Richard Nixon
Richard Milhous Nixon (1913 – 1994), politico statunitense, 37º Presidente degli USA.
Citazioni di Richard Nixon
[modifica]- A lunga scadenza, è del tutto impossibile credere di poter lasciare per sempre la Cina fuori della comunità delle nazioni, a rimuginare sulle sue fantasie, coltivare i suoi odi e minacciare i suoi vicini. Sul nostro piccolo pianeta non ha senso che un miliardo dei suoi abitanti potenzialmente più solerti sia lasciato in irato isolamento [...]. A breve scadenza ciò suggerisce una politica di fermo riserbo, di rifiuto di concessioni e di contropressione costruttiva intesa a persuadere Pechino che i suoi interessi fondamentali possono essere soddisfatti solo con l'accettazione delle regole fondamentali della civiltà internazionale. A lunga scadenza ciò significa recuperare la Cina alla comunità mondiale ma come nazione grande e progressista, non come epicentro della rivoluzione mondiale.[1]
- Caro Donald, non ho visto la trasmissione,[2] ma la signora Nixon mi ha detto che sei stato magnifico durante il Donahue show. Come puoi immaginare, lei è un'esperta di politica e prevede che, nel caso decidessi di correre alla presidenza, vincerai! Cordiali saluti, sinceramente, Dick.
- Dear Donald, I did not see the program but Mrs. Nixon told me that you were great on the Donahue show. As you can imagine, she is an expert on politics and she predicts that whenever you decide to run for office you will be a winner! With warm regards, sincerely, Dick. (da una lettera diretta a Donald Trump, 21 dicembre 1987[3])
- In base alle mie convinzioni personali e religiose considero gli aborti una forma inaccettabile di controllo delle nascite. Inoltre, non posso far quadrare politiche di aborto illimitato, o aborto su richiesta, con la mia personale fede nella santità della vita umana, inclusa la vita dei non ancora nati. Perché, sicuramente, anche i non nati hanno diritti, riconosciuti dalla legge, riconosciuti altresì dai principi enunciati dalle Nazioni Unite.[4]
- [Ultime parole famose] In confidenza posso affermare che non prevedo assolutamente di candidarmi a qualunque cosa negli anni 1964, 1966, 1968 o 1972... Chiunque pensi che io possa candidarmi a qualunque cosa che inizi in qualunque anno è fuori di melone.
- I can confidently say I have no contemplation at all of being a candidate for anything in 1964, 1966, 1968 or 1972... Anyone who thinks I could be a candidate for anything starting in any year is off his rocker. (da un'intervista del 1964[5])
- In Russia il comunismo è stato sconfitto, ma la libertà è in prova. Se non funzionasse, ci sarà un’inversione e una spinta verso un nuovo dispotismo. Questo costituirebbe un pericolo mortale per il resto del mondo. Perché quel dispotismo si combinerà col virus dell’imperialismo, una caratteristica della politica estera russa per secoli.[6]
- [Nel 1991] Io ho spesso pensato che se ci fosse stato in giro in quel periodo un buon gruppo rap, potrei aver scelto una carriera nella musica invece che nella politica.
- I have often thought that if there had been a good rap group around in those days, I might have chosen a career in music instead of politics.[7]
- Io ho conosciuto Bob Haldeman come uomo di rara intelligenza, forza, integrità e coraggio. [...] Egli giocò un ruolo indispensabile in tempi turbolenti quando la nostra Amministrazione dovette intraprendere un'ampia gamma di iniziative in patria e all'estero.
- I have known Bob Haldeman to be a man of rare intelligence, strength, integrity and courage. [...] He played an indispensable role in turbulent times as our administration undertook a broad range of initiatives at home and abroad. (dichiarazione rilasciata dopo la morte di Harry Robbins Haldeman, 12 novembre 1993[8])
- Io sono un vecchio marinaio; la prua è l'estremità posteriore, non è vero?
- I'm an old navy man; the bow is the rear end, isn't it? (da un'intervista televisiva di David Frost, 19 maggio 1977[9])
- [Ultime parole famose, nel luglio 1974] Non lascerò la Casa Bianca.[10]
- Per anni i politici hanno promesso la luna: io sono il primo in grado di darvela.[11]
- Quel che penso veramente è che, scavando più in profondità, in questo paese vi sia un forte antisemitismo: e tutto ciò [l'opposizione della comunità ebraica al movimento evangelico universitario Campus Crusade] non farà altro che fomentarlo. [...] Non escludo che abbiano un desiderio di morte. È questo, si sa, il problema dei nostri amici ebrei da secoli e secoli.[12]
- [Sulla guerra alla droga] Se non saremo capaci di liberare l'America di questa minaccia saranno certamente gli stupefacenti a distruggerci col tempo.[13]
- [Riguardo Mobutu Sese Seko] Sebbene lei sia un uomo giovane e venga da una nazione giovane, ci sono cose che possiamo imparare da lei.[14]
- Vi sono circostanze in cui l'aborto è necessario. Lo so bene. Quando un genitore è nero e l'altro è bianco. Oppure in caso di stupro.[12]
- [Ultime parole famose, nel 1962] Voi non avrete più Nixon in circolazione – poiché, signori, questa è la mia ultima conferenza stampa.
- You won't have Nixon to kick around anymore – because, gentlemen, this is my last press conference.[15]
Discorso sugli accordi di pace di Parigi, La Stampa, 24 gennaio 1973
- Entro 60 giorni verranno liberati i prigionieri di guerra, e verranno ritirate tutte le nostre truppe... È stato garantito al Sudvietnam il diritto di decidere liberamente il proprio futuro.
- Gli Stati Uniti continueranno a riconoscere il governo di Saigon come il solo legittimo del Sudvietnam.
- Terminare la guerra è solo il primo passo per costruire la pace. Ai leaders di Hanoi, ricordo che la reciprocità è necessaria per rafforzare la pace. [...] Alle altre grandi potenze, ricordo che questo è il momento di mostrare autocontrollo.
- Abbiamo ottenuto una pace giusta... abbiamo coronato con onore una delle imprese meno egoiste della storia delle Nazioni.
La Stampa, 27 marzo 1994
- Quanti suggeriscono che, a causa dei suoi immensi problemi, la Russia non debba più essere trattata come una potenza mondiale, ignorano una verità sgradevole ma inconfutabile: la Russia è il solo Paese al mondo capace di distruggere gli Stati Uniti. Per questo rimane la massima priorità americana nell'ambito della politica estera.
- Eltsin ha perso molto del suo fascino, dal giorno in cui si è assunto un ruolo storico nella distruzione del comunismo sovietico. Potrebbe scoprire che la storia è contro di lui. Nel corso dei secoli, i capi rivoluzionari non sono stati dei buoni costruttori del Paese.
- Zyuganov è uno degli esponenti più brillanti e intransigenti del partito comunista, ma quando gli ho chiesto se il Paese avrebbe potuto ritornare al comunismo, mi ha risposto dispiaciuto: «No, non possiamo attraversare due volte lo stesso fiume».
- Zhirinovskij è un demagogo spietato e accorto. Ma dopo averlo esaminato su temi che vanno dalle sue opinioni in politica estera al suo atteggiamento verso gli Stati Uniti e l'antisemitismo, condivido il giudizio del presidente ucraino Leonid Kravciuk: non sarà eletto presidente della Russia.
- [Su Vladimir Žirinovskij] Manca del carisma e della capacità di persuasione che occorrono per guidare una grande nazione. Quando l'ho interrogato a proposito delle sue ridicole affermazioni – che un giorno la California farà parte del Messico, che Miami sarà una repubblica nera e Parigi una città araba – ha svicolato sui sondaggi che lo dicono popolare.
- Sebbene i russi abbiano sempre avuto una certa inclinazione per i folli di Dio, non li hanno mai scelti come leader – come Zhirinovskij scoprirà ben presto, quando entrerà nella lotteria presidenziale.
- La retorica del ministro degli Esteri Andrei Kozyrev è slittata di 180 gradi. Prima delle elezioni, era troppo filo americano per il suo stesso bene. Ora non parla più dei valori umani universali né della comunità di interessi con l'America, bensì del nuovo ruolo della Russia come superpotenza e del bisogno di Mosca di pianificare da sola la propria rotta. Senza dubbio si tratta di un cambiamento di testa, non di cuore. Ha letto i risultati elettorali e reagisce come qualunque politico.
- L'abilità del diplomatico non è quella di nascondere sotto un linguaggio involuto le differenze insormontabili, ma di trovare un modo di dissentire che non danneggi in profondità le relazioni strategiche importanti.
- [Sull'allargamento della NATO] A Mosca dovrebbero essere offerte garanzie che l'espansione della Nato fino a includere la Polonia, l'Ungheria, la repubblica ceca e la Slovacchia avrà luogo gradualmente e non danneggerà gli interessi russi. Se la Russia non giudica adeguate quelle garanzie, dovremo trovarci d'accordo nel dissentire. Alla Russia non dev'essere dato il diritto di veto su una decisione della Nato di allargarsi.
- L'indipendenza dell'Ucraina è indispensabile. Un confronto Russia-Ucraina sarebbe tale da far sembrare banale, al confronto, lo scontro in Bosnia.
- La stabilità dell'Ucraina rientra negli interessi strategici degli Stati Uniti. Al punto che dovrebbe rientrare tra le priorità delle sicurezza nazionale americana l'appoggio alle riforme economiche di Kiev.
La vera guerra
[modifica]Incipit
[modifica]Al momento di scrivere questo libro sono passati un terzo di secolo da quando fui eletto membro del Congresso e cinque anni dalle mie dimissioni da presidente.
Quando lasciai l'incarico non avevo portato a termine il lavoro che per me significava più di qualunque cosa alla quale mi ero dedicato: l'instaurazione di una nuova "struttura di pace" che potesse impedire un grave conflitto e al tempo stesso mantenere la sicurezza del mondo occidentale per il resto del secolo. Da allora la posizione degli Stati Uniti in rapporto a quella dell'Unione Sovietica è seriamente peggiorata e il pericolo per l'Occidente è molto aumentato. Quella "struttura di pace" può essere ancora realizzata, ma ormai sarà più difficile, e il tempo per crearla è diminuito.
Citazioni
[modifica]- Il presidente degli Stati Uniti esercita un enorme potere. Dall'usarlo, più o meno bene, più o meno abilmente, dipende la sorte dell'Occidente. Egli può esercitarlo con molto maggiore effetto se il popolo americano comprende la difficoltà da affrontare e perché l'uso del potere americano comprende la difficoltà da affrontare e perché l'uso del potere americano è necessario; se, di conseguenza, il popolo si associa con lui per mantenere la sicurezza dell'Occidente e la pace nel mondo. Egli non può fare ciò da solo, né può faro affatto se gli ostruzionisti gli sbarrano la via. (p. 12)
- Ho avuto rapporti diretti e talvolta molto franchi con i capi dell'Unione Sovietica, della Cina, dell'Europa e di nazioni sviluppate e in via di sviluppo di tutti i continenti. Ho usato forza e diplomazia negli affari internazionali, e ho visto come sono usate da altri. Mi sono scontrato con la volontà d'acciaio dei dirigenti del Cremlino e ho dovuto uniformarmi alla loro risolutezza. Ho osservato che sanno ciò che vogliono e che per ottenerlo ricorrono a qualsiasi mezzo. (p. 12)
- L'Unione Sovietica è oggi la nazione espansionistica più potentemente armata che il mondo abbia mai conosciuto e il suo potenziale bellico continua ad aumentare a un ritmo quasi doppio di quello degli Stati Uniti. Le intenzioni sovietiche non sono un mistero. I dirigenti del Cremlino non vogliono la guerra, ma vogliono il mondo. (p. 12)
- Le ambizioni sovietiche comportano per gli Stati Uniti una sfida strategica di dimensioni globali, il che richiede una rinnovata coscienza strategica ed una risposta. Richiede una coerente strategia nazionale basata sul sostegno di un pubblico informato. Temporeggiamenti disorganici e frammentari non serviranno. Angola, Etiopia, Afghanistan, Yemen del Sud, Mozambico, Laos, Cambogia e Vietnam del Sud sono passati tutti sotto il dominio comunista dal 1974; quasi cento milioni di abitanti negli ultimi cinque anni. L'Iran è piombato nel caos e bruscamente si è trasformato da bastione della forza occidentale a calderone di virulento anti-occidentalismo, mentre i suoi tesori petroliferi si offrono in modo provocante agli avidi occhi russi. Cuba funge sempre più da agente delle ambizioni sovietiche a largo raggio. Questi sono esempi di come i pezzi continueranno a cadere se noi rimarremo privi di una visione organica. Dobbiamo ricuperare lo slancio geopolitico, ordinando e usando le nostre risorse secondo la tradizione di una grande potenza. (p. 13)
- I vecchi imperi coloniali sono scomparsi. Il nuovo imperialismo sovietico esige una nuova controforza per tenerlo a freno. Gli Stati Uniti non possono provvedervi da soli, ma senza la guida forte ed efficiente degli Stati Uniti essa manca del tutto. Non possiamo permetterci atteggiamenti indecisi ed esitazioni. O agiamo da grande potenza o saremo ridotti a potenza minore, e così ridotti non sopravviveremo, né sopravviveranno libertà o valori occidentali. (p. 14)
- Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi la Russia ha avuto un incremento militare costante e la sua pressione espansionistica è stata inesorabile. Mosca ha pescato assiduamente nelle acque torbide rimaste dopo lo smantellamento dei vecchi imperi coloniali. Ha isolato Berlino, fomentando rivoluzioni nell'America latina, in Asia e in Africa, aiutato le aggressioni compiute dalla Corea del Nord e dal Vietnam del Nord. Ha addestrato ed appoggiato formazioni di guerriglieri, ha impedito lo svolgimento di consultazioni elettorali, ha abbattuto aerei disarmati, patrocinato colpi di Stato, ucciso profughi, incarcerato dissidenti. Ha minacciato, inveito, tollerato abusi, cospirato, rovesciato sistemi, usato metodi di corruzione, di intimidazione, di terrore; ha ingannato, rubato, torturato, spiato, ricattato, assassinato: tutto in attuazione di una premeditata politica nazionale. (p. 14)
- Disgraziatamente l'America soffre ancora dell'eredità degli Anni Sessanta. Allora un furioso antirazionalismo investì il nostro ambiente studentesco e l'immaginazione regnò sovrana. Era di moda contestare tutto ciò che rappresentava l'ordine costituito. I contrasti di quel decennio e le loro conseguenze indebolirono in modo critico la capacità della nazione di far fronte alle proprie responsabilità mondiale, non soltanto militarmente ma anche in rapporto alla sua abilità di comando. (p. 15)
- Le nazioni vivono o muoiono a seconda di come reagiscono alle particolari provocazioni che devono affrontare. Tali provocazioni possono essere interne o esterne; affrontate da una sola nazione o di comune accordo con le altre nazioni; possono arrivare gradualmente o all'improvviso. Non esiste una legge naturale immutabile che stabilisca come solo gli ingiusti abbiano a soffrire o che i giusti debbano trionfare. Se la forza non crea il diritto, neppure il diritto crea la forza. Il momento in cui una nazione anela soprattutto alla tranquillità può essere proprio quello che la costringe ad affrontare urgentemente una minaccia esterna. Sopravvive quella nazione che si mostra all'altezza della situazione: che ha la saggezza di individuare la minaccia e la volontà di stonarla, e che agisce prima che sia troppo tardi.
L'ingenuo concetto che possiamo mantenere la libertà trasudando benevolenza è non soltanto sciocco, ma pericoloso. Più trova seguaci, più alletta l'aggressore. (p. 16) - La rivoluzione non è di per sé né buona né cattiva. Ma ciò che gli Stati Uniti devono affrontare oggi è l'avanzata di una tirannia che marcia all'insegna della rivoluzione: essa si prefigge di sostituire alla democrazia un dispotismo in nome del "popolo". Ma in queste "democrazie popolari" il popolo non ha alcun voto significativo; non ha voce, né libertà, né scelta. L'Unione Sovietica ha costruito la più potente macchina bellica mai posseduta da una potenza aggressiva, non a beneficio - o per scelta - del popolo russo, ma per estendere il dominio della leadership del Cremlino. (pp. 18-19)
- Come l'imbroglione sa approfittare dell'avidità e della presunzione della sua vittima, così il Cremlino sa abilmente sfruttare l'idealismo romantico di chi ha preso di mira e i suoi sogni grandiosi di ricreare intere società secondo la propria immagine. (p. 19)
- Ora che l'Africa è uno spazio di manovra per le grandi potenze, noi non possiamo permettere che la nostra politica verso quel continente risvegli gli amari ricorsi ancora conservati da coloro che lottarono per l'uguaglianza razziale in America. Non possiamo permettere che l'Africa diventi un palcoscenico su cui gli americani recitino i loro traumi psichici. Dobbiamo trattarla come campo di battaglia di vitale importanza strategica, perché questo ne ha fatto l'avventurismo sovietico.
Né possiamo ignorare una qualsiasi parte del mondo con la scusa che è troppo lontana dai nostri interessi per dovercene occupare. L'inizio degli Anni Ottanta ci ha ricordato questa lezione con gli avvenimenti dell'Afghanistan: fatto che ha anche presentato il suo lato ironico, in quanto per molti anni i cronisti americani hanno denigrato le analisi di ciò che accadeva nelle terre lontane definendolo "afghanistanismo". (p. 19) - L'Afghanistan - remoto, distante dal mare, regione di impervie montagne abitata da tribù primitive, rozze come la terra in cui vivono - era usato come metafora per tutti gli avvenimenti lontani e di scarso interesse che cadevano sotto gli occhi del lettore americano. (p. 19)
- Nel corso della storia è stato il crocevia di conquistatori; Alessandro il Grande, Gengis Khan e Tamerlano hanno invaso tutti le polverose colline dell'Afghanistan nella loro sete d'impero. [...] Oggi l'Afghanistan è il banco di prova di una nuova, minacciosa, impudente fase della spinta espansionistica sovietica. (pp. 19-20)
- L'orgoglioso popolo afghano era stritolato nel pugno di ferro dell'Unione Sovietica, la quale si avvicinava così al conseguimento dei suoi obiettivi, ormai una tentazione a breve distanza: cioè la disponibilità di un porto nelle acque calde del Mare d'Arabia e il controllo del petrolio del Golfo Persico. (pp. 21-22)
- La conquista sovietica dell'Afghanistan è una continuazione del vecchio imperialismo zarista: l'implacabile pressione verso l'esterno che si protrae da quando il ducato di Moscovia abbatté il dominio mongolo nel 1480. È anche un duro monito affinché l'America non si conceda più il lusso di considerare qualsiasi luogo della terra troppo lontano per potere attentare alla sua sicurezza. (p. 22)
- Dwight D. Eisenhower era un acuto stratega. Ricordo che durante la sua presidenza, quando attorno al tavolo del Consiglio nazionale di sicurezza i discorsi dei consiglieri diventavano pessimistici nell'esaminare il mondo, Eisenhower voleva ricordarci che uno dei primi requisiti di un comandante militare in grado di vincere è la capacità di stimare realisticamente i punti forti e i lati deboli del proprio esercito. Ma altrettanto importante, aggiungeva, è sapere individuare non soltanto la forza, ma anche la debolezza e la vulnerabilità degli eserciti nemici. (p. 24)
- L'economia cinese è ancora debole e la sua capacità nucleare relativamente primitiva. Ma dovendosi misurare con un miliardo di abitanti, potenzialmente molto abili, attestati sulla più lunga frontiera sovietica e controllati da un governo che guarda a Mosca con accanita ostilità, i dirigenti del Cremlino hanno di che preoccuparsi. (p. 24)
- Le nazioni comuniste hanno il vantaggio che, essendo totalitarie, possono distribuire le loro risorse come i capi desiderano, per soddisfare le loro ambizioni più che le necessità della popolazione. Così anche economie relativamente improduttive possono sostenere enormi apparati militari. Ma se si dovesse verificare una corsa agli armamenti e l'Occidente decidesse di competere, questo Occidente avrebbe la capacità economica di vincerla. I sovietici lo sanno. (p. 25)
- Dobbiamo comprendere che la distensione non è un festino d'amore. È l'intesa fra due nazioni che hanno obiettivi opposti ma alcuni interessi in comune, tra cui quello di evitare il conflitto nucleare. Una simile intesa può funzionare - cioè può frenare l'aggressione e scoraggiare la guerra - soltanto se il potenziale aggressore è convinto che aggressione e guerra non recano benefici. (p. 25)
- Il sistema capitalistico funziona in base al movente del profitto economico. Il sistema sovietico funziona in base al movente del profitto militare e territoriale. (pp. 25-26)
- Come gli Anni Quaranta e Cinquanta hanno visto la fine del vecchio colonialismo, gli Anni Ottanta e Novanta dovranno essere quelli del nostro successo sul nuovo imperialismo sovietico. (p. 26)
- La Terza Guerra Mondiale è la prima vera guerra globale. Non c'è angolo del mondo che sia irraggiungibile. Stati Uniti e Unione Sovietica sono diventati entrambi potenze mondiali, e qualunque cosa alteri l'equilibrio in un certo luogo, altera tale equilibrio in un certo luogo, altera tale equilibrio dovunque. I sovietici lo capiscono. Anche noi dobbiamo capirlo, e imparare a pensare in termini mondiali. (p. 30)
- Come l'acqua scorre giù dal monte, così i sovietici premono per estendere il loro potere dovunque sia possibile, con qualsiasi mezzo ritenuto efficace. Sono opportunisti completamente amorali. (p. 31)
- Gli apologisti obiettano spesso che i sovietici cercano in realtà di garantirsi la sicurezza contro minacce esterne che essi ritengono vere o potenziali, e che una volta raggiunta la forza sufficiente a garantirsi tale sicurezza i loro appetiti saranno sazi. Vi è forse qualche verità nella prima metà del ragionamento, ma per la seconda il guaio è che l'appetito russo per la "sicurezza" è insaziabile. Più essi ottengono, più hanno da proteggere; e "sicurezza" per essi significa dominio, in patria o fuori. (p. 31)
- La leadership sovietica non ha un concetto di "pace" come noi lo intendiamo, né di coesistenza come noi la concepiamo. Non credono nell'idea di parità. Uno uguale è per definizione, un rivale da eliminare prima che esso elimini loro. (p. 32)
- Il significato della Terza Guerra Mondiale è scritto in modo nitido ed eloquente sui volti dei profughi vietnamiti, che rischiano di morire su fragili imbarcazioni in mare aperto e di essere respinti quando toccano terra piuttosto che vivere nella prigione che un tempo era loro paese. (p. 32)
- Prima che il regime comunista prendesse il potere nella grande Cina, Hong Kong era una città di poco più di un milione di abitanti. Oggi ne conta quasi cinque milioni. L'aumento è dovuto in prevalenza del flusso di profughi cinesi che vi si sono riversati nonostante il filo spinato e le guardie confinarie poste per fermarli. (p. 32)
- Prima del muro, Berlino indivisa era un'isola di libertà accessibile in un mare di tirannia. Era una infamia per i comunisti, poiché rappresentava una scelta. Prima che il muro venisse costruito nel 1961, oltre tre milioni di cittadini approfittarono di quella scelta e fuggirono dal dominio comunista: cinquecento persone al giorno per quindici anni.
Frontiere chiuse, filo spinato, mura, guardie con l'ordine di sparare a vista contro chiunque tenti la fuga: questi sono i segni del dominio comunista e i simboli dell'avanzata russa. (p. 33) - È un segno dei nostri tempi che, quando una o due persone lasciano l'Occidente per l'Est europeo, il fatto fa notizia. Ma quando migliaia di persone fuggono dal regime comunista, questa è semplice statistica. (p. 33)
- I dirigenti sovietici puntano lo sguardo sulle strutture fondamentali dell'economia nella società moderna. Il loro obiettivo è di togliere la corrente alla macchina industriale occidentale. (p. 35)
- Per moltissimi americani la carta geografica dell'Africa è poco conosciuta come quella dell'Antartide. Tanti non saprebbero distinguere il Mali dal Malawi, né hanno idea di dove sia la Somalia o l'Eritrea, tanto meno capiscono perché i fatti che accadono in quei paesi possono plasmare il futuro del mondo. (p. 35)
- Gli spettri del passato coloniale tormentano i capi di molte nazioni africane. La politica africana precoloniale era tribale; dopo la conquista europea si è avuta una politica imperiale; oggi è una combinazione unica delle due. (p. 35)
- I confini di gran parte degli attuali Stati africani hanno poca logica da un punto di vista Stato-nazione. Non corrispondono a linee naturali o tribali; sono rimasti laddove gli eserciti delle potenze coloniali si fermarono o dove i cartografi di Parigi o di Londra li tracciarono casualmente. Spesso i paesi africani consistono di venti o trenta tribù, un guazzabuglio di molte mininazioni, mentre tante tribù sono state divise in due da confini coloniali ereditati. La conseguente mancanza di unità nazionale fa sì che la democrazia sia quasi impossibile, lo sviluppo economico un sogno lontano e la tensione interna una costante realtà. Molti capi di Stato africani desiderano soltanto conservare il potere e impedire che la nazione si disgreghi. (p. 35)
- Quando i capi delle nazioni africane si muovono per fare acquisti, i sovietici offrono merci allettanti. Il complesso militare-industriale dell'URSS funziona a pieno ritmo, per cui Mosca ha abbondanti scorte di armi da offrire, talvolta a prezzi convenienti e senza ritardi causati da controversi sulla "moralità" del traffico d'armi. (p. 36)
- Sebbene la Russia sia nuova nel continente africano, Mosca e i suoi alleati forniscono già più del settantacinque per cento delle armi importate dall'Africa, e la loro quota di vendite è destinata a salire. (p. 35)
- "Comunisti ravanello", rossi fuori ma bianchi dentro, hanno per i russi un buon sapore come i pomodori rossi. (p. 37)
- Fino al settembre 1974 l'Etiopia era un sicuro amico dell'Occidente. Sotto il dominio di Hailé Selassié il paese era da tempo uno dei più stretti alleati dell'America nell'Africa nera. Ma da anni i russi osservavano con interesse come i loro alleati cubani e altri avessero alimentato un movimento secessionista armato in Eritrea: la provincia dell'Etiopia strategicamente situata a nordest, sul Mar Rosso, di fronte all'Arabia Saudita.
Poi, sulla scia di una gravissima carestia, nel 1974, i militari rovesciarono Selassié. Un gruppo radicale in seno all'esercito affermò il proprio predominio nell'ambito del governo rivoluzionario. I nuovi governanti ruppero i legami con l'Occidente e ne allacciarono con l'Europa dell'Est. (p. 37) - Menghistu non ha limitato le sue cure all'Etiopia. Sono stati violati i confini del Sudan e questo paese ha dovuto assorbire più di trecentomila etiopi fuggiti dal "terrore rosso" di Menghistu. Un nuovo seme di fermento è stato piantato in terra africana e alimentato da Mosca. (p. 38)
- Ora che il colonialismo europeo è scomparso, l'imperialismo sovietico si muove a sostituirlo. Le nuove nazioni africane sono particolarmente allettanti, perché detengono le materie prime vitali per una moderna società industriale, e sono particolarmente vulnerabili a causa della loro instabilità e delle priorità sostenute da tanti loro capi. (p. 39)
- L'URSS agisce di rado senza uno scopo, e i suoi scopi sono sempre strategici, mai morali. Quindi i suoi insistenti tentativi di agitare ulteriormente le acque già torbide dell'Africa australe vanno considerati nello stesso scenario delle risorse in quella parte del mondo e dell'importanza di tali risorse per l'Occidente. (p. 41)
- Anche gli africani neri si sono macchiati di razzismo. In Africa orientale quelli di origine asiatica sono stati espropriati dei loro beni e poi espulsi, esclusivamente per motivi razziali. Nella Guinea equatoriale un dittatore appoggiato da Russia, Cina, Cuba e Corea del Nord ha costretto un terzo della popolazione a fuggire in esilio e molti fra quelli rimasti hanno trovato la morte in campi di lavoro forzato o in prigione. Per molti africani i benefici del "governo di maggioranza" sono stati così esigui che, secondo Amnesty International, otto paesi dell'Africa nera sono inclusi tra i quindici del mondo da considerarsi i peggiori violatori dei diritti umani. Data l'esperienza del resto dell'Africa, un immediato governo di maggioranza, ammesso che fosse possibile, non sarebbe certamente la cosa migliore per gli africani, bianchi e neri, del Sudafrica. (pp. 42-43)
- In nessuno Stato dominato dai russi governa una qualsiasi maggioranza, di un qualsiasi colore; è il governo della minoranza l'essenza del sistema sovietico. Qualunque sia il colore del fantoccio locale, i fili sono tirati da Mosca: e nel Politburo non vi sono facce nere. I russi non sono in Africa per "affrancare". Sono là per dominare, controllare, sfruttare, sostituire la vecchia supremazia bianca con una nuova supremazia bianca. Un governo coloniale bianco è sempre tale, sia Londra o Mosca a esercitare il potere. (pp. 43-44)
- L'America latina è un bersaglio primario dei sovietici per tre importanti motivi: ha enormi risorse naturali; alla fine del secolo la sua popolazione sarà sostanzialmente superiore a quella di Stati Uniti ed Europa occidentale assieme; è vicina agli Stati Uniti, è il nostro "ventre molle". (p. 45)
- Molti usano il termine "America latina" come se fosse una massa non differenziata. Ma l'America latina abbraccia un territorio molto più vasto dell'Europa e comprende una immensa diversità di popoli. Ciascun paese ha una vecchia e gloriosa tradizione d'indipendenza e d'individualità. Tutti hanno una religione comune. Alla fine del secolo metà dei cattolici del mondo saranno in America latina. Alcuni paesi - come Argentina, Uruguay e Costa Rica - hanno popolazioni di origine quasi esclusivamente europea. Altri, come Messico, Perù, Colombia, Ecuador, hanno una larga componente autoctona. Molti contano un gran numero di abitanti di estrazione tedesca, italiana, e di altri paesi europei, oltre che spagnola. In Brasile popoli di origine africana e portoghese si sono uniti per dare vita a una nuova civiltà. Notevoli sono in questi paesi le differenze nel grado di sviluppo e di perfezionamento tecnico. Quanto a superficie, si va dall'immenso Brasile al minuscolo El Salvador. (pp. 45-46)
- Se in America centrale saliranno al potere regimi asserviti all'Unione Sovietica, l'emisfero occidentale sarà tagliato in due alla sua "vita sottile". Dalla loro posizione centro-americana tali regimi minaccerebbero i due principali produttori di petrolio dell'America latina, Venezuela e Messico, come pure il Canale di Panama. Non possiamo permetterci che questo accada. (p. 47)
- Castro ha fatto di Cuba una zona di calamità. Non gli si deve permettere di imporre fraudolentemente, con l'appoggio sovietico, il suo screditato sistema politico-economico ad altri paesi latino-americani. (p. 47)
- Molti tra coloro che idealizzano la rivoluzione preferiscono vedere il terrorismo semplicemente come uno dei mali della società moderna, o come una reazione violenta a condizioni sociali intollerabili. Ma il terrorismo "insensato" spesso non è così insensato come può sembrare. Per i sovietici e i loro alleati è uno strumento calcolato di politica nazionale. (p. 49)
- URSS, Libia e OLP erano tutti fortemente impegnati nella campagna per rovesciare lo scià. La quasi anarchia che in Iran fece seguito alla sua caduta forniva un terreno perfetto di coltura per far fiorire fanatismo e terrorismo insieme, due cose che potevano essere sfruttate da chi si serve di fanatismo e terrorismo per perseguire una politica calcolata. (p. 49)
- Fidel Castro era coinvolto in attività terroristiche in Sud America molto prima di salire al potere a Cuba, e da allora le ha sempre patrocinate. (p. 50)
- Spariti francesi, giapponesi, nazisti, in che modo i comunisti possono chiamare a raccolta la popolazione? L'amore per il comunismo e l'odio di capi nazionali rivali non bastano; è necessario il terrorismo per mantenere la disciplina organizzativa e conservare potere ai capi. (p. 51)
- Ecco come nordvietnamiti e vietcong conquistarono il cuore e la mente della popolazione contadina: con massacri a sangue freddo destinati a intimorire i superstiti. (p. 51)
- Il terrorismo minaccia tutti i governi, tranne quelli che lo praticano. (p. 52)
- Tentare di spegnere il fuoco quando già divampa non è sufficiente. Occorre andare al nocciolo del problema, cioè denunciare chi aiuta il terrorismo, tenendo presente che l'Unione Sovietica è l'imputato principale. (p. 52)
- La spinta espansionistica sovietica, quantunque inesorabile, raramente è stata incauta. I capi russi sono aggressori, ma prudenti. In buona parte le loro mosse sono lente, astute e attentamente camuffate, in modo da non destare dal suo sonno il "gigante addormentato" occidentale.
Cercano di colpire dove meno ci si aspetta, quando meno si si aspetta, e nel modo meno prevedibile. Il loro metodo preferito è quello di provocare disordine e caos in un paese preso di mira, per raccoglierne i cocci. (pp. 52-53) - Il comunismo offre lo slogan della "liberazione", la promessa dell'ordine; dice agli "emarginati" che li inserirà nel potere, ai socialmente inferiori che saranno al vertice. Parla in termini di certezza appassionata, e questo fa presa su chi sguazza nell'incertezza. (p. 53)
- Una delle tattiche preferite dai russi è la fanfaronata. Anche quando erano immensamente inferiori a noi come potenza, Nikita Kruscev voleva snocciolare le sue minacce nucleari sperando di infondere nell'Occidente la paura della forza sovietica. I nostri capi di allora non si lasciarono ingannare; sapevano che Kruscev non aveva intenzione di commettere un suicidio nazionale, ma l'opinione pubblica fu fortemente scossa. (p. 56)
- Breznev era diverso da Kruscev. Il senso dell'umorismo di Breznev era semplice e naturale, mentre quello di Kruscev era volgare. Breznev portava camicie su misura con polsini doppi e gemelli invece delle camicie con maniche semplici preferite da Kruscev. Egli stava sul sedile posteriore di una limousine invece che davanti con l'autista come aveva fatto Kruscev. Era esternamente cordiale, al contrario di Kruscev, borioso e aggressivo. Ma se i giocatori erano cambiati, il gioco era lo stesso. Gli obbiettivi di Breznev erano quelli di Kruscev: aumento della potenza sovietica, allargamento dell'egemonia sovietica ed espansione del comunismo in tutto il mondo. Breznev non aveva l'evidente complesso di inferiorità di Kruscev poiché, dalla posizione nettamente inferiore di tredici anni prima, l'Unione Sovietica aveva allora raggiunto virtualmente gli Stati Uniti nella potenza militare. Ma questo non gli bastava: voleva una indiscussa superiorità. (pp. 60-61)
- La risposta a molti enigmi del comportamento sovietico ce la danno non le stelle, ma gli zar. I loro corpi sono sepolti nelle cripte del Cremlino, ma i loro spiriti vivono ancora nelle sale del palazzo.
Sotto molti aspetti la rivoluzione che insediò i comunisti al potere non fu tanto un cambiamento dello zarismo, quanto un perfezionamento e un consolidamento di quel sistema. La Russia non è stata mai potenza non espansionistica. Né, se si eccettuano i pochi mesi del 1917, è stato mai uno Stato non autoritario o non totalitario. Non esiste tradizione di libertà interna o di non aggressione esterna. L'espansione territoriale è per la Russia naturale come per il leone andare a caccia o per l'orso cercare pesci. (pp. 61-62) - Mentre in Inghilterra si compiva il primo passo verso la democrazia, i nipoti di Genghis Khan nella loro spinta verso ovest invadevano la grande pianura eurasiatica, che si estende dalle zone orientali della Siberia alle coste della Manica. Le orde mongole non raggiunsero il cuore dell'Europa, ma seminarono rovina in Russia. Saccheggiarono importanti città e ridussero la civiltà di quel paese a livello di barbarie. Per quasi duecentocinquant'anni i mongoli imposero il loro dominio e impressero il loro duro marchio sull'anima russa, estorcendo un tributo paralizzante - il "giogo tartaro" - che mantenne i russi in stato di miseria e schiavitù.
Questi due eventi, la firma della Magna Carta e la conquista mongola della Russia, segnarono i punti di partenza di due processi storici assolutamente diversi. La Dichiarazione dei Diritti affonda le sue radici nella Magna Carta. Lo Stato gendarme sovietico affonda le sue radici nel giogo tartaro. (p. 62) - L'esercizio brutale del potere assoluto, l'asservimento del singolo allo Stato, lo spietato assoggettamento di tutte le risorse ai fini dello Stato, l'idea della guerra costante, ininterrotta: tutte queste cose hanno profonde radici nel passato russo, nel terrore del dominio mongolo e nell'amara necessità di combattere le orde tartare. (p. 63)
- Quella che oggi si chiama "Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche" è il prodotto di sette secoli di conquiste, prima dei duchi di Moscovia, che soggiogarono il territorio divenuto Russia, e poi degli zar e dei loro successori del secolo ventesimo, che estesero l'impero. Quindici "Repubbliche socialiste sovietiche" formano l'URSS; di esse quattordici sono nazioni essenzialmente separate, conquistate dalla quindicesima, la Russia. (p. 66)
- Fatta eccezione per la Siberia, i russi non hanno operato insediamenti in terre disabitate. Né tali insediamenti hanno rappresentato proiezioni di dominio coloniale su popoli primitivi. Erano conquista e riduzione in schiavitù di antiche nazioni con cultura altamente progredita, identità definita e una lunga storia. Passo dopo passo fu creato il più vasto impero di quell'epoca. Occorrevano metodi imperiali per formarlo e governarlo. Essi furono cosa naturale per gli eredi dei mongoli, sovrani di un immenso territorio accidentato dove la schiavitù era la norma; la libertà era sconosciuta, e i "diritti umani" ignoti. (p. 67)
- Nella tradizione zarista c'è dominio crudele e autocratico. Soltanto uno Stato potentissimo poteva organizzare la conquista di tante nazioni e dopo mantenervi il dominio imperiale.
Ma il prezzo delle conquiste per lo Stato era la schiavitù del popolo, la conquista militare era il primo imperativo dello Stato, la maggior gloria dei dominatori era la ragion d'essere dei soggiogati. Le popolazioni erano risorse, e come tali venivano aggiogate con tutte le altre risorse al carro dello Stato da usarsi per i suoi obbiettivi.
Il primo "zar di tutte le Russie", Ivan il Terribile, fu anche il primo a fare del terrore uno strumento politico; l'origine della polizia zarista e dell'odierno KGB può farsi risalire a lui. Ivan usò la propria polizia segreta per eliminare i rivali, specialmente fra la nobiltà russa. Egli si assicurò in maniera crudele ma efficace che costoro non gli avrebbero mai limitato il potere con una Magna Carta russa. (p. 67) - Pietro il Grande, ricordato come il modernizzatore per le sue aperture all'Occidente, fu in patria uno dei dominatori più dispotici. Si descriveva «un monarca assoluto che non deve rispondere di niente a nessuno». Fu lui a introdurre l'odiato passaporto interno, che rese illegale per i più muoversi nel paese senza permesso. (pp. 67-68)
- Nel nostro secolo Stalin ha personificato l'eredità zarista della Russia. La dinastia che rappresentava era un partito, non una famiglia, ma come i "grandi" zar prima di lui, estese il dominio russo su nuovi territori. (p. 68)
- Come Ivan il Terribile, Stalin creò una polizia segreta personale e usò il terrore come strumento fondamentale di politica di Stato. Come Pietro il Grande, apprezzò il valore della tecnologia occidentale per formare una moderna macchina bellica. E come Pietro, cementò il potere sul popolo con il sistema dei passaporti interni. (p. 68)
- L'insuccesso più pesante della storia fu di non avere impedito a Lenin di prendere il potere in Russia nel 1917. Tale insuccesso è stato una tragedia per il popolo russo e per il mondo. Molto prima che cadesse l'ultimo zar le forze riformistiche liberali erano attivamente al lavoro e la Russia cominciava ad assimilare dall'Occidente qualcosa di più della tecnologia militare. Se il processo non fosse stato interrotto e dirottato, la Russia, come il Giappone, sarebbe potuta diventare una parte libera e fiorente del mondo occidentale. (p. 70)
- I bolscevichi di Lenin abbandonarono il meglio della Russia e abbracciarono il peggio. Liberalizzazione, fragile neodemocrazia, nuovo fervore culturale, disponibilità a imparare dal mondo, tutto fu gettato a mare. I capi comunisti riesumarono il terrorismo di Ivan il Terribile, il dispotismo di Pietro, il crudele espansionismo di Caterina per creare la loro nuova società. Sradicarono tutti i cambiamenti liberali intervenuti nel secolo fra l'invasione napoleonica e la Prima Guerra Mondiale, facendo arretrare la popolazione di cent'anni e più. (p. 72)
- Dopo la Seconda Guerra Mondiale milioni di ex prigionieri di guerra furono spediti nei campi di lavori forzati perché avevano visto l'Occidente. Stalin, buon coniscitore della storia russa, non voleva correre rischi inutili. Sapeva che i suoi più grandi nemici erano gli stessi contro i quali avevano combattuto gli zar - gli eserciti e le idee occidentali - ed era deciso tanto a escludere le idee quanto a sconfiggere gli eserciti. (pp. 73-74)
- In guerra e in pace stragi spietate sono state elemento onnipresente della pratica russa. Capacità di sopportare sofferenze possono insieme rendere una nazione ambiziosa e minacciosa. (p. 74)
- Ciò che minaccia il mondo non è né il "comunismo" teoretico, né il marxismo filosofico, bensì una forza totalitaria aggressiva ed espansionistica che ha adottato quei nomi per un fervore ideologico innestatosi sulle radici dell'espansionismo e del dispotismo zaristi. (p. 75)
- Le dottrine di Marx sono per i regimi comunisti d'oggi ciò che era il cristianesimo per i dominatori del Sacro Romano Impero: utile come vessillo, ma irrilevante come guida. Marx non riconoscerebbe oggi il "marxismo", ma Ivan il Terribile o Pietro il Grande avrebbero dimestichezza con esso. Il comunismo si è diffuso nel mondo dal Cremlino di Lenin e Stalin, non dalla soffitta londinese di Karl Marx. I partiti comunisti di altre nazioni, strettamente controllati, hanno obbedito al vivente Stalin, non allo spettro di Marx: hanno servito gli interessi dell'impero sovietico di questo secolo, non gli insegnamenti di un filosofo tedesco del secolo scorso. (p. 75)
- Lenin stabilì il corso, ma Stalin instaurò il governo di ferro. (p. 76)
- I dirigenti postaliniani hanno moderato in parte le prime brutalità, introdotto alcune libertà individuali - che in Occidente non sarebbero riconosciute come libertà, ma costituiscono pur sempre un passo avanti rispetto alle norme precedenti - e sono diventati una forza più raffinata, sofisticata, a tratti più educata. Ma la struttura di potere resta. La dittatura assoluta resta. E resta lo Stato totalitario, in quanto essenza del neozarismo su cui è costruita tutta l'autorità sovietica. L'inesorabile spinta espansionistica resta. I capi sovietici hanno una macchina militare al di là dei sogni degli zar, ed esteso il loro potere oltre il più lontano limite dell'ambizione zarista. (p. 77)
- Per gli Stati Uniti il secolo ventesimo ha significato la fine dell'innocenza. Per l'Europa la fine dell'impero. Per i popoli di Russia, Cina e di oltre una dozzina di altri paesi ha significato gli orrori nel regime comunista. (pp. 77-78)
- Il Medio Oriente è da tempo il crocevia in cui s'incontrano Asia, Africa ed Europa. Oggi il suo petrolio è il sangue vitale dell'industria moderna, la regione del Golfo Persico è il cuore che lo pompa e le rotte marine circostanti sono la giugulare attraverso cui scorre quel sangue. (p. 86)
- Il problema di chi controlla il Golfo Persico e il Medio Oriente è più che mai la chiave per stabilire che controlla la situazione mondiale. (p. 87)
- Sotto Mossadegh, emotivo e antioccidentale, l'Iran piombò nel caos e la produzione di petrolio praticamente cessò. I piani di sviluppo economico subirono una paralisi e la riforma fondiaria, iniziata dallo scià, cominciò a stagnare. (p. 88)
- Oltre a rifiutarsi di partecipare agli embarghi petroliferi arabi del 1967 e del 1973, lo scià aveva continuato a riconoscere Israele e a rifornire di petrolio la nostra flotta nel Mediterraneo. Aveva pure impedito all'Irak di avere una parte significativa nella guerra del Kippur, inviando truppe al confine iracheno e aiutando segretamente le forze ribelli curde. Durante quella guerra l'Iran fu il solo paese della zona a proibire ai sovietici di sorvolare il proprio territorio; inviò anche celermente petriolio a una portaerei americana nell'Oceano Indiano per mantenerla in attività. Quando fu chiesto ai nostri alleati di spedire armi al Vietnam del Sud prima che gli accordi di Parigi lo proibissero, lo scià si privò di apparecchi F-5 per favorirci. (p. 95)
- Con la caduta dello scià, la disintegrazione dell'esercito iraniano, le massicce riduzioni del bilancio militare nazionale e il precipitare del paese nel caos, tutte le forze che lo scià aveva tenuto a freno sono ormai libere di spingersi avanti indisturbate. Il nuovo regime di Teheran si è inimicato i vicini, ponendo sciiti contro i sunniti e riaprendo contese territoriali che lo scià aveva già composto. (p. 95)
- I sovietici hanno invaso l'Afghanistan, cosa che probabilmente non avrebbero osato fare le lo scià fosse stato ancora sul trono, alleato degli Stati Uniti e con un esercito formidabile sotto la sua autorità. (pp. 95-96)
- Oggi è l'Irak radicale la più potente forza militare del Golfo. La sua potenza militare è preponderante in termini strettamente regionali. Possiede quattro divisioni corazzate e due motorizzate, con più di tremila carri armati e mezzi corazzati da combattimento sovietici e francesi, oltre a quattro divisioni di fanteria. Anche senza ulteriori aiuti russi, gli iracheni potrebbero entrare con impunità dovunque volessero: nel Kuwait, nell'Arabia Saudita, o nell'Iran. (p. 96)
- L'Irak sta facendo un deciso tentativo per ottenere il predominio politico nel Golfo. Benché il suo regime autoritario di sinistra sia da tempo antiamericano, esso non vuole che i sovietici stabiliscano la loro egemonia nel Golfo, e quindi potrebbe disporsi a moderare il suo atteggiamento passato. Noi abbiamo perciò motivo di alimentare un miglioramento di relazioni con l'Irak. (p. 97)
- L'intera economia industriale dell'Occidente dipende oggi dal petrolio e l'intera macchina militare dell'Occidente funziona con il petrolio. Avere il controllo delle linee del petrolio vitali per l'Occidente significa controllare la sua esistenza. Mai la regione del Golfo Persico è stata tanto essenziale per il futuro del mondo. Mai le nazioni del Golfo Persico sono state tanto vulnerabili da parte di una potenza aggressiva che aspira a imporre il proprio volere al mondo. (p. 102)
- Sarebbe presuntuoso e temerario pensare che vi sia una formula magica, qualche rapida iniezione di droga, per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Vi sono tuttavia alcuni princìpi fondamentali, che devono formare la base di ogni politica vitale. In primo luogo qualsiasi gruppo che rappresenti di fatto o che sostenga di rappresentare i palestinesi dovrà riconoscere il diritto di Israele a una esistenza pacifica e dovrà rifiutare l'uso del terrorismo o dell'azione armata contro Israele o i cittadini israeliani. Secondo, Israele dovrà uniformarsi alle clausole della Risoluzione 242 dell'ONU in merito alla restituzione di territori occupati. Tuttavia Israele ha diritto a confini sicuri e non possiamo né dobbiamo aspettarci che accetti la costituzione di uno Stato armato nemico a un tiro di schioppo in Cisgiordania. Terzo, i territori occupati da restituire dovrebbero essere smilitarizzati. Infine, la Giordania può rivestire un ruolo costruttivo nel risolvere il problema palestinese. (p. 104-105)
- Gli ultimi capitoli della guerra del Vietnam devono essere ancora scritti. Essa fu una esperienza traumatizzante per gli americani, una esperienza brutalizzante per i vietnamiti, una occasione sfruttabile per i russi. Fu anche una delle battaglie cruciali della Terza Guerra Mondiale. (p. 107)
- [Su Ngô Đình Diệm] Egli si dimostrò un capo forte ed efficiente, soprattutto nel contenere la guerriglia comunista, che era aiutata direttamente dal Nord in violazione dell'Accordo di spartizione del 1954. (p. 111)
- Diem era un capo energico, le cui credenziali di nazionalista erano solide come quelle di Ho Chi Minh. Egli affrontò il difficile compito di forgiare una nazione mentre infuriava la guerra. Nello stile dei leader postcoloniali amministrò un governo che traeva ispirazione in parte da modelli parlamentari europei, in parte da quelli asiatici tradizionali e in parte da necessità. Funzionava per il Vietnam, ma offendeva i puristi americani, coloro che esaminano il mondo con guanti bianchi e disdegnano associarsi a chiunque non sia immacolato. (p. 113)
- Sotto Diem il Vietnam del Sud era sostanzialmente libero, ma secondo i modelli americani non lo era completamente. Resoconti responsabili cercano di tenere gli avvenimenti nelle dovute proporzioni. È segno di giornalismo irresponsabile alternare vistosamente le proporzioni. Esagerando si ottiene il dramma, e il suo scopo non è la verità ma il dramma. I difetti del governo di Diem, come altri aspetti della guerra, furono abbondatemene travisati. (p. 113)
- I regimi comunisti sotterrano i loro errori; noi reclamizziamo i nostri. Durante la guerra in Vietnam una quantità di americani bene intenzionati furono ingannati dai nostri errori ben pubblicizzati.
In Vietnam alcuni templi buddisti erano in realtà sedi di opposizione politica e alcune sette buddiste erano più politiche che religiose. Il fatto che Diem fosse cattolico fece di lui il candidato ideale per raffigurare il repressore dei buddisti. (p. 114) - La morte di Diem fu seguita da instabilità politica e caos nel Vietnam del Sud e l'evento ebbe ripercussioni anche in tutta l'Asia. (p. 115)
- Quali che fossero i suoi difetti, Diem aveva rappresentato la "legalità". Sparita la legalità, il potere era offerto a chi se lo accaparrava. (p. 115)
- Le brutalità di Idi Amin nell'Uganda erano state rivelate prima della sua caduta senza la minima possibilità di farle passare per qualcosa di diverso da una strage selvaggia su larga scala: eppure fu ignorata l'ipocrisia di quei capi che lo avevano eletto presidente dell'Organizzazione dell'unità africana, mentre si scagliavano strali morali contro l'Occidente. Gli studenti di Harvard chiedevano il boicottaggio dell'Unione del Sudafrica, non dell'Uganda o del Mozambico a regime comunista. In Sudafrica i neri sono relegati in determinate zone e hanno il divieto di praticare certe forme di fraternizzazione; in Uganda le teste di molti neri venivano pestate con i martelli, le loro gambe fatte a pezzi, e i prigionieri dovevano mangiare la carne dei compagni di cella prima di essere mandati a morte. Ma il risentimento di moda era contro l'apartheid, non contro la ferocia selvaggia. (p. 259)
- La tragedia dell'Iran è la cartella clinica di ciò che accade quando gli Stati Uniti non riescono a distinguere fra regime autoritario e regime totalitario, fra coloro che rispettano alcuni diritti umani e coloro che li negano del tutto, fra coloro che sono nostri fedeli alleati e coloro che sono nostri potenziali nemici. (p. 291)
- Considerai lo scià uomo intelligente, dignitoso, calmo e non troppo sicuro di sé. Era, tuttavia, buon ascoltatore e dimostrava profonda conoscenza dei problemi del suo paese e del mondo attorno a lui. (p. 291)
- Siamo diventati amici. L'ho visto crescere in potenza e saggezza. Negli Anni Sessanta, quando non avevo alcuna carica, feci quattro viaggi a Teheran per vederlo. A quel tempo era maturato, diventato un leader mondiale di primo rango. E, cosa ancor più importante ed eccitante, aveva attuato una rivoluzione. In meno di un ventennio aveva portato l'Iran nel secolo ventesimo. (p. 292)
- L'Iran non aveva tradizioni democratiche e per frenare l'opposizione il governo usava sistemi che agli occhi di un occidentale apparivano molto duri. Eppure, il popolo iraniano era andato molto più avanti nei diritti politici e umani di qualsiasi nazione vicina, eccettuato Israele. (p. 293)
- [Sulla Rivoluzione iraniana] L'orologio era stato arretrato di cento anni per il popolo iraniano. Le donne avevano perso i loro diritti. L'economia era in rovina. Quattro milioni di persone erano disoccupate. L'inflazione galoppava al quaranta per cento. L'Iran non era più il fedelissimo amico dell'Occidente che teneva a bada le forze, interne ed esterne, che minacciavano di tagliarci la via del petrolio. (p. 293)
- Lo scià fu duro con se stesso, ammettendo la propria parte di errori. Ma aveva tentato disperatamente di fare il meglio. Aveva ancora grande affetto e stima per gli Stati Uniti. Gli riusciva tuttavia difficile capire la politica del governo americano verso di lui. Nonostante lo sviluppo economico raggiunto dall'Iran sotto il suo regno e il lento ma certo movimento verso una maggiore democrazia, gli Stati Uniti, in privato e in pubblico, lo avevano spinto a dare di più. Egli si era sforzato di accontentarli. M, ripensandoci, ora ha la sensazione di avere voluto fare forse troppo e troppo presto, economicamente e politicamente. Più il popolo otteneva, più voleva. (p. 293)
- Stati Uniti e Occidente hanno perduto un alleato fidatissimo in una zona esplosiva, dove hanno disperato bisogno di amici che agiscano da forza stabilizzante. (p. 295)
- L'Iran ha perso un capo valido. Il mondo ha perso uno di quei leader che, lungi dall'essere ottusi, capiscono meglio di altri, anche appartenenti a importanti paesi, quali sono le grandi forze che muovono il mondo. Quando l'ho rivisto nel Messico lo scià mi ha fornito, dietro mia richiesta, una valutazione degli sviluppi in URSS, Cina, India, Medio Oriente, Africa e America latina, parlando per un'ora. La sua conoscenza era enciclopedica, la sua saggezza acuta. (p. 295)
- Non dobbiamo insistere per imporre una democrazia di stile americano a nazioni con tradizioni storiche e problemi diversi. Esse devono muoversi a modo loro, secondo il loro passo, verso gli obiettivi che noi in Occidente abbiamo impiegato centinaia di anni per raggiungere. (p. 295)
- I dirigenti sovietici da me conosciuti, fin dal 1959 quando andai a Mosca come vicepresidente, sono ben diversi dai vecchi stereotipi di bolscevichi dinamitardi degli Anni Venti o dei meschini sovversivi degli Anni Trenta e Quaranta. I russi, e i comunisti, come individui, sono assai più complessi: meno sgradevoli, ma potenzialmente più pericolosi.
Come russi sono padroni di casa molto ospitali; sono generosi, forti e coraggiosi; sono soprattutto fieri del loro passato e straordinariamente sensibili agli affronti personali.
Come comunisti mentono, ingannano, si approfittano, bluffano, e armeggiano in continuazione, cercando sempre di vincere con qualsiasi mezzo per raggiungere lo scopo.
Come individui si differenziano moltissimo per il passato e per le caratteristiche personali. Kruscev era rozzo e maleducato, d'intelligenza pronta e con un senso dell'umorismo di grandissimo effetto. Breznev era in apparenza espansivo, sincero e materiale: da come spesso voleva stringermi il braccio per richiamare la mia attenzione, mi ricordava Lyndon Johnson. Pur non essendo d'intelligenza altrettanto pronta, era più equilibrato e meno impulsivo di Kruscev. Kossighin era freddo, aristocratico, un calmo tecnocrate; se fosse nato a Chicago invece che a Leningrado, sarebbe diventato presidente di una multinazionale americana. Gromyko era austero, duro, ostinato da fare impazzire, e inflessibile nel difendere la politica estera del suo governo. (p. 312)
Leaders
[modifica]- Purtroppo oggi il Ghana è una nazione economicamente disastrata e politicamente instabile. E la responsabilità ricade in buona parte proprio sulle spalle di Kwame Nkrumah. Egli è stato prototipo del capo rivoluzionario che, confrontato con la necessità di costruire una nazione indipendente, fallisce nel suo compito. (p. 368)
- Sin dalla sua giovinezza, Nkrumah si era rivelato un abile oratore. Con la voce profonda e l'aspetto brillante, egli aveva la capacità di "intrappolare" le folle. [...] In privato egli usava una loquela modesta e misurata. In mezzo alla folla, cambiava completamente. Bastavano poche parole da lui pronunciate per eccitare al parossismo l'emotività dell'auditorio. (p. 371)
- La paranoia anti-occidentale di Nkrumah e la sua militanza panafricana crebbero a dismisura proprio nel periodo in cui il suo paese avrebbe potuto largamente beneficiare da una stretta collaborazione. (p. 371)
- [Su Ahmed Sékou Touré] Si presentò come un uomo pieno di fascino e di calore umano. Ma era anche un devoto marxista e tentò quindi di applicare la dottrina marxista in Guinea con risultati imprevedibili. La Guinea, con tutte le sue risorse naturali, precipitò in una crisi peggiore di quella del Ghana. (p. 372)
- In un certo senso il Ghana rappresenta la tragedia delle "buone intenzione". Nel suo zelo per l'ottenimento dell'indipendenza è possibile che Nkrumah si sia convinto di poter fare dei miracoli. Una volta al potere venne consumato dalla megalomania. Quelli che in Occidente premevano per la decolonizzazione lo facevano per idealismo. In retrospettiva si può dire che i più cauti di allora fossero anche i più realisti. (p. 373)
- [Su Félix Houphouët-Boigny] Nonostante egli si rendesse interprete dell'ansia di indipendenza del suo popolo, la temeva se raggiunta in modo "improvviso ed assoluto". Il paese, a suo parere, sarebbe finito nel caos. Così quando nel 1960, la Costa d'Avorio ricevette la sua libertà dalla Francia, egli recise sì alcuni dei legami con Parigi, ma ebbe la capacità di mantenere aperti i canali di contatto più vitali. Invece di puntare tutto sulla nazionalizzazione egli volle credere all'iniziativa privata. Come risultato di questo, la Costa d'Avorio divenne lo stato più prospero dell'Africa Occidentale, con una crescita di prodotto nazionale lordo dell'8% su base annua ed un reddito pro capite quattro volte maggiore di quello del Ghana e dieci volte maggiore di quello della Guinea marxista. (p. 374)
- Come insegna la tragedia di Nkrumah, i requisiti indispensabili per il progresso sono innanzitutto la stabilità economica e la libertà di impresa. (p. 375)
- Sukarno rappresentò per l'indipendenza dell'Indonesia quello che Nkrumah rappresentò per quella del Ghana. Egli fu un leader carismatico nella liberazione dal regime coloniale, ma fu un vero disastro come amministratore dell'indipendenza conquistata. Sia lui che Nkrumah erano capaci a distruggere.
Ma nessuno dei due era dotato per costruire. (p. 375) - Sukarno riuscì solo a "distrarre" temporaneamente il suo popolo dai problemi nazionali, ma non tentò mai di risolverli. Il popolo indonesiano era disperatamente povero nonostante la ricchezza del paese. Sukarno provò a sollevarlo da quella difficile situazione non già con la prosperità economica ma piuttosto - e queste sono le sue parole - con «la ricchezza della fantasia simbolica». (p. 377)
- Sukarno era un uomo di grande fascino fisico. Egli sapeva di questa sua dote e la sfruttava per affascinare il suo popolo. Molti dei grandi oratori da me incontrati, in privato si rivelavano dei conversatori tranquilli, quasi timidi. Quasi come se il carisma essi preferissero conservarlo per le masse, nelle situazioni nelle quali si rivelasse necessario. Ma Sukarno era sempre lo stesso. In lui non c'era né calcolo ne recitazione. Il calore di una folla gli era di sostegno al pari del cibo e dell'acqua. (p. 378)
- Sukarno era un ospite compito, che non mostrava assolutamente traccia di deferenza alla maniera di molti leaders di piccole nazioni in via di sviluppo. A differenza di quelli, nel caso di Sukarno non si poteva certo parlare di complessi di inferiorità. Al contrario egli dava a volte l'impressione di considerarsi superiore al suo interlocutore. (pp. 378-379)
- Era chiaro che sia la rivoluzione sia il sesso erano due strade per le quali egli giungeva alla massima soddisfazione della sua esistenza, vale a dire a suscitare negli altri l'adorazione per sè ed il completo abbandono ai suoi voleri. (p. 380)
- Dovevano essere i pressanti bisogni del popolo indonesiano a fare aggio sulle necessità personali di Sukarno. Invece accadde esattamente il contrario: egli lasciò che il mestiere di governante diventasse la tribuna privilegiata del suo prorompente bisogno di affermare la propria virilità. (p. 381)
- Jawaharlal Nehru, in India, riuscì in ciò in cui sia Sukarno che Nkrumah fallirono. Pur essendo un leader carismatico, egli si rivelò anche capace di costruire una nazione. (p. 382)
- Nehru era un uomo brillante, altezzoso ed aristocratico, dotato di un'alta considerazione di se stesso e di un carattere facile all'alterazione. Egli era anche devoto in modo passionale nei confronti del suo popolo e verso gli ideali di unità e di indipendenza nazionale.
Sfortunatamente per l'India anche lui, come molti altri intellettuali del suo tempo, sviluppò un precoce interesse per le teorie socialiste. L'India ha finito col pagare un altissimo prezzo per i tentativi compiuti da lui e da sua figlia di imporre il socialismo al mondo indiano, con le sue tradizioni millenarie e tenaci ed i suoi milioni di abitanti abituati alla fame ed agli stenti. (p. 382) - Egli divenne discepolo del Mahatma Gandhi, ma superò a "sinistra" il suo maestro, senza riuscire mai a condividerne a fondo il suo messaggio di non-violenza. Pronto a predicare agli altri la non-violenza, lo fu altrettanto nel decidere di impiegarla quando in gioco fu il destino dell'India. (p. 383)
- Nehru era un uomo di altezza media, alto poco più di un metro e settanta, con un volto dai lineamenti regolari ed un gran naso aquilino, occhi profondi di colore scuro, il cui sguardo poteva divenire molto intenso e penetrante. Il suo portamento aveva una eleganza aristocratica. Il suo inglese, sia scritto che parlato, era sintetico quanto impeccabile. (pp. 383-384)
- Tra tutti i leader internazionali da me incontrati, certamente Nehru è tra quelli più intelligenti. Egli poteva essere arrogante, incisivo, super sicuro delle sue argomentazioni; era, per farla breve, in preda ad un forte "complesso di superiorità" che non si curava minimamente di nascondere. (p. 384)
- E questo [...] fu il grande difetto di Nehru: dedicare tante energie e capacità per il conflitto con il Pakistan, invece di impiegarle in modo costruttivo all'interno. Ma Nehru era abbastanza energico ed intelligente da riuscire, se fosse vissuto abbastanza, a risolvere pacificamente la controversia con il Pakistan. Purtroppo la morte non glielo consentì ed il conflitto indo-pakistano rimane uno dei più drammatici esempi di follia militare post-bellica. Per decenni due delle nazioni più povere del mondo hanno speso gran parte delle loro magre risorse per riempire gli arsenali non già delle armi necessarie alla sola difesa dei loro confini, ma di quelle destinate a combattersi tra loro. Ed intanto milioni di abitanti hanno continuato a morire di stenti. (p. 386)
- La storia d'amore di Nehru con le teorie socialiste venne integralmente trasmessa a sua figlia, Indira Gandhi. Indira era stata una interessata ascoltatrice delle conversazioni tenute tra me e Nehru, durante la mia visita in India nel 1953. Anzi aveva fatto da vera e propria "padrona di casa" nel ricevere me e mia moglie. Essa si dimostrò gentile e piena di attenzioni per tutta la durata del nostro soggiorno. Ma quando la incontrai, anni dopo, io in qualità di presidente e lei in qualità di primo ministro, mi resi subito conto di avere a che fare con una vera "figlia di suo padre". Persino la sua ostilità nei confronti del Pakistan era maggiore, ove questo fosse stato possibile, di quella del padre. (p. 387)
- Non c'è dubbio che Jawaharlal Nehru sia stato un grande capo rivoluzionario. Nelle mie conversazioni con lui ebbi modo di rendermi conto del perché della sua grande influenza sul popolo indiano. Egli era dotato di un naturale alone di misticismo, ma era facile capire che ad esso si legava una perfetta comprensione dei meccanismi del potere, assieme ad una incrollabile risoluzione di usare il potere, persino con mano pesante, ove ciò fosse necessario.
La sua eredità all'India è... l'India stessa. (p. 388) - È oggi una sorta di cliché il parlare dell'India come della «democrazia più popolata del mondo». In ogni caso, per quanto l'India potesse maggiormente progredire se frazionata, Nehru è riuscito ad unirla in una sola entità nazionale ed è riuscito a farlo con la democrazia. Sua figlia, invece, è ricorsa a volte a poteri dittatoriali per mantenere il potere o per riguadagnarlo. Dubito che Nehru sarebbe mai ricorso a certi "trucchi". (p. 388)
- Il Medio Oriente è il crocevia del mondo, la culla della civiltà. I suoi santuari sono sacri per tre grandi religioni. Oggi è un'area di nomadi e di sapienti, di bazar e di laboratori, di pozzi di petrolio e di kibbutz, di democrazie e di Ayatollah. Vi sono regioni dove i contadini coltivano la terra con gli stessi metodi degli antenati di 1000 anni fa. In altre zone, nelle grandi città, vi sono donne eleganti che leggono i principali quotidiani del Cairo e di Londra mentre si dirigono verso i loro moderni uffici. Il Medio Oriente è un'entità fragile, vulnerabile, dove si incontrano i conflitti tra l'Ovest e l'Est. Il Medio Oriente rimane invischiato in mille correnti contrarie ed è percorso da fermenti emozionali esplosivi più di qualsiasi altra zona del mondo. Ed al momento dei più grandi cambiamenti, straordinari leaders emersero dalla regione. (p. 396)
- Golda Meir ed Indira Gandhi si assomigliano molto soprattutto nel modo di tenere duro sulla loro posizione nei dibattiti con interlocutori del sesso opposto. Tuttavia, dopo essermi incontrato con entrambe, rilevai una differenza fondamentale. Pur essendo entrambe donne, nel vero senso della parola, Indira Gandhi tendeva a fare della sua femminilità un'arma; cosa che mai la Meir si sarebbe sognata di fare. La signora Gandhi voleva esser trattata da donna, pur comportandosi con la spregiudicatezza di un uomo. Golda Meir, quando si comportava da "uomo", si aspettava di essere trattata di conseguenza. Non chiedeva mai un trattamento "morbido" per il fatto di essere donna, ma mai trattamento "morbido" impiegava con i suoi interlocutori. (p. 406)
- La leadership di Nasser fu "pirotecnica". Passò nel cielo del Medio Oriente come una meteora, non dettando legge ai soli egiziani, ma all'intero mondo arabo. Impulsivamente si gettò a capofitto negli affari delle altre nazioni arabe, organizzando insurrezioni, tramando assassinii e cercando di distorcere qualsiasi piano di unità panaraba che non prevedesse la sua direzione. Si fece molti nemici ed alcuni amici. Pochissimi furono quelli che riuscirono a rimanere neutrali nei suoi confronti. (p. 412)
- Nasser aveva un carattere instabile, impaziente, dittatoriale ed era posseduto da grandiose ambizioni che presero sempre il sopravvento sulle necessità pratiche della sua gente. (pp. 413-414)
- Ciò che rese Nasser tanto amato fu la capacità di restituire l'orgoglio, l'anima e lo spirito alla sua nazione. (p. 414)
- Nasser finiva per rimanere un rivoluzionario incapace di rassegnarsi al fatto che la rivoluzione fosse ormai finita e che fosse quindi necessario consolidarne i risultati. (p. 416)
- All'epoca della morte di Nasser, erano ormai circa vent'anni che Sadat attendeva la sua opportunità dietro le quinte. Si era salvato dall'ossessiva gelosia di Nasser perché era stato capace di celare del tutto le sue ambizioni. Egli era stato sempre pronto ad accollarsi ogni missione della quale Nasser decideva di incaricarlo. Alcuni lo definivano allora il "burattino" di Nasser. Altri sostenevano che il segno che portava sulla fronte non era tanto dovuto all'abitudine musulmana di chinare cinque volte al giorno il capo fino a terra in preghiera, bensì all'abitudine di Nasser di rifilargli degli scappellotti durante le riunioni di gabinetto, per tener viva la sua attenzione sul dibattito. Per diciotto anni, Sadat era rimasto tranquillo ad ascoltare. Prima della rivoluzione, all'epoca della dominazione britannica, egli era stato imprigionato per le sue attività nazionalistiche. In prigione, Sadat aveva imparato il valore della pazienza. Conoscendo la gelosia di Nasser verso i possibili concorrenti, Sadat si prese cura di non apparire mai interessato al potere. (p. 417)
- Quando Sadat assunse il potere dopo la morte di Nasser, molti osservatori si dissero convinti che il suo "regno" sarebbe durato poco. Si diceva che Sadat non avesse neanche parte del carisma del suo predecessore. Tutti costoro ignoravano il fatto che esistono diversi tipi di carisma, una qualità che si rivela solo dopo essere giunti al potere. Sadat non cercò di sostituirsi alla figura di Nasser. Egli scelse una sua strada nella storia. Iniziò con il respingere tutti gli attacchi degli altri pretendenti al potere, ricorrendo anche all'imprigionamento dei suoi oppositori più tenaci. E presto la sua autorità non venne più rivaleggiata. (p. 418)
- Nasser era un "dinamo" di umana energia. Egli partecipava anche agli atti minori del governo, fermandosi nel suo ufficio fino alle prime ore del mattino per evadere tutte le pratiche ammucchiate sul suo tavolo. Sadat era più contemplativo e distaccato. Ignorando spesso i suoi ministri, egli era solito prendere le sue decisioni durante lunghe passeggiate pomeridiane lungo il Nilo. (p. 419)
- Sadat riuscì dove Nasser aveva fallito perché riuscì a capire che il suo primo compito era il miglioramento delle condizioni di vita del suo popolo, piuttosto che il miglioramento del prestigio arabo nel mondo. Sadat aveva una migliore comprensione del suo predecessore delle forze prime che muovono il mondo. (p. 420)
- Sadat, un po' come de Gaulle, aveva un amore speculativo per la sua nazione, ma non si sentiva veramente partecipe dei sentimenti del popolo. (p. 422)
- Nasser era stato un leader "emozionale". Sadat era stato un condottiero "cerebrale". Nasser era stato capace di leggere nel cuore degli Egiziani. Sadat invece era quello che aveva guardato oltre le loro teste. Per il suo personale distacco, Sadat più che amato era rispettato. (p. 423)
- Sadat era stato una specie di "antidoto" rispetto a Nasser. Egli seppe portare a termine molti progetti del suo predecessore, ma fu anche capace di correggerne quelli che egli pensava fossero degli errori. (p. 423)
Citazioni su Richard Nixon
[modifica]- Da Gran Perdente è diventato un perfetto trionfo riuscendo a perdere la presidenza in modo più grandioso e originale di chiunque altro abbia fatto prima d'ora. (Gore Vidal)
- Ha venduto l'intero Paese, duecento milioni di persone, tutto da solo. Due volte. E qual era il punto di forza di Nixon nel '68? [...] Ha detto che avrebbe fermato la guerra, che ci avrebbe fatto uscire dal Vietnam. E che ha fatto? [...] Ha mandato altri centomila soldati e poi gli ha bombardato il culo e anche l'anima! Ecco cos'ha fatto. E l'anno scorso su cos'ha basato la sua candidatura? Mettere fine alla guerra nel Vietnam e ha vinto con una valanga di voti! Quello è un vero venditore, Sam. Ha fatto una promessa, non l'ha mantenuta e poi ci ha venduto la stessa identica promessa. Da capo. Di nuovo. Questo sì che è credere in se stessi. (The Assassination)
- I paragoni tra Donald Trump e Nixon sono scontati. Come Nixon, Trump ha sfruttato la reazione razzista bianca per un vantaggio politico. Come Nixon, Trump evidentemente è convinto che le leggi si applichino soltanto alla gente comune. Tuttavia, non risulta che Nixon sia stato un codardo. Nel mezzo di dimostrazioni di massa, non si ritirava nel MAGAbunker, avventurandosi fuori solo dopo che i suoi galoppini avevano sparato gas su manifestanti pacifici e li avevano spinti fuori da Lafayette Park. Piuttosto, egli uscì fuori per parlare con i manifestanti al Lincoln Memorial. La sua condotta fu un po’ bizzarra, ma non fu vile. E se la sua strategia politica fu cinica e spietata, Nixon fu un uomo scaltro, un grande lavoratore che prendeva sul serio il lavoro di Presidente. (Paul Krugman)
- [Epitaffio] Il più grande onore che la Storia può conferire è il titolo di pacificatore.
- The greatest honor history can bestow is the title of peacemaker.[16]
- Nixon. Cicero pro domo usa.[17] (Marcello Marchesi)
- Nixon è un capo forte con una buona comprensione dei problemi mondiali. Lui sa che l'unico modo per discutere con i comunisti è da una posizione di forza. (Mohammad Reza Pahlavi)
- Non mi sembrò un tipo umano, Nixon. Mi sembrò molto arrogante, molto pieno di sé. Uh, quella mascella! Non mi piace proprio, quella mascella. E quei lineamenti da bulldog. Non mi piacciono proprio. Denunciano una prepotenza. (Sandro Pertini)
- Penso che la seconda metà del XX secolo verrà ricordata come l'era di Nixon. Perché è il più duraturo personaggio pubblico del nostro tempo? Non perché ha fatto i discorsi più eloquenti, ma per la leadership più efficace. Non perché ha vinto ogni battaglia, ma perché ha sempre incarnato i sentimenti più profondi delle persone che ha guidato. (Bob Dole)
- Per quanto riguarda la politica estera degli Stati Uniti, Nixon ebbe sempre, ed ha tuttora, una visione sorprendentemente esatta di uomini e cose. La sua politica di disimpegno nel Vietnam e di relazioni normali con la Repubblica popolare cinese, fu una politica ragionevole, impostata al buon senso e alla prudenza. Allo stesso modo, la sua concezione rigorosa dell'equilibrio delle forze mondiali aveva dato indiscusso prestigio agli Stati Uniti. (Mohammad Reza Pahlavi)
- Prendete Richard Nixon ad esempio. La gente dimentica ma quarantasette milioni di americani avevano votato Nixon. Pensavamo che fosse uno dei buoni e Nixon pensava che il generale Pinochet fosse uno buono perché odiava i comunisti, così abbiamo aiutato Pinochet a prendere il potere. Poi Pinochet cambiò faccia ed uccise migliaia di persone. Forse in fondo non era uno dei buoni. (Narcos)
- Se il tuo paese non ti capisce, vieni da papà Amin che ti vuol bene. Un bacio su entrambe le guance. (Idi Amin Dada)
- Sia detto di passata, Richard Nixon è stato il miglior presidente americano del dopoguerra: ha chiuso la guerra del Vietnam, ha aperto alla Cina con quarant'anni di anticipo, ha eliminato l'equivoco del gold exchange standard, non era mafioso. Ma poiché, a differenza di Kennedy (che iniziò la guerra del Vietnam, combinò il pericoloso pasticcio della "baia dei porci", portò, insieme a Kruscev, il mondo sull'orlo della terza guerra mondiale, era intimo di noti gangster mafiosi come Sam Giancana) aveva un brutto grugno, è passato alla storia come "Nixon boia". (Massimo Fini)
- Soffriva di grandi complessi. E aveva una mania paranoide di persecuzione, che lo portò allo scandalo Watergate. Ma era intelligente, preparato, rapido nelle analisi. E aveva il senso dello Stato. Durante gli scrutini del 1960 Nixon sembrava che stesse vincendo (a detta dei sondaggi). Ma Joseph Kennedy, il padre di John, telefonò al suo amico sindaco di Chicago Richard J. Daley, che gli procurò i voti necessari. Nixon lo seppe. Ma non volle sollevare uno scandalo. Subì in silenzio una sconfitta immeritata. (Giovanni Sartori)
- È paradossale che un uomo presentandosi candidato alla presidenza in nome della legge e dell'ordine abbia fatto il possibile per infrangere la legge e causare disordine nel suo paese.
- Nixon si è considerato continuamente al di sopra della legge, in grado di fare ciò che voleva. L'ultimo sovrano inglese che lo fece perse la testa.
- Oggi Nixon non è soltanto odiato ma ha anche perduto ogni credibilità. Perdendo la credibilità agli occhi del suo popolo, Nixon ha perso l'autorità morale per governare la nazione americana. È la tragedia di Nixon e dell'America.
- La gente non ti amerà mai, non importa quante elezioni potrei vincere. Non ti ameranno mai.
- Richard Nixon è questo: avere gente che muore perché lui non sapeva giocare a football, avere la Costituzione appesa a un filo perché lui è andato alla Whittier e non a Yale.
- Riesci a immaginare che cosa sarebbe stato quest'uomo se solo fosse stato amato? [...] È una tragedia perché possedeva la vera grandezza. Ma aveva anche i difetti delle sue qualità.
- Ti sei indurito come fossi in guerra col mondo intero. Non eri così prima.
- Prima di partire per Vienna, il presidente [degli Stati Uniti] Carter ha fatto due dichiarazioni. La prima: «Ci auguriamo che il signor Breznev [allora presidente dell'Unione Sovietica e Primo Segretario del PCUS] abbia per le nostre ragioni la stessa comprensione che noi abbiamo per le sue». La seconda: «Se Ted Kennedy si presenta contro di me alle elezioni presidenziali, gli faccio un c.o così» Il triviale Nixon avrebbe potuto dire le stesse cose, ma certamente ne avrebbe invertito l'ordine di priorità riservando la comprensione a Kennedy ed il c.o a Breznev. La differenza fra i due è tutta qui.
- Fino ad una decina di anni orsono, la maggioranza degli americani erano convinti che, se Nixon fosse rimasto nella Storia del loro Paese – cosa che al loro orecchio suonava come un obbrobrio – vi sarebbe rimasto solo per il Watergate, cioè appunto per l'obbrobrio. Negli ultimi tempi tutto si è rovesciato: l'obbrobrio non è stato più il Watergate, ma la campagna scandalistica che lo aveva provocato. Gli stessi protagonisti che l'avevano montata – Bob Woodward e Carl Bernstein del Washington Post – ne riconobbero le forzature e fecero atto di contrizione. Non avevano inventato nulla, ma avevano deformato tutto. [...] La sorte è stata, tutto sommato, clemente con Nixon dandogli il tempo di vedere questo capovolgimento.
- Ultimamente era ricevuto, ed anzi continuamente sollecitato alla Casa Bianca, dove lo si accoglieva come lo Elder Statesman, lo statista anziano da consultare come un vecchio saggio sui problemi difficili. Fu a lui che Bush si rivolse per riallacciare un dialogo con Pechino dopo la rottura seguita al fattaccio di Tienanmen. E lui a Pechino lo riallacciò: i cinesi non avevano dimenticato che quel dialogo erano stati Nixon e Kissinger ad aprirlo, quando l'America aveva deciso di chiudere l'avventura del Vietnam in cui Kennedy e Johnson l'avevano malaccortamente cacciata. Ma anche Clinton è ricorso alla sua esperienza per capire cosa succedeva in Russia e trarne qualche insegnamento. Nixon andò a Mosca, e ne tornò con cattivi presagi sulla sorte di Eltsin che i successivi avvenimenti hanno confermato.
- Non era un uomo «simpatico», e soprattutto non aveva nulla che potesse sedurre l'America dei salotti e della intellighenzia, che gli uomini politici li misurano a modo loro, mai quello giusto. Scambiarono per un grande intellettuale Kennedy, che in vita sua aveva visto migliaia di film, ma mai letto un libro. E prendevano Nixon, che di libri ne ha letti ed ha continuato a leggerne (ed a scriverne, niente male), fino all'ultimo giorno per una specie di Bossi californiano, rozzo e triviale. [...] Ma forse quello che più infastidiva gli americani era la renitenza di Nixon ad appelli e richiami tanto più sonori quanto più vacui, come «la nuova frontiera» e simili. Nixon era un professionista della politica, uno dei pochissimi che l'America abbia mandato alla Casa Bianca. Non andava per sogni e per versetti del Vangelo. Conosceva il suo Bismarck, il suo Disraeli, e credo anche il suo Machiavelli che in America basta nominarli per finire scomunicati. Per questo lo consideravano un mestierante, e per questo si era scelto come consigliere un altro mestierante, l'ebreo tedesco Kissinger. Furono questi due uomini che ridiedero all'America la leadership nella politica estera coinvolgendo nel gioco la Cina e scavandone il solco da Mosca. I successori di Nixon, e specialmente Reagan, vissero in gran parte di questa eredità.
- Per un atto d'amore al mio paese | io ti reclamo, fratello necessario, | vecchio Walt Whitman dalla mano grigia,| affinché col tuo appoggio straordinario | verso a verso uccidiamo alla radice | Nixon, Presidente sanguinario.
- Assumo i miei doveri di poeta | armato del sonetto terrorista; | perché devo dettare senza pena | la sentenza fin'ora non mai vista | di fucilare un criminale ardente | che nonostante i suoi viaggi sulla luna | ha ucciso sulla terra tanta gente, | che la carta mi sfugge e la penna mi manca | nello scrivere il nome del malvagio, | del genocida della Casa Bianca.
- Nixon, Frei e Pinochet | fino a oggi, fino a questo amaro | mese di settembre | dell'anno 1973, con Bordaberry, Garrastuzu e Banzer, | iene voraci [...] satrapi mille volte venduti | e traditori, eccitati | dai lupi di New York.
Note
[modifica]- ↑ Citato in Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali. Dal 1918 ai giorni nostri, Editori Laterza, Roma, 2008, pp. 1189-1190. ISBN 978-88-420-8734-2
- ↑ Un'intervista condotta da Phil Donahue durante la quale Trump ha espresso delle opinioni politiche. The Phil Donahue Show, dicembre 1987. Cfr. The Phil Donahue Show - Donald Trump - December 1987, Archive.org
- ↑ (EN) Citato in In 1987, the Nixons predicted @realDonaldTrump would win whenever he ran for office., Twitter.com, 9 novembre 2016.
- ↑ Dal discorso tenuto a San Clemente il 3 aprile 1971; citato come epigrafe del romanzo di Philip Roth La nostra gang, traduzione di Norman Gobetti, Einaudi, Torino, 2015, p. 5. ISBN 978-88-06-22731-9
- ↑ Citato in Christopher Cerf e Victor Navasky, p. 311.
- ↑ Citato in Beppe Severgnini, La profezia di Nixon, Corriere della Sera, 26 febbraio 2022, p. 42.
- ↑ Citato in Christopher Cerf e Victor Navasky, p. 313.
- ↑ (EN) Citato in J.Y. Smith, H.R. Haldeman Dies Was Nixon Chief of Staff; Watergate Role Led to 18 Months in Prison, The Washington Post, 13 novembre 1993, pagina A12.
- ↑ Citato in Christopher Cerf e Victor Navasky, p. 254
- ↑ Citato in Focus n. 88, p. 102.
- ↑ Citato in Dizionario mondiale di Storia, Rizzoli Larousse, Milano, 2003, p. 826. ISBN 88-525-0077-4
- ↑ a b Da una conversazione desecretata dei primi mesi del 1973; citato in Christopher Hitchens, Quando l'America era in mano a un presidente razzista, Corriere della Sera, 5 luglio 2009.
- ↑ Citato in Nixon lancia un piano antidroga, "piaga che minaccia l'America", La Stampa, 19 giugno 1971.
- ↑ Citato in Antonio Donno & Giuliana Iurlano, L'amministrazione Nixon e il continente africano. Tra decolonizzazione e guerra fredda (1969-1974), FrancoAngeli, p. 166
- ↑ Frase pronunciata dopo la sconfitta alle elezioni di Governatore della California; (EN) citato in Christopher Cerf e Victor Navasky
- ↑ Cfr. commons:File:Yorba graf Richard Nixon.jpg.
- ↑ Cfr. locuzione latina: «Cicero pro domo sua» («Cicerone [che parla] per la propria casa»). Cfr. voce su Wikipedia.
Bibliografia
[modifica]- (EN) Christopher Cerf e Victor Navasky, The Experts Speak, New York, Villard, 1998. ISBN 0-679-77806-3
- Richard Nixon, La vera guerra, traduzione di Alda Carrer, editoriale corno, 1980.
- Richard Nixon, Leaders, traduzione di Tullio Ciarrapico, Ciarrapico editore, 1984, ISBN 88-7518-039-3.
Voci correlate
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