la recensione

A Quiet Place: Giorno 1 è un viaggio controcorrente senza una destinazione precisa

Il prequel della serie sugli alieni con un gran udito e nessuna vista regala la solita ottima tensione, ma stavolta senza coinvolgimento emotivo
a quiet place giorno 1

Quando un sequel, o più spesso un prequel, di una serie di film di buon successo, amati e apprezzati, sceglie di avere dei protagonisti diversi da quelli originali, la prima domanda che viene da farsi è come li abbiano scelti. Perché, per raccontare la storia dell’inizio dell’invasione aliena che in A Quiet Place era già iniziata da tempo, si sceglie una donna afroamericana malata di cancro (Lupita Nyong'o) e un inglese (Joseph Quinn) di buona famiglia? A Quiet Place: Giorno 1 non riesce veramente a rispondere a questa domanda, cioè non sembra fornire grandi argomentazioni che giustifichino il fatto che, di tutta la folla di Manhattan in fuga o in cerca di sopravvivenza nei primi quattro giorni dall’arrivo degli alieni feroci che non vedono ma sentono, noi seguiamo proprio loro due. All’inizio e alla fine vediamo anche Djimon Hounsou, che ha un ruolo nel secondo film, e la voglia in realtà sarebbe un po' quella di seguire lui.

Nei rari momenti in cui il film vuole raccontare i suoi personaggi, quando ormai molto avanti nella storia vuole dar loro un po’ di personalità, farci affezionare a loro e, in buona sostanza, dar loro un perché, è terribile. Sono proprio le fasi riuscite peggio. Sembra voler costruire delle “non personalità”: non ci sono grandi questioni dietro di loro e non c’è nemmeno una sfida o una posta in gioco nelle loro vite che dia forza alla loro esigenza di sopravvivere. Si intuisce che Michael Sarnoski, che il film lo scrive e dirige, cerchi un’astrazione superiore agli altri film, di fatto prende di punta i massimi sistemi e vorrebbe che i suoi personaggi fossero espressione di concetti più grandi, come il senso di una vita e assaporare il piacere che viene dall’essere vivi, ma non trova mai le immagini, gli snodi o le soluzioni per coinvolgerci.

Il vero protagonista del film sono gli alieni e la particolare unione di brutalità minacciosa e attenzione al sonoro che A Quiet Place, qui inteso come un format, impone. Il primo e il secondo film erano un’unica storia di una famiglia che per le sue particolari caratteristiche ben si sposava con l’esigenza di non fare rumore (nel primo film lei è incinta e sta per partorire, nel secondo c’è il neonato). Qui abbiamo il gatto più silenzioso di sempre, che non leva e non mette molto ed è usato più che altro come ancoraggio sentimentale. È così quindi che emerge il format, cioè le lunghe scene di silenzio, la tensione data dal non fare rumore e la recitazione di sole espressioni dei personaggi. E questo continua a funzionare più di tutto. La tensione e la paura ci sono, come c’è quella strana dinamica che era già vera nei primi due film: se lo si vede in un cinema si ha il terrore di fare rumore, tale è l’immersione nelle dinamiche della paura. Peccato che in questa maniera questo prequel suoni semplicemente come un nuovo episodio di una serie antologica, come una nuova avventura autoconclusiva nel mondo di A Quiet Place, qualcosa di buono per la TV ma molto meno per la sala.

Un intreccio degno di questo nome avrebbe aiutato, ma non c'è e bisogna mettersi l’anima in pace presto. La cosa buona che viene con questi personaggi è che almeno A Quiet Place: Giorno 1 è un viaggio controcorrente, nella direzione opposta a quella in cui vanno tutti e quindi in quella opposta a quella in cui vanno i film di questo tipo. I protagonisti non si vogliono davvero salvare. Come ormai noto questi alieni non nuotano e quindi si fermano di fronte all’acqua, dunque una volta tanto il fatto che gli extraterrestri atterrino sempre in America e nello specifico a Manhattan ha una sua utilità. Ben presto vengono fatti saltare tutti i ponti che collegano l’isola alla terraferma, di fatto isolando l’invasione. Le persone rimaste a Manhattan sanno che devono recarsi in un certo punto per essere prelevate da alcune imbarcazioni di salvataggio.

Non è però lì che va la nostra protagonista; lei va nella direzione opposta, non vuole vivere, vuole andare a mangiare l’ultima fetta di pizza della sua pizzeria preferita. È un pretesto che dovrebbe funzionare come una metafora, qualcosa di strano e inconsueto che svela un desiderio di vivere appieno in un momento in cui tutti sembrano mettersi in salvo in altre maniere. Quando però arriva al dunque, A Quiet Place: Giorno 1 non sa tendere la sua metafora, cioè non sa trasformare l’atto semplice di assaporare un cibo a cui si è legati, nella sineddoche di tutti i sentimenti di una vita. E anche un finale che è chiaro essere concepito come liberatorio non lo è per niente.