ISSN: 0024-3868
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Vol. LXXXIII, Fasc. 3-4
Settembre-Dicembre 2022
Casa editrice Le Lettere - Firenze
SOMMARIO
M. FANFANI, Andrea Dardi non è più con noi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
P. FIORELLI e G. FOLENA, La pronunzia dell’italiano alla radio (1956) . . . . . . . . . . . . .
L. PIZZOLI, Ricordo di Luca Serianni (30 settembre 1947-21 luglio 2022) . . . . . . . . . . .
A. NOCENTINI, A proposito di sciatto e sciattare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
M. GIOLA, Ancora sul lessico dantesco e le «Derivationes» di Uguccione da Pisa . . . . . .
Un “carello” ingannevole («Decameron» IV 1 17) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
M. BARBATO-A. PARENTI, Un cocchin pagliardo nel «Balzino» . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
D. PUCCINI, Al parer mio («Morgante» I 1 3) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Per la retrodatazione di cacciaballe. Portoghese ‘imbucato’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
F. AVOLIO, Totò napoletano, con o senza dialetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
S. MIANI, Per uno studio della terminologia della psicanalisi in Italia: atti mancati e lapsus
Ricordo di Ivan Klajn. Erasmo Leso. Fiorenzo Toso. L’esempio del Circolo Linguistico .
SIGLE E ABBREVIAZIONI ADOTTATE NELLA RIVISTA
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Libri ed articoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123
LINGUA NOSTRA intende promuovere l’interesse per la lingua italiana e lo studio dei
problemi di essa, mirando a conciliare due esigenze ugualmente importanti: la consapevolezza
di una antica tradizione e la rispondenza alle necessità moderne.
La rivista, fondata nel 1939 da Bruno Migliorini e Giacomo Devoto, quindi diretta da
Gianfranco Folena e da Ghino Ghinassi, è ora diretta da Andrea Dardi e Massimo Fanfani.
Si articola in varie parti:
storico-filologica: storia della lingua; grammatica storica; etimologia, lessicologia e semantica storica; retorica e stilistica; metrica; storia della questione della lingua e del pensiero
linguistico; storia della grammatica e della lessicografia; onomastica; testi e documenti;
descrittiva: grammatica e lessicologia dell’italiano d’oggi; neologismi, forestierismi e
dialettalismi contemporanei; lingue speciali e terminologie tecniche; livelli sociali di lingua;
varietà regionali; l’italiano all’estero; testimonianze linguistiche di letterati e di scienziati;
didattica: discussioni sulla norma linguistica e sull’insegnamento della lingua; uso delle
comunicazioni di massa; esperienze di insegnanti; insegnamento della lingua agli adulti; insegnamento dell’italiano all’estero; problemi di linguistica contrastiva e di traduzione.
Direzione: Andrea Dardi e Massimo Fanfani dell’Università di Firenze.
Redazione: Alessandro Parenti (Trento), Antonio Vinciguerra (Firenze).
Comitato scientifico: Paolo Bongrani (Parma), Martin Glessgen (Zurigo), Hermann
Haller (New York), Fabio Marri (Bologna), Franz Rainer (Vienna), Wolfgang Schweickard
(Saarbrücken).
LINGUA NOSTRA si pubblica in fascicoli trimestrali.
I contributi vanno inviati a:
M. Fanfani, Via Amendola 19, 50053 Empoli - Firenze (
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Direttore responsabile: Giovanni Gentile, c/o Editoriale Le Lettere, Via Meucci 17/19,
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AIS = Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, von Karl Jaberg und Jakob Jud, Zofingen, Ringier, 1928-1940
ALI = Atlante linguistico italiano, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, 1995 segg.
Crusca1, 2, 3, 4, 5 = Vocabolario degli Accademici della
Crusca, Venezia, Alberti, 16121, Venezia, Sarzina, 16232,
Firenze, Stamperia dell’Accad. della Crusca, 16913, Firenze, Manni, 1729-17384, Firenze, Tip. Galileiana, 186319235 (interrotta alla lettera O)
DBI = Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960 segg.
DCECH = Diccionario crítico etimológico castellano e
hispánico por Joan Corominas con la colaboración de José
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DELI = Dizionario Etimologico della Lingua Italiana
di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, Bologna, Zanichelli,
1979-1988 (2a ed. a cura di Manlio Cortelazzo e Michele
A. Cortelazzo, ivi, 1999 con CD-Rom)
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GDLI = Grande dizionario della lingua italiana, fondato da Salvatore Battaglia, Torino, Utet, 1961-2002 (Supplemento 2004 e 2009, a c. di Edoardo Sanguineti)
GRADIT = Grande dizionario italiano dell’uso, diretto
da Tullio De Mauro, Torino, Utet, 1999 con CD-Rom
(Nuove parole italiane dell’uso, 2003; Nuove parole italiane
dell’uso, II, 2007)
LEI = Max Pfister, Lessico etimologico italiano, Wiesbaden, Reichert, 1979 e segg.
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1960 segg.
TB = Niccolò Tommaseo-Bernardo Bellini, Dizionario
della lingua italiana, Torino, Unione Tipografico-Editrice,
1865-1879
TLFi = Trésor de la langue française informatisé [leggibile in rete all’indirizzo ‹https://www.atilf.fr/ressources/
tlfi/›]
TLIO = Opera del Vocabolario Italiano, Tesoro della
lingua italiana delle origini [fondato da Pietro G. Beltrami; leggibile in rete all’indirizzo <http: //tlio.ovi.cnr.it/
TLIO/>]
VEI = Angelico Prati, Vocabolario etimologico italiano,
Torino, Garzanti, 1951
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LINGUA NOSTRA
dunque il poeta non avrebbe avuto interesse a deludere così apertamente le aspettative della committente proprio all’inizio di un’opera che prevedeva lunga e impegnativa, nella quale si sarebbero
presentate ben altre occasioni per dire impunemente la sua, mettendo in bocca a un personaggio
come Margutte, subito incoronato da successo a furor di popolo, perfino una parodia, questa sì irriverente pur se scherzosa, del Credo e della Trinità(29).
Le intenzioni del Pulci non sono davvero così
evidenti e per cercare di individuarle siamo costretti a ricorrere a un’interpretazione sul filo del rasoio.
Si potrebbe dire che fa il finto tonto. Con un atteggiamento furbesco e ammiccante, tra serio e faceto,
tra dire e non dire, trasforma la zeppa inerte dei canterini in un’espressione ambigua e cangiante, di per
sé ben poco rilevata dal punto di vista linguistico ma
così dissonante nel contesto da spiccare come il primo papavero in un campo di grano. L’irriverenza si
percepisce, ma non è niente di più che un rapido accenno, un guizzo fulmineo. L’inciso imposta subito
la tonalità dell’intera composizione, il proemio anticipa il poema, in modo che il lettore sappia già cosa
deve aspettarsi in materia di religione. In un certo
senso è quasi un bonario tentativo di captatio benevolentiae, una piccola sguaiataggine in cerca di simpatia secondo il costume di Margutte: come il mezzo gigante, seppure con minore risalto, Luigi dichiara la sua natura e proclamando il proprio peccato ne chiede preventivamente l’assoluzione.
E ci sarebbe infine da chiedersi se anche in
questo caso non ci sia una precisa rispondenza tra
l’ottava proemiale e il resto del cantare. Dopo la
repentina conversione di Morgante propiziata da
un sogno premonitore, Orlando pretende di catechizzarlo in quattro e quattr’otto. Il suo discorso
poggia nella sostanza su vari riferimenti danteschi
che si spingono fino all’accezione di mordere (50
2) ‘colpire con una punizione’ (Par. VII 42), ma lo
spirito è irrimediabilmente diverso: nell’«accordarsi volentieri e presto» (50 8) alla volontà di Dio
c’è più una sorridente sfumatura di timore per il
castigo che altrimenti ne seguirebbe, che non l’appagamento di sentirsi in armonia con il Re dell’universo; e della condizione dei dannati, che «son
(29)
Mi riferisco ovviamente ai versi famosi «e credo nella torta e nel tortello: / l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo; / e ’l vero paternostro è il fegatello, / e posson esser
tre, due ed un solo» (XVIII 116 1-4).
nello inferno in gran confusïone» (51 6), è colto solo l’aspetto più esteriore e immediato. Tant’è che
Morgante risponde argutamente con due sbrigative frasi proverbiali: «Al savio suol bastar poche parole» e «Morti co’ morti: or pensian di godere» (53
1 e 6). L’abate da parte sua rincara poi la dose, ricorrendo addirittura all’exemplum certo sproporzionato della conversione di san Paolo sulla via di
Damasco (ottava 58). Questa volta Morgante risponde con i fatti. Recatosi a una fonte per attingere acqua, ammazza due cinghiali e li porta trionfalmente alla badia, offrendo ai monaci l’occasione
di abbuffarsi e di abbandonare per il momento digiuni e devozioni (67 1-2: «E ferno a scoppiacorpo
per un tratto, / e scuffian che parean dell’acqua
usciti», con scoppiacorpo che non soltanto costituisce prima attestazione del vocabolo, ma ha tutti i
requisiti per essere una neoconiazione del Pulci)(30).
Allora «al parer mio» non è altro che la prima
avvisaglia di un controcanto che sarà sempre presente nel corso di un esteso e talvolta tortuoso itinerario narrativo, perfino nei momenti più drammatici(31), ora appena udibile in sottofondo se non
vi si pone particolare attenzione e ora in primo piano fino a diventare voce solista, accompagnato da
aperta ilarità.
DAVIDE PUCCINI
(30)
Il GDLI documenta colpevolmente la parola con
un solo esempio tratto dall’Idioma gentile di De Amicis.
Non esistono attestazioni prima del Morgante, e quelle successive fanno tutte riferimento al poema.
(31)
Penso ad esempio alla «bianca colomba», simbolo
dello Spirito Santo, che nell’episodio di tono sublime della
morte di Orlando gli entra in bocca «con tutte le penne»
(XXVII 158-159).
PER LA RETRODATAZIONE DI CACCIABALLE. – Cacciaballe è voce familiare composta dal verbo cacciare nel significato popolare di ‘buttar fuori’ e dal sostantivo balla nell’accezione regionale di ‘bugia, fandonia’; il senso è dunque ‘persona che racconta frottole o
storie incredibili per farsi notare’ (così il GDLI, s. v.). Si
tratta, com’è noto, di un tipo compositivo verbale antico,
già largamente sfruttato nel Medioevo per creare soprannomi scherzosi o spregiativi: cacciaguerra, caccialoste, cacciabue, caccianemico, cacciadiavoli, ecc. Moderna è però
la formazione in esame, dacché il regionalismo settentrionale balla ‘fandonia’ non pare attestato prima del sec.
XIX – se si eccettua un’episodica occorrenza cinquecen-
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LINGUA NOSTRA
tesca in bellunese (bala! ‘frottola’, cfr. LEI, IV, 690).
Più difficile invece stabilire se e in quale misura con
cacciaballe ‘contafrottole’ abbia interferito il paronimo
cacciapalle (o cacciapalla) con cui nel sec. XVI si indicava lo strumento per estrarre la palla dalle artiglierie
d’avancarica (cfr. A. Guglielmotti, Vocabolario marino e
militare, Roma, C. Voghera, 1889, s. v. cacciapalla). Non
è del tutto improbabile che proprio in relazione al comune contesto bellico-polemico sia potuto scaturire un
rapporto paretimologico tra il tecnicismo militare e l’epiteto spregiativo; epiteto che compare per la prima volta
in letteratura proprio in riferimento a un personaggio della storia moderna: il Cristoforo Colombo della commedia
«più brechtiana» di Dario Fo, Isabella, tre caravelle e un
cacciaballe, rappresentata per la prima volta il 6 settembre
1963 e pubblicata sulla rivista Sipario un mese dopo (cfr.
E. Marinai, Gobbi, dritti e la satira molesta. Copioni di voci, immagini di scena, 1951-1967, Pisa, ETS, 2007, p. 59).
Secondo Beatrice Alfonzetti, alla luce della trama dell’opera, dove al personaggio metateatrale dell’Attore condannato a morte spetta il compito di mettere in scena Colombo, la parola nel titolo della commedia andrebbe intesa con sfumatura estensiva, designando «un particolare tipo di attore, diffuso nelle piazze e nelle corti fra Cinque e primo Settecento» (B. Alfonzetti, Colombo, il ciarlatano secondo Dario Fo, in Studi (e testi) italiani, XXXIV,
2014, pp. 173-90, a p. 176).
A dispetto dell’anno di pubblicazione della commedia di Fo (1963), i principali vocabolari sincronici dell’italiano recano come prima attestazione il 1986 (GRADIT; Zingarelli 2023, entrambi con marca d’uso «fam[iliare]»), mentre i dizionari dialettali indicati nel LEI (IV,
700; XI, 916) consentono, viceversa, di retrocedere verso
la metà dell’Ottocento – a partire dal Vocabolario parmigiano-italiano di C. Malaspina (1856-1859, I, s. v. cazzabàll) –, confermando il carattere popolare della forma.
Al secolo ancora precedente risale invece la sua prima ripresa in senso scherzoso-antifrastico nel titolo di
un almanacco parmense, Caporal Quattordes Cazzabal
‘Caporale Quattordici Cacciaballe’ (il primo numero noto è del 1767, ma la sua fondazione potrebbe risalire alla metà del secolo: cfr. A. Sorbelli, Storia della stampa in
Bologna, Bologna, Zanichelli, 1929, p. 186), che sarà seguito dal bolognese Filosofo Cacciaballe (Il Filosofo Cacciaballe. Lunario calcolato da un cittadino di Scaricalasino,
Bologna, Cartoleria di S. Andrea degli Ansaldi, 1799) e
dal Dottore Placido Cacciaballe (Il Dottore Placido Cacciaballe. Lunario infallibile calcolato in una notte per l’anno 1812, Bologna, s. e., 1812). La scelta ricorrente della
voce d’uso popolare in tale settore specifico della letteratura di consumo si spiega forse – lo aveva ben visto
Leopardi – con la natura stessa degli almanacchi che, pur
affermando di indicare il vero sul tempo e sulla sorte dell’anno che verrà, riportano di fatto soltanto ipotesi più o
meno fantastiche. Che il lunario parmense avesse poi una
certa fama pare testimoniato dall’almanacco Serva sua
(Serva sua. Almanacco per l’anno 1772, Milano, Galeazzi, 1771, p. 45), dove si accenna all’«onorata memoria
del grande astrologo Cazzaballe» (ma potrebbe trattarsi
in tal caso anche di un nome scherzoso di pura fantasia).
Il Caporal Quattordes Cazzabal rivaleggiava in par-
ticolare con la Fodriga da Panocia, altra fonte preziosa
quanto insidiosa per la ricostruzione del dialetto cittadino, come si legge nel citato Vocabolario di Malaspina (I,
s. v. cazzabal): «Cazzabàll s. m. Cacciaballe, cioè Sballone.
Titolo d’un lunario che si stampa a Parma in lingua contadinesca, con una specie di comediuola. Il non avere i
compilatori di questo libro, siccome quelli del consimile lunario la Fodriga addottata quasi mai un ortografia
[sic], né una sintassi uniforme del dialetto, ci è stato tolto di valerci più che non abbiam fatto delle voci e delle
frasi in essi registrate». Analoga la definizione del Vocabolario parmigiano-italiano di C. Pariset (1885), che aggiunge un giudizio negativo sullo stesso lunario: «Ora è
una pubblicazione inutile, quanto melensa».
La circolazione della voce nella produzione «lunaristica e pronosticante» (E. Casali, Il Museo fisico matematico e gli almanacchi di Carlo Cesare Scaletta da Faenza (1666-1748) tra astrologia, enciclopedismo e nuova
scienza, in Belle le contrade della memoria. Studi su documenti e libri in onore di Maria Gioia Tavoni, a cura di
P. Tinti e F. Rossi, Bologna, Pàtron, 2009, pp. 81-98, a p.
86) lascia anche tracce indirette: tramite Google books è
possibile infatti reperire un passo dell’opera del sacerdote e cronista parmense Francesco Cherbi (1839) che
sembra offrire una delle più antiche attestazioni della
forma italianizzata cacciaballe. L’autore riporta una lettera di tono sarcastico scritta probabilmente nel 1775 da
Ireneo Affò, che diverrà direttore della Biblioteca oggi
Palatina dieci anni dopo, e indirizzata ad Angelo Schenoni, che ne era allora segretario: «Tutto il mondo vi ringrazia, amico mio, che ne abbiate fornito anche per quest’anno d’un lunario da valent’uomo. Era veramente
tempo che le freddure del Cacciaballe, e le scioccherie di
altri simili almanacchi dessero luogo a qualche gustoso
ed erudito giornale d’onde anche la volgar gente imparar potesse qualche cosa di buono» (F. Cherbi, Le grandi epoche sacre, diplomatiche, cronologiche, critiche della
Chiesa di Parma, Parma, Tipografia Ferrari, 1839, III,
pp. 444-45; enfasi aggiunta). Dalla lettura contestuale
emerge che Cacciaballe (con la maiuscola) costituisce
l’equivalente italiano del dialettale Cazzabal, a designare
l’almanacco eponimo ricco di gustose «scioccherie».
Il carattere stigmatizzante della voce risulta ancora
ben evidente nella pubblicistica dei nostri giorni, come
dimostra l’interrogazione degli archivi storici delle maggiori testate italiane. Qualche centinaio le occorrenze restituite: la quota più consistente si registra nell’archivio
de La Stampa (230 occ.), dove la parola compare per la
prima volta in concomitanza col debutto della già menzionata commedia di Fo (1963). Nel Corriere della Sera
(103 occ.), prima di ricomparire nel 1963, il composto
conta una isolata attestazione nel 1936 all’interno della
rassegna cinematografica «Corriere di Cinelandia» a cura di Filippo Sacchi: si tratta della locuzione «Circolo dei
Cacciaballe» riferita a una fantomatica associazione con
sede nella città di Burlington, nell’ambito di uno dei divertenti aneddoti che la rassegna era solita ospitare (l’articolo che la accoglie è inequivocabilmente chiamato Il
campionato mondiale di panzane). Infine, le occorrenze
offerte da La Repubblica (84 occ.) mostrano bene la progressiva concentrazione d’uso della parola in àmbito po-
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LINGUA NOSTRA
litico, dagli anni ottanta in poi: «Fare il cacciaballe poteva rendere in politica» si legge ad esempio in un articolo del 31 gennaio 1986.
Ed è proprio in simili contesti che cacciaballe continua a venir impiegato: si segnala qui la recentissima occorrenza in un articolo a firma di Gian Antonio Stella intitolato efficacemente Il partito della bistecca e l’abolizione delle tasse (Corriere della Sera, 10 agosto 2022, p. 27):
«Prima ancora delle promesse strabilianti di certi partiti
oggi in corsa per conquistare i voti degli italiani il prossimo 25 settembre [...], il più fenomenale cacciaballe di tutti i tempi deciso a conquistare il Parlamento per farne il
collodiano Paese degli Acchiappacitrulli [...] fu certamente il fiorentino Corrado Tedeschi, giornalista, editore, fondatore nel 1953 del Partito Nettista Italiano, meglio conosciuto come “Il partito della bistecca”».
FRANCESCA CUPELLONI
PORTOGHESE ‘IMBUCATO’. – Fra le “notizie”
del portale dell’Ambasciata di Portogallo in Italia ce n’è
una di Francisco de Alemeida Dias su Fare il Portoghese, volta a sfatare «la brutta fama che i Portoghesi hanno guadagnato a Roma, quella di entrare in posti senza
pagare». Per la verità, non potendo certo attribuire
l’espressione al carattere e ai costumi dei Portoghesi, si
era già provato a darne spiegazione: «Fu un Papa che
concesse a tutti i portoghesi ingresso gratis nei teatri di
Roma, in compenso di bellissimi doni inviati dal re del
Portogallo. Poi diventarono portoghesi anche i romani e
gli altri» (Panzini, Diz. moderno, 1935); in seguito si è ricorsi ad altri aneddoti, come quello dell’inaugurazione
del teatro Argentina, il 13 gennaio 1732, con uno spettacolo che l’ambasciatore del Portogallo avrebbe riservato in modo gratuito ai portoghesi, ma di cui approfittò anche chi si dichiarava tale. Aneddoti tutti assai deboli, non tanto perché riferiti a un’epoca remota rispetto alla prima attestazione di portoghese ‘imbucato’ (Panzini, 1918), ma perché non documentati da fonti coeve.
La cosa sta dunque in modo diverso e la parola portoghese c’entra solo per finta, ovvero per il suono che assomiglia a quello della vera parola che darebbe senso all’espressione. Si tratta insomma di un caso analogo a
quello dei toponimi il cui significante è riusato in senso allusivo: andare a Piacenza ‘piacere’, mandare a Legnaia ‘dar
legnate’, ecc. Lo suggerisce Ottavio Lurati in un suo recente volume (La pulce nell’orecchio. Curiosiamo insieme
tra i modi di dire, Pregassona-Lugano, Fontanaedizioni,
2021, pp. 114-16): «A Roma serpeggia tuttora (2014,
2020) il motto entrare a teatro a pporta rotta, per dire “entrarvi a spettacolo iniziato”. E appunto sul termine porta
che venne costruito, per affinità di suono, lo scherzoso
fare il portoghese». L’espressione entrare al teatro a pporta rotta è nel Vocabolario romanesco di Chiappini: «Entrarvi dopo cominciata la rappresentazione. In questo caso colui che andava al teatro non prendeva il biglietto al
botteghino, ma contrattava alla porta con la maschera per
un tanto di meno sul prezzo d’ingresso».
Va ricordato che nel linguaggio dei teatri porta indi-
cava la ‘quota da pagare per l’ingresso’ (ess. di Goldoni
e Dossi: GDLI) e anche si diceva far porta ‘accalcarsi all’entrata’ («Secondo il gergo teatrale, quella sera avevano
fatto porta da tre ore, e da tre ore il loggione era pieno»:
Oriani: GDLI). E vi circolavano varie altre espressioni
con porta ‘ingresso’ e ‘quota d’ingresso’, come queste udinesi: porta libera di pagamento (1797), viglietto della porta (1803), porta gratis (1806) (Antonio Ballini, Udine a cavaliere dei secoli XVIII e XIX, II. Teatri, in Pagine friulane, 12 luglio 1891, pp. 66-69). Nei teatri meridionali c’era
poi la consuetudine della porta rotta: «La porta rotta non
è in uso» (1843, J. Quintana, Guida dell’isola di Malta,
Malta, p. 149); «[il Teatro Fenice] ha diminuito il numero delle file rimanendo molto spazio all’esterno della platea per i biglietti di porta rotta, se Dio vuole che giungerà a venderne» (29 maggio 1848, Teatri di ieri sera, ne Il
Lume a gas [Napoli], p. 627). Naturalmente il passo fra
entrare a prezzo ridotto ed entrar di straforo era breve:
«Se vuoi, eccoti due carlini. Se non vuoi, attenderò un
poco ed entrerò a porta rotta» (1847, Cesare De Sterlich,
I misteri di Napoli, Napoli, p. 109); «Il povero S. Pietro
si stava facendo infinocchiare da queste perle oratorie e
quasi stava per farlo entrare a porta-rotta» (24 maggio
1864, Sem., Baruffe Chiozzotte, ne L’Arca di Noè [Napoli], p. 560). Così è probabile che proprio nei teatri, dove
non mancavano i rumorosi acquacedratai che passavano
di fila in fila a vendere portogalli ‘preparati con arance
del Portogallo’ (cfr. Gaetano Savonarola, Galateo dei teatri, Milano, 1836, p. 33), gli imbucati a porta chiusa o a
porta rotta fossero chiamati ironicamente portoghesi. Ed
è facile che un tale ben congegnato gergalismo passasse
dai teatri napoletani a quelli romani e da qui avesse poi
quella risonanza che purtroppo ha avuto, fino a scomodare l’Ambasciata di Roma.
MASSIMO FANFANI
TOTÒ, NAPOLETANO
CON E SENZA DIALETTO
È stato già osservato più volte come nella lunga attività artistica di Totò il dialetto napoletano
abbia svolto un ruolo abbastanza limitato, e tale
dato di fondo è stato interpretato e motivato in vari modi (ad esempio, fra gli altri, da Fabio Rossi,
Nicola De Blasi e Daniela Pietrini)(1).
(1)
Fabio Rossi ha più volte sottolineato la grande capacità “metalinguistica” del Nostro, e la natura “riflessa” di
— 102 —