OdB: «Quaderni milanesi» e la cultura degli anni Sessanta
Vorrei cominciare il mio intervento su OdB con un’excusatio non petita, che se da un lato smaschera una mia connaturata “incertezza”, dall’altra potrebbe risultare foriera di deduzioni significative, utili a comprendere fin da subito la capillarità e il dinamismo dell’impegno culturale di OdB. Sono arrivato infatti a scoprire la sua figura di intellettuale in maniera indiretta, lavorando e studiando su altri personaggi suoi coetanei e suoi prossimi nella Milano degli anni Sessanta, figure come Emilio Tadini, pittore, critico d’arte e romanziere ancora troppo poco studiato, e Luciano Bianciardi, polemico narratore dell’alienazione e dell’integrazione, ancora vincolato da una lettura che lo vuole campione solitario e isolato di una battaglia culturale persa e per questo eroica. Infatti, lavorando sui testi e sulle biografie di questi personaggi, mi sono trovato nella necessità di costeggiare l’attività di un intellettuale, OdB appunto, che per entrambi si è rivelato figura di riferimento. E, d’altra parte, chiunque decida di lavorare sull’attività culturale e letteraria della Milano tra fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, non può esimersi dal constare la centralità, spesso anche nascosta, di OdB, come aggregatore di forze intellettuali, organizzatore di attività, costruttore e disfacitore di sempre nuove imprese. Su una di queste, la rivista letteraria «Quaderni milanesi», vorrei soffermarmi in quest’occasione; e lo vorrei fare per due motivi: primo, perché si tratta di un’impresa quasi dimenticata nella storia editoriale dell’Italia del secondo Novecento
Tra i pochissimi studi che ne ricostruiscono la vicenda, si può citare un breve articolo di Enzo Golino, che peraltro partecipò attivamente alla rivista, pubblicato 10 anni su «La rivista dei libri»: QM: una rivista sperimentale (n. 2, febbraio 2004, pp. 4-7).; secondo, perché il suo studio consente di sviluppare ulteriormente, in direzione di un insospettato versante critico-teorico, la fisionomia intellettuale di OdB.
Prima di arrivare a trattare più accuratamente dei quattro numeri che costituirono la breve ma intensa vicenda della rivista, sarà opportuno prendere una piccola rincorsa, per vederne la nascita e lo sviluppo all’interno di una prospettiva specifica, quella appunto della Milano dell’inizio del boom economico, e in particolare della Milano vissuta dalla cosiddetta “generazione degli anni difficili”.
È cosa nota che OdB arrivò a Milano nel 1935 e qui, fin dai tempi dell’Università (quando controvoglia frequentava le facoltà di Giurisprudenza alla Statale), cominciò a ritagliarsi un posto nei salotti letterari, in particolare nel milieu legato al giornalismo milanese e al «Corriere della sera», dove le grandi figure di Buzzati e Piovene dialogano con i giovani alle prime armi. Negli anni della guerra, quando Milano non è più luogo adatto a una pur pacata fronda intellettuale al regime, questi incontri si tengono a Como, nella libreria La lampada di Renzo Cantoni (fratello del filosofo Remo), dove di tanto in tanto si vedono anche Montale, Quasimodo, Banfi, Anceschi. Proprio alla libreria La lampada verranno distribuiti, a partire dalla fine del 1943, i fascicoli della rivista «Uomo»
9 numeri, tra la fine del 1943 (durante l’occupazione tedesca, appena OdB era partito per la guerra) e la fine del 1945., che OdB ha fondato insieme a Domenico Porzio e Andrea Valsecchi. L’impresa durò poco, ma risultò particolarmente significativa perché vide OdB alle prese per la prima volta con un’idea di «sperimentalismo letterario», lontano da rondismi ed ermetismi ancora in voga, così come dal realismo – e dal neorealismo (rispetto al quale OdB si era mostrato distante fin dai tempi di Racconto d’inverno) che ha già prodotto alcuni dei suoi testi più significativi.
Intanto l’esperienza di guerra, dove si era arruolato volontario per seguire l’esempio di uno zio morto eroicamente, restituisce alla società civile un OdB trasformato, disilluso e spaesato. Per lui la percezione della guerra è alterata dall’esperienza del un campo di lavoro tedesco dove rimase detenuto per un anno e mezzo e dove, come disse lui stesso, «non sapevamo chi fossero i nemici, non sapevamo a quale nemico fossimo nemici o viceversa». OdB condivide con i suoi coetanei una medesima esperienza della Storia, quella di una generazione “di mezzo”, quella degli anni Venti, arrivata alla soglia della guerra, o della resistenza, senza un orizzonte preciso ideologico e culturale entro cui collocare la propria presenza. La Liberazione e la ricostruzione, per questi giovani intellettuali, avevano rappresentato sì un fondamentale momento di apertura del tempo della Storia allo spazio delle possibilità, ma anche l’inizio del crollo delle illusioni e il complicarsi di un mondo che la guerra aveva reso semplice, seppur crudele. Finiti gli episodi di grande entusiasmo collettivo, ciascuno si ritrovava solo con le proprie inquietudini; come ricorderà Raffaele La Capria (classe 1922): «la realtà ci appariva incomprensibile e sfuggente, l’uomo estraniato da se stesso, condannato alla solitudine e all’incomunicabilità»
R. La Capria in «Quaderni milanesi», n. 1, autunno 1960, p. 107..
Nel 1959 la rivista «Il Paradosso»
Le cinque puntate dedicate dalla rivista a questa inchiesta (dal n. 15-16, di gennaio-febbraio 1959, al n. 23-24, di settembre-dicembre 1960) sono state poi raccolte in un unico volume dagli stessi curatori: E.A. Albertoni, E. Antonini, R. Palmieri (a cura di), La generazione degli anni difficili, Laterza, Bari 1962. Non è scontato notare che la medesima etichetta venne usata dal Antonio Del Guercio per intitolare una mostra collettiva dedicata ad artisti capaci di rinnovare alcuni caratteri dell’arte contemporanea anche in virtù, o proprio in virtù, della propria appartenenza generazionale; cfr. A. Del Guercio, Undici artisti italiani. L’apporto delle generazioni «di mezzo» all’arte italiana dal 1955 ad oggi nella ricerca di quattro scultori e sette pittori, catalogo della mostra, Edizioni OGAM, Verona 1976., nelle persone di Renato Palmieri ed Ezio Antonini, aveva provato a raccogliere testimonianze di simili inquietudini in un’inchiesta dedicata alla cosiddetta “generazione degli anni difficili”, guidata dalla volontà di comprendere le scelte e le posizioni di fronte alla Storia e ai suoi rivolgimenti politico-sociali da parte, e cito, di «coloro che l’ultima guerra sorprese, come si è detto, nell’età dei primi ripensamenti e delle maturazioni giovanili», e che alla fine degli anni Cinquanta si presentavano, volenti o nolenti, come «la spina dorsale della nazione»
Ivi, pp. 12-13.. Tra gli intervistati, insieme a Italo Calvino, Mario Spinella, Giuliano Gramigna, Luciano Della Mea, Rossana Rossanda, Franco Fortini e Fulvio Papi, c’è anche OdB, che fornisce la risposta in assoluto più lunga e articolata, sintomo di una necessità, che sarà propria anche della sua narrativa (si pensi a un titolo emblematico come e La parte difficile del 1947, che racconta proprio il disagio dell’integrazione nel dopoguerra), di sfogare un proprio nodo biografico ed esistenziale.
Se sul fronte politico, un’iscrizione poco convinta al PCI non risolve il bisogno di conferme di OdB, sul fronte dell’impegno intellettuale le inquietudini dell’età e dell’epoca sembrano essere superate, o per lo meno accantonate, attraverso una bulimia lavorativa, pronta a cogliere ogni occasione, anche al di là degli steccati ideologici: collabora al «il Politecnico» di Vittorini, ma anche al «Candido» di Guareschi, collocati su posizioni molto lontane; scrive per «Paese Sera», dove conosce Achille Campanile, Vittorio Sereni, Tommaso Giglio, Alfonso Gatto; lavora per «Settimana Incom», «Oggi», «Epoca», «L’Europeo», frequenta gli editori, con cui spesso litiga; scrive di cinema e comincia ad appassionarsene, cominciando a nutrire una passione per la cultura popolare americana che rimarrà costante; entra nella redazione di «Cinema nuovo», dove cura alcune rubriche personali (“I cortometraggi”, poi “Romanzo e film” e infine “Biblioteca”) e dove di spesso incrocia amici come Luciano Bianciardi, Ugo Mulas ed Emilio Tadini (ma anche Vittorio Spinazzola). Sono questi personaggi – giornalisti, scrittori, pittori, registi
Valerio Adami, Ugo Mulas, Dario Fo, Luciano Bianciardi, Domenico Porzio. – che animano la cultura nella Milano del boom economico, ma potremmo dire anche la bohème milanese, che ha il suo centro nevralgico in un ridotto dedalo di vie compreso tra il palazzo dei giornali, in piazza Cavour («Milano sera», appunto, «l’Avanti!», «l’Unità»), la sede del «Corriere della Sera», in via Solferino, le case editrici, l’Accademia di Brera, e lì vicino gli atelier e gli studi fotografici, e il teatro Piccolo
Cf. P. Corrias, Vita agra di un anarchico, cit., p. 73.. È la grande stagione del bar Giamaica, dove giovani artisti e intellettuali, seduti accanto agli operai dei cantieri e agli artigiani dei negozi del quartiere, fanno notte discutendo, in attesa che gli amici giornalisti, come OdB, escano dalle redazioni.
Ai tempi del Giamaica eravamo ancora ragazzi e nessuno sapeva di preciso cosa fare nella vita. Il bar era una specie di club, ma diventava anche un’occasione di lavoro: tra le tante persone che incontravi, prima o poi qualche idea, qualche lavoretto, saltava fuori. Le nostre vocazioni erano un po’ inconsistenti, ma stranamente coincidevano, per quei casi storici non molto frequenti, con le occasioni che ti capitavano a portata di mano. Il caso di Ugo Mulas è esemplare: lui faceva i concorsi poetici, è stato Dondero a mettergli una macchina fotografica tra le mani. Una macchina non sua, ovviamente, cisto che anche lui girava con una a prestito
P. Corrias, 87.
Così Tadini ricorda quella stagione, per molti versi entusiasmante, la cui poliedricità sembra perfettamente incarnata dalla personalità «proteiforme, versatile, onnivora»
N. del Buono, Testimonianza, in Oreste del Buono. L’antimeridiano: romanzi e racconti, a cura di S. Sartorio, ISBN, Milano 2010, p. xlv. – così l’ha definita la figlia Nicoletta – e dalle variegate passioni (la scrittura e il cinema, il teatro e il fumetto, il calcio e il pugilato) di OdB. Quello radunato a Brera e dintorni sembra un vero e proprio kosmos intellettuale, il cui collante è senz’altro una solidarietà data dalla condivisione della medesima condizione, quella di chi cerca di sopravvivere attraverso il cosiddetto “lavoro culturale”, e dalla necessità di farlo in maniera creativa, dando fondo a tutte le risorse immaginative. A questa però si associa una sorta di coscienza generazionale, che travalica i connotati anagrafici per farsi esperienza esistenziale e culturale.
Marcata da una simile coscienza è anche l’impresa di «Quaderni milanesi», che nelle sue ambizioni, nell’audacia delle sue proposte, così come nelle sue contraddizioni e nelle sue incoerenze porta traccia anche delle speciali idiosincrasie del suo ideatore, declinate specificamente, in questo caso, entro i confini del campo letterario e delle sue discussioni. A dirigere la rivista OdB è affiancato dall’amico Domenico Porzio; a completare il comitato di redazione sono Tommaso Giglio e Giuseppe Ajmone. Tra l’autunno 1960 e l’autunno 1962 escono quattro soli numeri, poi la rivista chiude, lasciando ben poche tracce dietro di sé e nelle storie dell’attività editoriale italiana del secondo Novecento. Nondimeno, uno studio attento non può evitare di riconoscerne l’interesse e l’importanza nel panorama letterario e più genericamente culturale dell’inizio degli anni Sessanta. Inoltre, se si deve dara credito all’affermazione di Daniele Brolli, secondo cui «è difficile collegare il del Buono narratore al giornalista e all’intellettuale»
D. Brolli, Versioni soggette a smentita, p. 1552., una lettura attenta della battaglia culturale lanciata da «Quaderni milanesi» dovrà portare quantomeno ad attenuare i termini di quella considerazione. D’altra parte, se è vero che si è sempre cercato di ricondurre l’originalità dell’OdB narratore entro le griglie interpretative di una scuola o di un modello forte (dal nouveau roman francese alla cosiddetta “retroguardia dell’avanguardia” – secondo una definizione che Andrea Chiurato formula a partire da valutazioni di Renato Barilli), il lavoro di aggiornamento e proposta teorico-critica svolto da OdB per «Quaderni milanesi» consentirà di valutarne l’insolito ruolo, se non di caposcuola, quantomeno di capofila di un movimento di aggiornamento dei presupposti della rappresentazione estetica in direzione di uno sperimentalismo equidistante dal realismo così come dagli oltranzismi neoavanguardistici.
In un periodo in cui aveva ancora un senso l’idea di un’azione collettiva per condurre una battaglia culturale, le riviste svolgevano un ruolo di compattamento delle poetiche e di convergenza delle linee di ricerca
Cfr. E. Mondello, Gli anni delle riviste, cit.. Dal tempo del «Politecnico» fino al «Menabò» di Vittorini e Calvino, a «Officina» di Pasolini o al «verri» di Anceschi e poi del Gruppo 63 alle riviste è riconosciuta una capacità di lettura del contesto a un tempo meno distaccata e più originale: per questo a loro è affidato il compito di elaborare proposte culturali, di articolare il dibattito, di informare e di formare, secondo una dialettica che coinvolge l’allargamento degli orizzonti culturali e l’istituzionalizzazione delle nuove direttrici di ricerca
Cfr. L. Vetri, Il Verri: alcuni temi e una “questione”, in «il verri», n. 8, 1974; ma cfr. anche L. Anceschi, Intervento, in «il verri», n. 10, 1963; citato in E. Mondello, cit., p. 43.. In un simile agone si lancia senza troppi timori reverenziali «Quaderni milanesi», che fin dal primo editoriale (anonimo, ma plausibilmente di mano di OdB) marca la propria posizione nel dibattito contemporaneo. Gli idoli polemici sono fin da subito ben chiari: contro le lusinghe di «una letteratura da salotto, gradita alle signore ed agli spiriti radicaleggianti»
Gli anni dell’equivoco, in «Quaderni milanesi», n. 1, autunno 1960, p. 5., sintonizzata su un’anacronistica bohème che mira solo a épater le bourgeois (di cui sono un fulgido esempio i romanzi di Françoise Sagan), «Quaderni milanesi» si propone di «restituire alla sua serietà la ricerca artistica»
La dolce letteratura, in «Quaderni milanesi», n. 2, primavera 1961, p. 5.. La polemica è rivolta contro uno spirito che sembra imperversare in tutta la società letteraria internazionale, ma che in Italia e che in Italia si è affermato in coincidenza con uno spostamento del baricentro culturale da Milano a Roma, dove i salotti (come quello dei coniugi Bellonci
Goffredo Bellonci, «marito di un celebre salotto letterario», aveva risposto agli attacchi di QM con un articolo pubblicato sul «Messaggero» in cui sanciva il primato morale di Roma attraverso un confronto numerico «delle case squillo e dei balletti verdi», confermando l’accusa di QM circa la passione per le «polemiche da rotocalco».) rappresentano il miglior terreno su cui coltivare una «dolce letteratura» legata a fenomeni di costume e fomentata da false polemiche, che nel manicheismo degli schieramenti (astratti contro figurativi, realisti contro antirealisti) finivano per rendere sterile qualsiasi critica. A questa nuova tradizione, in certo senso immorale, si contrappone la tradizionale operosità dello spirito milanese, arricchita dalla lezione culturale del «Politecnico», di cui si cerca di recuperare lo spirito “eretico” e spregiudicato, necessario per reagire alle posizioni della sinistra più conservatrice, rappresentata dai cosiddetti «gesuiti del realismo»
«Gli stessi che ritroviamo ancora oggi squallidamente a discettare sull’annoso problema del tipico in art e sulla drammatica questione dei rapporti tra lingua e dialetto»; Gli anni dell’equivoco, in «Quaderni milanesi», n. 1, autunno 1960, p.65, tutori di una letteratura «arrivata alla saturazione» e «diventata maniera», vero e proprio fardello per ogni ipotesi di ricerca culturale e letteraria.
L’idea alla base di questa battaglia culturale è allora quella di richiamare gli artisti a un impegno che non si realizza tuttavia sul campo di una declinazione ideologica o politica della scrittura, bensì nei termini della responsabilità morale di una ricerca sistematica, tecnica, strutturale, formale, che permetta di fornire delle risposte alla crisi che avvince la letteratura nazionale. Il gruppo di «Quaderni milanesi» non ha paura di inserirsi entro una linea di «sperimentalismo» intesto come rielaborazione dei «nuovi assunti narrativi» provenienti dall’estero; ben altra cosa rispetto all’arido tecnicismo e all’irrazionalismo poetico che gli veniva da più parti imputato (si pensi a Pasolini che distingue realismo e avanguardia come razionalismo e irrazionalismo). Si tratta, d’altra parte, di una falsa polemica, tipica di certa critica e intellettualità italiana, che contrappone termini come “realismo” o “controrealismo” senza discuterli, dimenticandosi che, con il trasformarsi del mondo, sia necessario trasformare le forme espressive per rappresentarlo; che potranno pregiarsi dell’etichetta di realismo, come per Brecht, o di avanguardia, come per Picasso, o di sperimentalismo, come per Pirandello. L’unica insegna sotto cui valga la pena di battersi, infatti, è quella di un’«arte organica», che sappia osservare «le strutture profonde della realtà»
Le streghe sperimentali, in «Quaderni milanesi», n. 4-5, autunno-estate 1962, p. 6., riconoscendone la complessità, poiché «semplificarla, renderla uniforme secondo schemi elementari, significa mistificarla»
Le streghe sperimentali, in «Quaderni milanesi», n. 4-5, autunno-estate 1962, p. 7..
Dati questi presupposti, dell’impresa editoriale e letteraria che furono i «Quaderni milanesi», dovranno essere evidenziati, almeno, quattro tratti significativi, in ognuno dei quali sarà riconoscibile l’impronta personale di OdB:
«l’uso creativo della tradizione»
E. Golino, QM: una rivista sperimentale, in «La rivista dei libri», n. 2, febbraio 2004, p. 6.;
la duttilità;
la proposta teorica;
la questione generazionale.
Fin dal primo numero, la redazione dichiara che «“Quaderni milanesi” si sforzerà di presentare testimonianze e documenti sullo sviluppo che hanno avuto la letteratura e le arti negli ultimi quindici anni». L’orizzonte di riferimento è ampio, ma di notevole coerenza: nell’arco dei quattro numeri trovano spazio testi di T.S. Eliot, Nathalie Sarraute, Michel Butor, Uwe Johnson come rappresentanti di uno sperimentalismo “internazionale”, ai quali si affiancano interviste con figure “istituzionali” della cultura italiana – come Romano Bilenchi, Vasco Pratolini, Eugenio Montale e Alberto Moravia –, che, pur su posizioni programmaticamente differenti rispetto a quelle della rivista, condividono il medesimo disagio nei confronti della crisi del contesto letterario nazionale. A queste testimonianze dirette vanno aggiunti, poi, alcuni nomi particolarmente ricorrenti nei testi critici dei redattori e dei collaboratori della rivista: su tutti il Joyce dell’Ulysses, William Faulkner, l’ancora troppo misconosciuto Pirandello. La tradizione del romanzo modernista e la cosiddetta “ala calda” del nouveau roman francese (di cui, sarà bene ricordarlo, OdB era eccellente traduttore)
Di Michel Butor: L’impiego del tempo, Mondadori 1960; Il passaggio, Mondadori 1966; La modificazione, Mondadori 1967; Rete aerea, All’insegna del pesce d’oro 1967; Ritratto dell’artista da scimmiotto, Einaudi 1969; di Nathalie Sarraute: Ritratto d’ignoto – per Davico Bonino questo romanzo è un vero «“turning point”, un’opera-giro», per OdB, ma anche per l’intero Novecento letterario (L’opera come arcipelago, xxi-xxii) –, Tropismi, Conversazione e sottoconversazione, Feltrinelli 1959; Il planetario, Feltrinelli 1964., rinforzati da un continuo confronto con la tradizione italiana più “istituzionale” (forse una sorta di esorcismo nei confronti dei furori iconoclasti della neoavanguardia), trovano convergenza nell’orizzonte teorico-filosofico fornito dalla fenomenologia di Husserl e Merleau-Ponty e dalle declinazioni “estetiche” formalizzate da Enzo Paci che, in un testo significativamente intitolato Indicazioni fenomenologiche per il romanzo
N. 1, pp. 130-134., prova a declinare in termini di costruzione del personaggio e struttura narrativa concetti complessi come il “ritorno al soggetto” e l’epochè. Come dice lo stesso Paci: «Il romanzo può essere un contributo al rinnovarsi di un “senso” […] dei rapporti umani» (134). Alla base è una concezione, propria di OdB come dei suoi collaboratori, che il romanzo sia uno strumento ermeneutico al quale, secondo le proprie caratteristiche di rappresentazione estetica della realtà, spetta uno specifico posto nell’ampio campo della conoscenza umana. Al suo fianco, altri domini sviluppano le proprie caratteristiche e alcuni di questi trovano spazio all’interno della rivista. A fianco delle ricognizioni sul romanzo (la poesia occupa un posto minore, seppur non minimo, nella rivista), si trovano allora una diffusa indagine sulla pittura contemporanea, sviluppata attraverso un dialogo con Renato Guttuso (n. 4-5), la pubblicazione di alcuni inediti di Renato Birolli (scomparso l’anno prima - n.1) e un ampio Dibattito sulla pittura italiana (n. 2). In una Milano in cui artisti, scrittori e giornalisti si frequentano quotidianamente nelle trattorie di Brera un simile accostamento non stupisce certo (soprattutto se si pensa che in redazione c’era un pittore come Giuseppe Ajmone). A stupire di più è l’ampio “speciale – come si direbbe oggi – che nel n. 3 di «Quaderni milanesi» viene riservato alla fisica quantistica. Una Introduzione a un dibattito sulla meccanica quantistica di Luigi Confalonieri apre il campo a un dibattito in cui prendono la parola i francesi Francis Halbwachs e Jean-Pierre Vigier e il russo J.P. Terletski, studioso di livello internazionale della teoria della relatività. L’intenzione è quella di mettere a confronto la rivoluzione che ha comportato nel campo della scienze applicate l’introduzione della fisica cosiddetta “non-euclidea”, con le teorie che ne sono conseguite, non ultima quella della relatività – trasformazione delle concezioni di spazio e tempo, scoperta di una dimensione dell’infinitamente piccolo che segue regole apparentemente diverse rispetto a quelle dei fenomeni percepibili dall’apparato sensibile umana –, con l’analoga rivoluzione che dall’estensione e stratificazione delle categorie spazio-temporali realizzate della filosofia fenomenologica, con la sua riconfigurazione dei rapporti tra soggetto e “fuori” (sia esso la società o il mondo sensibile), dovrebbe comportare nel campo delle rappresentazioni estetiche della realtà. L’affinamento degli strumenti scientifici necessari a conoscere un mondo non percepibile dall’apparato sensibile umano diventa il corrispondente di un necessario aggiornamento delle tecniche e delle forme proprie dell’espressione letteraria, allo scopo di dar forma a un romanzo capace di farsi testimone di «un universo che non è più né tolemaico né newtoniano»
QM 3. Esperimento simile, ricorda Golino, a quello fatto da Giacomo Debenedetti con il personaggio-uomo e il personaggio-particella.. Su questi presupposti il gruppo di «Quaderni milanesi», radunato attorno al direttore OdB, costruisce la propria linea teorica e poetica.
Si articola così una vera e propria proposta teorico-critica, centrata sul romanzo e sulla sua capacità di adeguare le proprie componenti strutturali in funzione della trasformazione del mondo che intende rappresentare. Nei quattro numeri di «Quaderni milanesi» si contano almeno altrettanti interventi di portata teorica, che tracciano l’orizzonte condiviso dai diversi collaboratori della rivista; il testo più significativo, però, è firmato proprio dal direttore OdB, che si cimenta nel dubbio incarico di stilare una definizione della cosiddetta Narrativa integrale e di fornirne anche un breve ma indicativo canone.
Il riferimento all’integralità è un preciso sintomo della temperie culturale dell’epoca: insieme a termini come formatività, organicità, relazionismo, appartiene a un vocabolario filosofico – di matrice esistenzialista-fenomenologica compresa tra Luigi Pareyson
L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Edizioni di filosofia, Torino 1954., Jean-Paul Sartre
J.P. Sartre, L’essere e il nulla (1943), Mondadori, Milano 1958. e Maurice Merleau-Ponty
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), Bompiani, Milano 2003. - che costituisce una sorta di doxa anche nel gergo letterario di quegli anni. Per quanto riguarda, però, l’uso specifico che ne fa OdB, un immediato precedente è ravvisabile nelle parole di uno stretto collaboratore di «Quaderni Milanesi», Emilio Tadini che, nel maggio 1960 (un anno prima dell’articolo di OdB), in occasione di una grande esposizione di pittura italiana intitolata Possibilità di relazione, parla di «realismo integrale»
E. Tadini in Possibilità di relazione: Adami, Aricò, Bendini, Ceretti, Dova, Peverelli, Pozzati, Romagnoni, Ruggeri, Scanavino, Strazza, Vacchi, Vaglieri, tenutasi presso la Galleria L’Attico di Roma (dal 25 maggio 1960), a cura di E. Crispolti, R. Sanesi, E. Tadini, Galleria L’Attico stampa, Roma 1960. per definire il rinnovamento apportato dall’opera di quegli artisti inclusi sotto l’etichetta della “Nuova figurazione” (dei quali presto farà parte anche lui). Lo stesso Tadini, nel n. 1 della rivista, aveva ripreso la formula per introdurre Elefante e Colosseo, un racconto inedito di Malcolm Lowry, autore di cui «Quaderni milanesi», grazie anche all’intuito e alla grande conoscenza della letteratura straniera da parte di OdB, si fa scopritore (un anno prima che Feltrinelli ne pubblichi il capolavoro Sotto il vulcano
All’altezza del 1960, quando sul n. 1 di «Quaderni milanesi» esce Elefante e Colosseo, Under the Volcano non era ancora stato tradotto in italiano (uscirà l’anno dopo da Feltrinelli), ma aveva già riscosso notevole successo di critica negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia. Questo dimostra la notevole attività di ricerca operata dall’équipe dei «Quaderni milanesi».). La scrittura di Lowry riesce a dar fondamento a un tempo dalle coordinate nuove, che fa spazio alla complessità di relazioni che compongono il reale e convergono «in funzione di un nuovo modo di costruire il personaggio»
E. Tadini, introduzione a M. Lowry, Elefante e Colosseo, in «Quaderni milanesi», n. 1, autunno 1960, p. 34. (superando anche il meccanicismo del nouveau roman).
Non è un caso, allora, se OdB colloca proprio Malcolm Lowry al centro del proprio percorso storico e critico, come figura di collegamento tra l’Ulysses di Joyce
Il fatto di che Joyce sia stato tradotto con 38 anni di ritardo (trad. it. di G. De Angelis, Mondadori, Milano 1960), fa sì di «poter conoscere insieme il testo del maestro e del discepolo»., che rappresenta la «frontiera tra romanzo tradizionale e romanzo nuovo»
O. del Buono, La narrativa integrale, in «Quaderni milanesi», n. 2, primavera 1961, p. 85. Il riferimento alluso, i questa scelta, è alle riflessioni e alla procedure compositive della nuova avanguardia, che al Joyce dell’Ulysses aveva preferito quello di Finnegans’ Wake, che nella prospettiva dello sviluppo formale del romanzo rappresentava ., e le nuove leve di narratori che, in Italia, si ispirano a quella lezione, e in particolare si riferisce a Raffaele La Capria, scrittore che ha tradotto la lezione di Joyce e Robbe Grillet in una scrittura che, pur viziata da un irredimibile senso di nostalgia, pone la forma romanzo di fronte alla sfida di un io disorientato dal presente e aperto alla dilatazione dello spazio e del tempo
Cfr. S. Perrella (a cura di), Raffaele La Capria. Opere, Rizzoli, Milano 2003, p. xxviii.. Si tratta di rapporto di filiazione costruito a partire dal comune lavoro sulle forme, uniche deputate a realizzare un’appropriazione organica della realtà, laddove è necessario modificare la sintassi del testo in corrispondenza con le trasformazioni della sintassi della realtà. Nelle osservazioni di OdB sulla scrittura di La Capria – di cui mostra di aver già letto pagine di Ferito a morte, che sarà pubblicato in quello stesso 1961 – s’intravvede la medesima grammatica testuale necessaria a leggere e interpretare i romanzi dello stesso OdB, come Per pura ingratitudine (1961) o Né vivere né morire (1963), dove l’architettura romanzesca si articola in una serie di piani narrativi sviluppati tanto lungo l’asse orizzontale di una temporalità multipla, quanto su quello verticale di una vertiginosa mise abyme del personaggio autoriale (che fa di OdB un consapevole “pioniere” dell’autofiction
La sua sperimentazione in direzione dell’“integralità” lo porterà a saggiare, primo nella tradizione italiana (se si esclude il Dante della Vita nova) i modi dell’autofiction, che influenzeranno, in quello stesso periodo un autore apparentemente lontano dalla scrittura di del Buono, come Bianciardi; da Racconto d’inverno e Né vivere né morire, passando per La parte difficile, Per pura ingratitudine, Facile da usare, lungo vent’anni di attività ODB compone tassello dopo tassello la propria «un’autobiografia ulteriore dello scrivente», vera macchina originale della letteratura italiana (ma forse non solo) contemporanea, realizzata attraverso una sperimentazione costante sulle forme, sulle strutture e sullo stile; in un continui lavoro di ripetizione e variazione, di scritture e riscritture, di ricombinazione dei moduli (eventi, personaggi, situazioni, caratteri) in composti sempre diversi eppure sempre uguali, il tutto distanziato in un vertiginoso gioco di scatole cinesi, di testi che contengono altri testi, al punto che vita e scrittura, verità e finzione risultano indistinguibili; G. Davico Bonino, L’opera come arcipelago, viii. – Brolli parla di un intervento d’autore «per smentire, e quindi ribadire, la finzione»; D. Brolli, Versioni soggette a smentita, p. 1561.
«Da sempre scrivo i capitoli di un solo romanzo. Perché ho sbagliato il primo che ho scritto e, quindi, ne riscrivo un altro»; G. Cherchi, Intervista, in «Panorama», 12 febbraio 1989. oggi tanto di moda).
Come puntualizzeranno anche gli interventi di Tommaso Giglio (La questione del romanzo, n. 3) e Paolo Caruso (L’equivoco del «realismo», n. 3) il “romanzo integrale” deve saper rifuggire i dogmatismi tecnici e formali propri della narrativa cosiddetta realista, perché a essi corrispondono dei pregiudizi nell’interpretazione della realtà; questi pregiudizi sono l’oggetto della riduzione fenomenologica, quel lavoro di epochè che deve liberare lo sguardo dalle consuete griglie d’interpretazione, chiamando a collaborare il lettore nella costruzione di un senso complesso, stratificato, mai univoco. Dall’altra parte, contro la celebrazione neoavanguardista del linguaggio come dimensione entro cui esaurire l’esperienza soggettiva e artistica, alla maniera di Finnegans’ Wake, OdB afferma la necessità di «riancorare la scrittura ad un dato antropologico, che il puro gioco dei significanti rischiava di cancellare»
A. Chiurato, L’arcipelago postmoderno. Oreste del Buono e gli anni Settanta, in «Enthymema», vii, 2012, p. 447.. Lavoro che va di pari passo a una profonda consapevolezza dei mezzi specifici del discorso letterario, dell’ambiguità e della differenza delle sue creazioni rispetto alla realtà rappresentata, secondo una fedeltà “formale” che varrà a lui, come ai suoi compagni di strada, l’accusa di «moderatismo»
«Autori decisi a lasciarsi alle spalle le angustie del neorealismo e simili, ma in apparenza assai cauti nell’abbracciare soluzioni tecniche più ardite»; cfr. R. Barilli, La neoavanguardia italiana, cit., p. 126. o di «retroguardia»
Cfr. A. Chiurato, La retroguardia dell’avanguardia, cit..
Nella prospettiva di OdB, Raffaele La Capria rappresenta la “punta di diamante” di un drappello di giovani scrittori che, rispetto a un panorama nazionale da più parti giudicato «desolante» (n. 1, 106), asfittico, viziato da una tendenza all’eccesso di giudizio, dimostrano una significativa coerenza nel loro tentativo di mettere in dubbio, attraverso la scrittura, gli abituali rapporti – ermeneutici, etici, estetici – dell’uomo con il mondo, cercando per questa strada di aprire nuove prospettive di sviluppo per il futuro. «Quaderni milanesi», pur nella brevità della sua attività militante, si distingue da omologhe riviste che si proponevano come espressione di un preciso gruppo, come «il verri» o «Quindici», riuscendo ad associare una proposta critico-teorica originale e mai passiva ai riferimenti stranieri (per quanto non esente da alcune scelte ambigue, come l’elogio del Giardino dei Finzi-Contini come romanzo «radicalmente nuovo» avanzato da OdB nel n. 3
Golino spiega tutto ciò con «il carattere volubile ed eccentrico» di OdB., imputabili forse a una certa inesperienza sul fronte della “redazione delle poetiche” da parte del gruppo di OdB) a una proposta propriamente creativa, capace di fornire una sorta di riferimento testuale originale al discorso critico. Così, oltre a La Capria, pubblicano testi inediti sulle pagine di «Quaderni milanesi» anche Giuliano Gramigna, Emilio Tadini, Luciano Bianciardi, Domenico Porzio ed Enzo Golino (il più giovane del drappello): sono loro, rappresentanti della “generazione degli anni difficili”
Basta guardare agli anni di nascita dei redattori e dei collaboratori principali per comprendere quale rilievo potesse avere il fattore generazionale nella battaglia culturale di «Quaderni milanesi»: Giuliano Gramigna, 1920; Domenico Porzio, 1921; Raffaele La Capria, 1922; Luciano Bianciardi, 1922; Oreste del Buono, 1923; Giuseppe Ajmone, 1923; Emilio Tadini, 1927., a farsi interpreti una narrativa integrale
È curioso osservare come Renato Barilli, nel suo studio sul Gruppo 63, adotti a più riprese il criterio generazionale per individuare la maggiore o minore capacità degli scrittori e intellettuali di rispondere adeguatamente alle istanze proprie del movimento di nuova avanguardia, e individui specificatamente nei nati negli anni Venti quelli che con più difficoltà si confrontarono con il movimento: «In mezzo, stanno i nati in ordine sparso lungo gli anni ‘20, e non sarà un caso che questi patiscano maggiori difficoltà, esitazioni, remore nel saltare il fosso, irretiti nel dilemma se lasciarsi o riassorbire dal primo Novecento o se combatterlo drasticamente, fino a negarlo in toto; incapaci, invece, di riprenderlo dall’interno e di prolungarlo con estensione organica»; cfr. R. Barilli, La neoavanguardia italiana, cit., p. 27. impegnata nell’ambiziosa sfida di fornire alle lettere italiane una linea sperimentale capace di operare un costruttivo rinnovamento che sappia conservare il proprio attaccamento alla tradizione, senza chiudersi nel nichilismo deflagrante di un’avanguardia fine a se stessa
È interessante che quattro di questi siano stati inclusi nella prima antologia del Gruppo 63, la più inclusiva, per esserne poi esclusi nelle successive edizioni, a indicare due caratteri non facili da coniugare (Barilli su Tadini: «vi era stato ammesso più che altro per “far numero”, dato che il carattere schivo e appartato, sia dell’autore che del suo prodotto, non si confacevano troppo al clima barricadero di quei giorni», R. Barilli, Seconda avanguardia. Dal nostro inviato nel Gruppo 63, in «Corriere della sera», 10 dicembre 1989): la vicenda è ben approfondita da Andrea Chiurato (La retroguardia dell’avanguardia)..
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