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Startup o SME?

Due settimane fa avevo pubblicato una breve nota (ripresa poi da Riccardo Saporiti su Wired) con cui segnalavo la grande attenzione dedicata alle startup a tutti livelli (media, governo, servizi di supporto, …) a fronte della sostanziale indifferenza con cui vengono trattate le piccole e medie imprese (le SME o PMI come le chiamiamo dalle nostre parti). Nonostante molte di queste ultime producano fatturato, utili e innovazione, sanno di antico. Non sono “cool” e rimangono ai margini, nell’ombra.

Due giorni fa ho ricevuto una mail, che guarda alla supposta dicotomia “startup-SME” con gli occhi di chi lavora nella parte meno cool del mondo delle imprese.

La pubblico in seguito, perché in essa si coglie il potenziale inespresso che abbiamo in Italia e in Europa. Un potenziale trascurato anche per rincorrere la moda del momento.

Buongiorno Prof. Onetti,

le scrivo per ringraziarla dell’articolo su Wired.

Il giornalista definisce il suo intervento una “provocazione”, in realtà contiene una chiave di volta fondamentale, che se applicata porterebbe benefici inestimabili al sistema economico italiano.

Questo è notoriamente fondato su piccole e medie imprese, e però negli ultimi anni si è guardato al modello delle startup come ad una nuova era, una panacea per la crisi del nostro “vecchio” sistema di impresa.

Ci si è messi a replicare un modello spesso pre-confezionato e tarato su altre culture d’impresa e a cercare lo Zuckerberg di casa nostra invece di investire per innovare un modello e competenze unici al mondo.

Non si tratta di mettere i due ambiti in contrapposizione, di aumentare il solco che li separa, ma di applicare quello che funziona dell’uno sul tessuto consolidato – ma sempre più logoro – dell’altro. Non si tratta neanche di assimilarli, ma di renderli strutturalmente comunicanti.

Le scrivo perché io, con la mia micro impresa, faccio innovazione. Produco oggetti di design, facendo innovazione nei processi, coniugando nuove tecnologie e lavorazioni artigianali. Lo faccio in una scala ridottissima perché per la mia tipologia di azienda non c’è – ancora – il sistema di incentivo e di supporto che probabilmente troverei se avessi inventato una app.

L’anno scorso ho venduto negli USA oltre 3.000 pezzi di un solo articolo, attraverso siti e-commerce. Per arrivare a venderne 30.000 e quindi “scalare”, avrei bisogno di un magazzino negli USA attraverso il quale rifornire direttamente canali di vendita online e offline.

Ho già il mercato, so che il mio prodotto piace, per scoprirlo non ho dovuto investire di tasca mia perché lo ha fatto per me un distributore, al quale ho però lasciato il 60% del margine. So che potrei lavorare con un margine del 100%. Ma nessuna banca o investitore oggi, è disposto a scommettere su una azienda non hi-tech e quindi “vecchia”. Che è nata nel 2013 e che negli ultimi anni è cresciuta del 150%.

Oggi  mi confronto con le difficoltà di voler crescere rispetto ad un potenziale che non riesco a mettere a frutto.

Ma sa come è nata la piccola attività?

Un mio amico nel 2013 lavorava in una galleria d’arte a Torino. La crisi non rendeva più l’attività sostenibile e i proprietari hanno deciso di chiuderla. Questi però – delle gran belle teste – hanno proposto al mio amico di tenere lo spazio, gratuitamente, per un anno, per avviare all’interno qualcosa di suo. Il mio amico storico dell’arte non sapeva bene cosa farsene e allora ha chiesto a me e al mio compagno – che avevamo studiato design, ma che per necessità nella vita avevamo preso a fare altro – di tirare fuori un’idea.

All’inizio abbiamo pensato ad un negozio di articoli di design. Fatti i conti non avevamo abbastanza soldi per acquistare i primi prodotti.

Allora abbiamo detto: mettiamoci di nuovo a progettare, facciamo produrre le nostre idee, realizziamole spendendo un terzo. Sono nati i primi prodotti, abbiamo aperto con 3.000 euro di tasca nostra e fabbricato noi gli arredi. Oggi paghiamo un regolare affitto dello spazio – che probabilmente adesso avrebbe la saracinesca abbassata – abbiamo un lavoro e ne diamo altro alle aziende nostre fornitrici.

Produciamo in Italia e vendiamo nel mondo.

Questa non è una storia da copertina. Poco importa. Per una volta, torniamo a guardare in casa nostra.

Quanti locali commerciali non utilizzati ci sono in Italia? Quanti macchinari, materiali, spazi di produzione fermi o in fallimento?

Quante lauree non messe a frutto?

Quante persone messe tra loro in comunicazione potrebbero creare o rigenerare attività in questo modo?

Di Zuckerberg ce n’è uno solo, ma di Lucia ce ne sono migliaia.

La ringrazio per aver dato voce e chiarezza a quello che vivo quotidianamente.

La ringrazio per il suo tempo.

Un cordiale saluto.

Lucia Di Sarli”

Mark o Lucia? Startup o SME? Entrambi purché crescano e producano fatturato, occupazione e innovazione. Che, alla fine, sono l’unica cosa che conta.

Sono tanti i tentativi di replicare la Silcon Valley. Uno particolarmente interessante è in atto a Londra, ove, con l’occasione delle Olimpiadi, si vuole cercare di fare decollare quel proto-cluster  (ribattezzato Silicon Roundabout, immagine sotto ripresa da Wired che gli ha dedicato un servizio lo scorso mese) che si è sviluppato spontaneamente intorno a Old Street nell’East London e che oggi raccoglie circa 150 aziende, ivi incluse filiali e uffici di imprese estere. Il piano è quello di creare, poco più a nord a Stratford, una “Tech City” all’interno dell’Olimpic Park media centre, investendo circa 200 milioni di sterline per offrire spazi per startups a basso costo, alta connettività e condizioni flessibili. Hanno manifestato interesse a localizzarsi una dozzina di grandi imprese (tra cui Intel, Google, Cisco e BT) e alcune università.

Al di là della bontà e del potenziale di successo del piano, sono interessanti i commenti che lo hanno accompagnato e che evidenziano le criticità da affrontare quando si cerca di progettare sulla carta e fare partire un incubatore, accelleratore o parco tecnologico a dir si voglia. Di seguito una sintesi del dibattito in corso che credo possa fornire spunti interessanti anche a chi sta lavorando per fare partire qualcosa di simile nel nostro paese.

1) I tech hubs raramente vengono nascono su iniziativa di governi ed istituzioni e non si sviluppano semplicemente offrendo spazi a basso costo. L’unica azione efficace da parte dei governi per favorire lo sviluppo delle startups è la rimozione degli impedimenti burocratici e normativi alla creazione e alla crescita delle imprese così la riformare della legge sul fallimento (rendendo “failing more palatable”): gli imprenditori penseranno al resto, tra cui trovare spazi a basso costo.
2) Paradossalmente investire in una zona specifica attraendo grandi aziende come Google, Facebook e Intel può avere l’effetto opposto: fa alzare i valori immobiliari e scappare le startups che di solito si concentrano in zone ove i costi sono più bassi (“in places nobody wants to be, as they’re very low cost”).
3) E’ importante attrarre le grandi imprese, ma è critico che queste imprese localizzino centri di ricerca e non semplicemente uffici commerciali. Se no, il rischio è che si limitino a fare shopping delle idee migliori (e le grandi imprese sono “voracious buyers of clever startups”). Quello che serve invece è avere grandi centri di sviluppo da cui alcuni tecnici possano col tempo fuoriuscire per avvviare le proprie aziende. Un buon esempio è quello di Lastminute.com da cui sono originati circa 20 spin-offs.
4) Ma la Silicon Valley è davvero replicabile? Secondo molti “the fixation with Silicon Valley is incredibly damaging not just with the British startup scene, but in general for Europe”. Le basi del successo della Bay Area (così come di Israele) sono, a detta di alcuni, i massivi investimenti della industria militare nell’area che hanno nel tempo creato un solido sistema universitario e una particolare base di conoscenze.

Le difficoltà certamente esistono, i modelli diffcilmente si trasferiscono “tel quel”. Resta l’imprescindibile necessità in Europa di aumentare il numero delle startups e di creare innovazione. Ogni tentativo va supportato ed incoraggiato, cercando di evitare di replicare errori già fatti altrove. Al riguardo, il laboratorio londinese può essere un caso interessante da monitorare.