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Negli ultimi mesi Uber è salito alla ribalta anche in Europa. Uber ha difatti attivato nelle principali città europee il proprio servizio (che consente di chiamare un’auto tra quelle disponibili nelle vicinanze attraverso una applicazione standard) e il suo arrivo è stato accompagnato in taluni casi da movimenti di protesta da parte dei tassisti, che hanno visto minacciato il proprio business.

In parallelo, in diversi paesi, sono state create delle applicazioni mobili alternative a Uber, volte a rendere più efficiente e comodo il processo di ricerca di un taxi, che è uno degli aspetti di criticità dell’offerta tradizionale.

Tra queste troviamo l’italiana ezTaxi, una app che permette a chiunque di individuare il tassista più vicino in maniera rapida ed efficiente. ezTaxi riduce le barriere tra chi cerca un taxi e il tassista, permettendo al primo di conoscere anticipatamente le caratteristiche del secondo e di semplificare il sistema di pagamento.

La app di ezTaxi, disponibile sugli smartphone più venduti, è attiva oggi in dieci città italiane, dalla Lombardia alla Sardegna.

Tommaso Lazzari, Nicola D’Angelo, Manuel Zanchetta e Giovanni Stella sono i fondatori di questa startup milanese che annovera, tra i propri finanziatori, il Club Italia Investimenti e, tra i partner, PoliHub, l’incubatore del Politecnico di Milano.

Tommaso Lazzari, prima di lanciare ezTaxi, ha lavorato per Uber, dopo un percorso di studi diviso tra il Politecnico di Torino e la London Business School. Siamo andati a intervistarlo per approfondire la sua storia e capire quanto è stata importante la sua esperienza a Uber nel lancio di ezTaxi.

Tommaso, ci racconti brevemente come è nata l’idea di ezTaxi?

Tutto è partito dalla presa di coscienza di una necessità. L’idea è nata quando abitavo in Inghilterra e il mio appartamento si trovava in una zona di Londra poco coperta dai taxi. Precedentemente, nel 2010, avevo testato un’app che si chiamava GetTaxi ed era comodissima: bastava cliccare e farsi trovare fuori di casa quando il taxi arrivava alla porta. In questo modo evitavo lunghe attese e ricerche. Lì ho capito la reale esigenza delle persone di potersi spostare comodamente in taxi nel modo più veloce ed economico e ho conservato dentro di me questa idea anche successivamente. Inoltre, continuava a crescere in me anche la voglia di vivere un’esperienza imprenditoriale. Così, una volta terminato l’MBA, ho iniziato a lavorare per Uber e vi sono rimasto quattro mesi. Il desiderio di costruire una mia impresa, però, era sempre più forte e dopo un po’ ho deciso di tornare in Italia, a Milano. Qui, insieme ad alcuni amici, ho deciso di lanciare ezTaxi.

Cosa permette di fare ezTaxi?

ezTaxi è un’app che permette all’utente di cercare e prenotare il taxi più vicino a sé, nel modo più veloce ed economico possibile. Con ezTaxi si può pagare sempre con la propria carta di credito (anche se il guidatore non possiede un POS) e, inoltre, viene data la possibilità di visualizzare il percorso del taxi in tempo reale direttamente sulla propria app. In questo modo è possibile sapere con esattezza quando  il taxi è vicino a casa oppure contattare il conducente qualora abbia delle difficoltà nel trovare l’indirizzo, per accelerare i tempi.

Quanto ha pesato la tua esperienza in Uber nel lancio e nello sviluppo di ezTazi?

Avevo deciso di lavorare in Uber perché era definita una startup e io avevo la necessità – in vista del mio progetto imprenditoriale – di apprendere anche la mentalità, le dinamiche e gli sviluppi di un’azienda “alle prime armi”. Quando sono entrato in quella realtà, però, mi sono reso conto che Uber non era più una startup, ma una scaleup, ossia un’impresa cresciuta, consolidata e sviluppata. L’esperienza al suo interno, tuttavia, si è rivelata di un’importanza fondamentale per il mio futuro imprenditoriale. Lì, infatti, ho avuto modo di toccare con mano quali potessero essere i vantaggi di un servizio efficiente e innovativo di prenotazione di un’auto per spostarsi in città (al di là della tipologia, dal taxi all’auto blu).

Come potresti riassumere il passaggio da una realtà strutturata come Uber a una realtà giovane e promettente come ezTaxi? Cosa ti ha spinto a cominciare un progetto tutto tuo?

Il passaggio da Uber a ezTaxi lo definirei un vero e proprio salto. Ma non un salto nel vuoto. Io, infatti, sapevo bene che tutto quello che avevo fatto fino al momento precedente il lancio di ezTaxi era stato progettato in funzione della costruzione di una mia impresa. La creazione della mia azienda, quindi, si inseriva all’interno di un percorso professionale e ha segnato l’inizio del mio viaggio imprenditoriale. Ho da sempre avuto il desiderio di realizzare qualcosa di mio, ma soprattutto di poter creare un progetto in grado di portare dei benefici concreti e di essere veramente utile alle persone.

Hai deciso di portare in ezTaxi qualche processo aziendale che ti ha impressionato positivamente quando lavoravi in Uber?

La sorpresa di Uber è stata di vedere dei processi molto strutturati in un’azienda giovane. Ho imparato come i processi aziendali contribuiscono a rendere un’azienda scalabile. Ogni processo era meticolosamente analizzato, schematizzato, riportato per iscritto e distribuito agli impiegati. Lo avevo già visto fare nelle precedenti aziende in cui avevo lavorato ma quelle erano aziende con decine di anni di storia, mentre Uber era nata solo due anni prima.

Ci puoi raccontare qualche curiosità di Uber legata alla tua esperienza? Su quali progetti hai lavorato o ti sei focalizzato?

In Uber, in particolare, ho lavorato sul lancio del servizio nella città di Atlanta. Il team era formato da sole tre persone che dovevano mettere in pratica tutti gli aspetti del servizio, dalle operations al marketing fino agli aspetti più “terra terra”. Ad esempio, durante l’evento di lancio, abbiamo regalato delle macchinine nere a tutti gli ospiti della serata. Ma non riuscendo a trovarne in numero sufficiente nei negozi abbiamo passato il giorno prima del lancio a verniciare le macchinine  di nero.

Tornando a ezTaxi, in meno di due anni di vita oggi vantate oltre 200 tassisti che operano in 10 città italiane: Roma, Milano, Venezia, Firenze, Como, Trento, Cagliari, Cremona, Pavia e Riva del Garda. Qual è stato il segreto per attrarre i tassisti sulla vostra piattaforma?

I tassisti possono trarre numerosi vantaggi dall’utilizzo della nostra app: primo fra tutti c’è un vantaggio in termini economici (infatti, non c’è un sistema di abbonamenti, ma il tassista paga una piccola fee solo nel momento in cui ottiene la corsa direttamente dall’app). Inoltre, all’interno di ezTaxi è stato sviluppato uno strumento che permette ai tassisti di prevedere dove saranno le prossime chiamate (su una mappa sono state posizionale le zone dove è più probabile che ci sia richiesta di un taxi). Noi rappresentiamo uno strumento che si affianca alle dinamiche classiche della prenotazione dei taxi, diventando un alleato economicamente importante per il tassista.

Ci racconti in dettaglio come si è articolato il vostro processo di fundraising? Siete in trattative con alcuni investitori italiani o stranieri?

Durante le fasi iniziali di avvio dell’impresa ci siamo autofinanziati, investendo i nostri soldi per l’avvio e lo sviluppo della società. Poi abbiamo avuto la fortuna di incontrare Club Italia Investimenti che ci ha finanziati con un seed ma soprattutto ci ha portato sulla piattaforma di Siamosoci per un ulteriore finanziamento. Ora stiamo nuovamente raccogliendo capitali attraverso la stessa piattaforma (anzi invitiamo tutti coloro che sono interessati a finanziare la nostra startup a partecipare alla campagna).

Credi che questo modello sia replicabile al di fuori del mondo dei taxi?

Sono sicuro che lo sia. La nostra tecnologia è scalabile e può essere adattata a diversi modelli di business. Stiamo già esplorando altri mercati per i quali abbiamo ricevuto richieste, quali la logistica e gli interventi urgenti di riparazione auto. Anche la nostra struttura è replicabile: abbiamo processi semplici ed efficaci che abbiamo raffinato in questi due anni grazie alla nostra esperienza e studiando quella dei nostri competitor.

Guardando al futuro, come vedete il mercato dei taxi tra cinque anni?

Il mercato dei taxi deve necessariamente diventare più flessibile e vicino ai clienti. È ridicolo pagare un taxi dal momento in cui lo si chiama e non dal momento in cui lo si usa, sarebbe come pagare un avvocato per il tempo che mi fa aspettare nella sala d’attesa. La nascita di servizi alternativi quali car-sharing, car-pooling, ride-sharing non possono essere ignorati, pena la scomparsa del servizio stesso.  Il servizio taxi perciò dovrà essere integrato sempre di più nella vita reale delle persone utilizzando tutti i dati di traffico e di spostamento delle persone che sono già da ora disponibili per poter ottimizzare il servizio e renderlo più comodo e fruibile.

E come immaginate ezTaxi da qui a cinque anni?

ezTaxi è in continua crescita e in continua espansione, anche a livello di numero di taxi. Fare un’ipotesi o solo provare a immaginarsi tra cinque anni direi che è un’impresa quasi impossibile, perché siamo immersi in un ecosistema imprenditoriale che evolve in modo troppo veloce e imprevedibile. Un’acquisizione, l’esplosione (in positivo) della nostra app, il raggiungimento di alcune capitali estere: tutto può essere possibile. Noi, però, continuiamo a lavorare pensando a creare più benefici possibili per le persone che utilizzano la nostra app. Il resto sarà una conseguenza del nostro lavoro.

L’estate californiana appena passata (anche se a San Francisco il concetto di estate è molto relativo, chiedere a Mark Twain) ha portato bene a un gruppo di tre giovani italiani di Roma. Stiamo parlando di MonkeyParking, startup che ad inizio anno ha lanciato, durante la Mind the Bridge Startup School a San Francisco, un’applicazione mobile destinata a rivoluzionare il modo di condividere la gestione degli spazi pubblici. Visto l’acceso dibattito che hanno scatenato in Silicon Valley e non solo (la loro storia ha attirato l’attenzione da parte dei media della Bay Area e  l’interesse di testate del calibro di TechCrunch e Mashable), sembrano essere sulla buona strada.

A luglio sul Corriere Innovazione avevo brevemente raccontato la loro storia. Siamo quindi tornati a sentire Paolo Dobrowolny, che guida MonkeyParking insieme a Roberto Zanetti e Federico Di Legge, per avere aggiornamenti. In fondo all’articolo trovate anche una video intervista (in inglese) che abbiamo realizzato con loro.

Paolo, cosa permette di fare Monkey Parking?

Bene, immaginate di essere alla ricerca di un parcheggio nella zona più difficile che vi viene in mente. Pensate ora di aprire un’app e scoprire che fra 5 minuti si libererà un posto dietro l’angolo. Questo è quello che facciamo con MonkeyParking. Mettiamo in contatto chi cerca parcheggio con chi sta per liberarne uno, creando così un mercato last minute di parcheggi in via di disponibilità. In questo modo,  chi cerca parcheggio si reca direttamente sul posto che si sta per liberare evitando di vagare per ore e  chi sta liberando un posteggio può guadagnare qualche euro fornendo semplicemente delle indicazioni a un altro automobilista.

Cosa vi ha portato a pensare di risolvere il problema dei parcheggi?

Siamo tutti e tre nati e cresciuti a Roma, così dal primo giorno in cui abbiamo avuto la patente ci siamo dovuti scontrare con la difficoltà di trovare parcheggio in una città così “affollata”. A chi non è mai capitato di approcciare chi cammina per strada rasente le auto con un timido “Scusa, per caso esci?”. Nei casi in cui la risposta è stata affermativa non abbiamo dovuto fare altro che seguire quella persona fino al suo parcheggio. Ecco, Roberto, Federico ed io abbiamo pensato che sarebbe stato fantastico creare un servizio in grado di fare la stessa cosa su larga scala ed è così che ci siamo messi a lavorare su MonkeyParking.

Attraverso il Venture Camp del 2012 e la Startup School di quest’anno avete incrociato sul vostro cammino Mind the Bridge: quanto pensi sia stata determinante nel vostro successo?

Conoscere la fondazione Mind the Bridge è stato utilissimo, a partire dal primo contatto avuto durante le selezioni per il Venture Camp. Abbiamo scoperto e applicato le metodologie di Lean Startup accelerando così il processo di apprendimento in maniera incredibile. Tutto questo per arrivare a creare un prodotto che renda felici i nostri utenti. Credo che Mind the Bridge sia in generale un’ottima scelta per chi muove i primi passi in un’avventura da startupper.

Siete partiti da Roma con un grande sogno: ci raccontate brevemente quali sono stati i principali traguardi?

Dopo due anni di prove ed esperimenti a Roma ci siamo trasferiti a San Francisco, dove abbiamo pubblicato la nostra app a maggio 2014. Con poca spesa in advertising abbiamo velocemente ottenuto l’attenzione di utenti, blogger, stampa, radio e telegiornali. È stato impressionante vedere da un giorno all’altro la nostra scimmia comparire nei servizi delle televisioni di molte emittenti americane.

Nei due mesi successivi all’inizio delle attività abbiamo anche ricevuto una lettera dal comune di San Francisco, che ci intimava di chiudere prima di procedere a vie legali (la temuta cease and desist letter). La ragione di questo monito è principalmente legata alla paura che qualcuno possa abusare di un servizio come MonkeyParking per lucrarci sopra, anziché aiutare altri automobilisti a parcheggiare. Sul piano legale la lettera presuppone che MonkeyParking stia vendendo non tanto un’informazione utile a sapere dove parcheggiare quanto il parcheggio stesso, che è uno spazio pubblico e ovviamente non vendibile. In realtà una legge precisa che regoli quello che facciamo non esiste e il modo in cui evolverà il contesto normativo sarà frutto di come riusciremo a gestire questa fase di transizione.

Siamo ora in contatto con diverse amministrazioni comunali negli Stati Uniti e con professori universitari che supportano da un punto di vista accademico il nostro modello. Il costo opportunità di cercare parcheggio alla vecchia maniera (a caso) è comparabile con il prezzo che pagherebbe un guidatore per parcheggiare velocemente in diversi contesti.

A San Francisco alcuni giornali hanno parlato di voi e si è aperto un acceso dibattito. Chi a favore e chi contro. Quali equilibri interni vi hanno permesso di gestire al meglio questa situazione?

Siamo tre amici prima di essere tre co-founder, questo ci aiuta ad affrontare qualsiasi difficoltà uniti, fiduciosi e soprattutto allegri. Le cose possono andare benissimo o malissimo ma si tratta comunque di un’esperienza unica e molto appassionante. Condividerla con amici che conosci da 15 anni è una fortuna, anche nei momenti di incertezza.

State considerando la possibilità di espandervi anche su altri mercati? Come avete intenzione di farlo?

Stiamo provando diversi approcci. Sicuramente un punto importante è portare le amministrazioni comunali a bordo durante il processo di lancio per renderle partecipi delle dinamiche che si vanno a creare e rassicurarle riguardo ai meccanismi di prevenzione di abusi e bad practice che abbiamo attivato. Altre opzioni vanno dall’utilizzo di parcheggi privati (il posto davanti al vostro garage/cancello) fino a partnership con aziende che hanno a disposizione spazi destinati alla sosta dei veicoli. L’obiettivo finale resta evitare al guidatore la fatica di cercare parcheggio affidandosi alla fortuna, come spesso avviene, invece di sapere in anticipo dove poter lasciare la propria auto.

Quali sono le tappe del vostro processo di raccolta fondi?

Siamo arrivati fino a questo punto in completo bootstrapping, usando le nostre forze e i nostri soldi, senza investitori esterni. La vita da startupper senza fondi è piena di rinunce, ma è anche un ottimo modo di dimostrare quanto crediamo in quello che stiamo facendo. È molto più facile parlare a un investitore se il primo ad avere investito nel progetto sei proprio tu. Sapere di aver messo in gioco i tuoi risparmi e la tua vita per il progetto ti dà molta più sicurezza nel chiedere a un investitore di rischiare con te. Stiamo costruendo un buon network qui a San Francisco e apriremo a breve un round per investitori.

C’è qualche aneddoto al riguardo che volete condividere?

Sì, ci ha colpito la reazione che hanno avuto alcuni investitori della Silicon Valley quando MonkeyParking ha ricevuto la lettera dal comune della città di San Francisco. Ci hanno contattato il giorno stesso per congratularsi, dirci che per loro equivaleva a “1 milione di utenti” e invitarci a una chiacchierata. Siamo ancora agli inizi ma avere già una connessione con fondi di venture capital così importanti è utilissimo. Significa credibilità per MonkeyParking nella Bay Area e un loro interesse a investire più avanti in un eventuale Series A.

Come indirizzereste i giovani intenzionati a creare la loro startup? Avete qualche suggerimento?

A volte veniamo contattati via email da ragazzi che vogliono sviluppare un’idea e cercano un nostro parere o consiglio. Tantissime volte questi ragazzi hanno paura di parlare del loro progetto per timore che qualcuno possa rubare loro l’idea. Il consiglio che vorrei dare a chiunque ha un’idea che gli ronza in testa è invece di parlarne con più gente possibile, amici e completi estranei, in ogni occasione che si presenta. Questo per tre ragioni:

1)     Se è una buona idea, c’è sicuramente già qualcuno che la sta mettendo in pratica da qualche parte del pianeta. Basta fare un giro a qualche evento qui a San Francisco per capire quante idee ci sono in giro e che quello che farà la differenza sarà come queste idee saranno sviluppate.

2)     Per realizzare un’idea, non c’è niente di più prezioso di ricevere feedback. Un perfetto estraneo che vi spiega come mai userebbe o non userebbe il vostro prodotto/servizio vale ben più del rischio che quella persona si metta a fare la vostra stessa cosa.

3)     Se l’idea è buona e l’esecuzione inizia a portare dei risultati, la vostra idea sarà copiata. A noi è successo proprio così: un mese dopo essere usciti su tutti i giornali sono sbucate due aziende che cercavano di fare la stessa cosa.

Un’ultima curiosità: cosa vi ha spinto a scegliere una scimmia (monkey in inglese) nel nome della vostra startup e di conseguenza nel brand?

Semplicemente pensiamo che parcheggiare sia come una giungla! La nostra scimmia è ben vestita, organizzata e intende provare che sia possibile fruire di un modo più intelligente ed evoluto di trovare parcheggio. E poi è bellissima, ci siamo parecchio affezionati.

 


 

Mi ero imbattuto in Rosario Rasizza lo scorso novembre a Milano: eravamo seduti di fianco alla Borsa Italiana sul palco del Social2Business (organizzato dal Gruppo Giovani Imprenditori di Assolombarda) e la sua storia mi aveva incuriosito. Di qui l’invito in Università a Varese (Openjobmetis, la società che Rosario guida, fa base a Gallarate) a raccontare la propria esperienza ai miei studenti. In quella occasione avevo potuto apprezzare il suo modo semplice e diretto di raccontarsi che aveva riassunto in un breve articolo per il Corriere Innovazione di maggio. E, dai feedback ricevuti, oltre agli studenti, la storia di Rosario deve avere ispirato anche i lettori. Quindi sono tornato a trovarlo.

Rosario, facciamo un piccolo salto nel passato, prima  della nascita di Openjobmetis. Come è cresciuta in te la passione, la voglia di fare impresa. E, soprattutto, cosa  ti ha spinto a scegliere un settore come quello della somministrazione?

Nel 1997 avevo intuito che il settore della somministrazione sarebbe presto decollato anche in Italia. Questo settore, infatti, risultava essere potenzialmente interessante, dato che mancava, nelle imprese italiane, il concetto di ‘flessibilità nella gestione delle risorse umane. Chiacchierando e confrontandomi con imprenditori e uomini d’impresa, ciò che mi colpiva era apprendere che quotidianamente riscontrassero difficoltà nel gestire il capitale umano a loro disposizione. Va ricordato che, alla fine degli anni Novanta, lo scenario economico era completamente differente rispetto a quello odierno. Non si parlava di crisi. Il lavoro c’era. Il problema era disporre di persone qualificate che rispondessero adeguatamente alle esigenze degli imprenditori. Così ho iniziato a leggere i primi articoli che venivano pubblicati, cercando di stare al passo con tutte le evoluzioni in materia e di documentarmi con  frequenti viaggi in Francia – paese in cui la somministrazione era già un settore affermato – per cogliere tutte le sfaccettature di questo tipo di attività. Riuscire ad essere tra i precursori di un business che ancora doveva essere formalizzato dal punto di vista legislativo – cosa che avvenne nel  1997 con la legge Treu – è stato per me un importante vantaggio competitivo.

Sul Corriere Innovazione abbiamo scherzato su come una pallina da tennis ti abbia cambiato la vita. In realtà ci sono spesso dei fili invisibili che muovono le storie imprenditoriali. Il tennis per te è uno di questi fili?

Infatti il collegamento tra un campo da tennis e un’Agenzia per il Lavoro non è proprio immediato. Ma, il tennis è stato determinante per la mia storia di imprenditore. Ho iniziato a giocare a tennis sin da piccolo, nel C.R.A.L. dell’azienda dove lavoravano i miei genitori. Crescendo, pian piano, mi sono appassionato sempre più a questo sport e ho iniziato a praticarlo anche a livello agonistico. Me la cavavo, ero un buon giocatore, devo ammetterlo.
E così, un’estate, un centro sportivo di Varese mi ha offerto la possibilità di collaborare come allenatore. È stato proprio grazie a questa esperienza lavorativa che ho affinato le mie doti relazionali e ho avuto modo di conoscere molte persone, in particolare tanti imprenditori … perché il tennis allora era paragonabile al golf di oggi. Negli spogliatoi, dopo gli allenamenti, i clienti mi raccontavano delle loro aziende e delle difficoltà che riscontravano ogni giorno. Il tema ricorrente – su cui tornavano sempre – era quello delle risorse umane. Ascoltando i loro discorsi, i loro sfoghi: “Mi manca questa risorsa…” “Mi manca questa figura…” , ho compreso che i problemi di un’azienda passano anche attraverso la gestione del personale. Ultimati gli studi e passato l’anno di leva – perché all’epoca era ancora obbligatorio – ho indirizzato tempo ed energie alla costruzione del mio sogno: aprire un’agenzia di servizi che potesse essere determinante proprio nell’ambito delle risorse umane. E così, dal campo da tennis sono passato alla scrivania, alla vita da ufficio e a impiegare la prima risorsa presso un’azienda cliente.

La tua azienda nel tempo è cresciuta, si è evoluta, ha acquisito altre aziende e ora è pronta per il grande passo: la quotazione in borsa. Come si disegna una storia di successo?

Credo che per un imprenditore sia fondamentale avere una visione chiara della strada che intende perseguire. Il viaggio non sarà sempre in discesa: ci potranno essere interruzioni, lavori in corso, deviazioni o percorsi impervi, ma l’importante è tenere lo sguardo fisso verso la meta.
Sin da piccolo volevo diventare un imprenditore. Ci ho creduto, ho creduto nel sogno che avevo. Mi sono immaginato il mio business e alla fine sono riuscito a realizzarlo. Visualizzare nella propria mente ciò che si vuole creare, semplifica notevolmente le fasi di attuazione di un progetto.
Due puntini fanno la differenza nella vita di una persona. Il punto di partenza e quello di arrivo determinano una storia. A questi due puntini se ne aggiungeranno altri durante il percorso: alcuni si presenteranno in modo inatteso e potranno sembrare lontani dalla traiettoria che avevi tracciato. Ma è solo unendoli  che si otterrà quel quadro d’insieme che restituirà una visione limpida e chiara del tutto.
Destino e fortuna possono poi influenzare una carriera, ma volontà, determinazione e ambizione sono gli elementi indispensabili che aiutano l’imprenditore a superare le difficoltà di ogni giorno e a proiettarsi verso il futuro mantenendo lo sguardo fisso e focalizzato al raggiungimento del proprio traguardo.

La vita professionale di un imprenditore è caratterizzata da momenti importanti, alcuni positivi, altri negativi. Ci racconti alcuni aneddoti?

Tra gli episodi negativi annovero la grande tragedia del settembre 2001 che colpì New York e le Torri Gemelle. Quel drammatico episodio sconvolse tutto il panorama economico mondiale. Sembrava che tutto dovesse finire da un momento all’altro. Noi con Openjob eravamo partiti il 5 febbraio di quello stesso anno. L’11 settembre ha rimesso in discussione il tutto. Gli investitori cominciavano a tirarsi indietro e, in me, crescevano i dubbi e la mia convinzione di farcela vacillava. Questo è stato di sicuro il momento più difficile che ho dovuto affrontare e superare nella mia carriera.
In parallelo, ricordo tanti momenti belli: l’emozione incredibile non appena siglato l’atto di costituzione della società, la soddisfazione di stringere tra le mani l’autorizzazione ministeriale – seppur ancora provvisoria all’epoca – che ufficializzava l’avvio dell’attività di Openjobmetis. E come dimenticare poi l’emissione della prima fattura da 2500 euro per la prima persona assunta in somministrazione, il passaggio da 10 mln a 60 mln di fatturato, la prima acquisizione e l’ingresso del fondo di private equity.
Per ogni anno di attività devo dire che serbo ricordi positivi, forse perché, per carattere, tendo a dimenticare i momenti brutti. Certo li valuto, li analizzo, cerco di arrivare al nocciolo dell’errore per evitare di ripeterlo. Ma poi cerco di superarlo, di andare avanti e voltare pagina.

Quando un imprenditore affronta un momento negativo, cosa può risultare determinante per risollevarsi?

Un imprenditore, che voglia superare un momento no, deve innanzitutto fare appello alla propria motivazione interiore. Ad essa deve poi saper abbinare presunzione, ambizione e voglia di fare. Soprattutto la determinazione a non fallire come imprenditore e come persona. Non c’è nulla che possa gratificare maggiormente, sotto ogni punto di vista, del fatto di riuscire con le proprie forze a superare un ostacolo.
Quando mi è capitato di affrontare un momento negativo ho sempre cercato di reagire. Lo sconforto innegabilmente arriva, ma abbattersi non aiuta. Mi sono rigirato nel letto perdendo il sonno per tante notti. O, durante i lunghi viaggi in auto, ho cercato di pensare a una possibile soluzione, una via d’uscita alternativa che – irrimediabilmente e fortunatamente – è sempre arrivata.

Sentiamo sempre più spesso parlare di startup e nuove generazioni di imprenditori, ma i giovani che intendono intraprendere questa professione quali caratteristiche devono dimostrare di avere? Quali consigli daresti loro?

I giovani che vogliono fare l’imprenditore devono dimostrare di possedere grinta e determinazione. Non serve avere alle spalle dei genitori che spianino loro la strada, rendendo la vita più facile. Devono essere lungimiranti, devono saper guardare al futuro, aggredire il proprio futuro. Il mondo va veloce, non si arresta. I nostri ragazzi devono imparare a correre. Perché solo se si arriva primi in un mercato emergente o in un nuovo settore, si può veramente provare a fare la differenza. Aspettare che il sogno si realizzi da solo o che ti venga a cercare è utopistico. Occorre darsi da fare: presentarsi alla stazione in tempo e cercare di salire su quel treno per dare forma al sogno.  In fondo non ci si può certo lamentare se il treno non passa se non si va in stazione…

Le buone notizie che accompagnano l’inizio del 2014 non si sono fatte attendere per quel che riguarda il mondo delle startup italiane. Watchup, una azienda di video news che veicola notizie da importanti testate giornalistiche su un’applicazione scaricabile su tablet e sui Google Glass, ha appena annunciato un finanziamento da un milione di dollari. Tra gli investitori Microsoft Ventures, StartX (l’incubatore di di Stanford University),  Knight Foundation, Ned Lamont (il fondatore di Campus Televideo) e altri angels. Questo round si aggiunge al mezzo milione di seed raccolto nel 2012.

Conosciamo e seguiamo da tempo Watchup. Difatti uno dei mentor di Mind the Bridge, Claire Lee (partner di Silicon Valley Bank), ha svolto un ruolo importante nella finalizzazione di questo ultimo round di finanziamento.

Ci siamo fatti quindi raccontare un po’ di dettagli da Adriano Farano, co-founder di origini campane, appassionato di giornalismo già dalla prima infanzia.

Adriano, per iniziare raccontaci cosa fa Watchup.
Watchup reinventa il concetto stesso di telegiornale- che per tradizione è mono-canale – e lo rende multi-canale e personalizzabile a seconda delle preferenze dell’utente.

Come è nata l’idea di Watchup?
Per me è un ritorno alle origini. 1989: cade il Muro di Berlino e come tanti lo apprendo guardando il telegiornale. Il giorno dopo, a scuola, mi rendo conto del fatto che i miei compagni non ne avevano sentito parlare. Decisi allora di creare il mio – primo e ultimo – giornale cartaceo che fu un successo. Tutto andò bene fino a quando la maestra non mi vietò di continuare a stampare copie perché stavamo “facendo soldi”. Il fascino del giornalismo e dell’imprenditorialità da allora hanno continuato a vivere in me e Watchup nasce proprio da quella passione per il potere immersivo del video-giornalismo.

Con quali criteri scegliete le testate giornalistiche di maggiore interesse?
Autorevolezza, frequenza di aggiornamenti, qualità giornalistica: questi sono i criteri per essere presenti su Watchup. Inoltre il 30% delle fonti è segnalato dagli utenti dell’applicazione che hanno la possibilità di interagire con noi.

Ci racconti come il vostro progetto ha giovato dell’ecosistema della Silicon Valley?
Watchup non sarebbe probabilmente nata in Italia. In Silicon Valley c’è un gusto matto per il rischio e le idee nuove. E quel gusto per il rischio spinge a fare impresa e a innovare. Ciò è quanto rende la Silicon Valley unica, molto più delle opportunità di accesso al capitale che di certo ci sono (ma sono difficilissime da cogliere visto che c’è un livello di competitività incredibile).

Con Mind the Bridge vi avevevamo scelto per il Google Big Tent nel 2013 a Roma. Cosa ricordi di questa esperienza?
È stata un’occasione per mostrare il nostro prodotto nella mia terra natia, ricevendo attenzione e curiosità da parte di gruppi editoriali italiani che, lentamente, cominciano a volgersi verso il mondo startup per sperimentare e provare strade nuove ed eterodosse. Qualcosa di positivo si muove anche nel belpaese.

Quale rilevanza hanno avuto le competition alle quali avete partecipato sullo sviluppo della vostra idea?
Watchup ha vinto il News Challenge al MIT Media Lab, è arrivata seconda a MobileBeat ed è stata, l’anno scorso, l’unica all’SXSW di Austin ad arrivare in finale in ben due gare. Tutto ciò ha giovato al morale delle “truppe” come alla nostra notorietà.

Brevemente quali sono i vantaggi del vostro prodotto per l’utente?
Oggi esiste una grande quantità di contenuti video di qualità, ma come trovarli, gustarli e fruirne in modo semplice e immediato?
Euro, immigrazione, innovazione etc. abbiamo tutti bisogno di capire il mondo che ci circonda e Watchup permette a chiunque di accedere con un semplice tocco dell’iPad a un tg personalizzato e multi-canale.

Avendo completato un importante round di finanziamento, quali saranno i prossimi passi?
Portare l’esperienza del telegiornale personalizzato a nuove piattaforme (oggi siamo solo iOS) ed espandere il team.

Quando si annuncia un round è giusto celebrare ma non ci si deve dimenticare delle difficoltà incontrate. Ci racconti qualche aneddoto al riguardo?
Per completare il nostro primo round e farmi staccare gli undici assegni finali ho avuto oltre cento appuntamenti . E ricordo bene che i primi 10-15 appuntamenti non sono sfociati in nulla di tangibile. Ma quegli insuccessi ci hanno aiutato ad aggiustare il tiro e a rimodellare la storia che  si racconta. Alla fine i lividi sono serviti.

Quale suggerimento daresti ai giovani startupper?
Errare è umano, perseverare è meglio. Al di là dell’idea, quel che conta è la perseveranza!

A giugno, al Convegno nazionale di Santa Margherita Ligure dei Giovani Imprenditori di Confindustria, ho avuto il piacere di conoscere Nicola De Carne, torinese, fondatore e CEO di Wi-Next.

Wi-Next è una startup nata all’interno del Politecnico di Torino nel 2007, grazie alla fusione tra le conoscenze tecnico scientifiche che si trovavano all’interno dell’ateneo e l’intuizione di un gruppo di persone vocate all’imprenditoria. Wi-Next si occupa di fornire prodotti e soluzioni wireless ad alto contenuto innovativo, tutti made in Italy. Nel 2010 il Gruppo Carpaneto Sati di Rivoli decide di investire in Wi-Next e ciò permette all’azienda di ampliare il proprio organico (oggi impiega una ventina di dipendenti) e di potenziare la propria capacità di crescita.

La storia di Wi-Next è interessante sotto due profili.

Il primo riguarda la storia del suo fondatore, Nicola De Carne, che, prima di avviare Wi-Next, ha lavorato in un’altra startup, Dada (una società specializzata nello sviluppo di applicazioni e contenuti per il web e il mobile nata nel 1995 su iniziativa di Paolo Barberis, Angelo Falchetti, Jacopo Marello e Alessandro Sordi e che è stata acquistata da Orascom nel 2013). Al riguardo spesso mi capita di rimarcare quanto le startup siano importanti nello sviluppo e crescita di un sistema industriale. Non tanto per il contributo occupazionale che generano nell’immediato, ma soprattutto perchè contribuiscono a plasmare una nuova generazione di imprenditori. Qui non mi riferisco solo a chi avvia un progetto imprenditoriale, ma alle persone che hanno occasione di lavorare per una startup. L’environment, l’approccio al lavoro, la policy aziendale, il “pensare come un imprenditore” che si ritrovano in una startup sono un qualcosa che molti dipendenti acquisiscono e fanno propri, diventando spesso loro stessi promotori di nuovi progetti imprenditoriali, in un momento successivo. E così si diffonde un moltiplicatore  di impresa che va oltre la cerchia dei fondatori. E il caso di Wi-Next è un buon esempio.

Il secondo aspetto di interesse riguarda l’investimento ricevuto da parte del Gruppo Carpaneto Sati (azienda attiva da oltre cinquantanni nel settore della distribuzione per l’impiantistica elettrica industriale). Ciò costituisce un caso interessante di intersezione tra new ed old economy che potrebbe rappresentare un modello da replicare in un paese come il nostro ove ci sono tante realtà industriali importanti in cerca di opportunità di diversificazione ed innovazione.

Ho fatto alcune domande a Nicola De Carne, CEO di Wi-Next, per approfondire questi aspetti.

Ci racconti brevemente cosa fa Wi-Next e a che punto siete?

Wi-Next e’ un vendor Wi-Fi che produce la propria tecnologia hardware e software completamente in Italia. Siamo presenti sul mercato attraverso una rete di distributori e system integrator con cui proponiamo soluzioni wireless basate sui nostri prodotti ad una clientela di grandi aziende, operatori telefonici e pubblica amministrazione. Alla fine del 2012 abbiamo terminato la prima fase di definizione del modello aziendale e soprattutto abbiamo costruito un’offerta tecnologica completa, introducendo appunto anche i nuovi prodotti completamente progettati dal nostro team di ingegneri tra Moncalieri, Torino e Chivasso. Il 2013 e’ stato quindi in cui ci siamo affacciati sul mercato. Per fare ciò  abbiamo fatto  forti investimenti sia sul versante delle vendite (abbiamo acquisito personale commerciale anche dai nostri concorrenti e costruito un canale distributivo di rilevanza nazionale) e della comunicazione (per generare brand awarness e consolidare la nostra reputazione sul mercato). Da settembre abbiamo avviato la campagna di espansione sui mercati esteri, la cui strategia e’ stata definita con una societa di advisory internazionale.

 Nicola, quanto ha pesato la tua esperienza in Dada nel lancio di Wi-Next?

Sono arrivato in Dada nel 1999 dopo alcune esperienze imprenditoriali nel campo della comunicazione. Ma è stato in Dada che ho potuto vivere una delle esperienze professionali più significative della mia vita. Lì ho potuto respirare per 3 anni aria di innovazione e ho capito quanto questa fosse basilare per la costruzione di imprese vincenti. Uscito da Dada la ossessione per l’innovazione ha guidato le mie scelte. Ho dapprima deciso di fondare una webagency ma la natura aleatoria di questo campo non mi ha consentito di realizzare risultati convincenti. Così, nel 2007, ho dato vita a Wi-Next, ispirato dalla voglia di creare una mia startup che avesse caratteristiche di innovazione tecnologica spinta.

 Cosa ti ha spinto a cominciare un progetto tutto tuo?

Un giorno mi sono reso conto dell’inutilita’ di sviluppare soluzioni ed applicazioni su Internet se queste poi non potevano raggiungere la massa delle persone. Di qui la ricerca di un’innovazione tecnologica che rendesse semplice ed economica la creazione di reti wireless broadband per contrastare il cosiddetto digital divide. Non avendo trovato niente di simile sul mercato, ho deciso di crearne una da zero.

 Che contributo ha avuto il Politecnico di Torino e il suo incubatore (i3P) nella nascita e sviluppo di Wi-Next?

Dobbiamo molto all’incubatore e a quanti ci lavorano con dedizione per supportare quotidianamente le startup presenti. I3P ha giocato un ruolo determinante nella ricerca del partner finanziario visto che sono stati loro a creare il contatto con il Gruppo Carpaneto Sati che di fatto ha contribuito a rendere possibile la nostra visione di mercato.

Parlando dell’investimento dal Gruppo Carpaneto Sati di Rivoli, c’è qualche aneddoto  legato a questa operazione? C

Racconto sempre l’aneddoto del primo incontro con il Presidente del Gruppo, il rag. Carpaneto, avvenuto nei corridoi dell’incubatore. Una storia torinese che in qualche modo ricorda la Silicon Valley. Dopo avermi ascoltato mentre gli spiegavo la nostra tecnologia Mesh, Carpaneto mi ha chiesto se installando il nostro wireless sui loro pali di illuminazione pubblica solari avremmo potuto portare il Wi-Fi nel deserto. Risposi affermativamente. E dopo tre mesi eravamo parte del Gruppo.

Come funziona questa integrazione tra old e new economy?

Siamo stati due volte fortunati: oltre ad essere una realtà consolidata e forte, il Gruppo Carpaneto Sati ha avuto la lungimiranza di non voler entrare nelle strategie di sviluppo di Wi-Next, consapevoli del fatto di non avere alcuna esperienza in questo settore. Ha giocato invece un ruolo determinante, oltre che dal punto di vista finanziario, anche dal punto di vista organizzativo consentendoci in soli due anni di diventare un’azienda con dei processi interni ben definiti, tanto da essere in grado di gestire processi produttivi anche molto complessi.

Credi questo sia un modello replicabile?

Posso parlare della mia esperienza che mi porta sicuramente ad affermare che l’unione tra startup innovative e le piccole e medie imprese che compongono il tessuto produttivo del nostro paese sia vincente perche’ genera un rapporto win-win tra piccole realtà fortemente mirate alla ricerca e sviluppo, che hanno cosi’ l’occasione di crescere in modo strutturato grazie all’esperienza imprenditoriale delle imprese della cosiddetta “old economy”, e le stesse imprese che, grazie al carattere innovativo delle startup, hanno l’occasione di differenziare la loro offerta e anche, perche’ no, di innovare il proprio approccio sul mercato garantendosi così nuove traiettorie di sviluppo.

Avevo conosciuto i ragazzi di Rysto un anno e mezzo fa alla Mind the Bridge Startup School quando erano veramente agli inizi della loro avventura imprenditoriale. Mi ricordo che avevo preso la loro parte di fronte ad alcuni attacchi da parte di una certa “stampa” che non aveva perso l’occasione di cercare di demolire il loro progetto non appena nato (è uno dei nostri sport nazionali la critica distruttiva a priori).

Con grande piacere quindi ho accolto la notizia dell’annuncio del loro primo round di finanziamento con un investimento di un milione di dollari da parte di Principia.

Ma procediamo con ordine.

Rysto è una piattaforma social che mette in comunicazione in tempo reale chi cerca e chi offre lavoro nel settore della ristorazione . Gli ideatori sono Jacopo Chirici (CEO), fiorentino, un background in economia e un MBA in Florida, e Massimo Fabrizio (CTO), romano, web-developer con esperienza in diverse compagne informatiche.

Cosa li accomuna?

La giovane età (entrambi non sono ancora trentenni), esperienze di lavoro (sia Jacopo che Massimo hanno diverse esperienze di lavoro nel campo della ristorazione) anche all’estero (Jacopo ha persino lavorato per due anni come manager di un ristorante a Goteborg in Svezia) ed una incredibile voglia di fare.

Queste caratteristiche comuni portano i due ad incontrarsi a San Francisco un anno e mezzo fa alla Mind the Bridge Startup School da cui il progetto di Rysto ha mosso i primi passi.

E questa comune voglia di fare sta iniziando a produrre i primi risultati: due settimane fa Rysto ha completato il primo round di finanziamento e ha annunciato una partnership con Docebo, la piattaforma di e-learning guidata da Claudio Erba, oggi utilizzata da più di 12000 aziende internazionali (di cui avevamo parlato lo scorso marzo, qui il link all’articolo).

Abbiamo quindi intervistato Jacopo e Massimo per conoscere la loro storia e capire quali sono state le scelte che hanno caratterizzato il loro percorso.

Massimo, come è nata l’idea di Rysto?

L’idea di Rysto mi è venuta quando lavoravo in diversi ristoranti a Roma per potermi mantenere duranti gli studi. Durante quel periodo ho notato che il personale cambiava di sera in sera e i gestori si trovavano a dover fronteggiare un problema fondamentale: trovare lavoratori che potessero essere reperibili nel giro di poche ore. Poi ho conosciuto Jacopo alla Startup School di Mind the Bridge. Jacopo, avendo lavorato nel settore per molto tempo, mi ha confermato che soprattutto all’estero (dove la contrattualistica lavorativa è molto più flessibile) questo è un problema che si propone su base quotidiana. Ci siamo subito appassionati al progetto e così abbiamo iniziato l’avventura di Rysto insieme. Unire le forze per fare qualcosa di significativo, uno dei principali insegnamenti di Mind the Bridge che abbiamo subito messo in pratica.

 Quindi tu e Jacopo non vi conoscevate prima di arrivare a San Francisco?

Esatto. Il team iniziale si è formato direttamente in Silicon Valley dove io e Jacopo ci siamo incontrati ed abbiamo deciso di collaborare al progetto. Anche se inizialmente la questione era nata come un progetto della scuola, abbiamo cominciato a proporre l’idea in giro e abbiamo sempre ricevuto riscontri positivi da tutti. Il nostro background nella ristorazione ci ha anche aiutato a vedere l’idea (ai tempi ancora nello stadio embrionale) con gli occhi dei nostri futuri e potenziali clienti.

Quindi consiglieresti di fare un’esperienza a San Francisco anche per poche settimane?

Assolutamente sì. Esplorare la Silicon Valley e capirne le dinamiche è utilissimo se si ha un progetto ai primi stadi di vita che si vuole far crescere. Ancor di più lo diventa se si ha un punto di riferimento e di contatto con la cultura e le persone del posto. Nel nostro caso questo “riferimento” è stato Mind the Bridge. Ha fatto da trampolino di lancio per noi, poiché non solo ci ha introdotto all’ecosistema delle startup, ma ci ha anche dato la possibilità di venire in contatto con persone, professionisti, investitori e possibili partner con cui tutt’oggi siamo ancora in relazione!

Jacopo, raccontami come sono andate le cose al vostro rientro da San Francisco. Parliamo di maggio 2012, giusto? Una volta tornati come vi siete mossi?

Una volta tornati in Italia abbiamo cercato di fare più esperienze possibili e di rimanere attivi nella costruzione del nostro network.

Abbiamo avuto la possibilità di partecipare a TechCrunch Italia (al quale prenderemo parte anche quest’anno) e da lì in poi abbiamo ricevuto una certa visibilità sia a livello nazionale che internazionale che ci ha permesso di accedere ad eventi di Startup, pitch e presentazioni un po’ in tutta Europa. Abbiamo preso parte anche ad un evento a Tel Aviv organizzato dal ministero degli esteri italiano ed è li che abbiamo incontrato Principia  (nostri attuali investitori) e soprattutto Claudio Erba che, oltre ad essere stato il primo investitore, ci ha aiutato ad incanalare e chiudere l’operazione di finanziamento e stipulare una partnership con la sua società di e-learning Docebo della quale è attualmente amministratore delegato.

Avete quindi puntato molto sulla visibilità. Credete sia stata un’arma vincente nel processo di ricerca di funding e partnership?

Cercare di essere sempre sulla cresta dell’onda è importante, ma bisogna stare attenti a non farsi distrarre troppo. Bisogna tenere sempre gli occhi puntati sul prodotto. Nel nostro caso l’interesse da parte della stampa è venuta un po’ in modo naturale. Molti blog e testate giornalistiche si sono interessate al nostro servizio, anche perché tratta un argomento molto “caldo” come quello del lavoro. A differenza di altri portali e piattaforme che affrontano l’argomento del lavoro dalla prospettiva delle aziende, noi vogliamo dare le stesse opportunità di networking anche alle persone che lavorano nella ristorazione. Molte volte infatti viene fatto l’errore di considerare un lavoro manuale meno importante o meno gratificante di altri. Noi, avendo provato sul campo cosa vuol dire lavorare in questo settore, capiamo benissimo che tutti i giorni ci sono milioni di persone si recano sul posto di lavoro e che da anni svolgono il mestiere di cuoco, cameriere, barista e barman con serietà e professionalità.

Quali sono i prossimi passi ora che avete completato il vostro primo importante round di finanziamento?

Il nostro progetto è veramente ambizioso e si propone di portare una ventata di novità in un settore che non è riuscito a mantenersi al passo con i tempi per quanto riguarda la gestione aziendale e della forza lavoro. Per quanto riguarda i prossimi step, sicuramente la priorità numero uno è l’espansione internazionale e al momento stiamo guardando principalmente a due Paesi: Regno Unito e Stati Uniti. Quindi, una sorta di ritorno alle orgini, visto che tutto è iniziato da San Francisco.

Da gennaio a marzo un gruppo di startup italiane (map2app, Atooma, in3Dgallery e Bad Seed Entertainment) hanno vissuto a San Francisco l’esperienza del  programma di accelerazione di Mind the Bridge che prevede, accanto ad un un finanziamento seed fino a 65mila dollari, dieci settimane di duro lavoro al Gym (acceleratore e sede di Mind the Bridge a San Francisco). Una full immersion (guidata dal network di mentors di Mind the Bridge) nella cultura americana e della Silicon Vallley.

Ci facciamo raccontare questa esperienza da Francesco Marcantoni, CEO di in3Dgallery, startup fondata in Toscana ad Arezzo insieme a Francesco Gallorini (CTO), Marcello Comaducci (COO) e Gabriele Maidecchi.

in3Dgallery è una applicazione (basata su cloud) che utilizza la tecnologia 3D per creare coinvolgenti presentazioni. La startup è nata nel 2013, ma non è la prima esperienza imprenditoriale del trio toscano. Francesco e co. lavorano insieme già dal 2007 quando hanno fondato Esimple, un’azienda che si occupa di sviluppo di soluzioni 3D per web e mobile. Da questa esperienza tecnica è nata l’idea di in3Dgallery.

Francesco, ci racconti come il vostro progetto ha giovato del periodo di accelerazione a San Francisco?

Per quanto riguarda il GYM di Mind the Bridge è sicuramente stata un’ottima palestra dal punto di vista del refining del prodotto, nel senso che grazie alle sessioni di mentoring abbiamo visto e rivisto il progetto da una moltitudine di angoli fino ad arrivare a quello che è oggi, che è finalmente “investment grade”.

Eravamo difatti partiti da un vertical per fotografi e artisti e siamo arrivati ad una piattaforma di presentazioni in 3D che fa della facilità d’uso il suo più grande punto di forza.

Questo pivoting parziale ha ovviamente richiesto di mettere pesantemente le mani al progetto e al prodotto, ma ci ha allargato il mercato di riferimento e migliorato il modello di business. Nonostante tutto, siamo riusciti a lanciare la beta pubblica durante l’evento dell’Italian Innovation Day a Mountain View a Marzo. E i primi feedback sono oltremodo positivi (è anche piaciuto ad una icona come Tim Draper!)

 E da startupper com’è stata l’esperienza a San Francisco? Quali sono le prime differenze con l’Italia?

Sicuramente San Francisco è un mondo tutto diverso rispetto all’Italia. La relativa semplicità con cui si raggiungono figure chiave di aziende importanti rende a volte stupiti e increduli… e ti chiedi, da italiano, dove sia il loro “tornaconto”. Poi andando avanti e abituandoti alla mentalità capisci che il tornaconto non c’è e che la gente aiuta e collabora per lo spirito di farlo. Questo rimane molto difficile da comprendere con la nostra tipica mentalità!

Torniamo al business. Considerata la vostra esperienza pluriennale in questo settore immagino, come è cambiato il mercato e conseguentemente il vostro prodotto dal 2007 ad oggi?

Inizialmente, nel 2007, quando approcciammo il mercato per la prima volta, le aziende che si dedicavano al 3D su web si contavano sulle dita di una mano. Dopo circa un anno di ricerca e sviluppo lanciammo online il primo centro commerciale 3D del mondo. Dal successo ottenuto abbiamo avuto una grande esposizione mediatica ed, esplorando settori diversi, abbiamo lavorato per brand internazionali. Nel 2012 abbiamo pensato di testare un nuovo mercato attraverso un esperimento, ovvero una galleria d’arte per presentare in 3D le proprie opere. Una tech demo, cento mila download senza alcun investimento di marketing. Undiscreto successo, direi.

Da qui abbiamo capito che questo mercato era molto più grande di quanto avessimo pensato e che c’era spazio per muoversi verso segmenti ancora più interessanti. Ecco che il mondo delle presentazioni fu la nostra illuminazione.

E quindi a San Francisco Mind the Bridge vi ha guidato nel fare quello che si chiama pivoting, ossia modificare il prodotto per adattarlo ad un target diverso di clienti?

Sì, mentre prima il focus erano fotografi e artisti, ora in3Dgallery è concepito per tutti coloro che hanno l’esigenza di presentare e condividere le proprie idee in modo innovativo con una presentazione coinvolgente. Quindi è alla portata di tutti, dal freelance al direttore vendite, fino ad arrivare al mondo dell’educational. La possibilità che abbiamo avuto di avere come mentor Peter Arvai, CEO e founder di Prezi, ci ha aiutato tantissimo….

In 3 parole quali sono i vantaggi di in3Dgallery per l’utente?

Semplice, professionale e coinvolgente. Semplice da usare, il risultato è professionale e gli utilizzatori possono coinvolgere Ia loro audience creando presentazioni con template 3D, immagini e testo. Abbiamo reinventato il concetto delle presentazioni! Naturalmente per chi volesse provare la app la può trovare a www.in3dgallery.com.

Adesso che avete fondato un’azienda a San Francisco, come intendete muovervi? Quali saranno i prossimi passi?

Conquistare il mondo! Scherzi a parte, vorremmo affermarci sul mercato statunitense per poi raggiungere il resto del mondo. L’obiettivo è mantenere la semplicità di in3Dgallery che rimarrà il nostro punto di forza, ma, allo stesso tempo, stiamo pensando di aggiungere altre funzionalità come i grafici 3D, una gamma maggiore di template, testi 3D, importazione di modelli 3D etc. Nei nostri piani futuri c’è inoltre il progetto di rilasciare un software development toolkit che permetta agli utenti esperti di creare i propri template personali e successivamente venderli agli utilizzatori di in3Dgallery attraverso il market place che sarà presente all’interno della nostra app.

Progetti molto ambiziosi. Quando tornerete a San Francisco?

Molto presto. Abbiamo avuto già contatti molto interessanti con aziende del settore che sono interessate alla nostra tecnologia e non vogliamo perdere opportunità di sicuro successo. Per il futuro abbiamo grandi progetti e con il giusto supporto economico siamo sicuri di riuscire a realizzarli. A San Francisco, durante il periodo di accelerazione, abbiamo pivotato, ci siamo rimessi in gioco e abbiamo capito qual è la direzione da seguire. I dati raccolti nelle tre settimane dalla messa online del sito sono assolutamente incoraggianti, questo ci ha aiutato ad attivare contatti con alcuni investitori e stiamo ultimando il pre-round che ci dovrebbe portare a fare il nostro Series A a breve negli Stati Uniti. Ci piacerebbe che ci fosse anche qualche investiore italiano a bordo. Se qualcuno fosse interessato al progetto ci faccia sapere: vogliamo tenere alta la bandiera italiana!

Si conclude bene il 2012 per le startup italiane. Mangatar, una game factory che sviluppa social game ambientati nell’universo manga giapponese, poco dopo avere conseguito il Premio Innovazione 2012, ha  completato un round di investimento con dPixel, che è entrato nel capitale della società campana, tramite il veicolo di investimento in capitale di rischio Digital Investments SCA SICAR.
Grandi sfide attendono quindi i ragazzi di Salerno (Andrea Postiglione, Raffaele Gaito, Michele Criscuolo, Enrico Rossomando e Alfredo Postiglione) che hanno appena lanciato il loro primo titolo “Dengen Chronicles”, disponibile in versione beta all’indirizzo www.dengenchronicles.com.
Dopo averli ospitati per un mese a luglio alla nostra Startup School a San Francisco siamo tornati a trovarli.

Raffaele, innanzitutto spiega ai nostri lettori cosa è Mangatar e il suo nuovo gioco che è in fase di lancio

Mangatar è un social game ambientato nel mondo del fumetto giapponese, il manga. Tecnicamente si tratta di un collectible card game dove gli utenti possono creare il proprio mazzo di carte altamente personalizzato e sfidare altri utenti da tutto il mondo.
L’esperienza che abbiamo fatto con la versione beta di Mangatar ci ha permesso di “collezionare” parecchi feedback dai nostri utenti. A questi si sono aggiunti i commenti e le critiche (costruttive) che abbiamo  racccolto prendendo parte alle numerose competition a cui abbiamo partecipato. Abbiamo così incanalato tutte queste informazioni in un nuovo titolo che si chiama Dengen Chronicles.

Dengen Chronicles è quindi l’evoluzione di Mangatar.  Quali sono le novità che verranno introdotte nei prossimi mesi?

 Si, la possiamo definire a tutti gli effetti la nuova versione di Mangatar. La scelta di cambiare nome e logo è dovuta al fatto che le novità sono parecchie, sotto diversi punti di vista, e volevamo quindi rendere chiaro che si trattasse di un nuovo inizio.  Dal punto di vista grafico ci sarà un’interfaccia completamente rinnovata oltre all’introduzione dei personaggi a corpo intero. Dal punto di vista del gioco, stiamo lavorando parecchio sulle dinamiche di gruppo che saranno fondamentali. Infine, dal punto di vista tecnologico, abbiamo fatto un salto in avanti notevole. Il know-how acquisito in questi mesi sui nuovi standard web (HTML5 e CSS3) ci permetterà di avere una piattaforma di gioco potentissima e avanzatissima.

Mangatar esiste da quasi due anni ormai e da quando vi abbiamo incontrati la prima volta nell’ambito della Business Plan Competition 2011 di Mind the Bridge vi siete rimessi in gioco diverse volte. Vi abbiamo visto fare passi da gigante. Ci raccontate brevemente quali sono state le principali milestones?

Mind the Bridge ci ha visto praticamente crescere. E, se vogliamo dirla tutta, i nostri grandi momenti di pivoting sono stati influenzati sempre da MTB in qualche modo. Considerando che la prima volta che siamo apparsi sulla “scena startup” eravamo un semplice generatore di avatar, senza un business model concreto e senza reali possibilità di crescita. Proprio in occasione della Business Plan Competition 2011 ci rendemmo conto che era un’idea carina ma niente di più. Decidemmo di sfruttare la piattaforma già esistente per costruire intorno al generatore di avatar un “social network” e dare all’utente un’esperienza social intorno agli avatar. Anche in questo caso, idea interessante ma poco trasformabile in azienda! Il pivot successivo è stato quello di utilizzare tutti i moduli pre-esistenti e la tecnologia sviluppata per fare un card-game. Qui nasce la prima versione di “mangatar gioco” che poi si è evoluta fino a quella online.
L’ultima grande tappa è stata quella di trasformare Mangatar in Dengen Chronicles. In questo caso non lo definirei un pivot perché l’idea è rimasta la stessa;si è trattato solo di correggere ciò che non funzionava bene in Mangatar. Anche in questo caso Mind the Bridgeè stato fondamentale. È stato a luglio 2012 (durante la Mind the Bridge Startup School a San Francisco) che ci siamo definitivamente convinti che alcune cose non andavano ed era necessario procedere con delle modifiche sostanziali!

Qual è stata la soddisfazione più grande? E la cosa o le cose più importanti che avete imparato?

Di soddisfazioni ne sono arrivate tante durante questo 2012. Abbiamo vinto numerosi premi che sicuramente ci hanno confermato il fatto di essere sulla buona strada. Fa sempre piacere ricevere queste piccole conferme, ti aiutano ad andare avanti nei momenti bui. Sicuramente la vittoria del PNI 2012 è stata la soddisfazione maggiore. Essere definiti la “startup dell’anno” non è poco. E’ una grande emozione ma anche una grande responsabilità: adesso si fa sul serio! Ma anche il riconoscimneto di Wind Business Factor è stato importante (visto che ci ha finanziato la partecipazione alla Mind the Bridge Startup School).
Abbiamo imparato parecchie cose in questi mesi. Sarebbe impossibile elencarle tutte. Probabilmente una delle cose più importanti è stata l’individuazione di un prodotto ben definito e di un business plan chiaro. I primi tempi, quando entrambi non c’erano, eravamo completamente ignorati, sia dalle competition che dagli investitori. Nell’ultimo anno invece le cose sono andate in maniera completamente diversa e penso che il merito sia stato quello di avere un prodotto concreto in mano e un business plan solido. Insomma, far capire che non si trattava solo di un’idea ma di qualcosa di consistente!

 Come siete “inciampati” in dPixel? So che la vostra grinta è piaciuta molto agli investitori. Cosa si aspettano ora da voi?

Beh in realtà con dPixel eravamo in contatto dall’inizio. E’ stato uno dei primi fondi che abbiamo contattato, proprio in quella fase che descrivevo sopra (prodotto incompleto e business plan inesistente). Ci abbiamo provato più di una volta ricevendo dei “no” come risposta. Effettivamente non eravamo pronti!
Nell’ultimo anno c’è stato un ulteriore contatto. Gianluca Dettori ci aveva osservato da vicino in più di un’occasione, aveva visto il nostro prodotto (e il team) crescere e maturare e ci ha dato una possibilità. A quanto pare quest’ultima volta eravamo pronti!
Si aspettano tanto da noi perché il progetto è ambizioso. Credono molto nell’idea ma soprattutto nel team. Il fatto di lavorare insieme da tantissimo tempo è stato un elemento fondamentale nella valutazione del nostro progetto.

Avete degli “asset” nella manica (à la Lapo Elkann)?

Eh direi proprio di si :)
I primi saranno mostrati con l’arrivo di Dengen Chronicles. Poi ci sono tantissimi sviluppi interessanti che abbiamo valutato per i prossimi anni. Ma è presto per parlare di questo…

Mi sono sempre chiesto come vivete il fatto di essere 5 fondatori, un numero piuttosto numeroso. Quali sono gli equilibri che si sono formati tra di voi?

Effettivamente non è facile. Essere cinque soci fondatori ha i suoi vantaggi e svantaggi. Sfruttiamo sicuramente il fatto di avere tutte le figure necessarie allo sviluppo del progetto all’interno del team. Questo è sempre stato un nostro vantaggio competitivo: abbattere i costi del personale all’inizio è stato fondamentale per la sopravvivenza del progetto.
Ovviamente è un po’ più difficile mantenere certi equilibri. Abbiamo, però, dalla nostra il fatto di conoscerci da tanto tempo. Prima di lavorare insieme eravamo “amici” nel mondo reale, alcuni di noi compagni di università ecc. Ci conosciamo da quasi dieci anni e lavoriamo insieme da più di quattro. In una situazione come questa si vanno a creare dei rapporti simili ai rapporti di coppia. Conosci così bene i tuoi soci che impari i loro pregi e i loro difetti. Puoi litigarci e dieci minuti dopo si torna a lavorare insieme come se nulla fosse.

La nuova Italia che avanza” è uno spazio che abbiamo aperto circa due anni fa all’interno di questo blog per presentare e raccontare casi di startup italiane che stanno conseguendo risultati e tracciando una propria traiettoria di innovazione, crescita ed, auspicabilmente, successo. L’obiettivo ultimo è quello di descrivere esperienze positive, nella consapevolezza che queste possano essere di ispirazione e generare un effetto “contagio” positivo (oltre che contribuire a diffondere un atteggiamento positivo ed improntato all’ottimismo, merce rara nel nostro paese).
progetti_idee_1.gifOggi voglio dedicare un po’ di spazio non ad una startup, ma ad un polo tecnologico, quello di Pavia, la cui esperienza (per motivi geografici) ho seguito da vicino e credo abbia qualche elemento di interesse.
Perchè è  interessante?
Perchè dopo circa venti anni di discussioni e di progetti, finalmente lo scorso mese di marzo il Polo Tecnologico di Pavia ha aperto.
E’ partito con 14 imprese e circa un centinaio di addetti che, poco più di 9 mesi dopo, sono diventati 18 e 150, saturando tutti gli spazi diponibili, tranne una area che è stata riservata al  nuovo Acceleratore di impresa, che prenderà il via il prossimo mese di gennaio (uno spazio destinato ad accogliere startup alle primissime fasi, progetti di impresa e wanna-be-entrepreneurs, qui le info per accedervi). E a fine 2013 si aggiungereanno altri 2mila metri (già prenotati da aziende, non solo pavesi). Quindi il Polo è partito e ha dimostrato che c’è domanda per iniziative del genere, ossia c’è domanda di spazi e servizi da parte di aziende innovative.
Ma la notizia vera è che sia partito nonostante fosse rimasto un progetto sulla carta per lunghissimo tempo (mi ricordo di avere visto scegliere da parte di aziende locali le metrature degli uffici nel fantomatico polo tecnologico alla fine degli anni Novanta…) e nonostante una serie di complicazioni di varia natura (politica, tecnica, burocratica, di mancata concertazione locale…) abbiano rischiato fino in fondo di soffocarlo.
Ed è partito grazie all’iniziativa di alcune persone che, nonostante non siano tecnicamente degli startuppers, ne condividono i tratti. Il Polo è nato grazie alla:
visione di un professore dell’Università di Pavia (Mario Stefanelli) che purtroppo non è sopravvissuto alla sua  apertura ma che ha dedicato l’ultima parte della propria carriera al progetto del polo portandogogli in dote la propria reputazione;
tenacia di un giovane imprenditore nel campo immobiliare (Tommaso Mazzocchi) che non si è lasciato scoraggiare dalle continue frenate delle controparti istituzionali e alla fine ha deciso di farlo partire rischiando in prima persona;
voglia di fare di un giovane sindaco (Alessandro Cattaneo) che ha continuato a cercare strade per smuovere l’immobilismo locale.

Due trentenni (un imprenditore ed un politico) e un professore (vero) hanno trasformato carta impolverata in impresa, dimostrando che, se si crede in un progetto e si assumono i relativi rischi, ce la si può fare.
Una piccola storia locale ma che può indicare una strada.

prasso1.jpegCurious Hat e’ stata fondata nel Gennaio 2012 da Luca Prasso e Erwan Maigret, due veterani del mondo dell’animazione digitale e della computer grafica con alle spalle tanti film e successi (Shrek, Madagascar, Kung Fu Panda, How to Train Your Dragon per esempio).

Il progetto di Curious Hat si fonda su due pilastri principali: 
– portare i bambini ad interagire con il mondo circostante (quello vero, non quello virtuale!) attraverso l’uso delle moderne tecnologie mobili
– coinvolgere adulti (genitori, amici, insegnanti) nell’attivita’ di esplorazione, creazione ed apprendimento del bambino

Il progetto e’ alla ribalta in questi giorni perche’ 500 Startups, uno dei piu’ importanti e famosi incubatori della Silicon Valley, li ha scelti per far parte del Batch 5 del programma di Accelerazione.

Chiedo a Luca, un amico parte della comunita’ di Italiani in Silicon Valley da anni, di raccontarci la sua storia.

Luca, com’e’ nato Curious Hat?

Come genitori, prima che imprenditori e tecnici, siamo interessati a creare nuovi strumenti che stimolino la creativita’ e curiosita’ del bambino e che offrano contemporaneamente a noi adulti nuove occasioni di capire meglio i nostri figli interagendo con loro.
Credo che abbiamo il dovere di offrire alle future generazioni tutti gli strumenti per comprendere e conoscere a fondo il mondo reale cosicche’ possano creare migliori mondi (virtuali) nel futuro.

Abbiamo creato intorno a noi un network di artisti e collaboratori da tutto il mondo. 
Con loro, sotto la supervisione di Nadia Andreini come Creative Director, disegniamo e sviluppiamo tanti progetti, ognuno unico per l’uso particolare della tecnologia, per le modalita’ di coinvolgimento del bambino  e per l’impronta unica che l’artista da al lavoro.

Chi c’e’ dietro al progetto?
Siamo uno studio senza un unico ufficio. 
Siamo sparsi in California, Francia, Italia, Canada e tanti altri collaboratori ci aiutano con il marketing e le traduzioni in Cina, Spagna, Svezia, Russia, Giappone.
Abbiamo lavorato in team con centinaia di persone alla realizzazione dei film come Shrek ed ora siamo tornati a ricreare quel senso pionieristico che contraddistingue le piccole realta’ come la nostra, un piccolo gruppo eterogeneo con tanti sogni e tante idee, che parla attraverso Skype e Dropbox.

A cosa state lavorando in questi giorni?

Abbiamo iniziato con piccole applicazioni che stimolano il bambino ad esplorare i colori intorno a se (Color Vacuum), ad individuare la complessita’ nei dettagli e crearne puzzle personalizzati con cui sfidare se stessi e gli amici (PHLIP), a colorare attingendo direttamente ai colori del mondo (Eye Paint) mentre partecipano al completamento di un disegno di un importante illustratore.
In ognuna di queste applicazioni ritroviamo i pilastri che ci guidano costantemente: esplorazione ed interazione, curiosita’ e stimolazione.

I prossimi progetti in sviluppo coinvolgeranno il bambino nella fotografia, nei suoni, nello storytelling e in tante altre aree creative.
Il progetto piu’ importante che vedra’ la luce fra pochi mesi e’ una app che connette genitori e bambini creando un occasione continua di interazione, stimolo reciproco e dialogo.


Ci racconti la svolta di questi giorni e cosa rappresenta per voi?
500 Startups, uno dei piu’ importanti e famosi incubatori della Silicon Valley, ci ha scelto per far parte del Batch 5 del programma di Accelerazione.
4 mesi intensissimi a fianco di incredibili mentors per lavorare a migliorare il nostro progetto, per presentarlo a Febbraio 2013 di fronte ai piu’ grandi investitori degli US (e magari incontreremo altri illuminati investitori Italiani interessati a sostenere il nostro progetto).

La strada e’ lunga per arrivare al cuore dei genitori con il nostro messaggio ed i nostri prodotti.
500 Startups ci da’ tanti strumenti per migliorare il nostro progetto.
Curious Hat cambiera’ dopo questa esperienza, sta gia’ cambiando ogni giorno, per effetto delle incredibili persone che incontriamo.
Ci guidano i volti dei bambini, i nostri Curious Testers, quando ripongono le tablets e corrono a giocare e creare nel mondo reale, forse con qualcosa in piu’ dentro di loro.