino «con maestà pontificale» (LV, p. 477 s.), e pubblicata il giorno dopo sul «Resto del Carlino».87 Ma ancora nel 1901,
per il 40° d’insegnamento, un comitato di professori, fra cui Severino
Ferrari e Giuseppe Albini, si fece promotore dei festeggiamenti con un
invito stilato in latino (appunto dall’Albini) e stampato dallo Zanichelli.88 Ma basta passare in rassegna la produzione latina di Albini per
rendersi conto di cosa significhi l’espressione ‘poesia d’occasione’ (se
ne veda una sintesi in nota).89 La sua è un’‘ispirazione’ che ha costan86
Per l’occasione il rappresentante dell’Università di Glasgow scrisse «un epinicio in greco, giudicato dal Carducci (che ne parlò sul «Resto del Carlino» il 13 giugno) una meraviglia, “soprattutto
per la difficoltà, abilmente superata, di dire poeticamente nella grande lingua di Pindaro le cose e i
nomi del medioevo italiano”» (BIAGINI 1971, p. 590). Si spiega così quale fosse il metro di valutazione di Carducci per la pratica della versificazione moderna nelle lingue classiche: l’abilità tecnica, il virtuosismo nel superare i limiti imposti dai contenuti non-classici: ciò che Pascoli aveva
rifiutato programmaticamente (il vezzo britannico delle celebrazioni in ‘stile classico’ è duro a morire, se ancora nel 2012 le Olimpiadi di Londra sono state omaggiate di un’ode pindarica in greco
antico composta da un professore di Oxford e declamata poi dal sindaco della città, come
riportarono le cronache dei quotidiani).
87
Con la traduzione di G. Rocchi (TARTARI CHERSONI 1992, p. 10); TRAINA 2004, p. 15.
88
BIAGINI 1971, p. 806.
89
Nel 1884 Carducci tiene il celebre discorso di Pietole per l’inaugurazione del monumento a Virgilio nella cittadina mantovana che aveva dato i natali al grande poeta latino, e Albini scrive i distici Ad Vergilium, cum Andes vetere et recentiore nomine mutato Vergiliique posito signo Vergilius appellari coeptus est (così nel frontespizio del carme), lodati al Certamen Hoeufftianum e pubblicati nel 1885. Nel 1887 l’Università di Bologna è in gran fermento per le imminenti celebrazioni dell’ottavo centenario, promosse dal Maestro: i due fedelissimi allievi Panzacchi e Albini
(laureatisi entrambi nel 1886) si preparano per tempo, in modo da far uscire nell’anno fatidico la
‘cantica’ L’VIII centenario dello Studio bolognese, composta da Panzacchi e stampata da Zanichelli con la versione latina a fronte di Albini: Feriis octavum saecularibus Universitatis Bononiensis. Per il certame olandese Albini scrive anche l’inno in 170 esametri Ad urbem Bononiam,
che viene prontamente lodato e pubblicato proprio nel 1888. Nell’occasione già citata del giubileo
del Carducci, non potendo presenziare alle manifestazioni, trova modo di aggiungere comunque la
propria voce – in latino – al coro degli omaggi, con un epigramma che associa entrambi i nomi dei
maestri (ed avrà l’impudenza di ricordare che «non fu sgradito a’ maestri il plauso che ne espressi
da lontano così»: si preparava insomma il terreno per la successiva chiamata a Bologna).
Nell’ottobre 1897 per le nozze della figlia del ministro Codronchi (lo stesso che, mentre nominava
Pascoli ordinario a Messina, lo aveva assegnato alla comoda cattedra di Grammatica greca e latina
di Bologna), faceva stampare su cartoncino e inviava all’illustre padre un cerimonioso epigramma
latino in tre distici (pure le sorelle furono poi omaggiate allo stesso modo). Un altro anniversario,
nel 1904, gli dettava i distici In Franciscum Petrarcham (per i quali si può ricordare un altro antecedente carducciano, il discorso tenuto nel quinto centenario della morte del poeta di Laura, il 18
luglio 1874, Ad Arquà presso la tomba del Petrarca), subito inviati ad Amsterdam ma senza alcun
esito. Ancora nel 1910 non sembra casuale la scelta da parte di Albini di misurarsi su un tema come Ravenna, attorno al quale, solo pochissimi anni prima, si era accesa la competizione fra Pascoli
480
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
temente bisogno del supporto di un’occasione esterna (per lo più
solenne e importante, ma anche di cronaca) per accendersi; più raramente riesce ad esprimere mozioni ed esigenze personali e originali.
Negli stessi anni e nello stesso clima culturale si accendeva la
tenzone fra Annibale Tenneroni e Cesare De Titta per la versione in
latino delle Elegie Romane di d’Annunzio, «i cui contendenti gareggiarono per un’ipotetica palma del vincitore consegnata dal divo comune».90 Basta la cronologia delle pubblicazioni dei due, prima in rivista
poi in volume, che copre un intero decennio (accompagnate dalle relative recensioni), per dar conto sia del prestigio letterario che derivava ai
traduttori dalla loro perizia nella versificazione latina, ma anche
dell’omaggio reso in tal modo all’autore dei versi tradotti, che se ne
compiaceva e seguiva da vicino queste traduzioni.91 Addirittura
Tenneroni, per festeggiare il vate in una serata romana nel gennaio
1897, al termine del banchetto declamava un inno Gabrieli convivae da
lui composto per l’occasione, in cui viene tirato in ballo anche Pascoli:
«Plaudit io Bargae, iam se mirantibus addens / pulsat pindarica Pascolus arte lyram, / Iliadis tantum versus bene vertere doctus, / felix ter
quater! Symposiarcha legit».
Non è dato sapere se il Pascoli sia stato informato, prima o dopo,
della brillante performance, né, men che meno, se e quanto eventualmente abbia gradito la citazione (il carme comunque fu poi stampato da
Tenneroni nel volume delle Elegie tradotte): l’episodio ci serve per
completare lo sfondo sul quale la fisionomia di Pascoli poeta latino si
staglia con assoluta evidenza di alterità.
Sarà quindi per uno di quei paradossi non infrequenti nella biografia
e D’Annunzio: il poemetto viene lodato e pubblicato nel 1911, e subito l’autore ne procura anche
la traduzione, pubblicata in due sedi. Si potrebbe continuare, ma l’esemplificazione sembra ormai
sufficiente (cfr. PIGHI 1961 e TRAINA 2010).
90
MENNA 2007, p. 32; da questo volume ricavo le notizie che seguono (la citazione latina e i
riferimenti bibliografici).
91
Si inizia con un primo saggio: G. d’Annunzio, Elegie due romane tradotte in distici latini da
Annibale Tenneroni, Roma, Forzani, 1893, per arrivare alla raccolta completa: A. Tenneroni,
Elegie Romane di Gabriele D’Annunzio tradotte in latino, Milano, Treves, 1897 (l’introduzione al
volume con la traduzione di Villa Chigi e Il Pettine fu anticipata ne «La Vita Italiana» 3, 1897, del
1° ottobre; una prima recensione uscì subito sul «Fanfulla della Domenica» del 10 ottobre 1897).
Nel frattempo scatta la reazione dell’abruzzese De Titta, amico d’infanzia del Vate, che non si
perita di definire la traduzione dell’altro «un’assai meschina prova, non immune da solenni
spropositi grammaticali», e vorrebbe affrettarsi a pubblicare a propria volta le Elegie Romane che
«tutte, da ben tre anni, per espresso desiderio di Gabriele, aveva voltato in distici latini»: usciranno
in realtà dopo un paio d’anni le Elegiae Romanae Gabrielis D’Annunzio latinis versibus
expressae, Anxani, Carabba, 1900 (recensione di R. Pantini, «Il Marzocco», 1 luglio 1900), in
seconda edizione nel 1905 (G. D’Annunzio, Elegie romane, con la traduzione in latino di C. De
Titta, Editrice Lombarda De Mohr Antongini).
481
P. Paradisi
pascoliana, che la consacrazione ufficiale e pubblica di poeta latino gli
venne solo all’estremo della sua parabola esistenziale e poetica,
nell’estate del 1911 e proprio per bocca dell’antico fratello ‘maggiore e
minore’ Gabriele D’Annunzio: non motivata dalle limpide vittorie
olandesi, ma in seguito e come reazione a una tipica vicenda italica,
piuttosto meschina e provinciale – ai limiti della farsa nei suoi risvolti
personalistici, se non fosse che c’erano di mezzo le celebrazioni per il
cinquantesimo dell’Italia unita. Lo scandalo suscitato dall’assegnazione
del secondo premio all’Inno latino inviato da Pascoli per il concorso
internazionale indetto dal Comune di Roma per celebrare il natale
dell’Urbe nell’anno santo della patria (primo premio e relativa medaglia
d’oro non assegnati, col sospetto, giustificato, di manovre poco chiare
del collega-rivale Albini), subito finito sui giornali, fece sbottare il
pescarese, che allora era a Parigi per seguire la messa in scena del suo
Martirio di San Sebastiano. Durante un’intervista al «Corriere della
sera», Gabriele portò apposta il discorso sull’argomento, per poter poi
esprimere il suo parere, con quella che è diventata una pagina classica
della critica pascoliana (tanto citata però, quanto poco compresa nei
suoi singoli passaggi, finché Alfonso Traina la pose a suggello del suo
Saggio sul latino del Pascoli, dopo aver dimostrato e documentato per
la prima volta il significato vero di quelle parole).92
Già alcuni anni prima lo stesso d’Annunzio, nel Commiato di Alcyone, aveva coniato per Pascoli la formula destinata a una sicura fortuna per la sua efficace pregnanza (ma con tutti i limiti a cui le formule
per loro statuto si prestano): «ultimo figlio di Virgilio», ripetuto per ben
tre volte nella parte conclusiva dell’ode (vv. 113-116, 125-126; 147 s.):
Ode, innanzi ch’io parta per l’esilio,
risali il Serchio, ascendi la collina
ove l’ultimo figlio di Vergilio,
prole divina, […]
il figlio di Vergilio ad un cipresso
tacito siede, e non t’aspetta. Vola! […]
E tu gli parla: «Figlio di Vergilio,
ecco la fronda. […]
con un’assonanza, nell’ultima strofa, che ne riprende l’eco a chiudere
circolarmente il segmento finale della saffica (dove, si badi, il nome del
poeta non è mai fatto; vv. 189-192):
92
TRAINA 2006, p. 225 s.
482
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
Ode, così gli parla. Ed alla suora, […],
dà l’ultimo ch’io colsi in su l’aurora
giglio del mare.
Per la verità questo tipo di definizione93 non è del tutto originale: ha
infatti un precedente tanto illustre (e prevedibile) quanto, se ho visto
bene, sfuggito ai commentatori: il maestro di entrambi Carducci. Il
quale fin dal 1872, nella prima delle Primavere elleniche, l’Eolia (RN),
si era orgogliosamente auto-proclamato, anche lui nella chiusa dell’ode
(35 s.): «Io, de gli eolii sacri poeti / ultimo figlio».94 Qualcosa del genere può essere addotto anche per la prosa stampata sul «Corriere». Riprendiamo ancora una volta il testo della nota intervista, nella sua integralità:
Alludo alla più miserevole e ridevole testimonianza di sordità e di
meschinità data da una commissione solenne, sul monte ove il Petrarca fu
laureato poeta latino. […] Pensi: Giovanni Pascoli è il più grande poeta
latino che sia sorto nel mondo, dal secolo di Augusto a oggi. Non v’è
umanista diserto che possa reggere al paragone, in purità di lingua, in
vigore di numero, in splendore di stile. Nei suoi più alti poemi egli non è
un imitatore ma un continuatore degli Antichi. Dopo Catullo, dopo
Orazio, dopo Vergilio, egli continua il secol d’oro; voglio dire – quasi
incredibile a dirsi – che lo arricchisce e lo affina. Egli ha colto il genio
della lingua nel punto in cui stava per decadere, e lo ha sospinto in alto
ancor d’un grado. Là dove un commissario capitolino non si meraviglia,
il cantore dell’Eneide si meraviglierebbe. Non so se Ella comprenda
questo straordinario fatto dello spirito, che a me sembra uno dei più
augusti in tutta la storia delle Lettere umane. E il latino pascoliano è
riconoscibile pur da un mediocrissimo latinista, come quel di Orazio, per
un sapore e per un colore che non si ritrovano in alcun altro. Or bene, in
93
Che potrebbe derivare da Pascoli stesso, stando a quanto riporta in nota a questi versi TORCHIO
(p. 184): «vd. la confidenza a Pietro Micheli divulgata da Luigi Pescetti, Pascoli e D’Annunzio
(con lettere inedite), in “Il Telegrafo” 20 luglio 1932: “Lui [d’Annunzio] è Ovidio – soleva dire –
io sono Orazio, o meglio Virgilio, dalla faccia rusticana e dalle maniere scontrose”. […] La battuta
rivelata da Micheli sembra esser giocata sul piano biografico, in cui la castità e timidezza virgiliana sono più adatte dell’epicureismo sorridente di Orazio». TREVES (p. 46) ipotizza che d’Annunzio
ricordi la definizione data da Charles Guérin a Francis Jammes nel 1898, «Le fils de Virgile».
94
Convinzione ingenuamente ribadita peraltro in una lettera a Lina di due anni dopo (17 maggio
1874): «L’alcaica [In una chiesa gotica, che invero nacque poi come asclepiadea], amor mio, non
l’ho ancora scritta […]. Ma, quando la scriverò, io credo che dirai un’altra volta, che, dopo
Foscolo, io sono da vero l’ultimo figlio de’ poeti eolii» (Cfr. SACCENTI, p. 544, corsivo mio). Questa atmosfera eolica che promanava da Carducci non sarà stata senza influenza sulla scelta (forse
in parte polemica) dello studente Pascoli, sia di laurearsi su Alceo, sia di provare anche la sua musa latina (oltre a quella italiana: cfr. CAPOVILLA 2006, pp. 120-123), per la prima volta per il certamen olandese, su un tema di derivazione ‘eolica’ con Leucothoe.
483
P. Paradisi
Italia e in Campidoglio, è possibile che una Commissione investita d’ogni
autorità e dignità si disonori conferendo a un Carme di Giovanni Pascoli
il “secondo premio”! Vedo di qui il mio amico scuotere il gran capo e un
pochettin sorridere com’egli suole.95
Non si può non rimanere affascinati, a ogni rilettura, dall’incalzare serrato delle argomentazioni e dalla felicità complessiva dell’intuizione,
nell’aver saputo cogliere i motivi dell’originalità della poesia latina pascoliana (rimando alla splendida analisi di Traina citata sopra). Eppure,
eppure… lo spunto iniziale anche qui è lontano nel tempo, ma ben
presente alla memoria prensile di D’Annunzio. In quella perentoria affermazione «egli non è un imitatore ma un continuatore degli Antichi»
con quel che segue, si avverte benissimo l’eco di quella nota di De Bosis per Castanea sul «Convito» del 1896: «un legittimo erede e continuatore della più schietta latinità […] continuatore di tutta una forza
d’arte capace di creare non che d’imitare», che abbiamo visto a sua volta essere basata su una ‘velina’ dello stesso Pascoli. Si conferma così
per l’ennesima volta la tendenza a far proprio «un pensiero che viene
dal Pascoli […] e del Pascoli porta tutte le stimmate», dichiarata da
Garboli proprio per l’«inno alla gloria» che chiude Commiato (2002, II,
p. 692). Genialmente, comunque (come suo solito), d’Annunzio aveva
afferrato d’acchito il nocciolo della questione nell’antitesi imitatore vs.
continuatore, umanista vs. poeta, e dichiarandolo a tutte lettere, faceva
piazza pulita in un colpo solo, di tutti gli equivoci e i fraintendimenti
dei cosiddetti ‘addetti ai lavori’. Peccato solo che per mezzo secolo esatto il suo giudizio sia rimasto non più che un bel pezzo di prosa d’arte, prima che Traina s’incaricasse di verificarne il significato.
10. Conclusione
La poesia latina è stata per Pascoli il work in progress di tutta la vita.
Se le principali delle sue raccolte poetiche sono state “opere aperte” per
anni (si pensi alla ‘fabbrica’ delle Myricae e dei Poemetti), e tuttavia
hanno raggiunto diverse volte assetti ‘stabili’ nella stampa (anche se solo provvisoriamente), producendo le diverse “edizioni” – croce e delizia
dei filologi –, nessuna come quella dei carmina è stata altrettanto
95
G. D’ANNUNZIO, Come fu composto il San Sebastiano, «Il Corriere della Sera» 3 maggio 1911,
p. 3 (intervista raccolta da Pietro Croci); poi in ANDREOLI 2003, p. 1456 s. (e ora anche in
TORCHIO, p. 190 s.).
484
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
vagheggiata, ipotizzata, abbozzata senza mai giungere a compimento.
Nell’ultimo anno di vita, il fatidico 1911, anche per la profonda suggestione della richiesta della regina madre Margherita (ancora e sempre
lei!) di leggere la “poesia latina del Pascoli” (dopo le vicende del certame bandito dal Comune di Roma di cui si è appena detto),96 Pascoli
sembrò vicino a mettere insieme finalmente il libro dei carmina, ma ormai probabilmente quella volta era davvero troppo tardi. Sembra di poter dire comunque che non sia stato del tutto un caso, che non si sia trattato di un ritardo talmente prolungato poi, sopravvenute altre scadenze
impellenti, divenuto irreparabile.97 Quando voleva, Pascoli sapeva essere determinato nella pubblicazione dei suoi libri di poesia, anche negli
ultimi anni (si vedano le Canzoni di Re Enzio o i Poemi italici). Il fatto
è che l’ispirazione della poesia latina è l’unica che sia rimasta a livelli
stabili e costanti da quel 1892 che aveva visto il primo riconoscimento
olandese. L’appuntamento della seconda metà dell’anno per la stesura
del poemetto o dei poemetti da inviare ad Amsterdam rimane fisso (e
desiderato) durante, – e nonostante –, tutti i passaggi di carriera e i trasferimenti di sede e di città; è il fil rouge che attraversa gli ultimi venti
anni di vita senza subire modifiche né alterazioni (per sollecitazioni esterne, ‘socio-politiche’) nell’autenticità e profondità dell’ispirazione; e
senza neppure più il ‘pungolo’ della sorella, che con lo stipendio da
professore universitario si sentiva più tranquilla. Perché quell’ispirazione non è legata all’attualità né ai luoghi (né alla competizione e al
confronto con gli altri poeti), ma rimane collocata in quell’antichità esemplare (nel senso che offre tutte le possibilità e i modi di vita individuali e collettivi) già per sempre fissata e determinata nel suo svolgimento nelle opere della ‘classicità’ (non solo dei poeti ma anche degli
storici, dei filosofi, e pure nei resti dell’archeologia), e quindi è sempre
96
Giunge all’epilogo anche il rapporto con l’illustre protettrice: «per mezzo d’un dotto amico del
poeta [dovrebbe essere Finali o Barnabei (vd. CENCETTI 2008, pp. 292-8)] gli chiese la raccolta dei
suoi carmi latini. Il Pascoli, non potendo allora far altro, inviò due copie dei quattro ultimi suoi
poemetti, pensando di pubblicare per il giugno l’Hymnus in Romam e per il 20 sett. il Liber de
poetis con almeno undici carmi; prometteva poi di mettere a disposizione della regina la raccolta
completa. Per ciò, forse, il 28 aprile mandava il dott. Caproni nella casa di Castelvecchio a cercare
nello studio “un mucchio di miei opuscoli latini olandesi… legati da filo in croce, alla meglio…” e
di spedirglieli subito a Bologna» (LV, p. 954 n. 1).
97
Un po’ semplicisticamente Garboli su questo aspetto taglia corto (I, p. 59 s.): «il caso dei
“Poemata romana” […] si spiega molto probabilmente con l’irrinunciabile tendenza pascoliana a
innamorarsi delle grandi fabbriche, e a sognare grandi sistemi ciclici. […] Col sopravvenire della
vecchiaia, prese però consistenza il proposito, se pure momentaneo, di raccogliere i poemetti latini
in una “silloge completa”, ma a condizione di scriverne altri e di tirarne un’edizione che si rivelò,
manco a dirlo, immaginaria. Così il perfezionismo fece naufragare un progetto cui mancava ben
poco per compiersi».
485
P. Paradisi
attiva, vitale, produttiva. Chiuderla nella raccolta ‘definitiva’, nell’opus finitum avrebbe significato inconsciamente per Pascoli chiudere le
fonti della sua poesia più vera e profonda, chiudere le ragioni e il senso
della propria vita di artista. Solo la cessazione della vita stessa, come
infatti avvenne, poteva mettere la parola fine alla poesia latina, e la medaglia per Thallusa sul letto di morte diventa l’emblema estremo della
parabola del poeta Pascoli.
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RIASSUNTO
Pascoli fu subito conosciuto e apprezzato in Europa come poeta latino: fu
perfino tradotto in ungherese, mentre il latinista olandese J.J. Hartman
(prima concorrente poi giudice al Certamen Hoeufftianum di Amsterdam)
ne era nel frattempo divenuto amico, e alla sua morte gli dedicò un
importante saggio esegetico. In quell’epoca si erano diffusi, non solo in
Italia, diversi giornali scritti in latino («Vox Urbis», «Praeco Latinus»,
«Alaudae», «Rosa Melitensis»), e in qual clima anche Pascoli pensò di
fondarne uno, «Fanum Vacunae». Ma la fortuna in patria dei suoi
carmina era iniziata fin dal Veianius, il primo poemetto premiato nel
1892 con la medaglia d’oro, come testimoniano le dedicationes composte
per vari personaggi (dal papa al ministro della Pubblica Istruzione), e le
varie traduzioni pubblicate da altri (che consentono di recuperare diversi
rapporti interpersonali finora ignorati). E in latino in quegli stessi anni
erano state tradotte e stampate numerose Odi barbare di Carducci e le
Elegie Romane di d’Annunzio: anche su questo terreno si possono
496
Lo scrittoio del Pascoli e la prima ricezione dei «Carmina»
misurare i rapporti di competizione e rivalità dei due ‘vati’ nazionali col
poeta di San Mauro. Per il 1911, ricorrenza del cinquantesimo
anniversario dell’Unità d’Italia, Pascoli avrebbe volto pubblicare il
volume delle Res Romanae che raccogliesse i suoi carmina (con le
traduzioni a fronte), come esplicitamente e anche pubblicamente
dichiarato a diversi interlocutori; ma il progetto non andò in porto, più
per motivi personali legati alle fonti della sua ispirazione poetica, che per
ragioni oggettive.
497