AA.VV., "Alchimia", Quaderni di Airesis, a cura di Massimo Marra e Andrea De Pascalis, Mimesis, Milano 2007 - PRE-PRINT VERSION, 2007
Quella della poesia alchemica è una produzione copiosa e riconoscibile, in cui le strofe adespote... more Quella della poesia alchemica è una produzione copiosa e riconoscibile, in cui le strofe adespote si rincorrono di archetipo in archetipo, di citazione in citazione. Per quanto possa apparire strano, sono assai pochi i lavori moderni consacrati a questo particolare aspetto della tradizione testuale dell'alchimia. Il primo lavoro sistematico di esame dei manoscritti alchemici delle biblioteche italiane, quello del Carbonelli 2 , rileva già la presenza di una antica tradizione di trattati in versi 3 , che lo studioso ricollega senz'altro alla tradizione poetica classica: Nella poesia didascalica latina primeggia il poema Della natura delle cose di T. Lucrezio Caro: nel manoscritto greco di S. Marco vi sono parecchi trattati in versi, ciò prova che la tradizione esisteva tanto greco-alessandrina o bizantina, quanto latina. Non è certamente mio scopo ricercare le origini di questo genere di poesia, mi basta
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Books by Massimo Marra
nella storia e nell’immaginario moderni?
Per quale ragione studiosi, occultisti e letterati
l’hanno eletto a modello dell’adepto per antonomasia?
Qual è il segreto che fa del buon borghese,
dell’abile artigiano, commerciante e investitore
immobiliare restituitoci dagli archivi storici
parigini, l’avventuroso alchimista par excellence
che, dai trattati seicenteschi, passando per le narrazioni
stupefatte di viaggiatori, le cronache, le
opere letterarie e drammaturgiche, le appassionate
pagine degli occultisti ottocenteschi e novecenteschi,
arriva all’immaginario dei surrealisti, Breton in testa,
per sbarcare poi nei best-seller di J.K. Rowling?
il ritratto trasmessoci dai documenti storici rende
inverosimile l’ipotesi di un Flamel alchimista.
L’assenza di manoscritti latini antecedenti all’edizione
francese del Livre des Figures Hiéroglyphiques
– la principale fonte del mito Flamel –
l’assenza di testimonianze coeve che avvalorino
in qualche modo la sua attività alchimistica destituiscono
di ogni possibile credito l’immagine
trasmessa dalla tradizione. Queste e altre evidenze
non lasciano adito a dubbi: il libro che narra
la storia del Flamel alchimista è un falso degli
inizi del XVII secolo, scaturigine principale di
una leggenda che ha attraversato i secoli.
a più di quarant’anni di distanza dalla prima versione
italiana del Livre, ne viene proposta oggi
una nuova traduzione, arricchita da diversi saggi
e da un nutrito corpus di note e commenti. Un
prezioso materiale che ci aiuta a comprendere
che la storia raccontata dal Livre des Figures
Hiéroglyphiques è anzitutto la storia di un libro
misterioso e fatale che ha trasformato un tranquillo
e laborioso scrivano in un alchimista avventuroso.
Con 30 Illustrazioni.
--------------------------------------
Con L’Arte del Fuoco traiamo dall’oblio un interessantissimo esempio di alchimia seicentesca di area italiana. L’impenetrabilità dello pseudonimo usato dall’autore rimane ancora oggi intatto, e nessun indizio ci è dato di raccogliere in merito alla sua vera identità. Composto tra gli anni ’70 ed ’80 del secolo, L’arte del Fuoco si apparenta, per la scelta del verso come formula espositiva dei segreti dell’Arte, ad una ricca tradizione italiana che va dalla Canzone di Rigino Danielli, fino alle rime alchemiche del Santinelli e del Palombara. La dottrina esposta nei versi e nei commenti di Teuchasio appare debitrice dell’attenta frequentazione di una larga messe di opere ed autori, che, oltre ai maestri dell’alchimia medievale, vanno dal Farra (in modo particolare il Settenario dell’Humana Riduttione) fino a Michael Maier; tuttavia l’autore cui, soprattutto, appare debitore Teuchasio è il Braccesco, dalla cui Espositione di Geber Filosofo (1644) sono estratte le 129 Propositiones che costituiscono il filo conduttore del testo e che riproponiamo in appendice.
Stimato da André Breton, studiato da filosofi come Maurice de Gandillac, venerato da artisti come Jean Cocteau e, nel contempo, sospetto di pratiche e ideologie esoteriche luciferine, latore di concezioni razziste ed antisemite, René Schwaller de Lubicz è un personaggio di difficile decrittazione. Frutto maturo di suggestioni culturali ed esoteriche che vanno dalla teosofia al socialismo fourierista, dalla magia sexualis della Hermetic Brotherhood of Luxor alla sinarchia di Sant-Yves d’Alveydre, passando per coloriture di volta in volta corporativiste e libertarie, un tale personaggio è forse il crocevia più indicato per illustrare, attraverso l’analisi della sua complessa vicenda spirituale, le tensioni e le influenze che agivano all’interno di un’intera generazione di esoteristi, intellettuali ed artisti francesi ed europei, figli di una borghesia smarrita ed eradicata, fecondamente incapace ad assumere l’onere plumbeo dell’aridità positivista.
Materia nomade, erratica, dai contorni identitari incerti, è ancora oggi difficile dare una definizione dell’alchimia all’interno della storia culturale dell’occidente, definirne un territorio, una lingua.
Terreno ibrido tra tecnica manipolatoria della materia e tensione soteriologica ad una rigenerazione microcosmica e macrocosmica, l’alchimia, con la sua natura anfibia, sfugge anche nella modernità, nonostante i molteplici tentativi ermeneutici epistemologici, storici, psicoanalitici, ad ogni tentativo di classificazione. Un altrove assoluto, una “scienza degli imponderabili” (secondo una nota definizione coniata da Elémire Zolla) in cui è assai complesso riconoscere radici e nozioni note, rassicuranti. Abbiamo qui raccolto materiali critici che percorrono varie fasi della storia dell’alchimia occidentale, affiancando la sintesi storico scientifica e la riflessione epistemologica alla presentazione critica di materiali testuali tradizionali noti e meno noti, provenienti da fonti manoscritte e a stampa.
Al saggio storico introduttivo, segue la presentazione di una serie di testi e documentazioni iconografiche dell’alchimia seicentesca di ambiente napoletano.
Il Pulicinella filosofo chimico (1681), opera del poco noto nobile napoletano Severino Scipione, è un dialogo tra Pulcinella e Graziano di Bologna, stavolta presentato come alchimista, in cui le due maschere dissertano ampiamente presentando i principi dell’arte alchemica del Severino, in gran parte attinta da fonti come il corpus alchemico pseudo-lulliano o gli scritti di Giovanni Braccesco. L’opera, poco nota negli ambienti specialistici e non riportata da alcuno degli abituali repertori bibliografici specializzati viene riproposta con ampio corredo critico.
In appendice viene presentato il Dialogo Anagrammico dell’Alchimia di Gennaro Grosso (1650) poeta napoletano di ispirazione marinista. Il dialogo si serve di una serie di giochi anagrammatici, che fungono da avvio alle dissertazioni dei due personaggi.
Si è scelto di presentare inoltre, come importante appendice documentaria, il ventunesimo libro dell’Historia Naturale di Ferrante Imperato, pubblicata a Napoli nel 1599, come esemplificazione delle idee alchemiche circolanti agli inizi del XVII secolo negli ambienti filosofici e scientifici in cui agivano i lincei napoletani (Della Porta, Stigliola etc.).
Chiude il libro la riproduzione delle bellissime tavole introduttive del Dell’Elixir Vitae (1624) di Fra Donato D’Eremita da Roccadevandro, probabile opera dello stesso frate, non scevre da riferimenti simbolici ed iconografici di contenuto esplicitamente ermetico.
Papers by Massimo Marra
Nata dall'humus ideologico paracelsiano e dalla fede nelle virtù occulte dell'anima mundi, figlia delle prodigiose virtù di muffe magiche, macabro trofeo di vitalità sottratto ad ossa morte e delle invisibili proprietà della mumia, evolutasi nel segno della rivoluzionaria ideologia corpuscolarista, l'idea di medicina magnetica, alle soglie del XVIII secolo si avvia al suo nadir, decadendo, almeno per le classi colte, dal rango di serio e appassionante dibattito scientifico a quello di mera curiosità da salotto o di rimedio ciarlatanesco. Ormai diffusi e citatissimi, nel frattempo, unguento armario e polvere di simpatia, penetrano con la loro aura di meraviglioso nella letteratura e nella drammaturgia, divenendo di volta in volta metafora di cura potentissima o di divertente ciurmeria per gonzi. Trasformata e propagata in tutta Europa nelle molteplici ricette di imbroglioni e saltimbanchi di ogni risma, la cura magnetica si sedimenta nei patrimoni folklorici, nelle pratiche tradizionali di guaritori e guaritrici contadine; raccolta come antecedente storico dai più accorti rappresentanti del mesmerismo, e successivamente oggetto dell'interesse del variegato mondo dell'occultismo della Belle Epoque, con le sue molteplici evoluzioni, essa incarna, ancora alle soglie del ventesimo secolo, un residuo immaginale non rimuovibile di concezioni mediche ed epistemologiche altre, un segmento ineludibile nella storia del pensiero medico occidentale.
Tra il XVI ed il XVIII secolo, una serie di teorie di derivazione paracelsiana, basate sui rapporti simpatici innescati dalle influenze celesti e mediati dall'anima mundi, danno il via al dibattito sulle cure magnetiche, la 'transplantatio morbi' (il passaggio della patologia per simpatia dall'organo dolente del paziente a quello di un animale sacrificabile, o, in qualche caso, già sacrificato) e l'utilizzo di preparati medicinali specifici, quale l'Unguento Armario (proveniente da una ricetta pseudo-paracelsiana ed ottenuto da usnea capitis, fungo raccolto su di un cranio di defunto possibilmente morto di morte violenta, mumia aegyptiaca, sangue umano ed altri ingredienti minori) e la Polvere di simpatia, ottenuta da vetriolo calcinato dai raggi solari col sole in Leone. Entrambi questi medicamenti promettevano di guarire le ferite mediante l'applicazione sullo strumento che le aveva inferte o su di un panno intriso del sangue del paziente, il quale poteva anche essere assente, lontano, e che non abbisognava di ulteriori altre cure se non la pulizia della ferita. Entrambi questi medicamenti suscitarono schiere di sostenitori entusiasti e di detrattori scettici o preoccupati dalle possibili implicazioni stregoniche e diaboliche di tali mirabili rimedi a distanza. Dopo aver analizzato i primi passi dell'unguento armario, il successivo affermarsi della polvere di simpatia ed il delinearsi delle principali polemiche mediche e religiose legate ai due medicamenti, dopo aver visto il sorgere e l'affermarsi della spiegazione corpuscolarista dell'azione a distanza delle cure magnetiche, dapprima emersa organicamente nelle teorie Nathaniel Highmore e poi in quelle universalmente propagate da sir Kenelm Digby,in questo quinto appuntamento esploriamo l'evoluzione del dibattito tra paracelsani-ancora ancorati al cosmo ermetizzante di Van Helmont e di Fludd-gli eterni scettici razionalisti ed i novatores corpuscolaristi variamente schierati pro o contro le meraviglie della polvere di simpatia.
Tra il XVI ed il XVIII secolo, una serie di teorie di derivazione paracelsiana, basate sui rapporti simpatici innescati dalle influenze celesti e mediati dall'anima mundi, danno il via al dibattito sulle cure magnetiche, la 'transplantatio morbi' (il passaggio della patologia per simpatia dall'organo dolente del paziente a quello di un animale sacrificabile, o, in qualche caso, già sacrificato) e l'utilizzo di preparati medicinali specifici, quale l'Unguento Armario (proveniente da una ricetta pseudo-paracelsiana ed ottenuto da usnea capitis, fungo raccolto su di un cranio di defunto possibilmente morto di morte violenta, mumia aegyptiaca, sangue umano ed altri ingredienti minori) e la Polvere di simpatia, ottenuta da vetriolo calcinato dai raggi solari col sole in Leone. Entrambi questi medicamenti promettevano di guarire le ferite mediante l'applicazione sullo strumento che le aveva inferte o su di un panno intriso del sangue del paziente, il quale poteva anche essere assente, lontano, e che non abbisognava di ulteriori altre cure se non la pulizia della ferita. Entrambi questi medicamenti suscitarono schiere di sostenitori entusiasti e di detrattori scettici o preoccupati dalle possibili implicazioni stregoniche e diaboliche di tali mirabili rimedi a distanza. Dopo aver analizzato i primi passi dell'unguento armario, il successivo affermarsi della polvere di simpatia ed il delinearsi delle principali polemiche mediche e religiose legate ai due medicamenti, in questo quinto appuntamento esploriamo il progressivo sorgere ed affermarsi della spiegazione corpuscolarista dell'azione a distanza che, emersa organicamente nelle teorie Nathaniel Highmore e poi in quelle universalmente propagate da sir Kenelm Digby, costituirà un elemento centrale del dibattito scientifico nella seconda metà del XVII secolo.
Tra le opere alchemiche del Medioevo, il Pretiosum donum Dei ha un posto di particolare rilievo essendo uno dei primi trattati illustrato con immagini che simboleggiano le Operazioni alchemiche attraverso le figure e i colori con cui sono dipinte.
La traduzione di un manoscritto del XV secolo (ms. Guelf. 77.2 Aug. 8° della Biblioteca di Wolfenbuttel) consente di leggerlo in una delle più antiche redazioni originali e integrali, che presenta alcune differenze interessanti rispetto ai codici di epoca successiva.
La comparazione con un altro trattato, lo Speculum Alchimiae, attribuito per mano dell'amanuense a Frate Elia in sei diversi codici, consente inoltre di trarre importanti deduzioni sulla conoscenza che di questo secondo testo avevano gli scrittori di Alchimia del tempo, facendo dello Speculum uno dei punti di riferimento della ricerca alchemica nel XV secolo e forse ancora prima, come sembra di poter affermare sulla base di alcune frasi conteute nel Donum Dei.
nella storia e nell’immaginario moderni?
Per quale ragione studiosi, occultisti e letterati
l’hanno eletto a modello dell’adepto per antonomasia?
Qual è il segreto che fa del buon borghese,
dell’abile artigiano, commerciante e investitore
immobiliare restituitoci dagli archivi storici
parigini, l’avventuroso alchimista par excellence
che, dai trattati seicenteschi, passando per le narrazioni
stupefatte di viaggiatori, le cronache, le
opere letterarie e drammaturgiche, le appassionate
pagine degli occultisti ottocenteschi e novecenteschi,
arriva all’immaginario dei surrealisti, Breton in testa,
per sbarcare poi nei best-seller di J.K. Rowling?
il ritratto trasmessoci dai documenti storici rende
inverosimile l’ipotesi di un Flamel alchimista.
L’assenza di manoscritti latini antecedenti all’edizione
francese del Livre des Figures Hiéroglyphiques
– la principale fonte del mito Flamel –
l’assenza di testimonianze coeve che avvalorino
in qualche modo la sua attività alchimistica destituiscono
di ogni possibile credito l’immagine
trasmessa dalla tradizione. Queste e altre evidenze
non lasciano adito a dubbi: il libro che narra
la storia del Flamel alchimista è un falso degli
inizi del XVII secolo, scaturigine principale di
una leggenda che ha attraversato i secoli.
a più di quarant’anni di distanza dalla prima versione
italiana del Livre, ne viene proposta oggi
una nuova traduzione, arricchita da diversi saggi
e da un nutrito corpus di note e commenti. Un
prezioso materiale che ci aiuta a comprendere
che la storia raccontata dal Livre des Figures
Hiéroglyphiques è anzitutto la storia di un libro
misterioso e fatale che ha trasformato un tranquillo
e laborioso scrivano in un alchimista avventuroso.
Con 30 Illustrazioni.
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Con L’Arte del Fuoco traiamo dall’oblio un interessantissimo esempio di alchimia seicentesca di area italiana. L’impenetrabilità dello pseudonimo usato dall’autore rimane ancora oggi intatto, e nessun indizio ci è dato di raccogliere in merito alla sua vera identità. Composto tra gli anni ’70 ed ’80 del secolo, L’arte del Fuoco si apparenta, per la scelta del verso come formula espositiva dei segreti dell’Arte, ad una ricca tradizione italiana che va dalla Canzone di Rigino Danielli, fino alle rime alchemiche del Santinelli e del Palombara. La dottrina esposta nei versi e nei commenti di Teuchasio appare debitrice dell’attenta frequentazione di una larga messe di opere ed autori, che, oltre ai maestri dell’alchimia medievale, vanno dal Farra (in modo particolare il Settenario dell’Humana Riduttione) fino a Michael Maier; tuttavia l’autore cui, soprattutto, appare debitore Teuchasio è il Braccesco, dalla cui Espositione di Geber Filosofo (1644) sono estratte le 129 Propositiones che costituiscono il filo conduttore del testo e che riproponiamo in appendice.
Stimato da André Breton, studiato da filosofi come Maurice de Gandillac, venerato da artisti come Jean Cocteau e, nel contempo, sospetto di pratiche e ideologie esoteriche luciferine, latore di concezioni razziste ed antisemite, René Schwaller de Lubicz è un personaggio di difficile decrittazione. Frutto maturo di suggestioni culturali ed esoteriche che vanno dalla teosofia al socialismo fourierista, dalla magia sexualis della Hermetic Brotherhood of Luxor alla sinarchia di Sant-Yves d’Alveydre, passando per coloriture di volta in volta corporativiste e libertarie, un tale personaggio è forse il crocevia più indicato per illustrare, attraverso l’analisi della sua complessa vicenda spirituale, le tensioni e le influenze che agivano all’interno di un’intera generazione di esoteristi, intellettuali ed artisti francesi ed europei, figli di una borghesia smarrita ed eradicata, fecondamente incapace ad assumere l’onere plumbeo dell’aridità positivista.
Materia nomade, erratica, dai contorni identitari incerti, è ancora oggi difficile dare una definizione dell’alchimia all’interno della storia culturale dell’occidente, definirne un territorio, una lingua.
Terreno ibrido tra tecnica manipolatoria della materia e tensione soteriologica ad una rigenerazione microcosmica e macrocosmica, l’alchimia, con la sua natura anfibia, sfugge anche nella modernità, nonostante i molteplici tentativi ermeneutici epistemologici, storici, psicoanalitici, ad ogni tentativo di classificazione. Un altrove assoluto, una “scienza degli imponderabili” (secondo una nota definizione coniata da Elémire Zolla) in cui è assai complesso riconoscere radici e nozioni note, rassicuranti. Abbiamo qui raccolto materiali critici che percorrono varie fasi della storia dell’alchimia occidentale, affiancando la sintesi storico scientifica e la riflessione epistemologica alla presentazione critica di materiali testuali tradizionali noti e meno noti, provenienti da fonti manoscritte e a stampa.
Al saggio storico introduttivo, segue la presentazione di una serie di testi e documentazioni iconografiche dell’alchimia seicentesca di ambiente napoletano.
Il Pulicinella filosofo chimico (1681), opera del poco noto nobile napoletano Severino Scipione, è un dialogo tra Pulcinella e Graziano di Bologna, stavolta presentato come alchimista, in cui le due maschere dissertano ampiamente presentando i principi dell’arte alchemica del Severino, in gran parte attinta da fonti come il corpus alchemico pseudo-lulliano o gli scritti di Giovanni Braccesco. L’opera, poco nota negli ambienti specialistici e non riportata da alcuno degli abituali repertori bibliografici specializzati viene riproposta con ampio corredo critico.
In appendice viene presentato il Dialogo Anagrammico dell’Alchimia di Gennaro Grosso (1650) poeta napoletano di ispirazione marinista. Il dialogo si serve di una serie di giochi anagrammatici, che fungono da avvio alle dissertazioni dei due personaggi.
Si è scelto di presentare inoltre, come importante appendice documentaria, il ventunesimo libro dell’Historia Naturale di Ferrante Imperato, pubblicata a Napoli nel 1599, come esemplificazione delle idee alchemiche circolanti agli inizi del XVII secolo negli ambienti filosofici e scientifici in cui agivano i lincei napoletani (Della Porta, Stigliola etc.).
Chiude il libro la riproduzione delle bellissime tavole introduttive del Dell’Elixir Vitae (1624) di Fra Donato D’Eremita da Roccadevandro, probabile opera dello stesso frate, non scevre da riferimenti simbolici ed iconografici di contenuto esplicitamente ermetico.
Nata dall'humus ideologico paracelsiano e dalla fede nelle virtù occulte dell'anima mundi, figlia delle prodigiose virtù di muffe magiche, macabro trofeo di vitalità sottratto ad ossa morte e delle invisibili proprietà della mumia, evolutasi nel segno della rivoluzionaria ideologia corpuscolarista, l'idea di medicina magnetica, alle soglie del XVIII secolo si avvia al suo nadir, decadendo, almeno per le classi colte, dal rango di serio e appassionante dibattito scientifico a quello di mera curiosità da salotto o di rimedio ciarlatanesco. Ormai diffusi e citatissimi, nel frattempo, unguento armario e polvere di simpatia, penetrano con la loro aura di meraviglioso nella letteratura e nella drammaturgia, divenendo di volta in volta metafora di cura potentissima o di divertente ciurmeria per gonzi. Trasformata e propagata in tutta Europa nelle molteplici ricette di imbroglioni e saltimbanchi di ogni risma, la cura magnetica si sedimenta nei patrimoni folklorici, nelle pratiche tradizionali di guaritori e guaritrici contadine; raccolta come antecedente storico dai più accorti rappresentanti del mesmerismo, e successivamente oggetto dell'interesse del variegato mondo dell'occultismo della Belle Epoque, con le sue molteplici evoluzioni, essa incarna, ancora alle soglie del ventesimo secolo, un residuo immaginale non rimuovibile di concezioni mediche ed epistemologiche altre, un segmento ineludibile nella storia del pensiero medico occidentale.
Tra il XVI ed il XVIII secolo, una serie di teorie di derivazione paracelsiana, basate sui rapporti simpatici innescati dalle influenze celesti e mediati dall'anima mundi, danno il via al dibattito sulle cure magnetiche, la 'transplantatio morbi' (il passaggio della patologia per simpatia dall'organo dolente del paziente a quello di un animale sacrificabile, o, in qualche caso, già sacrificato) e l'utilizzo di preparati medicinali specifici, quale l'Unguento Armario (proveniente da una ricetta pseudo-paracelsiana ed ottenuto da usnea capitis, fungo raccolto su di un cranio di defunto possibilmente morto di morte violenta, mumia aegyptiaca, sangue umano ed altri ingredienti minori) e la Polvere di simpatia, ottenuta da vetriolo calcinato dai raggi solari col sole in Leone. Entrambi questi medicamenti promettevano di guarire le ferite mediante l'applicazione sullo strumento che le aveva inferte o su di un panno intriso del sangue del paziente, il quale poteva anche essere assente, lontano, e che non abbisognava di ulteriori altre cure se non la pulizia della ferita. Entrambi questi medicamenti suscitarono schiere di sostenitori entusiasti e di detrattori scettici o preoccupati dalle possibili implicazioni stregoniche e diaboliche di tali mirabili rimedi a distanza. Dopo aver analizzato i primi passi dell'unguento armario, il successivo affermarsi della polvere di simpatia ed il delinearsi delle principali polemiche mediche e religiose legate ai due medicamenti, dopo aver visto il sorgere e l'affermarsi della spiegazione corpuscolarista dell'azione a distanza delle cure magnetiche, dapprima emersa organicamente nelle teorie Nathaniel Highmore e poi in quelle universalmente propagate da sir Kenelm Digby,in questo quinto appuntamento esploriamo l'evoluzione del dibattito tra paracelsani-ancora ancorati al cosmo ermetizzante di Van Helmont e di Fludd-gli eterni scettici razionalisti ed i novatores corpuscolaristi variamente schierati pro o contro le meraviglie della polvere di simpatia.
Tra il XVI ed il XVIII secolo, una serie di teorie di derivazione paracelsiana, basate sui rapporti simpatici innescati dalle influenze celesti e mediati dall'anima mundi, danno il via al dibattito sulle cure magnetiche, la 'transplantatio morbi' (il passaggio della patologia per simpatia dall'organo dolente del paziente a quello di un animale sacrificabile, o, in qualche caso, già sacrificato) e l'utilizzo di preparati medicinali specifici, quale l'Unguento Armario (proveniente da una ricetta pseudo-paracelsiana ed ottenuto da usnea capitis, fungo raccolto su di un cranio di defunto possibilmente morto di morte violenta, mumia aegyptiaca, sangue umano ed altri ingredienti minori) e la Polvere di simpatia, ottenuta da vetriolo calcinato dai raggi solari col sole in Leone. Entrambi questi medicamenti promettevano di guarire le ferite mediante l'applicazione sullo strumento che le aveva inferte o su di un panno intriso del sangue del paziente, il quale poteva anche essere assente, lontano, e che non abbisognava di ulteriori altre cure se non la pulizia della ferita. Entrambi questi medicamenti suscitarono schiere di sostenitori entusiasti e di detrattori scettici o preoccupati dalle possibili implicazioni stregoniche e diaboliche di tali mirabili rimedi a distanza. Dopo aver analizzato i primi passi dell'unguento armario, il successivo affermarsi della polvere di simpatia ed il delinearsi delle principali polemiche mediche e religiose legate ai due medicamenti, in questo quinto appuntamento esploriamo il progressivo sorgere ed affermarsi della spiegazione corpuscolarista dell'azione a distanza che, emersa organicamente nelle teorie Nathaniel Highmore e poi in quelle universalmente propagate da sir Kenelm Digby, costituirà un elemento centrale del dibattito scientifico nella seconda metà del XVII secolo.
Tra le opere alchemiche del Medioevo, il Pretiosum donum Dei ha un posto di particolare rilievo essendo uno dei primi trattati illustrato con immagini che simboleggiano le Operazioni alchemiche attraverso le figure e i colori con cui sono dipinte.
La traduzione di un manoscritto del XV secolo (ms. Guelf. 77.2 Aug. 8° della Biblioteca di Wolfenbuttel) consente di leggerlo in una delle più antiche redazioni originali e integrali, che presenta alcune differenze interessanti rispetto ai codici di epoca successiva.
La comparazione con un altro trattato, lo Speculum Alchimiae, attribuito per mano dell'amanuense a Frate Elia in sei diversi codici, consente inoltre di trarre importanti deduzioni sulla conoscenza che di questo secondo testo avevano gli scrittori di Alchimia del tempo, facendo dello Speculum uno dei punti di riferimento della ricerca alchemica nel XV secolo e forse ancora prima, come sembra di poter affermare sulla base di alcune frasi conteute nel Donum Dei.
Tra il XVI ed il XVIII secolo, una serie di teorie di derivazione paracelsiana, basate sui rapporti simpatici innescati dalle influenze celesti e mediati dall'anima mundi, danno il via al dibattito sulle cure magnetiche, la 'transplantatio morbi' (il passaggio della patologia per simpatia dall'organo dolente del paziente a quello di un animale sacrificabile, o, in qualche caso, già sacrificato) e l'utilizzo di preparati medicinali specifici, quale l'Unguento Armario (proveniente da una ricetta pseudo-paracelsiana ed ottenuto da usnea capitis, fungo raccolto su di un cranio di defunto possibilmente morto di morte violenta, mumia aegyptiaca, sangue umano ed altri ingredienti minori) e la Polvere di simpatia, ottenuta da vetriolo calcinato dai raggi solari col sole in Leone. Entrambi questi medicamenti promettevano di guarire le ferite mediante l'applicazione sullo strumento che le aveva inferte o su di un panno intriso del sangue del paziente, il quale poteva anche essere assente, lontano, e che non abbisognava di ulteriori altre cure se non la pulizia della ferita. Entrambi questi medicamenti suscitarono schiere di sostenitori entusiasti e di detrattori scettici o preoccupati dalle possibili implicazioni stregoniche e diaboliche di tali mirabili rimedi a distanza. In una serie di 7 articoli successivi analizzeremo la parabola di sviluppo, splendore e successiva decadenza di Unguento Armario e Povere di Simpatia, e, attraverso gli scritti di partigiani ed oppositori, ne seguiremo le relative controversie.
Nel carattere ambivalente che assume nella sua duplice veste di dissolvente universale e lavacro purificatore e trasmutante, la fontana è, di volta in volta, insidia mortale e dispensatrice di guarigione corporale e spirituale, di perfezione iniziatica.
Tra XV e XVI secolo essa diviene uno dei simbolismi più diffusi e ripetuti, un topos in virtù del quale il semplice riferimento di un titolo o di un immagine poteva evocare tutta la complessità e la carica di ambiguità di un’acqua che uccide e fa risorgere, dissolve e congela, annerisce ed indora.
Lo scopo del lavoro è indagare ed analizzare le principali ricorrenze testuali ed iconografiche del simbolo della fontana nella letteratura alchemica tra XV e XVI secolo. In appendice, a titolo esemplificativo, abbiamo trascritto una antica traduzione italiana dell’allegoria della fontana di Bernardo Trevisano (Ms. V-H-134 della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli).
Scopo del lavoro è indagare sulle radici ideologiche di questo carattere tipico e persistente dell’esoterismo occidentale moderno, sulla sua intima relazione con i paradigmi laici ed anti-religiosi dell’illuminismo e della sua epitome positivista. In questo quadro l’”altrove” esotico variamente connotato diviene specchio di istanze ideologiche genuinamente borghesi e laiche, tentativo di storicizzare e radicare in una memoria originaria fittizia le nuove istanze di una spiritualità differente da quella proposta dalle tradizioni, ormai strutturalmente incompatibili ed idiosincratiche con i paradigmi culturali e sociali dell’illuminismo borghese.