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Silvia Pagliuca


Giornalista professionista e consulente in comunicazione, scrivo di lavoro, cultura d’impresa, innovazione e gender gap. Sviluppo progetti editoriali, occupandomi della strategia dei contenuti per eventi, corporate magazine e social media. Ho studiato Comunicazione all’Università IULM di Milano, con Master in Comunicazione Politica, Sociale e Istituzionale e Master in Giornalismo IULM – Mediaset. Amo viaggiare, praticare yoga e scoprire ciò che non conosco, guardando al futuro con consapevolezza e sostenibilità. Mi hanno definita una “Unstoppable Women”.


Frustrazione. Si può decidere di fondare un’impresa anche per dare una risposta alla propria frustrazione. Per Marco Ogliengo, cofounder di Jet HR, startup che semplifica la gestione dei dipendenti e che ha appena chiuso un seed round da 12 milioni di euro, è andata proprio così.

La motivazione

Trentasette anni, torinese ma cresciuto a Parma, dopo gli studi in Bocconi e alla Fudan University di Shanghai, lavora per un periodo in McKinsey e a seguire entra in Zalora Group, marketplace di lusso, ricoprendo il ruolo di managing director per Taiwan e l’Indonesia. Qualche anno più tardi, torna in Italia e con la sua compagna Silvia Wang (oggi founder di Serenis) lancia ProntoPro, portale che mette in contatto domanda e offerta di lavoro professionale e artigianale. Una realtà che guida fino al 2021, arrivando alla fusione con la turca Armut. Un’exit di successo ma che non sopisce quel senso di frustrazione che Marco aveva sperimentato fin dalla sua prima attività. All’origine di tutto, la burocrazia legata alla gestione del personale. «Con mia moglie abbiamo vissuto tutte le fasi della vita di un’impresa e in ognuna di esse ci siamo scontrati con lo scoglio dell’amministrazione del personale. Abbiamo dovuto imparare cosa fosse un superminimo, come applicare un co-co-pro, come gestire ferie e permessi e molto altro. Un incredibile spreco di tempo e risorse: quello italiano è il sistema più complesso al mondo nonché quello con il costo più alto per i servizi di payroll. Un’azienda spende circa 30 euro per dipendente al mese, nei Paesi anglosassoni non si superano i 5 euro, in Africa e Asia circa 1 euro», spiega.

Il nuovo modo di fare impresa

Nel 2023, lancia con Francesco Scalambrino, top manager con responsabilità sul software di aziende “unicorno”, una soluzione tech per la gestione amministrativa del personale: Jet HR. A pochi giorni dal lancio, realizza un round pre-seed da 4,7 milioni di euro, il più importante mai ottenuto in Italia, rinnovato a settembre 2024 da un seed round di 12 milioni di euro, per una raccolta complessiva di 16,7 milioni. Il tutto, incassando la fiducia di una nuova classe di imprenditori che guardando all’innovazione come parte chiave del business. Da Dario Brignone e Alberto Dalmasso, co-founder di Satispay, a Luca Ferrari, numero uno di Bending Spoons, da Matteo Pichi, fondatore di Poke House a Giorgio Tinacci di Casavo, e molti altri. Ad agire come lead investor, la società di Venture Capital internazionale Picus Capital, oltre a Exor Ventures e Italian Founders Fund, ma anche Diego Piacentini, David Clarke, Workday, Tony Jamous, Felix Blossier, nonché Benetton, Berlusconi e Moratti entrati con i propri veicoli di investimento. «Dal 2015 con ProntoPro, e poi ancora nel 2021 con Serenis, fino a oggi con JetHR, abbiamo visto un notevole cambiamento nell’ecosistema dell’innovazione italiana. Sei o sette anni fa, i fondi di Venture Capital erano pochi, mentre le start-up erano molte. Per questo, il sistema era conservativo e poco bilanciato. Era molto difficile fare impresa. Oggi le cose sono cambiate e il round di Jet in parte ne è la conferma» – fa notare Ogliengo.

Alleanze e cultura

Ad aver convinto gli investitori è stata la capacità della piattaforma di semplificare la gestione del personale: automatizzare le ferie, effettuare simulazioni del costo per l’azienda, generare cedolini, fare onboarding di nuovi dipendenti sono alcune delle funzionalità offerte insieme al supporto di un network di consulenti del lavoro a disposizione delle aziende clienti. L’intervento umano è, infatti, ancora fondamentale. «I consulenti del lavoro sono nostri alleati: la piattaforma li libera dalle incombenze più operative come la raccolta e l’inserimento dati, e dà loro la possibilità di concentrarsi solo sulla parte di consulenza e strategia» – afferma il founder riconoscendo per altro che lo sviluppo di Jet HR ha portato alla creazione di una singolare ibridazione di competenze tra designer, software engineering, avvocati e consulenti del lavoro, appunto.

Ma la scommessa più ambiziosa, per Ogliengo, è di tipo culturale: liberare le aziende dalla burocrazia attraverso la tecnologia significa, anzitutto, essere pronti culturalmente ad accettare un modo diverso di fare le cose: «Ci sono piccole e medie imprese che utilizzano ancora il cartaceo per segnare le presenze e consegnarle a mano ai consulenti. È anche una questione anagrafica: saltare una generazione significa passare dalla carta alle app».

Senza dubbio, l’intuizione è stata apprezzata già da molte realtà: il 75% delle aziende clienti, infatti, è arrivata a Jet HR in modo spontaneo, mossa dalla stessa frustrazione che aveva animato il founder. Di conseguenza, l’intero progetto ha subito un’accelerazione repentina: oggi, la piattaforma annovera 200 clienti, tra cui aziende quotate e nomi di rilievo come HelloFresh e WeRoad; può contare su 1 milione di fatturato ricorrente e oltre 5 milioni di stipendi gestiti.

Immaginarsi grandi (ancora prima di esserlo)

L’intera struttura ha subito un’accelerazione repentina: in meno di un anno, è passata da zero a 55 dipendenti, con un lavoro quasi interamente da remoto. E già si prepara una nuova espansione, sia in termini di clienti (l’obiettivo è gestire 1 busta paga su 5 in Italia entro i prossimi sette anni), che di persone (la previsione è arrivare a 70 dipendenti entro fine 2024) che di servizi offerti, con nuovi focus volti a semplificare la gestione dei corsi per la sicurezza a basso rischio, a facilitare la collaborazione delle aziende con il personale a partita Iva e a monitorare il processo di clock in and out, ovvero il badging aziendale.

Una crescita resa sostenibile dall’esperienza: «Dalla mia prima azienda, ho capito che è fondamentale muoversi con un orizzonte di almeno sei mesi. A luglio del 2023, avevamo appena lanciato Jet HR e avevamo solo quattro clienti e una persona nelle operations, ma già in quel momento abbiamo assunto un manager senior per gestire un team da 30 persone. Sapevamo che saremmo cresciuti in fretta e volevamo farci trovare preparati» – confida.

Equilibrio e sostenibilità

In fondo, è sempre una questione di equilibrio e sostenibilità. Nel lavoro così come nella vita privata. Ogliengo e Wang, infatti, non sono solo una coppia di imprenditori dalle evidenti capacità, ma anche genitori di tre figli. «La nostra vita è lavorativamente molto intensa, ma abbiamo un grande purpose e un profondo senso della missione in tutto ciò che facciamo. Se non fossimo guidati da questo spirito, probabilmente sarebbe tutto molto più difficile». E conclude: «Credo che il segreto sia non cercare un bilanciamento tra la vita e il lavoro, quanto piuttosto un’integrazione: se il lavoro è un peso allora diventa insostenibile. Se ti motiva, invece, i confini sfumano e la vita diventa molto più appagante. Sfidante, senza dubbio, ma irrimediabilmente appassionate».

Mancanza di orientamento, informazioni farraginose e spesso distanti dalla realtà. La grande frattura tra giovani e lavoro nasce (anche) da qui. «Non sappiamo nulla del lavoro. Quando da piccoli ci viene chiesto che cosa vorremmo fare da grandi, le opzioni che ci vengono presentate sono: avvocato, commercialista, dottore. Ma è un bacino molto ristretto rispetto alla realtà. Così sbagliamo e facciamo scelte basate su consigli molto distanti rispetto alle nostre ambizioni». A parlare è Giorgia Sorrentino, una delle ragazze che ha partecipato al progetto “Osserva lavoro”, il primo job shadowing pubblico organizzato dal Comune di Milano nell’ambito delle iniziative del Patto per il Lavoro. Come lei altri 220 giovani, tra i 18 e i 25 anni, che negli ultimi sei mesi hanno potuto guardare e imparare da vicino il “mestiere” di altrettanti professionisti.

«Le scuole – riflette Giorgia – dovrebbero aiutarci a capire cosa ci piace e accompagnarci nella scelta del percorso professionale, ma spesso questo compito viene affrontato in maniera superficiale e approssimativa. Personalmente, mi ha aiutata comprendere che va bene cambiare idea e ricominciare da un’altra parte. Il mondo non finisce se si va un anno fuori corso e se ci si accorge che una strada professionale che ci sembrava cucita addosso, si rivela un buco nell’acqua. C’è sempre tempo per ripartire». E a scegliere di invertire il senso di marcia sono in tantissimi. Secondo AlmaDiploma, a un anno dal titolo, per 1 diplomato su 6, la scelta del corso di laurea non è stata soddisfacente: il 6,8% ha lasciato, il 9,3% ha cambiato corso di laurea o ateneo. A tre anni, la quota di abbandono sale al 9,3%, quella dei cambi in corsa arriva al 14,9%. Il cambiamento è determinato principalmente da una generale insoddisfazione rispetto alle aspettative per le discipline incontrate nel corso di laurea, seguito dall’insoddisfazione per l’ateneo scelto. Per il 12%, invece, l’abbandono è legato all’impossibilità di aver potuto frequentare il corso desiderato, magari perché a numero chiuso. Infine, molti interrompono gli studi per motivi personali, lavorativi o economici. A ciò si aggiunge un’ulteriore indagine di Fondazione G Group che attesta come 1 studente su 4 non abbia mai svolto attività di orientamento. Il 33% l’ha fatto solo in 5° superiore. Sono i docenti stessi, secondo l’indagine, a sollecitare nel 61% dei casi la necessità di una formazione più strutturata per le loro attività di orientamento.

Il job shadowing ha consentito ai ragazzi e alle ragazze di affiancarsi proprio come un’ombra ad amministratori e amministratrici delegate, dirigenti, manager, liberi/e professionisti/e e osservare da vicino in cosa consiste il lavoro, verificando le loro aspirazioni e analizzando i propri obiettivi professionali. Così è stato per Giulia Franceschi che ha lavorato al fianco di Elisa Pervinca Bellini, fashion editor di Vogue. «Ho studiato fashion buying, ma avevo idee molto confuse sul mio futuro professionale. Entrare in una vera redazione, capire come funzionano le relazioni con clienti e inserzionisti, partecipare ai press day, assistere alla realizzazione delle interviste, mi ha fatta crescere molto e scoprire di più su questo settore».

«Abbiamo ricevuto moltissime richieste per l’ambito IT, per le risorse umane e per il settore finanziario. I mentor stessi hanno imparato molto dal contatto con i ragazzi. Ancora una volta è emersa l’importanza che la nuova generazione dà all’equilibrio tra vita privata e professionale, all’uso della tecnologia per favorire lo smart working e alla continuità valoriale con l’azienda per cui lavorano. Un punto da potenziare, invece, riguarda la formazione continua, sulla cui importanza devono ancora acquisire molta consapevolezza», commenta l’assessora allo Sviluppo economico e Politiche del lavoro del Comune di Milano, Alessia Cappello. E continua: «È emerso anche quanto il lavoro sia il grande assente nelle scuole: è un tema che dovrebbe essere affrontato ancora prima degli studi superiori, per far sì che i ragazzi possano fare scelte consapevoli e coerenti con le possibilità offerte dal mercato del lavoro».

«Abbiamo accolto in job shadowing 10 ragazzi e con una di loro abbiamo avviato un percorso di stage, visto il match perfetto che si era creato tra le esigenze aziendali e le competenze della ragazza, ma continueremo a monitorare anche gli altri candidati, tenendoli in considerazione in caso di future opportunità professionali. Lavorare con i giovani ci ricorda quando sia importante investire in autorealizzazione, felicità, benessere»,  commenta Vittorio Garavelli, ceo di Shiseido, tra le aziende che ha partecipato al progetto. «A tutti i ragazzi e le ragazze che ho incontrato, ho consigliato di non accontentarsi, soprattutto all’inizio della propria carriera professionale, di ricercare cosa davvero li appaga professionalmente perché solo così riusciranno a dare il massimo e raggiungere traguardi ambiziosi. Siate curiosi, abbiate voglia di apprendere costantemente e di rubare professionalmente da chi ha più esperienza di voi, fate emergere in voi una sana forma di agonismo e spirito di sacrificio», consiglia Garavelli.

E per continuare ad accompagnare i giovani nell’incontro con il mondo del lavoro, il Comune di Milano si prepara a dare avvio alla seconda edizione del progetto “Mentorship Milano”, una delle azioni intraprese per favorire l’empowerment femminile e contribuire al superamento del divario di genere sul lavoro. A ogni ragazza partecipante viene assegnata una figura senior che nella veste di mentor può ispirarla e incoraggiarla a valorizzare le proprie inclinazioni e attitudini. La prima edizione, conclusasi a luglio 2023, ha visto la partecipazione di 267 mentor e di 555 mentee dai 16 ai 30 anni. Entro il 21 ottobre 2024 è possibile inviare la candidatura per la seconda edizione.

Cambiare lavoro è (anche) questione di atomi. Philip Baglini è partito da qui per ridefinire completamente la propria carriera e, di conseguenza, il proprio stile di vita. Nato a Pietrasanta, in Toscana, e cresciuto professionalmente come fisico nucleare, con tanto di esperienze al Cern di Ginevra, ha drasticamente cambiato rotta, scommettendo sulla propria passione per il giornalismo. Non solo ha lasciato l’Italia per trasferirsi in Gran Bretagna, ma ha anche abbandonato il percorso da ricercatore per lanciare un progetto radiofonico tutto suo: London One Radio, stazione di riferimento per gli italiani in Inghilterra. «Gli italiani a Londra sono 350 mila, quasi 700 mila in UK, eppure non esisteva una radio che parlasse del nostro Paese, della nostra cultura, della nostra vita da expat» – racconta Philip. Da qui, l’idea di intraprendere la nuova avventura. Un desiderio coltivato in sordina e realizzato pian piano. «Appena arrivato a Londra, ho iniziato a lavorare come agente per la sicurezza notturna nei locali, è stato un modo per iniziare a scoprire il Paese e la sua cultura. In Inghilterra nessuno ti regala nulla, la competizione è molto alta, ma l’ambiente intorno ti consente di scalare», spiega, ricordando che il suo primo passo è stato fondare un digital magazine per la comunità italiana a Londra (L’italoeuropeo).

A seguire, dopo aver studiato il mercato del broadcasting per quattro anni, ha lanciato la radio: «Trasmettevo del mio armadio, per ovattare i rumori, con un mixer che avevo creato da solo», ricorda. Fino a che non è arrivata la grande occasione: intervistare un gigante della musica come il maestro Ennio Morricone.

«Per una serie di coincidenze, ho avuto questa incredibile opportunità che ho colto immediatamente. È stata la mia occasione per farmi conoscere: il Maestro è stato molto disponibile ed è tornato ospite nella radio altre due volte. Nell’ultimo incontro gli ho svelato quale fosse stato il dietro le quinte della prima intervista fatta insieme: io chiuso nel mio armadio che fingevo di avere un co-conduttore con me per sembrare più professionale ai suoi occhi. Mi ha detto che non si era accorto della finzione e mi ha spronato a non abbandonare il mio sogno. È un ricordo che custodisco con grande tenerezza e riconoscenza».

Oggi, infatti, London One Radio è una radio riconosciuta dalla comunità italiana, con molti ascoltatori che anche attraverso le sue frequenze tengono stretti i legami con il Paese d’origine. Ciò che più di tutto ha segnato il percorso di trasformazione di Philip è stato il metodo scientifico che ha applicato in tutti gli incontri con imprenditori, consulenti o possibili sostenitori dei suoi progetti. «La fisica ha molto a che fare con il business, soprattutto se sapientemente unita alle competenze umanistiche. Ho sempre visto le persone come particelle, gli imprenditori come dei “quanti” con cui mi dovevo relazionare. Questo – spiega – mi ha permesso di scomporre la complessità e raggiungere i miei obiettivi, anche se ammetto che passare dalla forma mentis del ricercatore a quella dell’imprenditore non è stato semplice. Uscire dal laboratorio significa mettersi in gioco in prima persona, ma è solo così che possiamo raggiungere i nostri obiettivi».

Più dei due terzi delle professioni saranno impattate dall’implementazione di tecnologie di Intelligenza Artificiale generativa. Alcuni lavori saranno esposti a un concreto rischio di sostituzione ma, al contempo, emergeranno nuovi ruoli professionali, come il prompt engineering e il machine learning engineering. A dirlo è lo studio predittivo sul Futuro delle competenze nell’era dell’AI di EY, Sanoma e Manpower. Associando questa visione a quella di Microsoft e The European House Ambrosetti secondo la quale l’adozione dell’AI nelle imprese italiane potrebbe generare +18% sul Pil e fino a 312 miliardi di valore aggiunto annuo, capiamo perché è importante fare bene, e fare presto. «Abbiamo bisogno di potenziare l’ecosistema per far sì che l’Italia possa non solo adottare ma anche contribuire concretamente allo sviluppo dell’AI sostenendo un nuovo umanesimo digitale con partenariati pubblico-privati», afferma Gabriele Ferrieri, presidente Associazione Nazionale Giovani Innovatori.

Il caso francese

Il modello da seguire è quello francese. «Parigi sta diventando la piazza europea dell’intelligenza artificiale: offre 40 scuole dedicate all’AI, tante quante quelle offerte insieme dalla Baviera, dal Baden-Württemberg e dall’Olanda», chiarisce Ferrieri. Già nel 2018, infatti, Parigi aveva presentato un piano strategico sul futuro delle nuove tecnologie digitali che ha portato oggi a contare 5mila ricercatrici e ricercatori nell’AI e oltre 400 aziende specializzate nel settore. «L’Ile de France è la prima regione in Europa per spesa in ricerca e sviluppo» – rinnova il presidente di ANGI. I colossi del tech, non a caso, hanno creato già in tempi non sospetti i loro laboratori sull’AI a Parigi, città che gode di un ricco bacino di talenti in matematica, informatica e ingegneria. Talenti che, in passato, dopo essersi laureati all’Institut Polytechnique, all’École normale supérieure o all’INRIA, tendevano a volare negli USA per un post doc e che ora, invece, hanno la reale opportunità di trovare humus per le loro aspirazioni professionali anche a due passi da casa. Meta, ad esempio, già nel 2015 aveva creato il suo laboratorio di ricerca nella capitale francese, con un gruppo dedicato proprio all’AI. La stessa cosa ha fatto Google, che ha recentemente inaugurato un nuovo hub che ospiterà 300 ricercatrici e ricercatori. E i ben informati sostengono che diverse startup di IA stiano lavorando insieme a gare d’appalto pubbliche per ottenere sovvenzioni governative del valore di milioni di euro nell’ambito di France 2030.

La formazione (che non c’è)

Tornando all’Italia, secondo Ferrieri, l’AI potrebbe aiutare a risolvere alcune criticità del nostro mercato del lavoro, a partire dai Neet, ovvero donne e giovani (15-29) che non studiano e non lavorano e che con l’AI potrebbero trovare nuove occasioni di formazione e inserimento professionale. L’impatto dell’IA, infatti, non si limiterà alla domanda di lavoro e alla trasformazione delle dei processi, ma riguarderà anche (e soprattutto) competenze e apprendimento. Sarà fondamentale, quindi, sostenere la realizzazione di percorsi di formazione per chi ancora non è attivo sul mercato del lavoro, ma anche per chi è già occupato con programmi di upskilling che coprano le nuove competenze, anche ricorrendo a modelli formativi innovativi. I forti cambiamenti in corso nelle aziende – e tutti quelli che arriveranno – richiederanno, infatti, visione e capacità di adattamento. In questo contesto, l’alto potenziale occupazionale inespresso dovuto a un tasso di occupazione giovanile e femminile tra i più bassi nell’Unione europea, potrebbe essere un elemento di mitigazione del cosiddetto “talent shortage” (mancanza di talenti). L’IA stessa, per altro, potrà fornire supporto al potenziamento dei sistemi di apprendimento continuo.

Al momento, però, siamo indietro: a livello globale, secondo un’indagine di Salesforce, il 70% dei lavoratori non ha ancora ricevuto una formazione completa sull’utilizzo etico e sicuro degli strumenti di intelligenza artificiale generativa. In Italia, solo il 23% sostiene di aver ricevuto una formazione adeguata. Non solo: il 42% dei lavoratori italiani dichiara di non avere ricevuto linee guida aziendali chiare sull’utilizzo dell’AI. Un vuoto normativo che solleva questioni importanti, soprattutto considerando che il 49% dei lavoratori italiani utilizza l’intelligenza artificiale generativa senza l’approvazione formale dei propri datori di lavoro. Quasi uno su due, infatti, usa l’AI di nascosto presentando il lavoro come se fosse interamente farina del proprio sacco. Una tendenza che, come rileva l’indagine, è particolarmente evidente tra le generazioni più giovani della Gen Z, con quattro su cinque (79%) che scelgono questa “scorciatoia”, e tra i Millennial, di cui tre su cinque (63%) seguono la stessa strada. «I lavoratori italiani non solo abbracciano l’intelligenza artificiale generativa senza il benestare formale delle loro aziende, ma lo fanno con la consapevolezza che l’utilizzo etico di questa tecnologia richiede programmi ufficialmente approvati – commenta Vanessa Fortarezza, Country Leader di Salesforce per l’Italia -. Le aziende del nostro Paese dovrebbero quindi investire in strumenti di intelligenza artificiale generativa sicuri, etici e affidabili, perché i loro dipendenti sentono la necessità di dover restare al passo con i tempi ricevendo un’adeguata formazione che promuova la loro crescita professionale e la fiducia all’interno dell’azienda stessa».

Innovare con responsabilità

Etica e regolamentazione sono, infatti, centrali. «L’Artificial Intelligence Act segna la strada che l’Europa dovrà percorrere in fatto di regolamentazione. L’AI, infatti, influisce in molti aspetti delle nostre vite, per questo dobbiamo tutelarci dai rischi», avverte Ferrieri. Il testo vieta, infatti, lo sviluppo di applicazioni AI ad alto rischio che potrebbero impiegare tecniche subliminali, manipolative o ingannevoli per distorcere il comportamento e compromettere il processo decisionale informato, causando danni significativi. Ma vieta anche tutti i sistemi AI che potrebbero sfruttare le vulnerabilità legate all’età, alla disabilità o alle circostanze socioeconomiche per distorcere il comportamento, causando danni significativi. Per monitorare situazioni come queste e promuovere un’intelligenza artificiale affidabile, è stato istituito un Ufficio AI all’interno della Commissione Europea. E se c’è una cosa che potrebbe differenziare le startup europee di IA dai giganti d’oltreoceano come OpenAI e Anthropic è proprio la regolamentazione e l’attenzione all’etica. Per accelerare sì, ma con la volontà di coniugare etica e innovazione.

È sempre meno comune trascorrere tutta la propria vita professionale all’interno di uno stesso contesto, mentre è sempre più probabile ritrovarsi a voler (o dover) uscire dalla propria bolla per mettersi alla prova in una nuova organizzazione. Per questo, forse la prima cosa di cui prendersi cura nella gestione di un percorso di carriera è la curva di apprendimento. Luca La Barbera nel libro “Lavorare per crescere nelle organizzazioni. Costruire il successo un passo alla volta” spiega efficacemente come allenare la propria “learning curve”. La prima cosa da fare, sostiene, è essere consapevoli della fase di apprendimento in cui ci si trova. La prima è, solitamente, la più frustrante, perché è quella in cui servono molti tentativi per riuscire a raggiungere risultati accettabili. Per quanto ripetitiva, è una fase fondamentale, perché qui si mettono le basi su cui costruire i passi successivi.

A seguire, dunque, una volta diventati bravi, tutto sempre molto più semplice e lineare. «Ma – avverte La Barbera – se questa fase persiste a lungo, diventa noiosa e poco stimolante. Se ogni mattina ci guardiamo allo specchio e, in un angolo della nostra mente, vediamo passare un fugace “Ancora?”, è ora di saltare su un’altra curva e di continuare nel percorso di crescita. Innescheremo così un ciclo virtuoso». Presto o tardi, insomma, arriva il momento in cui ci si rende conto che, nella attuale posizione, resta poco da dare e nulla da ricevere: in un contesto di questo tipo, non stiamo più imparando e non stiamo dando il meglio di noi. È il segnale che è arrivato il momento di fare un passo avanti.

«Nessuno si preoccuperà mai di chiederti se tu sia ancora nella fase in cui l’organizzazione in cui sei ti offre opportunità di imparare o se stai ormai semplicemente restituendo tutto ciò che hai messo nel tuo bagaglio di competenze acquisite fino a quel momento. L’abilità sta nel riuscire a mettere in fila molte curve di apprendimento, una di seguito all’altra, e fare in modo che, una volta raggiunto il plateau, si inneschi un nuovo ciclo», chiarisce l’autore.

Solo così potremo governare il nostro processo di crescita prendendo in mano le redini della crescita di carriera. E attenzione, perché non sempre innescare una nuova curva implica cambiare azienda. Anzi, nel corso di uno stesso lavoro, si possono mettere in fila diversi progetti, assumere ruoli vari, cambiare responsabile o team.

Il libro, aperto dalla prefazione di Sebastiano Zanolli, fornisce molte altre riflessioni come questa, con l’obiettivo di arrivare a definire un vero e proprio metodo per guidare consapevolmente la propria traiettoria di carriera. «Non è detto – conclude La Barbara – che passeremo il resto della nostra vita professionale dentro il contesto cui apparteniamo, anzi, è probabile che un giorno dovremo chiedere un aiuto al di fuori. Serve un metodo, chiaro e ordinato, che insegni a navigare tali acque, scegliendo con cura i “ferri del mestiere” e definendo in che momento e in quale modo utilizzeremo ciascuno strumento».

31 LUGLIO 2024 | di
Business strategy planning, project management. Tasks planing concept. Business working process, time management and teamwork. Start up plan process. Data analysis and analytic. Kaizen philosophy
Business strategy planning, project management. Tasks planing concept. Business working process, ...

Kaizen è una parola giapponese che letteralmente significa “buon cambiamento”. Il primo ad adottarlo come linea guida nei processi aziendali fu Sakichi Toyoda, leggendario fondatore della Toyota. Si fa risalire agli anni Trenta del 900 l’intuizione secondo cui Toyoda invitava ogni persona a cercare piccoli ma continui miglioramenti lungo il proprio percorso, anziché grandi rivoluzioni. “Aprite la finestra: c’è un grande mondo là fuori”, diceva. Oggi, a quasi un secolo di distanza, il suo insegnamento è più prezioso che mai.

Ilaria Bono_ToyotaNell’epoca in cui il lavoro cambia volto e forma, ai lavoratori e alle lavoratrici di tutto il mondo si chiede di scommettere sul miglioramento, di far avanzare le proprie competenze o di acquisirne di nuove, ma soprattutto, di essere flessibili. «La flessibilità è un valore al quale ci siamo disabituati» – commenta Ilaria Bono, People, organization & culture general manager in Toyota Motor Italia. «Siamo sempre più orientati all’ambizione fine a se stessa e questo, di conseguenza, ci porta ad approcciare al lavoro con una grande rigidità». Invece, la chiave è essere pronti a riconoscere che si può sempre essere migliori. «Coltiviamo la cultura dell’errore perché ogni errore è un’esperienza da cui imparare» – spiega Bono. Attraverso l’app Yumi, in Toyota, ad esempio, ogni persona può dare feedback ai suoi pari, al proprio responsabile o ai suoi collaboratori, in un’ottica di crescita consapevole e miglioramento continuo, appunto.

«C’è poi il tema delle competenze che proprio non si trovano, penso all’analisi dei dati: è cruciale per ogni area ormai, ma trovare specialisti in materia è difficilissimo» – evidenzia. Anche per questo, una delle strategie da sempre usate in Toyota è investire sull’agilità dell’apprendimento delle sue persone e sulla predisposizione al cambiamento che, nei fatti, significa job rotation e formazione continua. Due approcci che, secondo Bono, hanno un impatto diretto anche sull’inclusione. «Se siamo pronti a imparare dagli altri, se sperimentiamo vari ruoli, se alleniamo la curiosità, siamo di conseguenza più aperti rispetto alla diversità e dunque più inclusivi».

Un tema spinoso, quello della diversity, soprattutto per un settore in cui il gender gap si fa sentire. «Siamo un’azienda dell’automotive: sappiamo bene cosa significhi avere poche donne nelle nostre fila. Ma stiamo lavorando per accelerare il cambiamento, con programmi di mentoring ed empowering. Inoltre, abbiamo recentemente costituito il Diversity&Inclusion board per lavorare sulla diversità in termini più ampi. Spesso, la mancata inclusione non è una questione di genere, ma di team, di età, di cultura», chiarisce Bono. Con la consapevolezza che un ambiente inclusivo è anche un ambiente più sano, e viceversa, l’azienda ha messo al centro il wellbeing, con tutta una serie di strumenti di flessibilità, dallo smart working ai “no meeting time”, ovvero momenti della giornata nei quali, salvo eccezioni, non possono essere organizzate call o riunioni, a iniziative di benessere tout court come il counselling psicologico. Sono azioni che, senza dubbio, migliorano la vita all’interno delle organizzazioni e, al contempo, le rendono più attrattive per futuri candidati. «Ma più di tutto – conclude Bono – sono dei promemoria: ci ricordano che dobbiamo avere rispetto per il tempo e per le vite altrui».

Fluidità tra accademia e imprese, trasferimento tecnologico, cultura del fallimento. Non esiste innovazione senza l’unione di questi tre fattori: Silicon Valley docet. Ancora oggi, l’area che da San Francisco corre fino a San Josè si dimostra essere la capitale mondiale dell’innovazione, con le sue 9.642 scaleup, quasi 200 ogni 100 mila abitanti. Più di tre quarti del PIL della regione viene investito nell’economia locale delle scaleup, superando in modo significativo tutti gli altri ecosistemi dell’innovazione a livello mondiale. Per competere in termini di numero di scaleup, come rivela l’ultimo report di Mind The Bridge, è necessario mettere insieme l’intera Europa, dove le scaleup sono complessivamente 11.206. In termini di investimenti, invece, non ci sono rivali: le scaleup locali hanno accumulato ben 735,3 miliardi di dollari di finanziamenti totali, superando di circa tre volte le loro controparti della East Coast e dell’Europa, di cinque volte il Regno Unito e di sette volte Israele. Insomma, per imparare a fare innovazione bisogna ancora volare da questa parte di mondo. Ed è ciò che hanno fatto 45 startup guidate da Smau, l’aggregatore internazionale di opportunità per l’ecosistema dell’innovazione, in collaborazione con Ita – Italian Trade Agency, con il programma Italy RestartsUp in San Francisco. 

Le startup italiane hanno avuto modo di presentarsi all’ecosistema dell’innovazione della Bay Area, raccogliendo stimoli e consigli e creando nuove opportunità di business. Il tutto, nella cornice di Innovit, il principale polo italiano dell’innovazione e della cultura nel cuore del financial district di San Francisco. «L’Italia è conosciuta nel mondo per le sue eccellenze nel food, nella moda e nel design, ma è fondamentale valorizzare la nostra capacità imprenditoriale anche in ambiti quali l’intelligenza artificiale, la realtà virtuale e aumentata, la cybersecurity e la blockchain, per attivare rapporti commerciali, partnership e investimenti tra i diversi professionisti dell’ecosistema internazionale» – afferma Pierantonio Macola, Presidente di Smau. 

Le opportunità potrebbero essere numerose, come conferma il Console generale d’Italia a San Francisco, Sergio Strozzi: «La Silicon Valley sta investendo moltissimo nello sviluppo dell’intelligenza artificiale applicata ad alcuni verticali potenzialmente strategici per il mercato italiano: dalla manifattura all’aerospazio al settore finanziario. Opportunità che dobbiamo cogliere rafforzando alcuni fattori: la capacità di fare ricerca applicata e trasferimento tecnologico, la crescita del venture capital e lo sviluppo di una mentalità più orientata all’imprenditorialità. Un aspetto, questo, che dovremmo potenziare fin dai banchi di scuola, imparando a valorizzare anche eventuali fallimenti, anziché demonizzarli». Secondo Strozzi, quindi, è una questione di cultura e di modus operandi, più che di tecnologia fine a se stessa. «Il segreto della Silicon Valley è aver creato una potente interconnessione tra accademia, imprese e capitali: università, venture capital e startup sono mondi direttamente connessi. In Italia non è così». 

Certo, negli ultimi anni molte cose sono cambiate, ma il cammino è ancora lungo: «Lo scorso anno abbiamo portato a casa diversi record: gli USA sono diventati il secondo partner commerciale per l’Italia e l’Italia è diventato il dodicesimo Paese fornitore per il mercato americano, il quarto al livello europeo. Sul fronte innovazione, Innovit sta facendo un lavoro straordinario per presentare l’ecosistema italiano in maniera strutturata e aggregata, mettendo insieme tecnologia, ma anche cultura. Dobbiamo continuare a potenziare la qualità delle nostre startup e il mindset delle e dei founder – riconosce Alessandra Rainaldi, direttrice Ita Los Angeles -. Non a caso, la prima cosa che portano a casa le startup italiane che partecipano al nostro Global Startup Programm, il programma di accelerazione di otto settimane in Usa, è una vera e propria rivoluzione mentale». 

E così è stato anche per le startup che hanno partecipato al tour. Realtà come Gaia, spinoff dell’Università di Macerata il cui acronimo sta per Genrating Artificial Intelligent Assessment, guidata da Benedetta Giovanola, professoressa di filosofia morale e titolare della Cattedra Jean Monnet – Etica per un’Europa digitale inclusiva istituita dalla Commissione Europea. La startup è specializzata in etica e governance dell’intelligenza artificiale e sviluppa strumenti per valutare gli impatti, i rischi etici e giuridici di sistemi basati su AI. «Abbiamo una piattaforma algoritmica semiautomatizzata che effettua queste verifiche di conformità etico-giuridica, sempre più importante anche alla luce dell’entrata in vigore della regolamentazione europea sull’AI. Ci rivolgiamo non solo alle organizzazioni che utilizzano l’AI, dal comparto Hr alla gestione del credito al mondo della salute, ma anche agli sviluppatori, par agire direttamente alla fonte», spiega Giovanola. 

Dall’etica dell’AI all’AI applicata alla formazione su soft e hard skills con Metaphora, startup che guida le aziende nella transizione digitale con un focus specifico sul metaverso. «Crediamo che realtà virtuale e aumentata, AI e metaverso possano generare una nuova onda di formazione ad alto potenziale, rendendo il training molto più coinvolgente, inclusivo e competitivo, rispondendo in maniera specifica ai bisogni formativi del singolo» – chiarisce Filippo Lubrano, ceo di Metaphora. 

Ma l’AI è al centro anche delle attività di Ganiga Innovation, azienda che promette di rivoluzionare il mercato della gestione dei rifiuti, attraverso un software per il riconoscimento delle immagini basato su AI e Gen AI; così come di SLY, startup guidata dalla canadese Kseniya Lenarciak, che unendo le logiche di AI a quelle dell’edge, rileva gli incendi durante le loro fasi iniziali e ne prevede l’evoluzione, consentendo così risposte più efficienti e tempestive. «Il nostro sensore, che esteticamente ricorda un naso artificiale, viene posizionato nei boschi o in aree a rischio, e riesce a identificare precocemente l’inizio di un incendio, segnalandolo alle autorità competenti. Dal Canada – spiega la founder – abbiamo deciso di lanciare la nostra startup in Italia e nello specifico in Calabria perché l’Italia è ricca di talenti. E questo è un valore unico per chi fa impresa».  

Lo sa bene The District, startup che facilita l’incontro tra aziende e talenti in ambito creativo e nel design. Una piattaforma in cui la selezione algoritmica si unisce a quella umana, per garantire uno screening accurato dei profili. «Mettiamo a disposizione di head of design, innovation manager e responsabili delle risorse umane un network di professionisti del digitale altamente selezionati e una community di oltre 21.000 esperti ed esperte tra UX, service, art director, graphic designer, e molti altri. Ci occupiamo anche della formazione di team interni e aiutiamo le aziende a comunicare strategicamente attraverso attività di employer branding» – commenta Hassan Nasser, cofounder della startup. 

E a San Francisco era presente anche HEU, startup che permette la creazione, la condivisione e la gestione automatizzata di documenti contrattuali tramite un’unica piattaforma. «In questo modo, i processi aziendali legati alla contrattualistica, sia nel caso di PMI che di aziende (ad esempio, HR Team, Sales Team, Procurement Team, Legal Team, ecc.), fanno riferimento a un’unica area dedicata, con la possibilità di automatizzare il lavoro ripetitivo ed evitare inutili sprechi di tempo e risorse», afferma il co-founder, Luca Visconti.

«È stato emozionante accompagnare queste startup alla scoperta dell’ecosistema dell’innovazione della Silicon Valley, creando un collegamento concreto con Innovit e ITA e abilitandole a nuove opportunità» – commenta Valentina Sorgato, amministratore delegato di SMAU, ricordando che all’evento hanno partecipato anche cinque regioni italiane, fortemente attive nel mondo dell’innovazione (Regione Abruzzo con l’Agenzia di Sviluppo Camera di Commercio Chieti Pescara, Regione Emilia-Romagna con ARTER, Regione Lazio con Lazio Innova, Regione Marche e Regione Puglia) e numerose corporate italiane come, Edison, FNM, Intesa Sanpaolo, Pelliconi, Terna, UnipolSai, alcune delle quali già presenti nella Bay Area con una propria antenna. Per essere esposti alle ultime tendenze tecnologiche e ai nuovi modelli di business, infatti, sempre più aziende aprono avamposti di open innovation negli ecosistemi tecnologici globali con la più alta densità di startup, tra cui appunto la California. Secondo i dati più recenti rilevati da Mind The Bridge, oltre il 70% degli innovation leader globali ha una presenza strutturata nella Silicon Valley. A marzo 2023, 70 grandi aziende europee avevano avamposti e antenne di innovazione nella Bay Area: la Francia in testa, l’Italia appena all’inizio, con solo 3 corporate. 

Nell’epoca in cui ripensare i modelli di produzione e consumo è diventato un imperativo, nasce una nuova figura professionale: il/la regenerative designer. Parliamo di un esperto o un’esperta le cui competenze affondano nei settori dell’ingegneria, dell’economia e dell’umanistica, con un obiettivo ben preciso: lavorare per un futuro sostenibile.

«Sono diventata regenerative designer dopo un profondo cambiamento personale: ho lavorato in un fondo di private equity e in consulenza strategica, ovvero in un mondo fatto di poca trasparenza e molto guadagno. Si ragionava solo in termini di investimento, erano settori molto maschili e poco etici. Ho visto decine di aziende, spesso familiari e con una storia, venire scorporate, accorpate, snaturate con una logica speculativa di breve periodo. Ma questo modo di lavorare non mi apparteneva», racconta Samira Tasso, ingegnere gestionale, oggi regenerative designer. Così, ha invertito la rotta e incontrato la società per cui lavora oggi, Nativa, ha frequentato un programma di formazione per young professional in Oregon e un leadership program per la sostenibilità presso The Natural Step in Olanda. Ha creduto in una professione emergente «che – sostiene – mi permette di agire come megafono su cause importanti e di lasciare qualcosa alle generazioni future».

Le aziende che investono in approcci rigenerativi, infatti, sanno che dovranno attende per vedere i frutti dei loro investimenti perché si lavora con un orizzonte di lungo periodo, ma il “purpose”, la motivazione ultima, è più importante di qualsiasi cosa. «Quando incontro un’azienda e spiego perché dovremmo adottare un approccio rigenerativo, mi accorgo quanto il coinvolgimento umano sia centrale. Le aziende sono fatte di persone e quando parlo loro di futuro e di pianeta, si crea una connessione fortissima», assicura Samira. L’80% degli impatti dei prodotti può essere determinato già in fase di design del prodotto. Questo spiega perché avere un approccio di eco-design potrebbe risolvere molti problemi connessi all’inquinamento o alle disuguaglianze sociali. «Mi piace pensare che siamo progettisti del futuro», aggiunge Gianandrea Spadoni, anche lui regenerative designer con un passato in consulenza e in istituti finanziari. «A inizio pandemia, contro ogni buon senso, ho lasciato il lavoro e ho cercato qualcosa che mi consentisse di andare oltre la mera massimizzazione del profitto. Oggi, quando lavoro con le imprese, mi concentro sugli impatti di lungo periodo, le aiuto a sviluppare una visione responsabile e ad apportare i cambiamenti che servono per rigenerarsi ed essere a prova di futuro», chiarisce.

Il primo passo è riscoprire la propria missione e immaginarne l’applicazione nei prossimi dieci anni, con la consapevolezza che gli ostacoli al cambiamento saranno molti, ma che, al contempo, i benefici nel tempo potranno essere altrettanto importanti. Le società benefit, infatti, sono in costante aumento: 3.619 a fine 2023 (+37,8% rispetto all’anno precedente) con più di 188mila persone occupate. «Queste società hanno fatturati in crescita più rapida e andamenti economici migliori rispetto alle non-benefit. Inoltre, secondo la recente ricerca nazionale sulle Società Benefit 2024, riconoscono maggiormente il valore del capitale umano, visto che il costo del lavoro mediano per addetto è di 41.000 euro rispetto ai 38.000 euro delle non benefit, hanno un maggiore grado di internazionalizzazione, di richiesta di brevetti, di marchi registrati a livello internazionale e di certificazioni ambientali» – assicura Gianandrea, ricordando che le migliori performance rispetto alle non-benefit sono evidenziate anche da una più alta produttività (nel 2022 valore aggiunto per addetto pari a 62.000 euro vs 57.000 euro) e da livelli e crescita più elevati dell’Ebitda margin: il rapporto tra margine operativo lordo e ricavi è passato da 8,5% nel 2019 a 9% nel 2022 per le Società Benefit e da 8,1% a 8,3% per le non-benefit.

Parliamo, quindi, di un’evoluzione che sembra avanzare come un’onda e i cui benefici si diffondono a cascata sull’ambiente e sul capitale umano, creando impatti positivi nell’intera società e aprendo anche nuove opportunità professionali. Dunque, vuol essere il/la prossimo/a regenerative desinger?

«Nessuno si fa da solo, siamo tutti frutto del contesto da cui proveniamo». Parte da qui l’ingegnere aerospaziale Stefano Cappucci per descrivere il percorso che l’ha portato dal piccolo comune emiliano in cui è nato, Scandiano, all’iconica Nasa, l’agenzia governativa responsabile del programma spaziale e della ricerca aerospaziale degli Stati Uniti d’America.

«Sono stato il primo della mia famiglia a laurearmi, ma a mio modo sono stato un privilegiato: i miei genitori hanno potuto mandarmi a studiare, prima al Politecnico di Torino e poi direttamente negli USA» – racconta. Un “privilegio” che condiziona ancora oggi, troppo, le carriere di moltissimi giovani. Per questo, secondo Cappucci, è fondamentale insistere per cambiare le regole, in Italia come altrove. «Prendiamo il mio settore: è ancora prevalentemente bianco e maschile. L’accesso è riservato, di fatto, quasi esclusivamente a ragazzi che frequentano le università più prestigiose, e care, del mondo. Ma un sistema di questo tipo – afferma – è pericoloso, oltre che ingiustamente limitante». Lo è, secondo Cappucci, ancor di più quando si parla di aerospazio: «è la nuova economia da cui discendono impatti diffusi e concreti per tutti noi, anche se ne abbiamo ancora scarsa consapevolezza».

Le missioni a cui ha contribuito sono d’esempio: per cinque anni ha collaborato con il JPL, Jet Propulsion Laboratory (centro di ricerca e sviluppo federale) al progetto Ingenuity, l’elicottero lanciato su Marte nell’ambito della missione della NASA Mars 2020. Le informazioni raccolte dall’esplorazione assicurano linfa preziosa per attivare nuove politiche ambientali. La stessa cosa accade con Nisar, la missione congiunta tra NASA e ISRO, l’Agenzia Spaziale Indiana il cui obiettivo è scannerizzare la superficie del pianeta Terra per capire come cambiano foreste, città e ghiacciai. I dati processati saranno aperti alla comunità scientifica per essere utilizzati ancora una volta a fini ambientali. Al JPL prima e alla NASA poi, Cappucci è arrivato grazie al Politecnico di Torino: «L’Ateneo aveva una collaborazione con l’istituto di Pasadena, ho fatto richiesta e sono stato preso. È stata un’esperienza illuminante su un duplice fronte. Da un lato, mi sono accorto di avere una preparazione eccellente: le università italiane non hanno nulla da invidiare a quelle americane. Dall’altro, ho trovato un contesto disposto a darmi spazio, cosa che non accade da noi. Anche i ricercatori più anziani erano pronti ad ascoltare cosa aveva da dire lo studente di ingegneria alle prime armi arrivato dall’Italia».

Un’opportunità che lascia il segno tanto che, al termine dell’internship, Stefano accetta immediatamente la proposta di rimanere a lavorare in California. Torna in Italia solo per il tempo di laurearsi e riparte per gli States. «Ho avuto fin da subito un ottimo contratto con una retribuzione che mi ha consentito non solo di vivere bene, ma anche di risparmiare. In Italia è uno scenario impensabile. Ma è proprio questo che blocca le nuove generazioni e, di conseguenza, l’intero Paese». Eppure, lui, in Italia, tornerebbe. «È un Paese con straordinarie potenzialità, che sull’aerospazio sta facendo molto bene. Ci sono molte realtà interessanti, soprattutto al Sud. E poi, ci sono ancora spazi di vita. Si è ancora liberi di poter essere altro, oltre al lavoro. Gli Stati Uniti, su questo, hanno un problema: ci sono ragazzi che a neanche 30 anni sono già in burnout per aver lavorato continuativamente 80 ore a settimana. Inoltre, non è inusuale domandare a un americano “chi sei?” e sentirsi rispondere prima con lo status professionale (ingegnere, avvocato, startupper) e poi con il nome proprio» – afferma. Farsi contagiare è un attimo, servono anticorpi molto forti, e Stefano lo sa bene. Alla domanda «tu chi sei?» ha imparato a rispondere diversamente: «Sono Stefano, sono un marito, un ragazzo appassionato di spazio, un ingegnere e un musicista». «Ma – confida – ci ho messo un po’ prima di far emergere tutti questi altri spazi di me e sono sicuro di avere ancora del lavoro da fare». Alla descrizione di sé potrebbe aggiungere, ad esempio, “idealista” e “ambizioso”. Di recente, infatti, ha lasciato la NASA per lavorare in una start-up. Chiarisce che non è un percorso inusuale negli USA, anzi. «Alla Nasa mi sembrava di essere in un contesto stagnante: le società statali hanno troppi limiti e troppa pressione sociale.

Nel privato c’è più libertà, l’innovazione corre veloce e per chi come me si occupa di futuro, non c’è richiamo più bello». Questa, assicura, sarà una tendenza sempre più diffusa nei prossimi anni. Del resto, il privato nell’aerospazio galoppa. E poi, secondo Cappucci, fare esperienza, mettersi in gioco, cambiare, è fondamentale. Ed è esattamente ciò che racconta agli studenti e alle studentesse italiane. «Li incontro ogni volta che posso per fare divulgazione sull’importanza dell’aerospazio, per favorire la nascita di altri giovani talenti e, soprattutto, per far capire loro che è importante avere una visione ampia sul futuro, inclusiva e diversa». Così è stato anche in occasione dell’ultimo incontro promosso da Haier AC Italy, “Menti Fresche”: un webinar a cui hanno partecipato più di 1200 giovani dalle scuole di tutta Italia e che nei prossimi mesi darà vita a un contest interattivo alla scoperta dei pilastri dell’innovazione tecnologica, la scienza e i valori che la trainano, dalla creatività allo spirito di collaborazione. «Mi hanno chiesto come nasce uno scienziato e quali sono le competenze che deve possedere. Ho risposto che è essenziale allenare la curiosità e l’empatia» – spiega Stefano. «Puoi essere anche l’ingegnere più intelligente del mondo, ma se non sai lavorare in squadra, se non sai ascoltare, capire, trovare compromessi e se non ti impegni a dare voce a chi non ce l’ha, allora, non sarai utile a nessuno. Questa è la mia visione dell’aerospaziale: la disciplina che deve servire agli altri, molto prima che a se stessi».

C’è un’onda che cresce all’interno delle organizzazioni: l’innovazione dedicata al capitale umano. Nel cercare risposte a un mondo del lavoro in profonda evoluzione, le aziende chiedono aiuto alle startup: realtà più giovani, agili e veloci che nel risolvere le sfide delle risorse umane possono dare un contributo determinante. La conferma arriva dalla tappa parigina del tour estero di Smau, l’aggregatore internazionale di opportunità per l’ecosistema dell’innovazione, che nella capitale francese – da sempre considerata il più importante hub europeo di innovazione – ha portato 49 startup italiane. A StationF, il più grande campus per startup nel mondo, composto da circa 1.000 realtà, con oltre 30 programmi e una vasta gamma di servizi all’avanguardia, le startup hanno incontrato aziende, investitori e abilitatori dell’ecosistema dell’innovazione internazionale, esplorando nuove opportunità in termini di open innovation. Tante le realtà in cerca di soluzioni innovative per il capitale umano (e non solo).

Tra queste Edison, con un focus soprattutto sulla fase di onboarding, ovvero di ingresso nell’organizzazione; Terna, il cui obiettivo è ricercare soluzioni innovative per aumentare il benessere dei dipendenti, migliorando la loro salute fisica, mentale e sociale e garantendo l’ottimizzazione dell’equilibrio tra lavoro e vita privata; la multiutility Iren, che ha lanciato da poco, con il supporto di SMAU, una call per innovare per la funzione HR. E ancora: Pelliconi, gruppo globale che ha avviato un programma di intrapreneurship coinvolgendo blue e white collar, con tanto di master in innovazione e presentazione in Silicon Valley. Un programma che ha avuto grande impatto internamente, tanto che ben quattro dei progetti presentati dai collaboratori di Pelliconi ora sono in fase di accelerazione.

Determinante per il futuro delle organizzazioni è il contributo dato da molte startup, tra cui Syllotips che ha sviluppato una piattaforma di knowledge transfer, strutturata in canali, per favorire discussioni tra persone e supportare le aziende nella definizione dei ruoli professionali. La startup, fondata da Giorgio Barnabò, Leonardo Martini, Tullio Persiani e Simone Silvestri, ha da poco chiuso un round da oltre 300 mila euro con Techstars, Exor e Techshop, e ha già in corso diverse collaborazioni. Sul versante della diversity & inclusion, invece, si è presentata GRLS, una soluzione di Intelligenza Artificiale lanciata da Benedetta Tornesi che aiuta le aziende a diversificare il pool di candidati, con un focus su talenti femminili e non binari. Quello dell’inclusione è, infatti, un tema cruciale per il futuro del lavoro: secondo un recente rapporto di ManpowerGroup, il 56% dei membri della Generazione Z non accetterebbe un lavoro senza una leadership diversificata e il 68% sostiene che il proprio datore di lavoro non stia facendo abbastanza per costruire un ambiente di lavoro diversificato.

La diversity è al centro anche della missione di Babaiola, startup fondata da Federica Saba ed Enrico Garia con un focus settoriale legato al mondo dei viaggi. Parliamo di un social travel dedicato alla community LGBTQIA+ che aggrega hotel, eventi, club che promuovono la diversità di esperienze, culture, identità di genere e orientamenti sessuali. E ancora: Viola, startup il cui obiettivo è ridurre la violenza di genere nei luoghi pubblici, come le strade. Un tema vicino al mondo del lavoro perchè raggiungere il proprio ufficio o tornare a casa dopo una lunga giornata di lavoro può voler dire attraversare luoghi poco sicuri. Per questo, Laura De Dilectis, psicologa clinica, ha fondato Viola il cui obiettivo è offrire mappe personalizzate per la sicurezza delle persone, luoghi sicuri in cui rifugiarsi, assistenza in videochiamata e chat 24/7, oltre a un collegamento con le forze dell’ordine e testimonianze video in caso di aggressione. Il problema della violenza di genere in luogo pubblico è così diffuso che Viola conta già una community composta da oltre 180 mila persone. Del resto, l’84% delle donne dichiara di aver vissuto almeno una molestia in strada ed è un problema che non conosce confini, motivo per cui la startup nasce già con una visione globale. Infine, BeMyHero, startup guidata da Alessandro Travaglini, che mette in contatto le famiglie desiderose di offrire un’esperienza indimenticabile ai propri figli con animatori o cosplayer. Cosa c’entra con il lavoro? È un servizio che diverse aziende stanno iniziando a offrire come benefit ai propri collaboratori, sempre più interessati a lavorare per aziende che abbiano a cuore non solo il loro benessere, ma anche quello delle loro famiglie. Quando parliamo di innovazione e lavoro, infatti, parliamo di un concetto ampio che interseca molte dimensioni e che punta, in definitiva, a costruire ambienti più sani, inclusivi e sostenibili, in cui attraverso l’adozione di nuove tecnologie sia possibile raggiungere maggior benessere e, di conseguenza, maggiore competitività.