la recensione

L'estate ci regala Woken, un horror fantascientifico dal fascino irlandese

Un promettente esordio cinematografico quello di Alan Friel, già autore del bel corto Cake, che fa miracoli con un piccolo budget e confeziona un racconto sinistro supportato dalle ottime performance di Maxine Peake e Erin Kellyman
Woken film horror recensione
Erin Kellyman in WokenBlue Swan

Una combinazione di situazioni – una giovane donna si risveglia incinta e senza ricordi su un’isola abitata da un trio di individui sospetti – che insieme sono il preludio di un orrore sinistro costituisce la premessa di Woken, film horror al cinema dal 4 luglio distribuita da Blue Swan. La co-produzione italo-irlandese è il primo promettente lungometraggio del filmmaker Alan Friel, già presentata in anteprima lo scorso novembre all'ultimo Trieste Science + Fiction Festival. Abbiamo già introdotto quest'opera (qui) palesando un moderato entusiasmo, dopo la visione abbiamo constatato che è più articolata quanto intuibile: in Woken coesistono elementi dell'horror, del thriller psicologico, del postapocalittico, del post-umano e, più in generale, della fantascienza. “Amo il genere, quando la fantascienza è fatta bene offre un tipo di evasione assoluta” ci ha spiegato il regista, sceneggiatore e pittore irlandese Friel. “Puoi afferrare le persone e portarle in un altro mondo. C'è una sorta di libertà insita nel genere, ed è bello vedere cose che non si aspettano" e ha aggiunto "Sono cresciuto guardando Blade Runner, ET e Alien, sono i film della mia generazione che ho amato di più e mi hanno ispirato a “passare” dalla pittura al cinema.”

L’approdo al cinema di Friel è il frutto di una lunga gestazione, in cui si inserisce l'apprezzato corto Cake - un concentrato di ironia e tensione - con Maxine Peake e Letitia Wright (potere vederlo qui) alle prese con una situazione “a corto di opzioni” e…. “l’ultima fetta di torta”. La storia “è stata scritta prima dell’avvento della pandemia. Quando è scoppiato il Covid, ho pensato che nessuno avrebbe voluto vedere un film che parla di isolamento” ha ricordato Friel. “All’inizio l’idea riguardava una sola figura, una donna, poi è cresciuta, ho cominciato a pensare a cosa si poteva realizzare con un budget basso e poche persone” ha rivelato il regista, "Ho letto alcune cose sulle pandemie, e poi ho scritta la storia come un avvertimento. Poi è arrivato Covid-19, le pandemie sono diventate una realtà e ho pensato che la gente l’avrebbe pensato che l’ho scritta dopo, ma non è così”. Volendo dispensare una critica esaustiva senza svelare troppo, possiamo assicurare che in Woken funzionano molte cose, a partire dall’atmosfera, resa minacciosa dall’ambientazione spoglia, claustrofobica e rarefatta.

Le location irlandesi forniscono uno sfondo suggestivo, aspro e brullo, creando la sensazione di trovarsi in balia degli elementi in un luogo lontano dalla civiltà. Non solo esteticamente, anche i suoni, i rumori e la loro assenza, echi di un’isola selvaggia e ostile, sono dosati per aumentare il senso di solitudine, abbandono e timore. Friel ha una buona padronanza dello strumento della tensione, sa evocare sensazioni come l’inquietudine, il sospetto, la diffidenza. Lo spettatore vive le esperienze e la paranoia di Anna (Erin Kellyman di Willow, Solo: A Star Wars Story), che, dopo essersi risvegliata da un incidente, viene accudita dalla gentile e più attempata vicina di casa Helen (Maxine Peake) e dal marito James (Ivanno Jeremiah). È incinta di un marito che il suo corpo rifiuta, come se oltre ai ricordi avesse perso anche la memoria “fisica” della loro intimità. Non solo Anna non conosce il proprio passato, ma l’atteggiamento di chiunque circonda lascia intuire bugie e segreti. Che sia finita nelle mani di una setta alla Rosemary’s Baby, che sia una visionaria paranoica? Qualsiasi eventualità è allarmante.

Le due protagoniste sono un altro punto a favore di Woken. L’attrice emergente Erin Kellyman fornisce una performance contenuta ed efficace nei panni di Anna, eroina ingenua e innocente ma anche astuta e diffidente. Accanto a lei, c’è la superba Maxine Peake di Silk, Shameless, e The Village, impeccabile interprete di piccolo e grande schermo britannici, nei panni di una donna troppo gentile e troppo buona per essere vera. Man mano che la narrazione avanza, le risposte arrivano (da qui in avanti, da fanatici della SF, abbiamo trovato Woken un po’ meno incisivo e un po' più scontato) e si rivelano piuttosto pragmatiche, ma non per questo meno brutali, crudeli o perturbanti. Friel non teme di affrontare il lato più distopico del futuro o quello più oscuro della natura umana, e fa culminare il suo film in un finale che ha appiccicata addosso una patina densa di sensazioni disturbanti. Argomenti come quello dei limiti etici della scienza, dell’evoluzione post-umana e dell'intelligenza artificiale arricchiscono la narrazione in modi che alimentano discussioni più che mai attuali.

Se mai la vita venisse annientata da un evento catastrofico, la questione più importante diventerebbe la possibilità o meno di trovare un modo per salvare l’umanità“, ha osservato Friel che, da avido lettore di Wired, ha voluto dirci la sua sull'intelligenza artificiale. “Penso che, come esseri umani, incasineremo le cose a tal punto da doverci sostituire con l'Ai o con qualcos’altro scaturito dalla tecnologia. Ricordo che quando frequentavo il liceo artistico ho lavorato a un progetto basato sugli slogan, e quello su cui dovevo lavorare io era tratto da un saggio” ricorda Friel. “Era un saggio sulla tecnologia del 1922 di un autore inglese [WL George, ndr] che diceva che, come esseri umani, alla fine ci adatteremo alla tecnologia, alla fine le nostre immagini corporee rimarranno intatte finché le nostre menti sopporteranno lo sforzo. Personalmente, penso che all’umanità piaccia giocare a fare Dio, sentirsi superiori, e pertanto arriveremo a uno stadio in cui riusciremo a creare qualcosa che abbia un aspetto così umano da risultare indistinguibile”. Luck of the Irish - fortuna dell'irlandese - accadrà davvero.