«Mirando le diicoltà di ristorare
le rovine del nostro honore».
La nobiltà napoletana e le ambasciate
della città di Napoli a Madrid*
di Ida Mauro
Nel 1503 Ferdinando il Cattolico ricevette a Segovia una delegazione di
ambasciatori napoletani che, a pochi mesi dalla conquista del Regno, chiedeva la conferma del rispetto dei privilegi e dei capitoli da parte del nuovo
sovrano1. La delegazione era stata permessa da Consalvo de Córdoba, primo
viceré spagnolo e comandante dell’esercito del Cattolico, e inaugurò una
lunga prassi nell’invio di ambasciatori che negoziarono a corte gli interessi
del Regno, della capitale, ma anche di altri centri minori, dotati di antiche
tradizioni di amministrazione civica2.
La documentazione su questa consuetudine (la scelta degli ambasciatori, le istruzioni redatte di volta in volta e le relazioni presentate al
rientro) si conservava in buona parte presso l’Archivio storico municipale
di Napoli, come mostra il Catalogo ragionato edito da Bartolommeo
Capasso (1876)3, e andò in buona parte distrutta dopo la Seconda guerra
mondiale4. Tuttavia è possibile rintracciare, presso gli antichi fondi delle
biblioteche napoletane, alcune copie manoscritte dei documenti dispersi
relative all’attività dei seggi napoletani e ai personaggi che rivestirono il
ruolo di ambasciatore. Queste carte, insieme alle consulte dei Consigli di
Stato e d’Italia dell’Archivo General de Simancas, costituiscono il punto
di partenza del presente saggio, che ofre i primi risultati di un’indagine
volta a ricostruire le modalità con cui, tra xvi e xvii secolo, si svolsero le
diverse ambasciate napoletane a corte. In particolare, si proverà a dare
le dimensioni della complessità e della ricchezza di questa tematica, si
tracceranno le future linee di sviluppo delle ricerche e ci si sofermerà su
alcune ambasciate particolarmente signiicative.
1
Le ambasciate della “Napoli spagnola”
La possibilità d’inviare un ambasciatore presso il re non era una prerogativa
solo napoletana, anzi costituiva una pratica ampiamente difusa non solo nei
Dimensioni e problemi della ricerca storica, 1/2014
ida mauro
diversi centri della monarchia spagnola, ma anche in tutti i casi in cui un
governo civico si preoccupava di tutelare le proprie costituzioni, i capitoli
o i privilegi davanti alla corte a cui era sottoposto. Queste dinamiche permettono di parlare dei margini d’azione di una contrattualità del potere in
contesti molto diversi tra loro. È signiicativa, ad esempio, l’intensa attività
degli ambasciatori bolognesi presso la curia papale, il cui invio – «tutte le
volte che fosse stato necessario»5 – da parte di Anziani e Sedici della città
emiliana era riconosciuto già nei capitoli approvati nel 1447 da Niccolò v.
Un discorso analogo andrebbe fatto per altre realtà inglobate dallo Stato
della Chiesa nella prima età moderna, come Ferrara6 (ma anche Perugia o
Urbino) e, in genere, in tutti i casi in cui un giuramento o un patto sancisce
i limiti dell’esercizio del potere da parte del sovrano7. Nel caso della monarchia di Spagna, la frequenza e la diversità delle ambasciate inviate dai regni
e dalle città appaiono un’ulteriore dimostrazione del carattere composito di
un impero che si sovrapponeva alle istituzioni preesistenti, a cui donava vie
di rappresentazione diretta, alternative alla mediazione oferta dal governo
di viceré e governatori. Lo studio di questi momenti permette di apprezzare da vicino le relazioni tra centro e periferia, misurare le possibilità di
movimento all’interno della corte che si prospettavano ad un ambasciatore
appena giunto, sondare la dimensione della presenza – e dell’inluenza – di
una determinata nazione a corte, e in questo senso rilevare sia le diferenze
di prospettive con gli italiani residenti da tempo – come i reggenti del
Consiglio d’Italia – sia i contatti duraturi tra élites periferiche ed ex viceré,
che continuavano a svolgere importanti incarichi di governo a Madrid.
In generale si registra una certa varietà di tipologie delle ambasciate,
classiicabili in base alla loro funzione, alla loro durata e, ovviamente, ai
loro emissori. Lo Stato di Milano mantenne un agente stabile a corte, che
curava gli interessi milanesi a Madrid8, igura che esisteva anche per la città
di Cagliari9 e per il Regno di Aragona, e che aveva una funzione simile a
quella svolta, all’interno della corona di Castiglia, dai rappresentanti delle
città andaluse residenti a corte, o dai procuradores dei capitoli cattedralizi
di Nueva España10. Un agente venne richiesto in diverse occasioni sia dalla
Catalogna (che l’ottenne per breve tempo, a ine Cinquecento)11 sia dal
Regno di Napoli12.
Nel caso milanese, la capitale e altri centri urbani avevano poi la facoltà
di inviare delegazioni straordinarie per richieste speciiche. In tutta la documentazione sulle ambasciate dei regni si trova riferimento alla consolazione
dei sudditi oferta dalla possibilità di poter godere del contatto diretto
con il sovrano, a cui si aggiungeva il fascino di queste pratiche alimentato
dalla trattatistica cinque-seicentesca sulla diplomazia13. Sono aspetti che
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
rendevano queste missioni particolarmente ambite dalla nobiltà locale.
D’altro canto, le ambasciate comportavano oneri non sempre assumibili,
specie da parte di modesti centri demaniali, che inivano spesso per dover
rinunciare a una loro occasionale rappresentanza a corte. Ciononostante,
per la Sicilia è documentato l’invio di costose delegazioni anche da parte
di piccoli centri14, fenomeno che si riscontra anche per le valli pirenaiche
catalane15.
Le ambasciate, inoltre, potevano interessare anche un solo ceto urbano,
come dimostra il caso di Valencia, dove ciascuno degli estaments aveva la
facoltà di inviare un suo legato16. Questo poteva avvenire anche per la città
di Napoli, dove normalmente i cinque seggi nobiliari si occupavano di
inviare le ambasciate, sebbene vada ricordato il tentativo dei nobili fuori
seggio di mandare un proprio delegato a corte, nel 1557, per trattare «intorno al negozio di aver luogo nel Governo di Napoli, come Nobili, tante
Famiglie Illustri Nobili che non sono chiamate nelli Seggi»17.
Inoltre a Napoli anche il seggio del Popolo poteva inviare un rappresentante al sovrano, stando ai capitoli della piazza popolare approvati dal
viceré Charles de Lannoy nel 152218. In base a questa concessione (su cui
tornarono autori come Francesco Imperato19), nel 1644 Tutini sosteneva
che «il Popolo separatamente dalla Nobiltà può mandare in suo particolar nome Ambasciadori à Sua Maestà»20. In realtà questo privilegio fu
continuamente osteggiato dai seggi nobiliari, che nella pretesa del Popolo
vedevano ofeso «il merito de’ nobili, il quale non ammette paragone di
se’ al Popolo, non meno nella dignità che nel servizio del suo Re, e sia nei
beni che partecipando all’esercito», diversamente dal Popolo che «ha voluto
sempre godere d’ogni sorte d’esentione»21. A tali ragioni, esposte nel 1641 da
un ambasciatore bloccato alle porte di Madrid (il duca di San Giovanni, su
cui torneremo in seguito), Tutini ribatteva illustrando i meriti del Popolo:
«prontissimo fu sempremai il Popolo Napolitano ne’ servigi de passati Rè,
si come usa al presente, non perdonando a niuna fatica, et spesa per amor
del suo Re»22. L’autore accompagnava le sue argomentazioni con la memoria
delle ambasciate popolari della prima metà del Cinquecento, come quella
dell’eletto Giovan Battista Pino, che nel 1547 chiese a Carlo v di placare
la feroce repressione disposta da Pedro de Toledo dopo la rivolta contro
il tentativo di introdurre un’Inquisizione secondo il modello spagnolo23.
In questa ambasciata il rappresentante del Popolo, aiancato da uno della
nobiltà, Giulio Cesare Caracciolo, denunciò le manie di grandezza del
viceré che osava far coniare medaglie in cui si fregiava del titolo regio di
«principe optimo» e che giungeva a negare ai napoletani il loro diritto di
sudditi di inviare ambasciate al loro sovrano. Questa particolare rivendi
ida mauro
cazione dello ius legationis torna con frequenza nelle argomentazioni degli
ambasciatori di tutti i regni della monarchia. Sosteneva il Caracciolo che
l’imperatore «per debito di giustitia è tenuto ad ascoltar i suoi servidori in
cosa di tanta importanza»24; anche secondo Giovan Francesco De Ponte è
una tirannia «quando subditi non possunt libera voce defendere bonum
publicum»25, mentre in Catalogna la Diputació di Barcellona nel 1576
aferma che «el rei no podia privar el Principat i els Comtats d’aquell únic
consol de veure la faç de sa majestat»26.
La negazione di un’ambasciata da parte del viceré era sempre recepita
come un gesto autoritario, contrario alla consuetudine di concedere sempre
l’invio di rappresentanti alla corte, se formalmente richiesto. Tale prerogativa era raccolta nel 1632 nelle Observationes iurisdictionales di Tassone
tra le regole che disciplinavano l’operare del viceré di Napoli («Possunt
Proreges prohibere vassallis, seu subditis ne sine eorum licentia ad Regem
eant: verum si licentia petiretur, denegari non posset»)27 ed era frutto di
una lunga negoziazione sulle modalità dell’invio degli ambasciatori napoletani, generata dalla rottura di quella sintonia tra seggi nobiliari e piazza
del Popolo, manifestatasi nell’ambasciata a due voci del 1547.
2
La preparazione delle ambasciate
Fino a metà Cinquecento (per quanto permette apprezzare la documentazione superstite)28 si avverte la volontà di disciplinare la prassi dell’ambasciata attraverso la sua regolare reiterazione. Se ne inviava infatti una quasi
ogni due anni per presentare le istanze e le richieste di grazie approvate
nel parlamento del Regno (convocato all’epoca con frequenza biennale)29.
Queste ambasciate, che potremmo deinire “regolari” – o del Regno –, giustiicate dal donativo votato nel parlamento, erano alla base di un sistema
contrattuale dell’esercizio del potere di cui sono prova le lunghe liste di
richieste rivolte al viceré e al sovrano alla ine di ogni parlamento30. Questo
non impediva che contestualmente potessero essere inviate ambasciate per
temi speciici, come quella in cui si richiese un ritorno del primo duca
d’Alba come viceré, nel 155831. Il meccanismo produceva l’invio continuo
di delegati alla corte e un accavallamento di missioni diplomatiche con
inalità diverse che risulta non essere molto gradito a Madrid. Filippo ii
nelle istruzioni al primo duca d’Alcalá nel 1559 raccomandò dunque di
inviare le richieste di grazie attraverso il viceré, senza mandare «homo in
corte», come fu osservato a partire dal parlamento del 156032.
I medesimi atti delle sessioni del parlamento registrano, inoltre, gli attriti tra i seggi sulle modalità della scelta del delegato e sui temi da includere
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
nell’ambasciata. Queste tensioni rallentano la designazione dell’ambasciatore
“regolare” del 1558, ma nel frattempo promuovono un confronto da cui
si delinea con maggiore chiarezza il ruolo del legato della città a Madrid.
Si aferma, ad esempio, che «non possa trattare cose particulari» o «altro
negotio in Corte che quelli che li sono stati ordinati per l’instruttione,
irmati de mani degli eletti», che «non possa ricevere remuneratione alcuna
da Sua Maestà», e che «a detta creatione [dell’ambasciatore] c’habbia da
intervenire li deputati del Populo»33.
Le reiterate scelte di candidati, puntualmente invalidate da una delle
due parti, ofrono informazioni sulle modalità delle elezioni, che un’apposita deputazione per le ambasciate teneva nelle sale del convento francescano
di San Lorenzo (sede del governo della città e delle sessioni del parlamento).
Si preparava una cartella con il nome di ogni seggio e un frate ne estraeva
uno; i componenti del seggio estratto erano quindi pregati di uscire dalla
sala ainché i deputati rimanenti potessero scegliere tra tutti i membri di
quel seggio la persona a cui aidare l’ambasciata34.
Circa le qualità della persona atta a svolgere un’ambasciata, era poi
importante che si trattasse di una «persona di lettere, prudente et esperimentato»35 (da qui l’impiego nel Seicento di diversi membri dell’Accademia
degli Oziosi). Si considerava, inoltre, un elemento positivo poter includere
nelle sue esperienze una certa conoscenza della corte, dei Consejos e dei
suoi rappresentanti, e per questo si dava precedenza a chi avesse svolto
importanti incarichi al servizio della Corona, come Ettore Pignatelli Colonna, duca di Monteleone, che prima dell’ambasciata del 1615-16 aveva
governato come viceré in Catalogna (1603-10) ed era stato ambasciatore
del re in Francia36, o il generale Luigi Poderico, ambasciatore nel 164837.
In maniera diversa da altri regni della monarchia, si giunse a preferire nel
Seicento che l’ambasciatore non fosse mai un religioso38, data la natura del
clero del Regno di Napoli, che era in buona parte direttamente soggetto alla
Santa Sede. La consuetudine venne formalizzata dopo il veto reale imposto
alla legazione del vescovo della Vulturara, che fu accusato di aver tramato
contro il monarca39. In una missiva di Filippo iv al conte di Monterrey,
datata 2 gennaio 1635, si dichiarò che
de aquí en adelante en estos casos no pueda ser nombrado por embaxador prelado,
ni ecclesiastico ninguno, ni persona que esté subordinada a otra jurisdicción que
la mía, exceptuando para los casos, en que se ofreciere haverse de quexar de los
Virreyes, por que en estos es mi voluntad que puedan hazer la elección libremente
en en seglar, eclesiastico o qualquiera otra persona sin limitación alguna, guardando
las ordenes dadas en esta materia40.
L’ordine regio sovvertiva una pratica rispettata ino al primo quarto del
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Seicento e non solo a Napoli, come hanno dimostrato gli studi di Flavio
Rurale sulla presenza e i ruoli svolti dagli esponenti degli ordini religiosi
presso le corti della prima età moderna41. Tra gli ambasciatori impiegati
dalla città di Napoli si riscontrano alcuni protagonisti della Controriforma42: Girolamo Seripando, prima di ricevere l’investitura dell’arcivescovado
di Salerno (diocesi che resse dal 1554), fu inviato nel 155343; poco dopo fu il
turno del beato teatino Paolo Burali d’Arezzo (1564)44, mentre san Lorenzo
da Brindisi morì nel 1619 proprio nel corso dell’ambasciata svolta presso
Filippo iii per condannare la politica del terzo duca d’Osuna45.
Tre anni prima della partenza del santo, «don» Geronimo de Guevara
(indicato in alcuni documenti come un religioso) aveva presentato una
legazione prima approvata, poi scoraggiata e, al suo rientro, espressamente
delegittimata dallo stesso Osuna46. Il viceré, infatti, diede ascolto all’opposizione espressa dal seggio del Popolo per condannare un’ambasciata
inviata dai seggi nobili47, dimostrando così la sua avversione per il ceto
nobiliare napoletano.
I seggi signorili, sentendosi esclusi e maltrattati, organizzarono una
successiva ambasciata “d’accusa” e l’aidarono al cappuccino Lorenzo da
Brindisi, personaggio che Osuna considerava particolarmente “insidioso”
(padre «armado con desvergüenza de fraile»)48 per le sue buone relazioni con la Repubblica di Venezia e il suo residente a Napoli49. Il viceré,
oltre a mettere in atto un’autentica persecuzione del frate, espresse alla
corte i propri dubbi sull’opportunità di aidare l’ambasciata a persone
soggette all’autorità papale, che non potevano considerarsi solo sudditi
del monarca50, argomentazioni che sarebbero ritornate nella proibizione
di Filippo iv del 1635.
3
Tensioni interne e difesa dello ius legationis
Quanto alla natura aristocratica dell’ambasciatore, non tutti erano d’accordo. Se da una parte le ambasciate popolari – a partire dalla seconda
metà del Cinquecento – divennero sempre più rare, dall’altra la scelta di
un unico legato, che presentasse il donativo a nome della città e del Regno
dopo la celebrazione di ogni parlamento, si fece sempre più complessa. Nel
1558 l’eletto del Popolo richiese di inserire nella «busciula» dell’estrazione
anche la cartella del suo seggio (che era generalmente escluso) e la «protesta» sollevò una lunga questione che alterò il normale funzionamento
delle ambasciate51.
I conlitti tra i seggi sono una costante in gran parte delle ambasciate
delle decadi successive e sia il viceré, sia il collaterale, sia i Consigli madrileni
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
utilizzarono questa instabilità di fondo a proprio favore: i viceré per provare
a procrastinare l’invio di un’ambasciata, o a manipolarla, facendosi arbitri
delle tensioni interne, e i membri dei Consejos per dilatare ulteriormente
le loro decisioni, in attesa di ricevere tutti i memoriali prodotti dalle due
parti. Un caso emblematico è quello – negli anni Settanta del xvii secolo
– della lunga ambasciata di Francesco Caracciolo, marchese di Grottole,
continuamente ostacolata dalle missive inviate dalla piazza del Popolo ed
avallate dal viceré52.
Il litigio scoppiato nel 1558 può essere annoverato tra le ragioni che
spinsero Filippo ii, notoriamente poco amante delle delegazioni inviate
dai regni, ad interdire le ambasciate napoletane, considerato che – come
si è visto – già nel 1559 richiese la sospensione dell’invio di legati per la
presentazione delle grazie. Il medesimo sovrano, del resto, era solito raccomandare in diverse occasioni agli altri regni della monarchia la limitazione
di delegati ai casi più gravi e «inexcusables»53. Per il contesto napoletano, in
una lettera inviata nel luglio 1571 al viceré cardinal Granvelle si raccomandava chiaramente «que siempre que los segios quisieren embiar persona a
la corte, se procure estornar diestramente»54.
Coscienti, però, che la facoltà di inviare un ambasciatore alla corte
andasse difesa oltre i limiti delle divisioni interne, i deputati cittadini
conclusero la lista delle grazie sottoposte al viceré marchese di Mondejar
nel parlamento del 1575 con la seguente richiesta:
Item si riduce a memoria à V. E. quel che se li giorni adietro fu supplicata a bocca
restasse servita comandare che si revochino li mandati fatti à questa Fidelissima
Città che non si potesse mandare in Corte in nome d’essa Città, non convenendo
che vassalli così idelissimi siano sotto pena vetati di non pottere vedere la faccia
del Nostro Re tanto benigno Patrono, il che ha apportato non solo alla Città
tutta, ma a tutto il Baronaggio incredibil mestitia, così come detta revocatione
apporterà ininitissima sodisfatione, tanto più che succedendo il caso, e necessità
di mandare in Corte tutto s’essequirà con lo favore di V. E. dalle mani del quale
non dubitando si habbiano ad uscire dette giuste provisioni, se suplica per tanto
resti servita far gratia a detta idelissima Città, Baronaggio, e Regno di rivocare
detti mandati. E sarà la magiore e più desiderata gratia si speri da V. E.55..
In assenza di risposte si rielaborò una supplica a Filippo ii nel parlamento
del 1577, chiedendo al sovrano che la licenza del viceré non fosse vincolante all’invio di un’ambasciata e che si potesse «mandare in generale
per tutta la Citta, et in particolare per quella Piazza la qual supplica», in
quanto – si aggiunge – non era «ancora determinata la lite che verte tra li
seggi, e piazza del Fidelissimo Popolo circa questa ambasciaria», dunque
ida mauro
si chiedeva «ch’uno per li seggi e l’altro per la Piazza del Popolo habbia
d’andare, come si fè nell’anno 1547»56, richiamando il celebre precedente
su cui risiedevano le speranze del Popolo.
La richiesta del 1577 fu nuovamente disattesa e occupò il primo posto
tra le grazie sollecitate nel parlamento del 157957, consegnate – secondo
i voti espressi dai singoli seggi – da un nobile napoletano che aveva presentato un’ambasciata precedente e che, trovandosi ancora a Madrid,
non avrebbe avuto bisogno di un’autorizzazione vicereale per mettersi in
viaggio. Si trattava di Giovanni Antonio Carbone, marchese di Paduli,
scelto dalle diverse piazze
sì per trovarsi già in corte, sì anco per non fastidire la Maestà Sua con diversità
di persone, conidandosi tanto nell’integrità e diligenza di tal Signor Marchese e
tenendo ferma speranza nella solita benignità della Maestà Sua d’ottenere non solo
le gratie delle quali si supplicarà Sua Maestà nell’occorrenza di questo servitio, ma
anco quelle delle quali si diede carico a detto Signor Marchese di suplicare […]
ordinando di più a detti signori Deputati che non concorrano in modo alcuno a
dimandare gratia alcuna particulare58.
La risposta positiva di Filippo ii al marchese di Paduli fu comunicata al
viceré Juan de Zuñiga, principe di Petraperzia, in una missiva del 4 dicembre del 1579 e costituì la base della normativa sulle ambasciate (raccolta poi
successivamente nel testo già citato di Tassone). Vale la pena riprodurre un
ampio passaggio della lettera di Filippo ii, testo a cui si farà un costante
riferimento per la legittimazione di tutte le ambasciate successive59.
Podreis dar a entender a essa nuestra idelissima Ciudad, y Reyno, que nunca ha
sido, ni es de nuestra mente, y intención estorvar que mis Vasallos, especialmente
los desse Reyno (de cuya idelidad, y servicios tenemos tanta satisfación) no tengan recurso a Nos siempre que se ofresciere causa bastante; por la qual convenga
hazerlo, aunque en tal caso, es nuestra voluntad que primeramente ayan de
acudir a Vos en vuestro tiempo o al Virrey que adelante estuviere en esse Reyno,
como a quien se representa nuestra persona, y pedirle licencia por la quenta que
es justo que se tenga con su authoridad, que ni vos, ni los que después vinieren
no se la negaran. Advirtiendo que quando fuere sobre cosas tocantes al beneicio
desse Reyno, o de la Ciudad, den también primero cuenta dello al Virrey para
que si el viere que es cosa que con comunicación del consejo, y embiándonos los
memoriales con su parecer lo puede remediar, lo haga assí, y escuse a la ciudad,
y Reino el gasto de embiar persona a su costa. Mas que si fuere cosa que parezca
convenir representánosla con persona propria que assí mismo en tal caso el virrey
se lo consentiera, y ultimamente que cuando el embiar persona fuera para quexar
del virrey (aunque esperamos que los que embiaremos en nuestro lugar a esse
Reyno, seran tales y se governaran de manera que no den causa de quexa justa)
también en este caso piediendola la dicha licencia, se la dará60.
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
La lettera ribadiva la prerogativa dei napoletani di ricorrere al loro re,
«recurso que ellos pretenden tener a nos en sus necesidades, tanto en
universal, quanto en particular»61, come era stato richiesto nel parlamento del 1577. Va notato, poi, che il re si dimostrava sensibile alle
spese che comportava un’ambasciata, generalmente accompagnata da
un cospicuo donativo. Questo aspetto verà utilizzato in seguito per
condannare l’invio di frequenti ambasciate su temi di scarso interesse
per la collettività, perché, essendo inanziate da sudditi già particolarmente oppressi dal peso iscale, potevano rivelarsi molto pericolose per
la stabilità del Regno62.
Tuttavia, la lettera regia del 1579 lasciava aperti diversi margini di interpretazione su cui si sarebbero confrontati città, collaterale, viceré e Consejos
nelle future ambasciate: quali erano le suicienti ragioni («causa bastante»)
che legittimavano un’ambasciata? E quali erano le giuste critiche («quexa
justa») a un governo vicereale? Queste espressioni saranno utilizzate dal
sovrano con una certa frequenza anche nelle decadi successive. Le raccolte
a stampa di privilegi e capitoli63 e l’esistenza di un’apposita deputazione
napoletana per i capitoli permettevano di individuare quando il viceré
aveva abusato dei suoi poteri o aveva stravolto le consuetudini del Regno.
D’altro canto non mancano le accuse da parte dei viceré sull’abuso da
parte dei seggi del costume di «darli querele sotto inti pretesti acciò Sua
Maestà habbi a mutar governo»64.
4
I viceré e la “minaccia” dell’ambasciata
In sostanza, la lettera di Filippo ii del 1579, pur non screditando il ruolo
del viceré – che poteva proporre eicaci soluzioni e ovviare a un numero
eccessivo di ambasciate attraverso l’invio di memoriali –, debilitava le sue
difese dallo strumento delle ambasciate. Ciò si vide ulteriormente minacciato quando Osuna approvò, su richiesta di Madrid, l’invio di legazioni
senza l’autorizzazione vicereale65 (aspetto in breve tempo ricondotto alla
normalità).
Il viceré che temeva un’ambasciata (e quasi tutti mostrarono un certo
timore per queste pratiche) non poteva più denegarla, tutt’al più poteva
rinviarla, dissuaderla o inluenzarla. Già Pedro de Toledo – allo scoccare
della crisi sull’Inquisizione nel 1547 –, non credendo nella buona fede dei
due ambasciatori eletti dai seggi, Placido di Sangro e Ferrante Sanseverino,
principe di Salerno, e temendo un’aperta denuncia del suo operato, provò
prima a trattenerli, per poi inviare un proprio rappresentante (il governatore
di Castelnuovo) presso Carlo v66. Il difensore del Toledo – giunto prima
ida mauro
degli ambasciatori napoletani – gli ostacolò a lungo l’udienza imperiale
e, svolgendo un’azione di controinformazione, rese di fatto ininluente la
legazione napoletana67.
Un altro modo per bloccare un’ambasciata era ostacolare le riunioni
previe dei seggi. Il duca di Alcalà nel 1629 proibì la riunione del seggio di
Porto, in modo che non si raggiungesse il quorum per l’invio di un legato
che presentasse a corte le lamentele circa il trattenimento da parte del viceré
della terza parte dei proventi degli arrendamenti (misura che pregiudicava
soprattutto i nobili, e che venne adottata sistematicamente negli anni
previ alla rivolta)68. In realtà il solo divieto imposto alla riunione di un
seggio era in sé considerato un grave abuso vicereale, su cui si richiamò
più volte l’attenzione della corte e, ancora nell’ambasciata del 1669, i seggi
richiedevano che fosse rispettata la loro libertà d’azione69. Tale privilegio,
puntualmente confermato dal sovrano, garantiva un margine di autonomia politica ai seggi che, anche grazie a queste continue negoziazioni, si
mantennero molto attivi per tutta la seconda metà del Seicento70.
Inine, se il viceré non era riuscito a rimandare o a impedire una legazione, poteva ancora provare a trarre un ambasciatore designato dalla sua
parte, come avvenne nella preparazione della missione di Ettore Capecelatro
nel 1640, su cui si tornerà in seguito. Le tentazioni delle lusinghe degli
onori oferti dai potenti, infatti, erano sempre davanti agli occhi degli
emissori napoletani, che si sforzavano di designare come ambasciatore
persone «della cui fede non potessero dubbitare»71.
Un ultimo caso rilevante è la neutralizzazione dei possibili efetti
negativi di un’ambasciata che ottenne il conte d’Oñate nel 1649, quando
orchestrò la visita uiciale della città presso la nuova regina Marianna
d’Austria, nella sosta ligure del suo viaggio verso la corte di Filippo iv72.
Come gli stessi eletti sapevano, la missione consistette in un mero gesto
di vassallaggio in cui si vide riconosciuto in termini formali l’onore dei
rappresentanti della città (furono ricevuti in due occasioni dalla regina e
invitati ad assistere ad una commedia privata) “riabilitato” agli occhi della
regina, a pochi mesi dalla ine della rivolta. Tuttavia, la legazione, priva di
un donativo a causa della soppressione delle gabelle, non prevedeva, per
la sua stessa natura, uno spazio per la negoziazione politica73.
È possibile che questa visita alla regina rientrasse in antiche pratiche del cerimoniale cittadino, ma nel contesto postrivolta riveste senza
dubbio un signiicato particolare, considerata l’elusività con cui tanto
Oñate quanto Castrillo evitarono l’invio di ambasciate negli anni del loro
governo. In particolare, il Castrillo riuscì a “dribblare” ben due richieste,
inviando il donativo di 150.000 ducati, oferto per la nascita dell’infante
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
Filippo Prospero nel 1658, direttamente a Milano per l’aiuto delle truppe
e sostenendo quindi che non poteva essere inviato un ambasciatore a corte
per presentare un’oferta che era stata già consumata74. La raccolta di un
nuovo donativo fu poi procrastinata ino all’arrivo del suo successore, il
conte di Peñaranda, che pensò bene di concedere l’ambasciata tra i primi
atti del suo governo (1659)75, in modo da guadagnarsi il consenso dei seggi
ed evitare che la legazione si trasformasse in un giudizio del suo operato,
riferendo a corte soltanto lo scontento per la politica del suo avversario e
predecessore76. Solo in casi come questi – veriicatisi in diverse occasioni di
scambi di potere conlittivi77 – si osserva una chiara premura da parte dei
viceré ainché l’ambasciata fosse organizzata e inviata il più presto possibile.
5
Un ambasciatore di lungo corso e la difesa della nobiltà napoletana
dopo la rivolta del 1647-48
Nel 1659 all’ambasciatore di turno, Michele Cavaniglia, duca di San
Giovanni, sarebbe toccato il compito di giungere a Madrid prima del
Castrillo (che incrociò e sorpassò a Genova)78 per giovarsi della curiosità
stimolata dalla sua presenza – e dalle dicerie che potesse essere giunto per
condannare la politica dell’ex viceré79 – al ine di catturare l’attenzione
intorno all’oggetto della sua legazione. In efetti il suo ingresso a corte fu
accolto dalle visite del segretario del Consiglio d’Italia e di altri ministri,
evento che sorprese i napoletani presenti a Madrid, tra cui il conte di
Conversano, che attendeva da tempo di essere ricevuto dal monarca80.
Le dettagliate relazioni inviate da Michele Cavaniglia ai seggi, su cui mi
sofermerò nelle prossime pagine, sono ricche di analisi particolarmente
lucide sulla posizione dell’ambasciatore regnicolo a corte e costituiscono
una fonte di straordinaria utilità per indagare “dall’interno” il ruolo dei delegati napoletani. Ad esempio, Cavaniglia dimostra di essere perfettamente
consapevole che, dopo il successo della sua entrata a corte, la situazione
sarebbe cambiata con l’arrivo dell’inluente conte del Castrillo, che a Madrid (come gli confermò l’ex ambasciatore Luigi Poderico, incontrato a
Barcellona nel corso del viaggio)81 era considerato per la sua imparzialità
«la giustizia in persona»82.
Il Castrillo, nella sua nuova veste di presidente del Consiglio d’Italia,
provò ad ostacolare in ogni modo la legazione del Cavaniglia. Allo stesso
tempo si mostrarono poco favorevoli alla sua presenza a corte sia il re che
il valido, Luís de Haro, nipote del conte di Castrillo. Filippo iv espresse
chiaramente nel 1660 il suo desiderio che non si inviassero più ambasciate
ida mauro
da Napoli e che ci si accontentasse delle mediazioni operate dal viceré83,
ribadendo la politica antinobiliare portata avanti da Oñate e Castrillo,
memore delle osservazioni ricevute negli anni precedenti da ministri come il
visitatore generale Francisco Antonio de Alarcón, che si meravigliò durante
la sua missione (1628-31) «che la benignità de Rè [...] havesse permesso
questo al suo parere eccessivo honore, come titolo incompetente a Vassalli
con Padroni»84.
Dal canto suo, Luís de Haro procrastinò ad oltranza il riconoscimento
delle credenziali del Cavaniglia e l’analisi del memoriale che aveva presentato da parte dei seggi e che richiedeva la restituzione alla città dell’esercizio
della giurisdizione criminale nella gestione dell’Annona, che le era stata
sottratta per disposizione del conte d’Oñate nel 165085.
Quest’unica richiesta in realtà nascondeva l’ambizione di restaurare le
antiche prerogative dei seggi, cancellando gli efetti più amari della repressione della rivolta e restituendo onori e dignità ad un’aristocrazia regnicola
che, se per il Cavaniglia era l’unica in grado di vigilare sul «bene comune»
del Regno86, per molti rappresentanti dei Consejos madrileni – sensibili
alle voci difuse dal duca d’Arcos e confermate da Oñate e Castrillo87 –
era la vera responsabile di aver afamato il popolo e quindi provocato la
rivolta88. Il duca di San Giovanni avrebbe voluto ribattere e difendere la
reputazione dei nobili napoletani (come diceva di aver già fatto nei mesi
della rivolta)89, ma era bloccato in lunghe e dispendiose attese, aggravate
dalla proibizione di ricevere ed efettuare visite uiciali in veste di ambasciatore «inché si riconoscessero le lettere, et instruttioni necessarie alla
legitimatione del mio uicio»90.
Gli restava solo la possibilità di tessere in maniera informale una rete
di contatti con persone conosciute o che avevano già mostrato una certa
sensibilità per la causa dei nobili napoletani, tra cui – oltre ai reggenti italiani del Consiglio d’Italia – poteva annoverare Juan José de Austria (che lo
avrebbe avvicinato al marchese de Velada, del Consiglio di Stato), il duca
di Ferrandina – un giovanissimo esponente di casa Toledo91, l’unico nobile
che l’avrebbe accompagnato all’udienza regia – e il duca di Medina de las
Torres, presidente del Consiglio di Stato (che, nonostante l’antica avversione, si mostrò predisposto a garantire il successo della sua missione)92.
Con il passare dei mesi, l’impossibilità di cavare informazioni concrete e reali beneici da queste relazioni, mentre sia il Consiglio d’Italia
che quello di Stato non accoglievano la richiesta dei seggi93, aumentò
nel Cavaniglia la sensazione di sentirsi intrappolato nei meandri della
corte e gli ricordò l’esperienza soferta in una precedente legazione, presentata negli anni Quaranta, quando per un anno e mezzo fu bloccato
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
fuori Madrid, attendendo che fosse riconosciuta la legittimità della sua
ambasciata.
In quell’occasione il Cavaniglia era stato scelto dai seggi per contrastare la legazione di Ettore Capecelatro, che si temeva potesse stravolgere
le richieste dei seggi d’accordo con il viceré Medina de las Torres. Se tali
sospetti erano veri (e l’insolita difesa di un ambasciatore da parte del viceré,
quando i seggi chiesero la revoca del suo incarico, sembrava dimostrarne
la fondatezza), il Medina, giovandosi della itta trama di contatti con la
nobiltà napoletana – grazie al matrimonio con Anna Carafa –, era riuscito
nell’impresa di manipolare un’ambasciata che – secondo Fuidoro – avrebbe dovuto denunciare che il peso iscale sostenuto dal Regno «fusse in
apparenza per servitio della Maestà Sua speso et [invece] la maggior parte
d’esso in sostanza era per arricchire li Viceré di Napoli et altri ministri»94.
Diversamente, Musi pone tra le cause della legazione del Capecelatro
la richiesta di approvazione di una mossa del Medina, che aveva deciso di
armare 8.000 popolari davanti alla minaccia di uno sbarco francese nel golfo
di Napoli95. La rivalità tra i due ambasciatori era in ogni caso immagine
di un vivo scontro tra classi96.
L’ambasciata di “resistenza nobiliare” alle pretese del Popolo sostenute
dal viceré fu approvata da una minoranza di tre seggi (perché il Medina non
autorizzò l’assemblea degli altri due gruppi nobiliari) e la scelta cadde sul
duca di San Giovanni, che Fuidoro presenta come ambasciatore ideale97
per la sua formazione letteraria98, le sue origini nobili, la sua integrità e
lealtà. «Nonostante le molte diligenze fatte dal duca [di Medina] o per farlo
sostener tra via o frastornare la sua andata»99, Cavaniglia giunse a Madrid
prima del Capecelatro ma non gli fu permesso entrare nella città100, mentre
nel Regno si ordinava il sequestro dei suoi beni in Puglia come punizione
per essersi ribellato al volere del viceré101.
Bloccato a Carabanchel per non disporre di un mandato valido,
assistette all’entrata di Ettore Capecelatro, ricevuto con onori mai visti
prima («introdotto con modo d’ambasciatore di testa coronata, cosa che
fece stupire tutti quelli che l’osservorno, non che quelli che l’intesero»)102,
e alla sua decorazione con il titolo di marchese di Torello, che dimostrava
ampiamente quanto l’“ambasciatore vicereale” stesse abusando del suo
incarico per aumentare i propri privilegi e quelli della sua famiglia103. Dalle
numerose missive inviate dal duca di San Giovanni per sbloccare la sua
situazione si evince la diicoltà delle sue argomentazioni, che si basavano
sulla dimostrazione di una sincera fedeltà alla monarchia, avvalorata dal
sacriicio del iglio, García Cavaniglia, morto nel 1641 in Catalogna mentre
difendeva la corona nella Guerra dels Segadors104.
ida mauro
Quando inine fu accolto e ascoltato a corte, riuscì a dar peso alle ragioni della nobiltà, come considerò con nostalgia al momento dell’insuccesso
della sua seconda ambasciata: «il dolore de danni miei mi fu in qualche
parte compensato col piacere della stima, e della esecutione di tutte le
cose da me proposte, e col beneicio di Sua Maestà che era l’oggetto delli
desiderii e delle fatiche mie»105. Nella sua permanenza a Madrid evitò in
ogni caso di accettare ogni tipo di onori oferti dagli esponenti della corte,
come ricordò con toni encomiastici padre Eugenio da San Giuseppe nel
suo breve proilo biograico post mortem del duca106. Questa condotta lo
candidò all’ambasciata del 1659, ma non lo liberò dalle critiche quando
tornò a mani vuote da questa seconda legazione, nel giugno 1660107.
6
L’ambasciatore tra il labirinto della corte e le aspettative dei seggi
L’onore di rappresentare la «patria» davanti al proprio sovrano comportava
dunque una condizione particolarmente ingrata108, sempre sottoposta ad
una doppia critica: per non riuscire a soddisfare le aspettative patrie (o
per tradirle, lasciandosi tentare dalle oferte dei ministri della corte109)
o per rappresentare l’ambizione di una nobiltà che non tollera il giogo,
rappresentata dal cavallo senza freni, a cui si riferì Medina de Las Torres
quando chiese di limitare la pratica dell’invio di ambasciatori:
pongo en consideracion que las armas de la ciudad se representan con un cavallo
sin frenos y que el día que los naturales de que se compone supiessen que pueden
salirse de la mano de quien los gobierne, este día puedan temerse no pueda Vuestra
Magestad governarla con tanta quietud110.
Quasi un secolo prima, la spinosità dell’incarico dell’ambasciatore, diviso
tra due centri di potere, era colta con lucidità in una lettera (riportata
da Summonte) che Vincenzo Martelli scrisse al principe di Salerno per
sconsigliargli di accettare l’ambasciata presso Carlo v che l’avrebbe portato
alla rovina111, giacché le possibilità di un insuccesso erano numerose e, se
pure fosse riuscito a far intendere all’imperatore la necessità di rispettare
i capitoli della città, «Sua Maestà [...] se ben tiene animo di farli gratia
alcuna, non lo farà mai per lo mezzo vostro, anzi cercherà di diferirla in
altro tempo, e mandarne voi male spedito con poca sodisfatione di quelli,
che aspettano»112. Schiacciata tra arbitrio regio, ostacoli vicereali e contrasti
interni, l’ambasciata presentava dunque un’elevata dose di rischi che spesso
i nobili designati dai seggi decisero di non voler assumere, allegando diverse
ragioni per riiutare il peso di questo onore113.
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
Proprio la consapevolezza della vulnerabilità delle legazioni spinse i
seggi a richiedere in maniera costante, nei due secoli del viceregno spagnolo,
l’istituzione di una rappresentanza stabile a Madrid, attraverso il riconoscimento di un ambasciatore, agente o residente ordinario che tutelasse gli
interessi del Regno, igura di cui godevano altri regni della monarchia. Già
nella citata legazione del 1547 insieme a Ferrante Sanseverino, principe di
Salerno, fu mandato presso Carlo v don Placido di Sangro, con l’ordine
di restare a corte in veste di «ordinario Ambasciatore della Città e del
Regno»114. Il di Sangro fu immediatamente rispedito a Napoli (mentre il
Sanseverino fu trattenuto a corte con accuse di ribellione) in quanto vigeva la proibizione di concedere un residente stabile, come ricordò anche
Filippo ii nella citata missiva al Granvelle del 1571115. Un tentativo analogo
di imporre un residente a corte attraverso un’ambasciata si ripeté nel 1620
con Giovan Francesco Spinelli e Fabio Caracciolo, che continuarono la
tragica missione di Lorenzo da Brindisi e provarono a lasciare presso Filippo
iii il loro consulente, Giovan Camillo Barnaba, «dandoli nome di Agente
della Città». Pure lui fu rapidamente rispedito a Napoli116.
Eppure anche un napoletano con esperienza come reggente del Consiglio d’Italia, Giovan Francesco De Ponte, sostenne con convinzione l’opportunità di introdurre un agente napoletano a corte, che avrebbe risolto
buona parte dei conlitti che si generavano tra seggi e viceré al momento
dell’invio delle singole ambasciate e sarebbe stato un giusto riconoscimento
per la fedeltà dei sudditi napoletani117.
Un unico segnale favorevole su questo tema si intravide in una lettera inviata da Filippo iv il 16 luglio 1629 al terzo duca d’Alcalá, appena
giunto a Napoli come viceré. La missiva riconosceva la facoltà dei seggi
di potersi riunire liberamente (senza l’autorizzazione del viceré), ribadiva
la legittimità di una maggioranza di quattro seggi per tutte le decisioni
e le richieste espresse nelle lettere al sovrano, ed esprimeva la volontà
regia di «permitirlos assí mismo que nombren persona en esta corte, que
asista a la solicitud de sus negocios, con que solamente trate en nombre
dessa mi idelissima Ciudad de Nápoles lo que se hubiere resuelto por las
dichas quatro plaças que hazen voz de ciudad y con que no pueda tratar
de particulares diferencias que ocurrieren entre las mismas plaças»118. Tali
concessioni decretarono il trionfo dell’ambasciata di Pier Giovanni Capece
Galeota119 e andrebbero interpretate all’interno della politica di apertura
verso i seggi che caratterizzò il governo del quinto duca d’Alba (1622-29)120.
Tuttavia, per quanto riguarda il primo punto della lettera, si è visto
come già il duca di Alcalá continuò ad interdire con frequenza le riunioni
dei seggi a partire dallo stesso 1629. D’altro canto, sullo spinoso tema della
ida mauro
maggioranza dei voti non si considerava la pretesa del seggio del Popolo,
che, per evitare di essere regolarmente escluso dalla maggioranza legale di
quattro seggi su sei, si avvaleva di un diritto introdotto da Pedro de Toledo
nel 1534 in difesa delle minoranze (e della libertà d’arbitrio del viceré).
Questa prerogativa si era trasformata in una sorta di veto perché «gli uomini
d’azione e gli scrittori politici di parte democratica sostennero che, perché i
quattro Eletti formassero maggioranza legale, doveva essere con l’eletto del
popolo; senza di che, ricorrendo questi al viceré e riconoscendosi ingiusta
la conclusione, il viceré s’atterrebbe al voto dell’Eletto popolare»121.
In relazione ai tanto attesi ambasciatori “residenti”, invece, va notato
come anche in questa occasione il sovrano eviti di usare il termine “ambasciatore”, ma si riferisca piuttosto a un agente per gli interessi generali della
città, con un margine d’azione che appare alquanto limitato, ma che lascia
comunque soddisfatti i seggi che prepararono con non poche diicoltà
la partenza del primo rappresentante stabile, nella persona di Tullio de
Costanzo, principe di Colle d’Anchise122. Dopo il suo ritorno da Madrid
nel 1632, con pochi risultati rispetto alla quantità delle richieste che gli
erano state inviate e qualche beneicio personale123, la nomina non fu più
rinnovata, nonostante le richieste espresse con insistenza ino all’ultimo
parlamento della storia del Regno di Napoli, celebrato nel 1642124.
7
La lunga vita delle legazioni napoletane a corte
Nonostante l’assenza di un residente uicialmente riconosciuto, per quanto
è stato illustrato in queste pagine – tra legazioni illegittime, ordinarie e
straordinarie –, è diicile trovare un lungo intervallo di tempo nel corso
della permanenza del Regno sotto la monarchia spagnola in cui non sia
presente un rappresentante della città di Napoli a Madrid. Anche nella
seconda metà del Seicento, in cui queste pratiche potrebbero sembrare
aievolite (considerata l’interruzione della celebrazione dei parlamenti)125,
si assistette all’invio di ambasciatori che seppero negoziare le richieste dei
seggi, presentando con nuovo vigore rivendicazioni antiche di decenni.
Sebbene restino ancora da ricostruire le dinamiche della rappresentanza e
della difesa degli interessi dei seggi napoletani a Madrid nelle ultime decadi
del secolo, non c’è dubbio che la persistenza di queste pratiche permise
di organizzare e ottenere, con l’avvento del viceregno austriaco (1707), il
riconoscimento di un agente stabile della città a Vienna126.
Come si apprende da una lettera inviata nel 1733 dall’eletto del Popolo
Giuseppe De Rosa al futuro viceré cardinal Visconti, il mandato degli
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
agenti era di durata triennale ed essi erano nominati alternativamente
dalla piazza del Popolo e dai seggi nobiliari. In quell’occasione, essendo
da poco scaduto l’incarico del rappresentante dei nobili Giuseppe Muscettola, si attendeva l’arrivo del nuovo viceré per inviare il nuovo agente, in
modo da far coincidere il mandato vicereale con quello del rappresentante
napoletano a Vienna. Tra i possibili candidati, l’eletto del Popolo (a cui
toccava la scelta in quel 1733) avanzava al Visconti la sua volontà di far
nominare Nicolò Lombardo, «ch’oltre all’onestà de costumi, e della nascita
suppongo che abbia ancora il vantaggio di potersi dir creatura di Vostra
Eccellenza, essendo io assicurato che a quest’ora sarà stato a Vostra Eccellenza caldamente raccomandato dal signor conte Chinigsech e dal signor
general Stampa»127. L’agente avrebbe dunque atteso l’arrivo del viceré per
mettersi in viaggio «ainché possa darli a voce le sue savie istruzioni e possa
ordinarli come desidera che nella sua carica si governi»128.
In un contesto che attende ancora il dovuto approfondimento, si
scorge dunque una igura di agente ammansito, che opera in armonia con
il viceré e non rappresenta una minaccia per il suo operato, anzi, sembra
quasi doverlo difendere presso la corte imperiale. Come esprime il Visconti
nella sua risposta all’eletto De Rosa, l’importanza della presenza dell’agente
a Vienna è ampiamente riconosciuta, e per questo si scusa per il ritardo
nella sua sostituzione, dovuto agli impegni che l’avevano trattenuto a
Milano oltre le aspettative dei napoletani129.
Sebbene per linee ancora troppo generali, il percorso tracciato in queste
pagine mette in evidenza un’evoluzione positiva, dal punto di vista della
legittimazione, delle rappresentanze civiche napoletane. Resta invece da esaminare la loro funzione ed eicacia all’interno del nuovo scenario politico,
per veriicarne l’uso non solo come strumento di difesa degli antichi privilegi
dell’aristocrazia del Regno e degli abitanti della capitale, ma anche come
mezzo di espressione di istanze e proposte da parte delle nuove élites cittadine.
Note
* Ida Mauro è borsista postdottorale del programma bdr (Beques de docència i recerca) presso il dipartimento di Storia Moderna dell’Universitat de Barcelona, gruppo di
ricerca “Poder y Representaciones en la Edad Moderna: Redes diplomáticas y encuentros
culturales en la monarquía hispánica (1500-1700)” (Referencia: har2012-39516-c02-02).
La citazione presente nel titolo è tratta dai manoscritti di Michele Cavaniglia, duca di
San Giovanni, esaminati in queste pagine; Napoli, Biblioteca della Società Napoletana di
Storia Patria (bsnsp), ms. xxiii B 7.
1. G. A. Summonte, Dell’Istoria della città e del Regno di Napoli, Bulifon, Napoli 1675,
i, p. 154 (Gian Giacomo Carlino, Napoli 16021).
2. Le delegazioni cittadine, aspetto ben noto per altri regni della monarchia, sono
ancora da esaminare per il caso napoletano. Molte richieste delle città venivano infatti
ida mauro
inserite nelle liste delle grazie presentate alla ine dei parlamenti; d’altro canto è nota l’ambasciata presentata dalla città di Reggio Calabria nel 1609, attraverso Marcello Laboccetta,
per chiedere la restituzione dell’Audienza (spostata a Catanzaro) e la conferma dei privilegi
cittadini; D. S. Bolani, Storia di Reggio Calabria. Dai tempi primitivi sino all’anno di Cristo
1797, 2 voll., Stamperia del Fibreno, Napoli 1857, ii, p. 8.
3. Nell’Archivio vi erano i documenti di giunte dedicate all’organizzazione e supporto
di numerose ambasciate, come quella di Geronimo de Guevara del 1616-17 o di Michele
Cavaniglia del 1659; cfr. Catalogo ragionato dei libri registri e scritture esistenti nella sezione
antica, o prima serie dell’Archivio municipale di Napoli (1387-1806), a cura di B. Capasso,
Giannini, Napoli 1876.
4. Si veda l’introduzione alla ristampa parziale del Catalogo ragionato, Laveglia &
Carlone, Battipaglia 2011.
5. Cfr. A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Bologna: una città europea nello
Stato della Chiesa, il Mulino, Bologna 1995, p. 114. Sugli ambasciatori bolognesi cfr. anche
Ead., Retorica e politica: dall’orator di Beroaldo all’ambasciatore bolognese nel rapporto tra
respublica cittadina e governo pontiicio, in Ead. (a cura di), Sapere e/é potere. Discipline,
dispute, professioni nell’università medievale e moderna. Il caso bolognese a confronto, iii,
Dalle discipline ai ruoli sociali, Comune di Bologna-Istituto per la storia di Bologna,
Bologna 1990, pp. 411-38.
6. Agli ambasciatori dell’ex Ducato di Ferrara dopo la sua annessione allo Stato della
Chiesa hanno prestato particolare attenzione i lavori di B. Emich, Territoriale Integration
in der Frühen Neuzeit: Ferrara und der Kirchenstaat, Böhlau, Köln 2005, pp. 959-1020;
Ead., Potere della parola, parole del potere: Ferrara e Roma verso il 1600, in “Dimensioni e
problemi della ricerca storica”, 2, 2001, pp. 79-106, n. 18.
7. P. Prodi, Il Sacramento del potere: il giuramento politico nella storia costituzionale
dell’Occidente, il Mulino, Bologna 1992.
8. A. Salomoni, Memorie storico-diplomatiche degli ambasciatori, incaricati d’afari,
corrispondenti e delegati, che la città di Milano inviò a diversi suoi principi dal 1500 al 1796,
Cisalpino-Goliardica, Milano 1975 (Pulini al Bocchetto, Milano 1806). Sugli agenti milanesi
cfr. A. Álvarez-Ossorio Alvariño, «Pervenire alle orecchie della Maestà». El agente lombardo
en la corte madrileña, in “Annali di Storia moderna e contemporanea”, 3, 1997, pp. 173-223;
G. Signorotto, Milano spagnola. Guerra, istituzioni, uomini di governo (1635-1660), Sansoni,
Milano 1996, pp. 204-18.
9. Tra metà Cinquecento e l’inizio del secolo successivo è documentata l’attività a
corte di agenti stabili della capitale del Regno di Sardegna. Tuttavia Manconi parla di una
variegata tipologia di delegazioni, inviate dai nobili dalle città, dalle corporazioni o dagli
organi di governo locali; cfr. F. Manconi, Cerdeña. Un reino de la Corona de Aragón bajo
los Austria, Publicacions de la Universitat de València, València 2010, p. 207.
10. Ó. Mazín, Gestores de la Real Justicia: procuradores y agentes de las catedrales hispanas nuevas en la corte de Madrid, El Colegio de México, Centro de Estudios Históricos,
México D.F. 2007.
11. M. Pérez Latre, Entre el rei i la terra. El poder polític a Catalunya al segle XVI, Eumo,
Vic 2003, p. 158.
12. Per Napoli l’istanza compare con insistenza nell’elenco delle grazie richieste nelle
ambasciate degli anni Trenta e Quaranta del Seicento. Si tornerà a parlare del tema in seguito.
13. D. Frigo, Virtù politiche e "pratica delle corti": l’immagine dell’ambasciatore tra Cinque
e Seicento, in C. Continisio, C. Mozzarelli (a cura di), Repubblica e virtù. Pensiero politico
e monarchia cattolica fra XVI e XVII secolo, Bulzoni, Roma 1995, pp. 355-76. Nell’abbondante
trattatistica sul tema è doveroso citare in questa sede il testo di ine Seicento redatto dal
nobile napoletano Carlo Maria Carafa, principe di Butera, L’ambasciadore politico-cristiano,
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
2 voll., Giouanni van Berge, Mazzarino 1690-92, opera che venne immediatamente tradotta
in spagnolo.
14. Si vedano, ad esempio, le infruttuose ambasciate della città di Termini, volte ad
evitare la concessione regia ai nobili siciliani per nuove fondazioni di città (presentate in
M. Vesco, Fondare una città nella Sicilia di età moderna: dinamiche territoriali e tecniche
operative, in “Mediterranea – ricerche storiche”, x, 2013, pp. 275-94: 276) e l’ambasciata
inviata dagli eletti di Patti nel 1688 per denunciare l’operato del governatore spagnolo (R.
Colapietra, Vita pubblica del viceregno napoletano: 1656-1734, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1961, p. 38).
15. M. C. Pérez Aparicio, Centralisme monàrquic i resposta estamental: l’ambaixada valenciana del senyor de cortes (1667-1668), in “Pedralbes. Revista d’historia moderna”, 13, i, 1993,
pp. 327-40. Si vedano anche le ambasciate municipali di Orihuela, studiate da D. Bernabé
Gil, El municipio en la corte de los Austrias: síndicos y embajadas de la ciudad de Orihuela en el
siglo XVII, Institució Alfons el Magnànim, Diputació Provincial de València, València 2007.
16. Pérez Aparicio, Centralisme monàrquic, cit., pp. 328-9, in cui si presenta la regolazione del meccanismo delle ambasciate nel Regno di Valencia.
17. Trattazioni di molti nobili napoletani per aver parte ne’ seggi, in F. Palermo (a cura
di), Narrazioni e documenti sulla storia del Regno di Napoli dall’anno 1522 al 1667, in “Archivio Storico Italiano”, ix, 1846, pp. 145-90, 154. Sul tema cfr. G. Muto, Gestione politica
e controllo sociale nella Napoli spagnola, in C. De Seta (a cura di), Le città capitali, Laterza,
Roma-Bari 1985, pp. 68-93.
18. R. Villari, Un sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero, 1585-1648, Mondadori, Milano 2012, p. 78.
19. Ibid. L’Imperato recuperò il passaggio sulle ambasciate a partire da una ristampa
dei capitoli del 1598; cfr. anche M. Schipa, La pretesa fellonia del duca d’Ossuna, in “Archivio
Storico per le Province Napoletane”, xxxvi, 1911, pp. 56-85, 286-328, 475-506, 710-50: 493.
20. C. Tutini, Dell’origine e fondatione de’ Seggi di Napoli, Ottavio Beltrano, Napoli
1644, p. 259 (esemplare consultato: ristampa anastatica a cura di P. Piccolo, Luciano editore,
Napoli 2005, p. 337).
21. Relatione [del duca di San Giovanni] delle cose proposte contro la pretentione del
Popolo. Caramanchel [Carabanchel], 8 di Giugno 1641, bsnsp, ms. xxiii B 8, f. 297 ss., cit.
anche in Schipa, La pretesa fellonia, cit., p. 493.
22. Tutini, Dell’origine e fondatione, cit., p. 236; sul tema cfr. l’intero cap. xviii: Della
fedeltà del Popolo di Napoli, e delle sue attioni (pp. 228-40).
23. Ivi, p. 259 e Summonte, Dell’Istoria della città e del Regno di Napoli, cit., pp. 2112. L’episodio è riportato anche nell’Istoria di Napoli di Castaldo (1532-1575), A. Castaldo,
Dell’istoria di notar Antonino Castaldo, Giovanni Gravier, Napoli 1769, p. 104. Sul tema
cfr. C. J. Hernando Sánchez, Castilla y Nápoles en el siglo XVI. El virrey Pedro de Toledo,
Universidad de Valladolid, Salamanca 1994, p. 328. A questa andrebbe aggiunta la quasi
simultanea ambasciata popolare, presentata dal notaio Santillo Pagano, per lamentare
la privazione della carica di eletto del popolo, disposta da Pedro de Toledo ai danni di
Francesco di Piatto; Summonte, Dell’Istoria della città e del Regno di Napoli, cit., pp. 212-5.
24. Ivi, p. 196.
25. G. F. De Ponte, De potestate proregis collateralis consilii, et Regni regimine tractatus
[…] Nvnc secvndo in lvcem editvm, ab omnibvs [...] mendis expurgatum, & aureis, ac perutilibus additionibus Io. Baptistae de horo, Tarquinij Longi haeredum, Neapoli 1621, p. 54.
26. Documento citato in Pérez Latre, Entre el rei i la terra, cit., p. 158.
27. D. Tassone, Observationes iurisdictionales politicae, ac practicae [...], Secondino
Roncagliolo, Napoli 1632, p. 55, n. 61; cit. anche in R. Villari, La rivolta antispagnola a
Napoli. Le origini (1585-1647), Laterza, Bari 1967, p. 16; Id., Un sogno di libertà, cit., p. 17.
ida mauro
28. Si tratta dei nove volumi in sei tomi degli atti dei parlamenti e delle riunioni dei
seggi (parte delle antiche Precedentiarum dell’antico Archivio Storico Municipale) trascritti
in alcuni manoscritti brancacciani conservati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (bnn),
in particolare i volumi: ms. Branc. v B 4-9 (cfr. J. A. Marino, Becoming Neapolitan. Citizen
Culture in Baroque Naples, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2011, p. 274, n. 19)
e ms. Branc. v F 10, f. 403r-427r.
29. Sui parlamenti dei regni italiani governati dalla monarchia spagnola cfr. H. G.
Koenigsberger, Parlamenti e istituzioni rappresentative negli antichi stati italiani, in R.
Romano, C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali, i, Dal feudalesimo al capitalismo,
Einaudi, Torino 1978, pp. 576-616, e la recente revisione storiograica di F. Benigno, Persistere, resistere: Parlamenti italiani e Monarchia degli Asburgo, in Id., Favoriti e ribelli. Stili
della politica barocca, Bulzoni, Roma 2011, pp. 147-63.
30. Per l’analisi delle richieste di grazia di metà Cinquecento cfr. G. D’Agostino,
Parlamento e società nel Regno di Napoli. Secoli XVI-XVII, Guida, Napoli 1979, pp. 298 ss.
31. bnn, ms. Branc v B 4, f. 64v. L’ambasciatore fu Camillo Brancaccio del seggio
di Nido.
32. D’Agostino, Parlamento e società, cit., pp. 309, 311, 315.
33. bnn, ms. Branc. v B 4, passim. Torna la comparazione con il caso valenzano,
dove nello stesso anno (1564) fu disciplinata la pratica dell’invio degli ambasciatori; Pérez
Aparicio, Centralisme monàrquic, cit.
34. Cfr. bnn, ms. Branc. v B 4, f. 63r ss. Tale modalità era stata stipulata il 10 dicembre
1523 e confermata dal «decreto Regio interposto per il Sacro Collaterale Consiglio sub die
26 septembris 1554», ivi, f. 67v.
35. I. Fuidoro (V. D’Onofrio), Successi historici raccolti dalla sollevatione di Napoli
dell’anno 1647, a cura di A. M. Giraldi e M. Rafaeli, FrancoAngeli, Milano 1994, p. 289.
36. Sul governo in Catalogna del duca di Monteleone cfr. J. Buyreu, El virreinato del
duque de Monteleón en Cataluña: una oportunidad perdida para la Monarquía, in “Cheiron”,
xxvii, 53-54, 2010, pp. 163-88. Sulla sua carriera al servizio della corona cfr. bnn, ms. San
Martino 127.
37. F. Andreu, I Teatini e la rivoluzione di Napoli, 1647-1648, in “Regnum Dei”, xxx,
1974, p. 115.
38. Si vedano al confronto gli agenti milanesi, scelti spesso tra i religiosi. In particolare,
in una sessione del Consiglio cittadino di Milano del 1653 si considerava che un agente
appartenente al clero, oltre a non comportare grosse spese, avesse una certa possibilità
di successo, grazie alla capacità di inluenzare i suoi interlocutori «con la modestia del
tratto, col concorso delle virtù, con la gravità de’ costumi et col credito dell’habito»; cit.
in Signorotto, Milano spagnola, cit., p. 204. Tuttavia, anche nel caso milanese Filippo iv
giunse a proibire l’invio di regolari come agenti, che solevano essere causa di «graves y
notorios inconvenientes», ivi, p. 212.
39. P. L. Rovito, Il viceregno spagnolo di Napoli, Arte tipograica, Napoli 2003, p. 191.
40. bsnsp, ms. xxvii B 11, f. 19v.
41. F. Rurale (a cura di), I religiosi a Corte: teologia, politica e diplomazia in antico
regime, Bulzoni, Roma 2008. Rurale si è dedicato in primo luogo al ruolo dei religiosi (e
in particolare dei Gesuiti) nella Milano spagnola e in altre corti italiane in età moderna:
Id., I Gesuiti a Milano: religione e politica nel secondo Cinquecento, Bulzoni, Roma 1992.
42. Sull’invio di religiosi in veste di ambasciatori rilette anche G. C. Capaccio, Il
Forastiero, Giovan Domenico Roncagliolo, Napoli 1634, p. 525.
43. Villari, Un sogno di libertà, cit., pp. 21-2; D’Agostino, Parlamento e società, cit., pp.
293-5. L’ambasciata toccava i temi fondamentali della limitazione dei poteri del viceré. Il
Seripando ne ritornò con il titolo di concessione regia di arcivescovo di Salerno, sede che
occupò dal 1554 alla sua morte, nel 1563.
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
44. G. De Caro, Scipione, Burali (Paolo d’Arezzo), beato, in Dizionario Biograico degli
Italiani (dbi), vol. xv, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1972, voce consultata
nell’edizione online del dizionario (data consultazione: 23 gennaio 2014); E. Pontieri,
L’agitazione napoletana del 1564 contro il Tribunale dell’Inquisizione e la missione del teatino
Paolo Burali d’Arezzo presso Filippo II, in Nei tempi grigi della storia d’Italia: saggi storici sul
periodo del predominio straniero in Italia, Morano, Napoli 1957, pp. 231-88.
45. Filippo iii si trovava in quel momento in visita a Lisbona. Il viaggio del frate
cappuccino era stato continuamente funestato dalle minacce degli agenti di Osuna. Il frate
cappuccino aveva svolto diversi incarichi diplomatici, e in particolare era stato inviato in
Spagna da Filippo iii per conto del duca di Baviera e della Lega cattolica tedesca già nel
1609; D. Busolini, Lorenzo da Brindisi, santo, in dbi, cit., vol. lxvi, 2007, voce consultata
nell’edizione online del dizionario (data di consultazione: 26 gennaio 2014); A. M. da
Carmignano di Brenta, Missione diplomatica di Lorenzo da Brindisi alla corte di Spagna
in favore della Lega cattolica tedesca (1609), Tipograia del Seminario, Padova 1964. Dopo
la sua morte continuarono l’ambasciata i due nobili napoletani che erano stati inviati in
aiuto del frate, Gianfrancesco Spinelli e Fabio Caracciolo, i quali virarono l’obiettivo della
legazione dalla destituzione dell’Osuna all’impedimento del suo accesso a cariche all’interno
del Consiglio d’Italia o di Stato; Villari, Un sogno di libertà, cit., pp. 114-5.
46. Villari, Un sogno di libertà, cit., p. 112.
47. L’ambasciata avrebbe dovuto presentare un’accusa contro il viceré precedente,
settimo conte di Lemos (1610-16), che al suo ritorno a corte aveva assunto la presidenza
del Consiglio d’Italia; Schipa, La pretesa fellonia, cit., pp. 489 ss.
48. Colección de documentos inéditos para la historia de España (codoin), t. xlvii, dir.
por J. L. Sancho Rayón, Imprenta de la viuda de Calero, Madrid 1865, p. 70; cit. tradotta
in italiano in Villari, Un sogno di libertà, cit., p. 580, n. 48.
49. Villari, Un sogno di libertà, cit., p. 113. Sull’episodio cfr. anche F. Zazzera, Narrazioni tratte da’ Giornali del Governo di Don Pietro Girone Duca d’Ossuna, Viceré di Napoli,
in Palermo, Narrazioni e documenti, cit., pp. 542-3.
50. bnn, ms. Branc. v D 15.
51. bnn, ms. Branc. v B 4, f. 65v.
52. Archivo General de Simancas (ags), Secreterías Provinciales, leg. 248. Il marchese
di Grottole, nominato nel 1669, restò a Madrid dal 1671 al 1678; cfr. G. Galasso, Napoli
spagnola dopo Masaniello, 2 voll., Sansoni, Firenze 1982, i, pp. 148-9. Del resto, l’eletto del
Popolo – scelto dal viceré all’interno di una rosa di sei candidati presentati dal seggio – iniva
per svolgere spesso il ruolo di longa manus vicereale all’interno delle istituzioni cittadine.
53. Pérez Aparicio, Centralisme monàrquic, cit., p. 329.
54. Si tratta di una delle numerose istruzioni vicereali conservate presso la Biblioteca
Nazionale di Napoli, datata 18 luglio 1571. Il passaggio è citato in G. Muto, 1649: Napoli
tra repressione e rilegittimazione, in B. Salvemini, A. Spagnoletti (a cura di), Territori, poteri,
rappresentazioni nell’Italia di età moderna. Studi in onore di Angelo Massafra, Edipuglia,
Santo Spirito (ba) 2012, pp. 127-40: 134.
55. bnn, ms. Branc. v B 5, f. 112v-113r.
56. bnn, ms. Branc. v B 5, f. 119r.
57. «In primis che sia lecito alla Città di Napoli di poter haver ricorso alla Maestà Sua
in tutte l’occorrenze e pottere inviare persona a suo arbitrio», ivi, f. 213r. Tali richieste di
grazie furono accompagnate dal cospicuo donativo di 1.200.000 ducati.
58. bnn, ms. Branc. v B 5, f. 183v-184r. Così motivavano l’elezione i deputati del seggio
di Nido, gli altri deputati usarono espressioni simili nelle loro votazioni.
59. Oltre ad essere citata nella documentazione dei seggi e in altri testi aini a quello
di Tassone (cfr. De Ponte, De potestate proregis, cit., p. 54), si fa riferimento a questa lettera,
ida mauro
ad esempio, nel memoriale presentato da Luigi Poderico, come ambasciatore dei nobili,
nel 1648, in cui si chiedeva la conferma di diversi privilegi di cui godeva la città, come «la
antiquíssima costumbre que dicha Ciudad tiene de embiar a Su Magestad embajadores»;
ags, Secreterías Provinciales, leg. 252. Dopo l’ennesima negazione di un’ambasciata da parte
del conte duca d’Olivares, la concessione fu ribadita nel 1599 da Filippo iii; cfr. Villari, Un
sogno di libertà, cit., p. 17.
60. bsnsp, ms. xxvii B 11, f. 147r-v. La lettera è riprodotta integralmente anche in
bnn, ms. Branc. v B 5, f. 154v-155v.
61. Ibid.
62. Emblematica è la critica al donativo presentato dal duca di San Giovanni nel 1659,
considerato assolutamente irresponsabile, perché richiesto dopo la rivolta e la peste del 1656.
A queste accuse l’ambasciatore napoletano si difendeva con le seguenti osservazioni: «non
udito ancora, ne letto fra’ niuna Natione è che il merito nostro si stima colpa, l’utile che
faremo si interpreta per danno, e la inezza di servire al Nostro Re si attribuisce a difetto
di zelo del bene comune. Poiché di questo donativo di 200 mila docati non solo hanno
procurato estinguere la stima, ma ancora ci è stata opinione che non si dovesse accettare»;
Relatione del Duca di San Giovanni de’ trattati della sua legatione, bsnsp, ms. xxiii B 8, c. 392.
63. Oltre ai riferimenti alle grazie in testi come quelli già citati di Tassone o De Ponte,
cfr. Privilegi et capitoli con altre gratie concesse alla idelissima Città di Napoli et Regno [...]
per tutto questo presente anno 1587, Pietro Drusinelli, Venezia 1588; altre raccolte erano
conservate presso gli organi consiliari della corte, cfr. ags, Secreterías provinciales, lib. 21,
Libro registro de privilegios y gracias concedidos a la ciudad y reino de Nápoles por los reyes de
Aragón hasta el año 1584.
64. Schipa, La pretesa fellonia, cit., p. 484, n. 2, citando da Relatione dello Stato di
Napoli al tempo del Governo d’Ossuna, bsnsp, ms. xxiii B 8.
65. Schipa, La pretesa fellonia, cit., p. 496, in cui si cita F. Zazzera, Narrazioni tratte
da’ Giornali del Governo di Don Pietro Girone Duca d’Ossuna, Viceré di Napoli, in Palermo,
Narrazioni e documenti, cit., p. 506.
66. Hernando, Castilla y Nápoles, cit., p. 317.
67. L’intera vicenda è riportata in Summonte, Dell’Istoria della città e del Regno di
Napoli, cit., pp. 189 ss. Carlo v si trovava all’epoca in Germania, dove era impegnato nella
guerra contro i principi protestanti.
68. F. Bucca D’Aragona, Aggionta alli Diurnali di Scipione Guerra, in “Archivio Storico
per le Province Napoletane”, xxxvi, 1911, pp. 124-205, 329-82, 507-80, 751-98: 329-30. Nelle
postille di Fuidoro alla cronaca appena citata si inserisce l’aneddoto della presa in giro del
conte di Monterrey per “i terzi” attuata da Pulcinella su una gondola diretta a Posillipo
nell’estate del 1632; ibid.
69. «Non possono inibirsi, nè proibire i loro esercizi per qualsivoglia ragione che loro
occorresse»; Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, cit., i, p. 192.
70. Diversamente da quanto può suggerire una lettura drastica della frattura generata
dalla rivolta del 1647, questi margini di indipendenza politica dei seggi resistettero alla
repressione di Oñate e Castrillo e alle politiche più energiche di viceré come Pedro Antonio de Aragón; cfr. G. Muto, Fedeltà e patria nel lessico politico napoletano della prima età
moderna, in A. Merola, G. Muto, M. A. Visceglia (a cura di), Storia sociale e storia politica.
Omaggio a Rosario Villari, FrancoAngeli, Milano 2007, pp. 495-522: 522.
71. Fuidoro, Successi historici, cit., p. 289.
72. La legazione è analizzata in Muto, 1649: Napoli tra repressione e rilegittimazione, cit.
73. Ivi, pp. 138-9.
74. G. Coniglio, Declino del viceregno di Napoli (1599-1689), 4 voll., Giannini, Napoli
1991, iv, p. 1682; Relatione del Duca di San Giovanni, cit., passim.
75. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, cit., i, p. 57.
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
76. Cfr. le numerose missive tra Peñaranda e Castrillo al momento del loro complesso
passaggio di poteri, che dimostrano l’inimicizia tra i due ministri, in Archivio di Stato di
Napoli (asn), Segretería dei Viceré. Viglietti Originali, f. 231-2.
77. Come nel 1616, quando Osuna appena giunto a Napoli autorizzò le riunioni
dei seggi (e l’ambasciata) negate dal luogotenente Francisco de Castro ainché la nobiltà
«scrivesse il maggior male di Lemos e ogni bene di Ossuna», secondo le osservazioni del
residente di Venezia Gasparo Spinelli, riprese in Schipa, La pretesa fellonia, cit., p. 490.
78. Nella città ligure, consueto scalo nei viaggi di ministri e ambasciatori che operavano in Italia, Cavaniglia visitò tre volte l’ex viceré, provando a spiegargli che non c’erano
ragioni per temere la sua presenza a corte, e che tra i due la persona più vulnerabile era di
certo l’ambasciatore, poiché l’ottima reputazione goduta da Castrillo presso la corte (dove
dal 1623 aveva occupato diversi incarichi nei consigli, presiedendo per 31 anni il Consejo de
Indias) avrebbe potuto rendere completamente inutile la sua missione; Relatione del Duca
di San Giovanni, cit., c. 390.
79. «Che era stato più atto degl’altri a penetrare le considerationi fatte da alcuni Ministri intorno la mia Legatione, la quale si credeva non meno indirizzata a ferire la fama
del Signor Conte di Castriglio che à trattare gl’afari della Città»; ivi, c. 392.
80. Geronimo Acquaviva, conte di Conversano, rimase dieci anni a Madrid ad attendere di essere ricevuto dal re, morì forse avvelenato mentre tornava dalla Spagna; Bucca
D’Aragona, Aggionta alli Diurnali di Scipione Guerra, cit., pp. 546-7.
81. Relatione del Duca di San Giovanni, cit., c. 391. Il generale Luigi Poderico aveva
presentato l’ambasciata dei seggi nobili a pochi mesi dalla ine della rivolta per attestare la
fedeltà dimostrata dall’élite aristocratica durante i moti e presentare l’atto di sottomissione
della città paciicata; Andreu, I Teatini e la rivoluzione, cit., pp. 111, 115.
82. Relatione del Duca di San Giovanni, cit., c. 390.
83. ags, Estado, leg. 3283.
84. Relatione del Duca di San Giovanni, cit., c. 393.
85. Secondo il duca di San Giovanni, Oñate «non havendo ottenuto dalla Città il
trionfo che desiderava per la presa di Longone [nel 1650] si vendicò con spogliarla della
detta Giurisdizione Criminale per haver essa ripugnato a lusingarlo con quella gloria solo
dovuta a V. A»; ivi, c. 407. Secondo Fuidoro, invece, la privazione di questa competenza
in ambito giurisdizionale della città fu una macchinazione dell’eletto del Popolo che gli
permise di conservare l’incarico come eletto e il favore dell’Oñate; Galasso, Napoli spagnola
dopo Masaniello, i, cit., p. 21. Sulla gestione dell’Annona nella seconda metà del Seicento
cfr. G. Coniglio, Gli Eletti di Napoli ed il Viceré Penaranda, in ’Nferta Napoletana 1975,
Fiorentino, Napoli 1975, pp. 103-20; Rovito, Il viceregno spagnolo, cit., pp. 202-6.
86. I testi di Cavaniglia sono pieni di riferimenti al bene comune, inteso come interesse della collettività, che deve guidare l’azione di ogni uomo di governo (e in particolare
di un ambasciatore).
87. Cfr. Relatione del Duca di San Giovanni, cit., c. 387. L’avversione dell’Oñate
verso i nobili napoletani è notoria; cfr. A. Minguito, Nápoles y el virrey conde de Oñate.
La estrategia del poder y el resurgir del reino (1648-1653), Sílex, Madrid 2011, pp. 187 ss.;
Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, i, cit., pp. 10-4, 29; si vedano poi le rilessioni
di Castrillo al Consiglio di Stato sulla necessità di tenere a bada la nobiltà napoletana,
«conque es menester apretar aveçes y soltar»; ags, Estado, leg. 3281, f. 26. Proprio per “disciplinare” la nobiltà, Castrillo restaurò la pratica dei giochi equestri; cfr. C. J. Hernando,
Teatro el honor y ceremonial de la ausencia. La corte virreinal de Nápoles en el siglo XVII, in J.
Alcalà-Zamora y Queipo de Llano (eds.), Calderón de la Barca y la España del Barroco, E.
Belenguer Cebrià, 2 voll., Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid 2001,
i, pp. 591-674: 591-2. Queste voci si erano poi radicate, secondo il Cavaniglia, anche a
causa dell’assenza di nuove ambasciate negli anni Cinquanta del Seicento, sempre dissuase
ida mauro
dai viceré («la calunnia, che ha raggionato, et operato contra noi, valendoci del nostro
silenzio»); Relatione seconda del Duca di San Giovanni sopra i trattati della sua legatione in
Madrid (1660), bsnsp, ms. xxiii B 8, c. 411.
88. Queste critiche dovevano sembrare particolarmente fastidiose al Cavaniglia, che
si sentiva rappresentante di una nobiltà regnicola che aveva «dato montagne d’oro e iumi
di sangue» alla Corona (dalle istruzioni per la sua ambasciata del 1659, cit. in Villari, Un
sogno di libertà, cit., p. 165) ed era inoltre esponente di un lignaggio a cui apparteneva il
marchese di San Marco, Gerolamo Cavaniglia, che si distinse durante la rivolta per aver
prevenuto le rivendicazione degli abitanti delle sue terre, sospendendo la riscossione di
imposte e rendite iscali e pubblicando l’abolizione delle gabelle disposta dal viceré duca
d’Arcos; ivi, pp. 371-2.
89. In attesa di approfondire questo e altri aspetti, in una ricostruzione delle due ambasciate madrilene del duca, segnalo che in una supplica inviata a Filippo iv nel dicembre
1647 il principe di Colle d’Anchise e il duca di San Giovanni difendevano le richieste della
comunità teatina a Madrid in quanto composta da molti esponenti della famiglie di quella
nobiltà napoletana che «Aora en los presentes alborotos de aquel Pueblo en cuya occassion
con declaradas demostraciones de ineza aquella Nobleza no deja de gastar hacienda sangre
y vida»; Andreu, I Teatini e la rivoluzione, cit., p. 169.
90. Relatione seconda del Duca di San Giovanni, cit., c. 411. L’uicio di ambasciatore
in realtà gli fu riconosciuto solo nel momento della partenza (Rovito, Il viceregno spagnolo,
cit., p. 195) e dopo aver negoziato a lungo per non perdere, insieme alla sua reputazione,
lo ius legationis mantenuto con importanti sforzi economici dai seggi.
91. Si tratta di Fadrique de Toledo, che sarebbe stato successivamente generale delle
Galere e rivestì il ruolo di luogotenente del Regno di Napoli durante l’ambasciata straordinaria a Roma di Pedro Antonio de Aragón, nel 1670.
92. In realtà il duca di Medina si dimostrò un abile temporeggiatore, evitando di
essere coinvolto direttamente nel tema trattato dall’ambasciata; cfr. Relatione seconda del
Duca di San Giovanni, cit., cc. 415 ss.
93. L’esame del tema della giurisdizione criminale dell’Annona nel Consiglio d’Italia e
nel Consiglio di Stato è pubblicato in Coniglio, Declino del viceregno di Napoli, cit., iv, pp.
1682-707. La risposta non fu del tutto negativa: si decretò di attendere l’invio di ulteriori
elementi da parte del viceré per poter decidere. Per il duca di San Giovanni in questo temporeggiamento «si esperimentava una nuova sventura di un nuovo e più penoso modo di
negare, che non concedeva nè escludeva»; Relatione seconda del Duca di San Giovanni, cit.,
c. 422. La richiesta fu presentata nuovamente dal marchese di Grottole nel 1670; Galasso,
Napoli spagnola dopo Masaniello, i, cit., p. 191.
94. Fuidoro, Successi historici, cit., p. 288.
95. A. Musi, Capacelatro, Ettore, in dbi, cit., xviii, 1975, voce consultata nell’edizione
online del dizionario (data consultazione: 16 gennaio 2014).
96. Id., La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, Guida, Napoli 1988, pp. 85-95.
97. Fuidoro, Successi historici, cit., p. 289.
98. Cavaniglia era principe dell’Accademia degli Oziosi. Pochi anni dopo la sua morte
(avvenuta nel 1668) furono pubblicate, a cura del padre carmelitano Eugenio di San Giuseppe, una serie di componimenti e alcune lettere che parlano della sua attività politica
e dei suoi diversi interessi culturali; Compositioni di don Michele Cavaniglia, duca di san
Giovanni, e Prencipe dell’Accademia degli Otiosi in Napoli, Giacinto Passaro, Napoli 1671.
99. F. Capecelatro, Degli annali della citta di Napoli: 1631-1640, 2 voll., Tipograia di
Reale, Napoli 1849, ii, p. 195. Gli annali del Capecelatro sono gli unici a riportare un’informazione maliziosa sulle distrazioni amorose del Cavaniglia in Spagna (lo deinisce «cavaliero
[...] di molto avvedimento, benché poi si lasciò troppo allettare dall’amor femminile in
Madrid», ibid.), quasi a voler gettare del fango sulla sua lunga permanenza in Spagna.
la nobiltà napoletana e le ambasciate della città di napoli a madrid
100. Capecelatro partì con il riconoscimento del suo incarico anche da parte del
Consiglio d’Italia; cfr. Rovito, Il viceregno spagnolo, cit., p. 194.
101. Fuidoro, Successi historici, cit., p. 289; insieme a lui fu perseguitato da Medina
anche Giovan Giacomo Cosso (ibid.) su cui cfr. Villari, Un sogno di libertà, cit., pp. 212-3.
102. Fuidoro, Successi historici, cit., p. 289.
103. Il suo primogenito ricevette infatti il ducato di Siano e l’abito di cavaliere di san
Giacomo; ivi, p. 290.
104. Ivi, p. 291. Per una sua lettera dall’“esilio” alle porte di Madrid cfr. bnn, ms.
Branc. v F 10, f. 469r ss.
105. Relatione seconda del Duca di San Giovanni, cit., c. 422.
106. Compositioni di don Michele Cavaniglia, p. n.n.
107. Un cronista poco attento alle dinamiche politiche del Regno come Andrea
Rubino, registra l’insuccesso del Cavaniglia attraverso la delusione di chi ascoltò la lettura
delle lettere reali che accompagnarono il suo rientro; A. Rubino, Notitia di quanto occorso
in Napoli dal 1658 ino a tutto il 1661, bsnsp, ms. xxiii D 15, cc. 116-7, 275.
108. L’attaccamento alla patria napoletana è ripetuto con costanza nei testi del duca
di San Giovanni. Sul concetto di patria nella Napoli d’età moderna cfr. Muto, Fedeltà e
patria nel lessico politico napoletano, cit.
109. Sull’attrazione esercitata sull’ambasciatore dalla corte ospitante, come elemento
che accresceva il carattere ambiguo dei legati cfr. P. Volpini, Ambasciatori, cerimoniali e
informazione politica: il sistema diplomatico e le sue fonti, in M. P. Paoli (a cura di), Nel
laboratorio della storia. Una guida alle fonti dell’età moderna, Carocci, Roma 2013, pp. 245-7.
110. bsnsp, ms. xxvii B 11, f. 185r.
111. La legazione ebbe luogo all’inizio degli scontri sull’introduzione dell’Inquisizione
secondo l’uso iberico. Il principe di Salerno avrebbe dovuto ricordare le consuetudini della
città e del Regno, e denunciare gli abusi di Pedro de Toledo.
112. Summonte, Dell’Istoria della città e del Regno di Napoli, cit., p. 194.
113. Un esempio tra molti: per la già citata ambasciata del Cavaniglia del 1659 si era
pensato in un primo momento al principe di Tarsia; Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, i, cit., p. 57. Per altri esempi Rovito, Il viceregno spagnolo, cit., pp. 192-3.
114. Summonte, Dell’Istoria della città e del Regno di Napoli, cit., p. 190.
115. Cfr. supra, lettera citata in Muto, 1649: Napoli tra repressione e rilegittimazione,
cit., p. 134.
116. Rovito, Il viceregno spagnolo, cit., p. 194, n. 176.
117. «Remedium facillimum esset, si civitati permitteretur tenere in curia pro ipsa
et toto Regno procuratorem, seu Agentem, qui negotia civitatis et Regni tractaret: ex
quo cessarent heae turbolentiae, tot quaerimoniae, congregationes et coventiculae et
Rex Cristianissimus et omnium Dominus esset de singulis informatus, ut convenit, […]
vassallique tam idelis satisfacti remanerent; nec video quare huic Regno, tam idelissimo
negari debet, quod omnibus aliis videmus permissum»; De Ponte, De potestate proregis,
cit., p. 55. Su Giovan Francesco De Ponte, cfr. P. Messina, De Ponte, Giovan Francesco, in
dbi, cit., xxxvii, 1991, voce consultata nell’edizione online del dizionario.
118. Riproduco per intero il passaggio centrale della lettera di Filippo iv da cui è tratta
la citazione riportata nel testo: «He resuelto que siempre que las dichas plaças quisieren
juntarse a tratar cosas suyas del bien publico, no se les impida por vos, ni por los demás
más virreyes que os sucedieren en esse cargo [...] assí respecto de las cossas en que la dicha
ciudad hubiere de pedir licencia a los dichos mis virreyes para escrivir dandome quenta
de cosas convenientes a su buen gobierno [...] reputandose echo por toda ella [la città]
lo acordado por quatro de las dichas plaças, serà gran desconsuelo impedirles el juntarse,
ya para que pueda tener efecto, el poderlo hazer las dichas Plaças y representarme lo que
juzgaren ser conveniente para beneicio dessa dicha ciudad, y Reyno, es mi voluntad de
ida mauro
permitirlos assí mismo que nombren persona en esta corte, que asista a la solicitud de sus
negocios, con que solamente trate en nombre dessa mi idelissima Ciudad de Nápoles lo
que se hubiere resuelto por las dichas quatro plaças que hazen voz de ciudad y con que no
pueda tratar de particulares diferencias que ocurrieren entre las mismas plaças guardándose en lo demás [...] con declaración que las dicha persona que asistiere aquíaya de ser a
satisfación deste mi Consejo Supremo de Italia, por el qual se le ha de dar el salario que
ha de gozar»; bsnsp, ms. xxvii B 11, f. 23r-v.
119. Bucca D’Aragona, Aggionta alli Diurnali, cit., p. 144. Sembra che il conte duca
d’Olivares avesse invitato il Capece Galeota a chiedere «qualche gratia per la persona sua
particolare», ma l’ambasciatore riiutò dicendo che in quel momento era venuto per servire
la città (ibid.).
120. Il buon governo vicereale dell’Alba fu celebrato con la cavalcata della vigilia di
san Giovanni, tenutasi il 23 giugno di quello stesso 1629, pochi giorni prima dell’invio
della lettera da Madrid; J. A. Marino, he Zodiac in the Streets: Inscribing “Buon Governo”
in Baroque Naples, in G. B. Cohen, F. A. J. Szabo (eds.), Embodiments of Power: Building
Baroque Cities in Europe, Barghahn Books, New York-Oxford 2008, pp. 203-29.
121. Schipa, La pretesa fellonia, cit., p. 492 (citando da F. Imperato, Discorso politico
intorno al regimento delle piazze della città di Napoli, nella stamperia di Felice Stigliola,
Napoli 1604).
122. Anche il Di Costanzo era un amante delle belle lettere; Bucca D’Aragona, Aggionta
alli Diurnali di Scipione Guerra, cit., pp. 507, 792. Va notato che a Napoli la concessione
venne recepita come ambasciata, così almeno la chiama Ferrante Bucca («che [la Città di
Napoli] possi tenere di continuo un ambasciadore in Corte», ivi, p. 143). Sugli onori che
ricevette nel suo ingresso a corte «trattato nell’occorrenze come tutti gli altri ambasciatori»,
ivi, p. 551.
123. «Porta alcune cose spedite, assai poche delle molte, che la città haveva cercate
per lui a Sua Maestà [...] ha ottenuto sì bene lui per se stesso il governo della Provincia di
Capitanata, et un habito per il iglio»; ivi, p. 792.
124. Recitava la richiesta di grazia n. 13 del parlamento del 1641: «che sia lecito alla
Città et Regno tenere alla Corte persona col titolo d’Ambasciatore, Residente, o’ Agente»;
bsnsp, ms. xxvii B 11, f. 127r.
125. A tal proposito, la vitalità delle ambasciate della seconda metà del Seicento
sembra dimostrare quanto ipotizzato da Francesco Benigno, secondo il quale l’azione dei
seggi sostituì a partire dal 1642 quella, poco gestibile e “pericolosa”, del parlamento «come
necessario punto di contatto, soprattutto sul piano economico, tra il potere spagnolo e la
classe dirigente del regno»; Benigno, Persistere, resistere, cit., p. 163.
126. Tra le prime ambasciate presentate all’arciduca Carlo d’Astria (poi imperatore
Carlo vi) va ricordata quella solenne del 1711 presentata da Francesco Pignatelli, Mario
Lofredo e Rocco Geronimo Gervasi, in cui si riproposero 51 vecchie grazie (alcune di esse
antichissime, richieste ininterrottamente almeno durante tutto il Seicento) e 14 nuove; cfr.
Colapietra, Vita pubblica, cit., pp. 198-202.
127. bsnsp, ms. xxi 4 A, f. 56v.
128. Ibid.
129. Ivi, f. 58r.