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Per una azienda avere un punto di presenza stabile in Silicon Valley è importante: oltre a permettere di intercettare i trend tecnologici e di mercato può permettere sia di accelerare lo sviluppo di prototipi e di business model innovativi che di identificare partner strategici con cui avviare accordi commerciali o fare investimenti/acquisizioni.

Molte grandi aziende hanno un “innovation outpost” nella Bay Area: da punti di presenza molto leggeri (quelli che definiamo “Innovation Antenna” o “Corporate Venture Capital Office“, ossia piccoli gruppi fino a 3 persone spesso ospitati in spazi di coworking o innovation center) a forme più strutturate (“Innovation Lab” e “Innovation R&D Center” che vanno da decine  a centinaia di persone).

Mind the Bridge ha oggi presentato a San Francisco una nuovissima ricerca che risponde a una domanda che in tanti si pongono: quante e quali aziende europee sono realmente presenti in Silicon Valley?

Qui il link per avere accesso al Report che include la lista delle aziende del Vecchio Continente e le persone di contatto per ciascuna.

Di seguito vi riassumo i fatti principali.

  • Quante? Sono 44 le aziende europee che hanno un innovation outpost in Silicon Valley (abbiamo incluso solo quelle che hanno almeno una persona full-time in loco; non sono considerati insediamenti con funzioni esclusivamente produttive e/o commerciali).
  • Quando? Il fenomeno è in crescita: circa il 60% degli outpost è stato avviato dopo il 2010. Oltre un terzo negli ultimi 3 anni.
  • Quali paesi? Germania e Francia guidano il gruppo degli innovation settler. Quasi il 65% degli outpost è stato creato da aziende di questi due paesi. Il regno Unito segue a distanza (11%), mentre i rimanenti 11 outpost rappresentano 6 paesi (Italia, Spagna, Svezia, Svizzera, Olanda e Finlandia).
  • Che settori guardano con maggiore interesse alla Silicon Valley? Automotive, Telecom, Finanza ed Energia sono quelli più rappresentati.
  • Come in Silicon Valley? Le forme scelte sono diverse come spiegato sopra. Quasi metà delle aziende ha optato per una presenza lean (Corporate Innovation Antenna e/o a Corporate Venture Capital Office). L’altra metà ha scelto modalità più strutturate come i Lab e gli R&D Center.
  • E l’Italia? Come detto, l’Italia è presente, sia pure in misura non comparabile a Germania e Francia.  A Luxottica che si è insediata lo scorso anno con un team piuttosto numeroso si è aggiunta ieri Enel. A queste si unisce Unipol che è molto attiva nella Bay Area attraverso la propria partnership con Mind the Bridge. E il nuovo Console Lorenzo Ortona (supportato da Alberto Acito del MISE) è determinato ad ampliare gli spazi di atterraggio per imprese italiane in Silicon Valley. Quindi attendiamoci traffico sul ponte tra Italia e San Francisco.

EU Corp Outposts in SV

Oggi segnalo un report molto interessante dal titolo “Unlocking UK Productivity – Internationalisation and Innovation in SMEs” realizzato da Goldman Sachs e 10,000 Small Businesses. Il report si concentra su un aspetto chiave rappresentato dal contributo (o rectius dal limitato contributo) delle piccole medie imprese inglesi alla crescita economica del paese.

Tema centrale anche alle nostre latitudini, dove le piccole e medie aziende abbondano ma restano piccole. E, come spesso ripeto, non c’è nulla di cui compiacersi su una piccola impresa. Una piccola impresa è una azienda che, per un motivo o per l’altro, non è riuscita a crescere. E, quindi, un qualche problema deve averlo avuto.

La ricerca fornisce dati e raccomandazioni molto interessanti. Da leggere.

Mi limito a segnalare un punto centrale che emerge dall’analisi. Innovazione e internazionalizzazione sono elementi chiave per la crescita (e la sopravvivenza) di ogni impresa. Le PMI che non crescono tendono a non dare peso a entrambe. E la ragione principale dietro a questo andamento a marce ridotte è dettata dalla “SMEs’ low growth ambition. Nel Regno Unito solo il 17% delle piccole medie imprese ha una “growth aspiration“, contro il 27% negli Stati Uniti.

Molte aziende non ambiscono a crescere. E ciò ne frena le potenzialità di sviluppo e di produttività. Per molte ne sancisce purtroppo spesso la condanna a morte. Perché, in molti business, restare piccoli non è una opzione praticabile.

Meditate imprenditori, meditate.

Come Apple, Facebook, Tesla sono diventate grandi? Come si sta reinventando la Silicon Valley? Dove stanno andando i nuovi Unicorni del Vecchio Continente? Commissione Europea e giganti dell’high tech a confronto … questi sono alcuni dei temi che verranno trattati il 21 settembre a Mountain View (California) durante l’European Innovation Day (#EID).

L’European Innovation Day è l’evento di apertura di SEC2SV (Startup Europe Comes to Silicon Valley), una settimana di incontri di alto profilo in Silicon Valley per una delegazione europea composta da policy maker (tra cui, dal Regno Unito, il Ministro per il Cabinet Office Matthew Hancock* e il CTO Liam Maxwell*, il Presidente dell’Estonia Toomas Hendrik Ilves, il nostro Digital Champion Riccardo Luna, oltre al Commissario europeo per la Digital Economy & Society Guenther Oettinger), grandi aziende (sia tradizionali che astri nascenti delle nuove tecnologie) e investitori. La delegazione accompagnerà una selezione di 15 tra le più promettenti scaleup europee (la lista sarà annunciata inizio settimana prossima, chissà se ci sarà qualche italiana…). Il tutto organizzato da Mind the Bridge sotto l’egida di Startup Europe Partnership insieme a tutte le organizzazioni europee attive in Silicon Valley.

Obiettivo dell’European Innovation Day è di facilitare in modo strutturato un dialogo – sia a livello politico e istituzionale che sul piano del business e degli investimenti – tra il Vecchio Continente e la Silicon Valley. La piattaforma di SEC2SV resterà a disposizione per tutti i policy maker che vogliano confrontarsi con la culla mondiale dell’innovazione, a partire dalla prossima visita (in agenda per fine anno, date da confermare) del Vice Presidente della Commissione Andrus Ansip. Non a caso,  il 21 settembre durante l’EID, verrà lanciato il SEC2SV Sounding Board, un gruppo selezionato di imprenditori e investitori – di origini europee ma residenti in Silicon Valley – che saranno a disposizione per supportare e consigliare i policy maker europei su temi quali lo sviluppo del Digital Single Market e dell’ecosistema delle startup/scaleup. Board che comprende nomi del calibro di Peter Arvai (Prezi), Fabrizio Capobianco (Tok.tv, Funambol), Andrew J.Scott (Urban Life), Adeyemi Ajao (Workday, Tuenti), Ouriel Ohayon (Appsfire, BlaBlaCar).

La conferenza vedrà, tra i key note, Julie Hanna – serial entrepreneur dietro al successo di alcune grandi aziende internet e software (come OpenWave, Portola, Scalix, e Healtheon, ora WebMD), di recente nominata dal Presidente Obama come Entrepreneurship Ambassador per gli Stati Uniti – e  Larry Sonsini, avvocato a capo di Wilson Sonsini Goodrich & Rosati che condividerà con noi i suoi 30 anni di esperienza nel supportare la quotazione di alcune icone della Silicon Valley (da Apple, a Google, e, più di recente, Tesla). Michael Hager, Capo di Gabinetto del Commissario Oettinger, presenterà invece i progressi e i piani in corso da parte della Commissione Europea in tema di digitale e innovazione.

Il resto del programma vedrà moltissimi speaker di altissimo livello impegnati in panel e fireside chat, tra cui:

  • Meet the EU Unicorns: panel con Nicolas Brusson (BlaBlaCar), Giles Andrews (Zopa), Ignacio Pérez Dolset (U-Tad), Tom Thompson (Klarna), Alexis Giles (SoundCloud), Marc Lamik (Zalando).
  • Europe: There Is Life on Planet Startup. Dati sull’ecosistema europeo delle startup and scaleup e sugli investimenti tra Europa e Silicon Valley presentati e discussi da Robin Wauters (Tech.eu), Alberto Onetti (Startup Europe Partnership), Sean Randolph (Bay Area Council Economic Institute), Burton Lee (Stanford University).
  • How is Silicon Valley Reshaping Itself, con Dave McClure*, fondatore di 500 Startups.
  • European Digital Market: How to Implement It: un panel con rappresentanti dei vari paesi membri tra cui Liam Maxwell* (CTO – UK), Riccardo Luna (Digital Champion – Italia).
  • Making EU & US M&A Market More Fluid, con speaker quali Scarlett Sieber (BBVA), Alex M. Lehmann (London Stock Exchange Group), Nerio Alessandri (Technogym).
  • Startups and Universities. Would that ever work?, con Stewart McTavish (Cambridge), Tom Byers (Stanford), Willem Jonker (EIT Digital).
  • Meet the new, bad-ass women entrepreneurs from EU, il problema del gender gap discusso da Asa Nordgren (Trice Imaging), Ebba Blitz (Alertsec), Valentina Morigi (Tensive), Jutta Weigh (Appthetable), Adiba Barney (SVForum, Women in Tech).
  • Digital Single Market and Privacy. The EU Dilemma, con speaker da Google, Facebook*, Salesforce, Yelp

Alcuni speaker (*) sono ancora in attesa di conferma finale, altri se ne aggiungeranno, tra cui alcuni grandi nomi a sorpresa. Stay tuned… qui il link aggiornato all’agenda.

Con oltre 500+ partecipanti attesi e una DEMO area per le migliori EU Scaleup (la lista sarà annunciata inizio settimana prossima), l’European Innovation Day si preannuncia come un appuntamento da non mancare per chi è interessato a fare il punto su innovazione e startup su entrambe le sponde dell’Atlantico. Vi aspettiamo.

Qualche settimana fa Startup Europe Partnership (SEP) ha pubblicato il primo quadro di comparazione dell’ecosistema europeo delle startup visto da una prospettiva un po’ diversa dal solito. Non quella delle partenze (numero di startup, incubatori, acceleratori, …) ma quella degli arrivi (le cosidette “exit”) e di chi sta effettivamente viaggiando e facendosi strada (le “scaleup” e gli “scalers”, ossia le startup che crescono dimensionalmente).
Analisi – va detto – ancora parziale (difficile avere dati esaustivi su un universo in così forte evoluzione) e limitata sia geograficamente (solo cinque paesi per ora mappati, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna) che settorialmente (si concentra per ora sull’ICT, ossia le nuove tecnologie della informazione e comunicazione.

Cosa emerge dai dati? Come di consueto mi limito ad alcuni rapidi commenti, rimandando al report – SEP Monitor è scaricabile qui – per un’analisi più completa.

Il Regno Unito fa gara a parte. Delle 990 scaleups mappate nei cinque paesi 399 vengono da lì. Il doppio di Germania (208) e Francia (205), oltre quattro volte Spagna (106) e Italia (72).

Al di là del numero delle scaleups, il Regno Unito è soprattutto avanti per la quantità di capitali che è riuscita a mettere a loro disposizione. Oltre 11 miliardi di dollari ($11.1B), quasi due volte quanto investito in Germania ($6.6B), quattro volte la Francia ($3.1B), sei volte la Spagna ($1.8B) e quasi trenta volte l’Italia ($0.4B).

È in particolare sull’accesso delle startup al mercato di borsa che il Regno Unito stacca tutti. 12 startup quotate e soprattutto quattro miliardi raccolti attraverso il canale borsistico, il doppio di quanto tutti gli altri paesi hanno fatto messi insieme.

Dati simili, con differenze ancora più marcate, se restringiamo la analisi agli scalers, ossia le startup che hanno raccolto oltre 100 milioni di dollari. Dei 38 mappati, la metà (19) vengono dal Regno Unito, la Germania si ferma a 9, la Francia a 6, la Spagna a 3, l’Italia non è pervenuta.

Come leggere questi dati? Sembrerebbe che Italia ne esca con le ossa rotte. Quinta su cinque paesi. E temo che nel prossimo report, quando mapperemo anche i paesi nordici, scalerà di altre posizioni.

Rendiamocene conto: l’Italia non è più (da tempo) una delle locomotive dell’innovazione europea. I treni sono partiti tempo fa e noi eravamo in altre vicende affaccendati. Eravamo impegnati a discutere su come cambiare tutto senza però cambiare nulla. Discussioni che ahimè non mi sembrano ancora concluse.

Però vedo una luce in fondo al tunnel. Mentre, a livello di sistema paese, eravamo presi in interminabili discussioni, dal basso c’è chi ha iniziato a fare.E ha prodotto risultati significativi. È il popolo delle startup, degli innovatori, degli investitori. È il popolo di chi fa e non passa le giornate a dibattere su cosa gli altri dovrebbero fare. È un popolo silenzioso e operoso che collabora e crede in chi prova a fare. È un popolo che sta in silenzio raccogliendo sempre più adepti. È il popolo che cambierà l’Italia e ci riporterà lentamente in alto nelle classifiche che oggi ci vedono impietosamente nella parte destra del tabellone.

Quindi come leggere i dati?

Siamo indietro perché siamo partiti in ritardo rispetto agli altri paesi e senza supporto istituzionale. Mi sarei stupito del contrario.

Nonostante tutto stiamo giocando la partita. Con il tempo e, magari, con un po’ più di supporto istituzionale – il lavoro che stanno facendo i vari Luna, Firpo, Corbetta, Fusacchia è encomiabile – recuperemo le posizioni perdute. Il lavoro è l’unica strada percorribile.

C’è una luce in fondo al tunnel. E non è un treno che ci sta venendo incontro.

 

Ieri sera sono  stato invitato a partecipare al ricevimento che il Presidente francese Hollande ha dedicato alla tre giorni di “La French Tech” e “Web Investor Forum“. La Francia ha quindi aperto le porte dell’Eliseo alle startup, ribadendo ufficialmente la centralità di questo tema per il presente e futuro dell’economia francese.

In parallelo, le startup inglesi erano accolte dal Primo Ministro David Cameron al numero 10 di Downing Street per la UK Tech Reception.

E l’Italia? L’Italia ha paradossalmente l’opportunità storica di fare molto di più per le startup. Difatti, il prossimo 8 luglio, l’Italia inagurerà ufficialmente con Digital Venice il semestre di presidenza del Consiglio Europeo a Venezia.

E, dopo gli imbarazzi organizzativi, l’Italia sembra sia determinata a cogliere questa opportunità.

Uno dei cinque workshop tematici si chiamerà Startup Europe! e sarà dedicato a identificare le priorità e le linee di intervento per sostenere la crescita del fenomeno startup in Europa.

Perché è importante? Perché è la prima volta in assoluto che, nell’agenda di un evento sotto l’egida dal Consiglio Europeo, viene dato spazio al mondo delle startup. Quindi da Venezia arriva un segnale (politico) forte per il mondo delle startup. Un segnale che sarà ancora più forte se il tema delle startup sarà anche incluso nella Venice Declaration, la dichiarazione che verrà presentata nel prossimo incontro dei Capi di Stato e di Governo a Novembre.

Le startup sono abituate ad arrangiarsi e risolvere i problemi da sole. Ma, per fare il definitivo salto di qualità nel Vecchio Continente e recuperare i gap che ci separano non solo dagli Stati Uniti ma anche da altri paesi (rimando ai dati pubblicati martedì), è necessario che la politica (buona) scenda in campo al loro fianco.

Ieri, a Parigi e a Londra, due paesi hanno mostrato, ai massimi livelli istituzionali, disponibilità di ascolto e supporto. A luglio, a Venezia, c’è la possibilità, da parte dell’Italia, di rilanciare il messaggio a livello europeo. L’inclusione del tema delle startup nella Venice Declaration darebbe un segnale forte e inevequivocabile che l’Europa ha deciso di puntare (sia pure con ritardo) su startup e innovazione per il proprio rilancio.

Sono certo che il Presidente Renzi non si farà sfuggire l’occasione.

Ogni epoca ha la sua “web tax“.

L’amico Salvo Mizzi mi ha ricordato come nel 1865 in Inghilterra il “Red Flag Act” avesse cercato di ostacolare il nascente mercato delle automobili imponendo che, al passaggio nei centri urbani, tutti gli “horseless carriage” fossero preceduti e seguiti da una persona a piedi che avvertisse i passanti sventolando una bandiera rossa (in questo articolo tutti i dettagli).

La realtà è che il nuovo spaventa perchè turba e modifica gli equilibri esistenti e le rendite di posizione. E trova sempre qualcuno che, spaventato, è pronto ad ostacolarlo. Come diceva ben Luca De Biase, in un articolo di un anno fa (purtroppo sempre attuale), “gli innovatori sono quasi sempre isolati, mentre i conservatori o formalisti  sono spesso di fatto alleati“.

La buona notizia è che, la storia insegna, chi si oppone al cambiamento, in genere perde. Oggi non vediamo sventolatori sulle strade precedere le auto. “You’ll never win, if you fight the future“, riprendendo le parole di Jeff Bezos in una intervista di Beppe Severgnini.

Lo scorso venerdì siamo stati a Lecce per una delle tappe del nostro Job Creator Tour 2013. Obiettivo della giornata è spiegare cosa significa essere imprenditori e fare startup, con riferimento al modello della Silicon Valley.

Ma perché la Silicon Valley? Che senso ha in Italia parlare di Silicon Valley? Perché mandare dei ragazzi italiani in Silicon Valley a scuola di startup? Queste domande mi vengono fatte di frequente e mi sono state fatte anche a Lecce.

Una ottima risposta arriva da un post di Natasha Lomas pubblicato proprio venerdì su TechCrunch. Natasha spiega il senso del  Silicon Valley Internship Programme (SVIP) che si propone di mandare 15 studenti inglesi a fare esperienza di startup per un anno in Silicon Valley. E individua un obiettivo principale di natura culturale, nello specifico quello di “being exposed to a little of that ‘fail and move on’ and ‘nothing is impossible’ attitude“.

Perché? Perchè, segnala Michael Hughes, il fondatore del programma, “in Britain  there is more of a tendency towards critique of ideas and it is harder to have your career recover from a failed venture“.

Credo che, anche da noi, sia molto diffuso un senso di pessimismo dilagante e una tendenza a criticare a priori e in modo distruttivo chi cerca di fare qualcosa. di nuovo.

E portare giovani in Silicon Valley significa avere giovani che rientrano nel proprio paese con positività e voglia di fare (“bring back a little bit of the West Coast positivity to contribute to the local startup scene“). Anticorpi quantomai necessari in paesi che spesso sono bloccati da un immobilismo e conservatorismo cuturale che soffoca voglia di fare e creatività.

Perciò la “can-do attitude” della Silicon Valley (o il “si può fare” à la Frankenstein Junior, qui deve ringraziare Nicola De Carne di Wi-Next per avermelo riportato alla memoria) può aiutare molto.

E siamo certi che darà ancora più energia alle ragazze di CucinaMancina (Lorenza Dadduzio e Flavia Giordano) che, grazie al contributo della CCIAA di Lecce e di Banca Fineco, voleranno a San Francisco per partecipare alla Mind the Bridge Startup School.

SI PUO’ FARE, anche da noi.

 

Soundreef_Logo.pngLa startup di cui parliamo oggi si chiama Soundreef. E’ una società di gestione collettiva di diritti musicali nata nel Regno Unito che sta rivoluzionando il modo in cui le royalties sono raccolte, offrendo un’alternativa a SIAE/SCF e alle altre società collettive in Europa.
Perchè ne parliamo? Perchè, dietro alla bandiera inglese, ci sono menti e capitali italiani. Stiamo parlando di Davide d’Atri e Francesco Danieli, i due founder, alla loro seconda startup insieme (dopo l’esperienza di Beatpick.com), oltre ad un angel, Gabriele Valli, che collabora con loro da anni.
Nel 2011 Soundreef ha raccolto due finanziamenti per quasi un milione di euro: un seed a gennaio, con l’incubatore LVenture/EnLabs, e uno a settembre da investitori privati Italiani.
Siamo andati a trovare Davide D’Atri per saperne di più.

DavideDAtri.jpgDavide, da dove nasce l’idea di Soundreef?
L’idea nasce da un grosso problema avvertito da musicisti e aziende per ciò che concerne la gestione dei diritti musicali d’autore. La gestione delle royalties in Europa, avviene, o meglio avveniva, in regime di monopolio (SIAE/SCF). Stiamo parlando di un mercato che, oltre ad essere caratterizzato per definizione dalla mancanza di opzioni, nel lungo periodo si è trascinato processi obsoleti e costosi che raramente portano con sé servizi a valore aggiunto per i musicisti e le aziende.
Noi avevamo già fatto esperienza su quel mercato sia con la nostra precedente startup (Beatpick), sia con altri lavori sul campo oltre che con la mia tesi di laurea (conseguita al Master in Business Economics nel 2003 (presso la Cass Business School della City University di Londra).
La musica è un’industria creativa, giovane e fresca che tuttavia utilizza gli stessi processi che usava 50 anni fa. Ci siamo detti, perché non cambiarlo? Abbiamo quindi iniziato a pensare a come tramutare queste inefficienze in innovazione e dinamicità. Ci siamo specializzati nell’offrire soluzioni che rendano più trasparenti, semplici e analitiche le transazioni riguardanti le royalties, in modo da poter favorire sia i clienti che gli artisti. In particolare offriamo agli artisti degli strumenti on-line che permettano loro di controllare le loro royalties come se stessero controllando un conto corrente online.
Inoltre, Soundreef nasce anche dalla constatazione che gli esercizi percepiscono gli “abbonamenti” come una tassa,invece che una giusta ricompensa per gli aventi diritto (gliartisti). Non dovrebbe essere così però. Questo è sintomo di una comunicazione errata.

Quindi in pratica come funziona? Cosa offre in più il vostro servizio rispetto a quello offerto da SIAE/SCF ai fruitori di musica?
Soundreef è specializzata in musica d’ambiente per catene di commercio alimentare, elettronica, abbigliamento, arredamento, centri commerciali e per la ristorazione. Con un catalogo di oltre 150.000 canzoni nazionali ed internazionali singolarmente selezionate, Soundreef offre un’alternativa veloce, trasparente ed economica agli abbonamenti SIAE e SCF per la musica di sottofondo.
Il nostro mestiere va oltre la gestione delle licenze. Puntiamo a costruire il palinsesto ottimale per ciascun operatore nel settore musicale in funzione dei suoi obiettivi di marketing e lo facciamo grazie al know-how sviluppato lavorando nell’industria della musica da oltre 10 anni, alle nozioni che abbiamo intrapreso durante gli studi accademici e alle collaborazioni che di volta in volta instauriamo con le aziende e gli operatori stessi. Quindi la nostra offerta va oltre una semplice licenza.
Inoltre noi ci prendiamo anche cura di tutte le interazioni con SIAE e SCF sin dall’inizio del contratto. La nostra soluzione è evoluta, conveniente e su misura del cliente. Evoluta perché utilizziamo tecnologie avanzate per rendere tutti i processi più semplici e tracciabili. Conveniente perché, grazie alla nostra efficienza, è possibile ridurre sostanzialmente i costi legati alla trasmissione di musica di sottofondo. Su misura del cliente, perché offriamo un servizio personalizzato in base alle specifiche esigenze di marketing.
Auchan, Crai, Unes e tante altre catene in Italia sono tra quelle che ci hanno dato la loro fiducia. Attualmente, migliaia di punti vendita in Svezia, Spagna, Italia, Regno Unito e Francia usano palinsesti sviluppati da Soundreef, trasmettendo le “nostre” canzoni in supermercati, centri commerciali, centri sportivi, fiere e ristoranti.

E dal lato dell’artista?
La differenza principale tra Soundreef e le altre società di collecting è che con noi sai sempre dove si sta suonando la tua musica, quanto stai guadagnando e quando verrai pagato. L’avente diritto può vedere tutti i suoi analytics, in tempo reale, accedendo al proprio dashboard online. Il dashboard offre una visione analitica delle informazioni riguardanti l’utilizzo della musica (tipologia di in-store radio, indirizzo della location, giorni di programmazione, numero di volte che è stata suonata, guadagni). Per qualunque altro dettaglio, il nostro Radio Channel Locator permette di visualizzare, su una Google Map, esattamente dove la musica viene suonata e i dettagli relativi al canale radio. In più le informazioni sono esportabili in un documento Excel.

E come ha reagito l’industria discografica finora?
Positivamente, stiamo dando loro una valida alternativa ad un modello di tipo “take-it-or-leave-it”. Infatti, il nostro catalogo musicale sta crescendo ogni giorno e continuamente riceviamo richieste di informazioni e feedback positivi da artisti ed etichette provenienti da tutto il mondo.
Da aggiungere che scoprire l’esistenza di un’alternativa al controllo monopolistico dei diritti d’autore sconvolge la mente di quasi tutti coloro che sentono parlare di noi. Motivo per cui è solo dopo aver conosciuto Soundreef che spesso si comprende che le royalties raccolte non hanno nulla a che fare con delle tasse.

Industria discografica a favore, artisti e aziende contente. Quali sono allora le più grandi sfide che state attualmente affrontando?
Essere più open possibile per quanto riguarda i nostri processi. Siamo una società finanziata da Venture Capital e così dobbiamo rispettare la privacy dei nostri investitori, ma allo stesso tempo ci piace condividere il maggior numero di dettagli possibile con i nostri autori, editori ed etichette. Pensiamo che il nostro impegno per la trasparenza e per la creazione di un dialogo aperto con i titolari dei diritti d’autore sia fondamentale per una crescita sostenibile e veloce.

Soundreef_Team.jpgChe progetti pensate di seguire in futuro con Soundreef?
Non vediamo l’ora di espandere i nostri servizi in modo da raccogliere altri tipi di royalties, soprattutto royalties digitali derivanti dalle vendite on-line, video on-demand, dei contenuti generati dagli utenti e web radio. Stiamo già gettando le basi per farlo, ma vorremmo poter testare alla perfezione la piattaforma sviluppata per offrire il miglior servizio possibile.

Cosa vi motiva ogni giorno ad andare avanti e mettere un mattoncino in più?
Il team di Soundreef (nella foto) ama il proprio lavoro, i musicisti e l’industria. Sono queste passioni che prima di tutto ci hanno incoraggiato a lanciarci in questa avventura e che ogni giorno ci motivano. La nostra mission è quella di utilizzare tecnologia all’avanguardia per creare un sistema in cui i titolari dei diritti possono avere il controllo sulle proprie entrate e le aziende possono trovare la musica che meglio si adatta al proprio target di mercato. Questo l’obiettivo che ci porta ogni giorno a migliorarci e fare di più per raggiungere una soluzione adeguata ad ogni cliente.

Il modello della Silicon Valley è esportabile in Europa? E’ una domanda abbastanza ricorrente in questo blog.
Oggi recupero un pò di spunti da un piacevole articolo di Liz Rice, una imprenditrice londinese che traccia un confronto tra la Bay Area e Londra (in cui come descritto in un articolo precedente sta sviluppandosi una comunità imprenditoriale molto vivace).
Liz chiude il suo pezzo dicendo che nel Vecchio Continente non manca nulla: università di livello (“We have universities every bit as demanding and effective as Stanford“), capitali (“We have a growing community of investors“), iniziative per favorire l’incubazione e l’incontro delle startups (“We have an ever-increasing numbers of meetups, hackathons and start-up hub initiatives“) con aziende stabilite (“the proximity to other businesses“), lo spirito imprenditoriale (“It seems that everyone here is an entrepreneur“). Abbiamo persino zone in cui il tempo è quasi bello come quello della Silicon Valley (“We have the weather in places“).
Gli ingredienti della ricetta Silicon Valley ci sono tutti.
Cosa ci manca?
Il fatto che tutti questi ingredienti non siano tutti concentrati nello stesso posto (“The challenge is that all these factors aren’t co-located as they are here“).
A Londra ci stanno provando ma oggettivamente there is no way “to get more sunshine in London…“.
In Italia su quest’ultimo aspetto (forse quello più difficilmente modificabile) siamo decisamemte avvantaggiati. Partiamo da qui…

Sono tanti i tentativi di replicare la Silcon Valley. Uno particolarmente interessante è in atto a Londra, ove, con l’occasione delle Olimpiadi, si vuole cercare di fare decollare quel proto-cluster  (ribattezzato Silicon Roundabout, immagine sotto ripresa da Wired che gli ha dedicato un servizio lo scorso mese) che si è sviluppato spontaneamente intorno a Old Street nell’East London e che oggi raccoglie circa 150 aziende, ivi incluse filiali e uffici di imprese estere. Il piano è quello di creare, poco più a nord a Stratford, una “Tech City” all’interno dell’Olimpic Park media centre, investendo circa 200 milioni di sterline per offrire spazi per startups a basso costo, alta connettività e condizioni flessibili. Hanno manifestato interesse a localizzarsi una dozzina di grandi imprese (tra cui Intel, Google, Cisco e BT) e alcune università.

Al di là della bontà e del potenziale di successo del piano, sono interessanti i commenti che lo hanno accompagnato e che evidenziano le criticità da affrontare quando si cerca di progettare sulla carta e fare partire un incubatore, accelleratore o parco tecnologico a dir si voglia. Di seguito una sintesi del dibattito in corso che credo possa fornire spunti interessanti anche a chi sta lavorando per fare partire qualcosa di simile nel nostro paese.

1) I tech hubs raramente vengono nascono su iniziativa di governi ed istituzioni e non si sviluppano semplicemente offrendo spazi a basso costo. L’unica azione efficace da parte dei governi per favorire lo sviluppo delle startups è la rimozione degli impedimenti burocratici e normativi alla creazione e alla crescita delle imprese così la riformare della legge sul fallimento (rendendo “failing more palatable”): gli imprenditori penseranno al resto, tra cui trovare spazi a basso costo.
2) Paradossalmente investire in una zona specifica attraendo grandi aziende come Google, Facebook e Intel può avere l’effetto opposto: fa alzare i valori immobiliari e scappare le startups che di solito si concentrano in zone ove i costi sono più bassi (“in places nobody wants to be, as they’re very low cost”).
3) E’ importante attrarre le grandi imprese, ma è critico che queste imprese localizzino centri di ricerca e non semplicemente uffici commerciali. Se no, il rischio è che si limitino a fare shopping delle idee migliori (e le grandi imprese sono “voracious buyers of clever startups”). Quello che serve invece è avere grandi centri di sviluppo da cui alcuni tecnici possano col tempo fuoriuscire per avvviare le proprie aziende. Un buon esempio è quello di Lastminute.com da cui sono originati circa 20 spin-offs.
4) Ma la Silicon Valley è davvero replicabile? Secondo molti “the fixation with Silicon Valley is incredibly damaging not just with the British startup scene, but in general for Europe”. Le basi del successo della Bay Area (così come di Israele) sono, a detta di alcuni, i massivi investimenti della industria militare nell’area che hanno nel tempo creato un solido sistema universitario e una particolare base di conoscenze.

Le difficoltà certamente esistono, i modelli diffcilmente si trasferiscono “tel quel”. Resta l’imprescindibile necessità in Europa di aumentare il numero delle startups e di creare innovazione. Ogni tentativo va supportato ed incoraggiato, cercando di evitare di replicare errori già fatti altrove. Al riguardo, il laboratorio londinese può essere un caso interessante da monitorare.