Istoria delle guerre gottiche/Libro terzo/Capo IV
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO IV.
Artabaze parlamenta i Romani; — Totila i Gotti. — Certame da solo a solo tra Artabaze ed Uliare, in mezzo ai due eserciti, funesto ad entrambi. — Strage e vergognosissima fuga de’ Romani.
I. Totila udito ch’ebbe gli avvenimenti di Verona chiamò a sè gran parte dei Gotti ivi di stanza, ed arrivati condusse contro il nemico tutte le truppe nel numero di cinque mila combattenti. I romani duci fattine consapevoli pigliarono a deliberare sulle presenti bisogne, e tal si fu la opinione da Artabaze esposta: «Nessun di voi, o duci, pensi meritevoli di spregio questi nemici perchè inferiori a noi di numero; nè al mirare di fronte guerrieri vinti da Belisario creda poterli a tutto bell’agio combattere. Molti per verità animati da questo falso raziocinio videro poscia delusa ogni loro speranza, nè mancaronvi di quelli che per disprezzare intempestivamente altrui caddero dall’acquistato potere. Oltre ciò, ora noi abbiamo che fare con uomini cui le sofferte sciagure invitano a prosperi avvenimenti, da una disperata fortuna originando un sommo ardire. Nè io così vi ragiono indotto da cieca sospicione, ma dall’avere chiaramente sperimentato in quest’ultima pugna qual si fosse il coraggio loro. E male si apporrebbe chiunque credessemi in errore nell’ammirarne la bravura per esserne stato vinto da pochissimi soccorso, poichè il valore de’ combattenti, sien pur superiori o inferiori di numero, addiviene ben palese a coloro, contro cui e’ trattano le armi. Opino adunque essere il caso nostro di porre truppe al valicare del fiume, e giunta la metà del gottico esercito a superarne le acque di assalirli anzichè possano riunirsi in un solo corpo. Nè dobbiamo reputare poco gloriosa per noi simigliante vittoria, essendo che si giudichi bella o turpe un’impresa dalla fine di lei, e non indagando il come si giugnesse a trionfare abbianne lode i vincitori.» Queste cose consigliava Artabaze, ma i duci essendosi divisi in contrarj pareri nulla operarono di quanto era d’uopo, e consumarono ivi oziosi il tempo loro.
II. L’esercito de’ Gotti era di già vicino, e pervenuto al valicar del fiume, quando Totila ragunatolo a parlamento lo animò dicendo: «Egli è fuor di dubbio, o miei commilitoni, che in altre guerresche faccende il rammentare agli eserciti la parità delle condizioni tra’ combattenti suole di spesso avvalorarne gli animi alla pugna. Ma a noi ora convien battagliare anzi che a pari condizion del nemico, in assai ben diversa, persuasi fermamente che se per buona fortuna costoro andassero colla peggio, potrebbero tosto ricomparire in campo, avendo lasciato da per tutto ne’ luoghi muniti d’Italia presidj fortissimi, e di leggieri n’è dato congetturare che dalla stessa Bizanzio riceverebbero nuovi aiuti di truppe. Se poi fia nostra la perdita usciremo al tutto d’ogni speranza avvenire, nè più udirassi il nome di Gotti, e voi ben vedete come dai dugento mila armati siam qui a soli cinque mila ridotti. Aggiungo altra circostanza meritevole anch’essa, a mio avviso, d’essere qui rammentata. Quando risolveste di armarvi con Ildibado per guerreggiare l’imperatore non sommavate più di mille conviventi insieme; e tutto il vostro dominio non oltrepassava la circonferenza di una città, Ticino. Ma e l’esercito e il dominio vi crebbero colla vittoria da voi riportata in campo; se dunque pur ora vi sentite disposti ad operare valorosamente, io spero, nè fuor di proposito, che andando come io si vorrebbe la guerra giugneremo a sconfiggere affatto i Romani, aumentandosi di continuo il numero ed il coraggio ne’ vincitori. Ognuno adunque con tutta la vigoria dell’animo suo muova a combattere chi ne fa contro, non obliando opportunamente che indarno spereremmo di renderci idonei a nuove fazioni ove la riuscita di questa fallisca i nostri desiderj. Orsù pertanto entrate nel presente aringo confidati in un’ottima speranza offertavi dalla stessa malvagità de’ vostri nemici, i quali per modo comportaronsi coi proprii sudditi che noi potremmo usar clemenza cogli Italiani nel punire l’ingiusta e malaccorta lor tradigione a danno del nostro sangue, talmente ei furono, per dir corto, nabissati in ogni maniera di calamità da coloro stessi ch’ebbero amichevolmente accolti. E chi debellerassi mai così agevolmente come un nemico non protetto, per le offese fattegli, dal Nume? Ci fornisce eziandio lusinga d’incontrare propizia sorte nella battaglia lo spavento da noi apportato agli avversarj, essendo che imprendiamo ad assalire coloro stessi, i quali testè abbandonato senza motivo l’asilo di Verona, della quale città erano addivenuti padroni, diedersi a vergognosa fuga, non avendovi uomo al mondo che perseguitasseli dalle spalle.»
III. Finite queste ammonizioni Totila comandò a trecento militi che valicato il fiume lunge da lì venti stadj s’accostassero da tergo al campo nemico e cominciata la pugna dessersi a dardeggiarlo coraggiosamente, nella persuasione che lo scompiglio farebbelo desistere da ogni pensiero di valorose geste. Egli quindi passato di brocco il fiume con tutte le altre sue genti marcia ritto contro ai nemici. Muovono anch’essi i Romani ad incontrarlo, e di già ambe le fazioni a poca distanza tra loro si teneano schierate di fronte, quando un Gotto armato di lorica e cimiero, di nome Uliare, di macchinosa corporatura, di terribile aspetto, snello della persona ed armigero, spronato il cavallo e lasciatasi da tergo l’ordinanza si arrestò nel mezzo del terreno, ed invitò ad accettare un singolar certame chiunque si fosse di tutti gli avversarj; ed il solo Artabaze non paventa di acconsentire alla disfida, rimanendo gli altri immobili da grave timore sopraffatti. Or dunque spronano ambedue e venuti molto dappresso azzuffansi di lancia, nella quale tenzone il Romano più pronto ferì al competitore il destro fianco. Il barbaro trafitto da mortale ferita quasi stramazzava supino in terra, quando la sua lancia appuntataglisi da tergo ad un sasso il sorresse in arcione. Artabaze allora vie più adopera per conficcargli l’asta nelle viscere non ritenendolo per anche mortalmente offeso. Qui volle contrario fato che la punta dell’asta di Uliare andasselo per diritto a percuotere nella lorica, e penetrandovi a poco a poco approfondasse discorrevole finchè giunta al collo potè ferirne leggiermente la pelle ed, approfondatosi ancor più il ferro, tagliare la sottoposta arteria. Il perchè sgorgandone molto sangue egli quantunque libero da ogni sensazione dolorosa videsi costretto a riparare, data la volta al cavallo, presso de’ suoi. Uliare intanto ivi stesso cadde privo di vita; Artabane pur egli, fallito ogni mezzo di rattenere il sangue, dovè mandare dopo il terzo giorno l’estremo fiato, avendo col morir suo totalmente sconvolta la speranza de’ Romani, pe’ quali non fu di lieve danno l’essere addivenuto inetto al combattere. Imperciocchè mentre lunge dagli schieramenti il trar d’un dardo curava la sua ferita vennero le truppe alle armi, e nel bollore della pugna i trecento Gotti arrivati da tergo dell’imperiale esercito fecero all’imprevista la comparsa loro. Il nemico miratili e credendone il novero maggiore inorridì per lo spavento, e tutti incontanente, ove ognuno ebbe il destro, la diedero a gambe. I barbari menarono strage di costoro abbandonati a sì turpe fuga, raccolsero gran copia di prigionieri, e conquistarono tutte le insegne; cosa per verità mai più accaduta ai Romani. I duci con ben pochi e del loro meglio sottrattisi all’eccidio, vegliarono poscia alla difesa di quelle città in cui ebbero asilo.