Raffaele de Cesare: differenze tra le versioni
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*{{NDR|Ferdinando Troja}} Parlava ordinariamente il dialetto, e chiacchierando aveva per intercalare: ''vuje che dicite?'' Per lui il mondo si era fermato al 1789, e il Regno delle Due Sicilie non era compreso nell'Italia. Scaltro e forse scettico in fondo, il Troja copriva la scaltrezza con un manto d'ipocrisia untuosa; onde, avendo anche l'abitudine di tenere il capo sempre chino a sinistra, il Re<ref>Ferdinando II delle Due Sicilie (1810–1859).</ref> lo chiamava ''Sant'Alfonso alla smerza'', cioè ''Sant'Alfonso alla rovescia'', perché Sant'Alfonso de' Liguori, del quale il Re era devotissimo, è dipinto con la testa inclinata sulla spalla destra. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 5, p. 77) |
*{{NDR|Ferdinando Troja}} Parlava ordinariamente il dialetto, e chiacchierando aveva per intercalare: ''vuje che dicite?'' Per lui il mondo si era fermato al 1789, e il Regno delle Due Sicilie non era compreso nell'Italia. Scaltro e forse scettico in fondo, il Troja copriva la scaltrezza con un manto d'ipocrisia untuosa; onde, avendo anche l'abitudine di tenere il capo sempre chino a sinistra, il Re<ref>Ferdinando II delle Due Sicilie (1810–1859).</ref> lo chiamava ''Sant'Alfonso alla smerza'', cioè ''Sant'Alfonso alla rovescia'', perché Sant'Alfonso de' Liguori, del quale il Re era devotissimo, è dipinto con la testa inclinata sulla spalla destra. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 5, p. 77) |
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*Il Troja era ritenuto uomo senza cuore. Ammalatosi di mal di pietra<ref>Calcolosi.</ref> e curato dal chirurgo Leopoldo Chiari, ispirò al marchese di Caccavone questo spietato epigramma:<div align=center>Soffre di pietra, spasima<br>E c'è da sperar che muoja<br>Don Ferdinando Troja...<br>Né per scoprir l'origine<br>Del male, il buon dottore<br>Chiari granché fatica:<br>La cosa è chiara, il core<br>Gli è sceso alla vescica.</div>(Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 5, pp. 77-78) |
*Il Troja era ritenuto uomo senza cuore. Ammalatosi di mal di pietra<ref>Calcolosi.</ref> e curato dal chirurgo Leopoldo Chiari, ispirò al marchese di Caccavone questo spietato epigramma:<div align=center>Soffre di pietra, spasima<br>E c'è da sperar che muoja<br>Don Ferdinando Troja...<br>Né per scoprir l'origine<br>Del male, il buon dottore<br>Chiari granché fatica:<br>La cosa è chiara, il core<br>Gli è sceso alla vescica.</div>(Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 5, pp. 77-78) |
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*[[Carlo Troya|Carlo {{sic|Troja}}]] fu il vero grande storico napoletano di questo secolo. Il nome suo è congiunto indissolubilmente alla storia d'Italia e a quella dell'antico Reame. Al suo senso storico si deve se il Medio Evo non fu più una tenebra per gli studiosi. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 12, p. 235) |
*[[Carlo Troya|Carlo {{sic|Troja}}]] fu il vero grande storico napoletano di questo secolo<ref>L'Ottocento.</ref>. Il nome suo è congiunto indissolubilmente alla storia d'Italia e a quella dell'antico Reame. Al suo senso storico si deve se il Medio Evo non fu più una tenebra per gli studiosi. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 12, p. 235) |
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*Attorno al nome di [[Nicola Morra (brigante)|{{sic|Niccola}} Morra]] si era formata una leggenda di simpatia e di paura. Si raccontava che, vestito da gran signore, avesse largamente soccorsa una povera donna; in abito monacale, generosamente aiutato un vecchio infermo e, vestito da mendicante, avesse schiaffeggiato l'intendente Guerra nella villa di Foggia, senza che questi opponesse resistenza. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 18, p. 364) |
*Attorno al nome di [[Nicola Morra (brigante)|{{sic|Niccola}} Morra]] si era formata una leggenda di simpatia e di paura. Si raccontava che, vestito da gran signore, avesse largamente soccorsa una povera donna; in abito monacale, generosamente aiutato un vecchio infermo e, vestito da mendicante, avesse schiaffeggiato l'intendente Guerra nella villa di Foggia, senza che questi opponesse resistenza. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 18, p. 364) |
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*{{NDR|Il brigante Morra}} I suoi ricatti erano celebri. Al ricco Antonio Padula di Candela aveva estorti ottomila ducati; a Leone Maury, soprintendente dei beni del duca di Bisaccia, duemila piastre; l'arciprete se lo era veduto innanzi in sagrestia; il tenente dei gendarmi, nella caserma; ma sopra tutti restò famoso il ricatto di Gaetano Pavoncelli, giovane figliuolo di Federico Pavoncelli, che aveva soccorso sino all'ultimo giorno il padre di {{sic|Niccola}} e tenuto questo al fonte battesimale. Il giovane Pavoncelli riuscì però a fuggire, e il riscatto non fu pagato. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 18, pp. 364-365) |
*{{NDR|Il brigante Morra}} I suoi ricatti erano celebri. Al ricco Antonio Padula di Candela aveva estorti ottomila ducati; a Leone Maury, soprintendente dei beni del duca di Bisaccia, duemila piastre; l'arciprete se lo era veduto innanzi in sagrestia; il tenente dei gendarmi, nella caserma; ma sopra tutti restò famoso il ricatto di Gaetano Pavoncelli, giovane figliuolo di Federico Pavoncelli, che aveva soccorso sino all'ultimo giorno il padre di {{sic|Niccola}} e tenuto questo al fonte battesimale. Il giovane Pavoncelli riuscì però a fuggire, e il riscatto non fu pagato. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 18, pp. 364-365) |
Versione delle 15:20, 30 gen 2019
Raffaele de Cesare (1845 – 1918), storico, giornalista e politico italiano.
La fine di un Regno (Napoli e Sicilia)
Con decreto del 26 luglio 1849, Ferdinando II aveva ripristinato il ministero di Sicilia a Napoli, e con un altro del 27 settembre, dello stesso anno, ripristinò la luogotenenza. Questo decreto, riconfermando l'obbligo per la Sicilia di contribuire nella proporzione del quarto alle spese generali del Regno, cioè della Casa Reale, degli affari esteri, della guerra e marina, sanzionava una specie di autonomia per gli affari civili, ecclesiastici e di pubblica sicurezza, i quali vennero affidati al luogotenente, e ad un Consiglio di quattro direttori. Autonomia più di nome che di sostanza, perché, circa gli affari i quali richiedevano l'approvazione sovrana, ed erano quasi tutti, il luogotenente doveva riferire, col parere del suo Consiglio, al ministro di Sicilia in Napoli, cui toccava il diritto e l'obbligo di esaminarli e farne relazione alla presidenza dei ministri e al Re.
Citazioni
- [Carlo Filangieri] Molto era il suo prestigio. Figlio di Gaetano Filangieri; soldato di Napoleone; uccisore in duello del generale Franceschi, perché sparlava dei napoletani; crivellato di ferite al ponte San Giorgio nella disgraziata campagna di Murat contro gli austriaci; imparentato con quanto di più alto contava la nobiltà dell'Isola[1], poiché la principessa di Satriano nasceva Moncada di Paternò[2]; dotato di una inflessibile energia, di cui aveva dato prova durante la campagna: tutto concorreva ad aumentare questo prestigio. Egli seguiva fedelmente la massima napoleonica: messo a governare un paese ribelle, doveva innanzi tutto farsi temere; possibilmente, farsi amare, doveva togliere via via con la forza e col tatto, le cause, le occasioni e perfino i pretesti di ogni tentativo di rivolta. E vi riuscì. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 1, p. 13)
- Ferdinando Troja era fratello di Carlo, il celebre storico dei Longobardi, che fu presidente del ministero del 3 aprile, caduto il 15 maggio. Questi fratelli avevano indole affatto diversa e studii diversissimi. Ferdinando era ben infarinato di latino e di giurisprudenza e aveva fama di buon magistrato; non credeva a libertà e a progresso; assolutista e municipale, reputava per lui un dovere servire il Sovrano senza discutere, e anzi senza farsi lecito di pensare neanche. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 5, p. 77)
- [Ferdinando Troja] Parlava ordinariamente il dialetto, e chiacchierando aveva per intercalare: vuje che dicite? Per lui il mondo si era fermato al 1789, e il Regno delle Due Sicilie non era compreso nell'Italia. Scaltro e forse scettico in fondo, il Troja copriva la scaltrezza con un manto d'ipocrisia untuosa; onde, avendo anche l'abitudine di tenere il capo sempre chino a sinistra, il Re[3] lo chiamava Sant'Alfonso alla smerza, cioè Sant'Alfonso alla rovescia, perché Sant'Alfonso de' Liguori, del quale il Re era devotissimo, è dipinto con la testa inclinata sulla spalla destra. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 5, p. 77)
- Il Troja era ritenuto uomo senza cuore. Ammalatosi di mal di pietra[4] e curato dal chirurgo Leopoldo Chiari, ispirò al marchese di Caccavone questo spietato epigramma:Soffre di pietra, spasima(Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 5, pp. 77-78)
E c'è da sperar che muoja
Don Ferdinando Troja...
Né per scoprir l'origine
Del male, il buon dottore
Chiari granché fatica:
La cosa è chiara, il core
Gli è sceso alla vescica. - Carlo Troja fu il vero grande storico napoletano di questo secolo[5]. Il nome suo è congiunto indissolubilmente alla storia d'Italia e a quella dell'antico Reame. Al suo senso storico si deve se il Medio Evo non fu più una tenebra per gli studiosi. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 12, p. 235)
- Attorno al nome di Niccola Morra si era formata una leggenda di simpatia e di paura. Si raccontava che, vestito da gran signore, avesse largamente soccorsa una povera donna; in abito monacale, generosamente aiutato un vecchio infermo e, vestito da mendicante, avesse schiaffeggiato l'intendente Guerra nella villa di Foggia, senza che questi opponesse resistenza. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 18, p. 364)
- [Il brigante Morra] I suoi ricatti erano celebri. Al ricco Antonio Padula di Candela aveva estorti ottomila ducati; a Leone Maury, soprintendente dei beni del duca di Bisaccia, duemila piastre; l'arciprete se lo era veduto innanzi in sagrestia; il tenente dei gendarmi, nella caserma; ma sopra tutti restò famoso il ricatto di Gaetano Pavoncelli, giovane figliuolo di Federico Pavoncelli, che aveva soccorso sino all'ultimo giorno il padre di Niccola e tenuto questo al fonte battesimale. Il giovane Pavoncelli riuscì però a fuggire, e il riscatto non fu pagato. (Parte prima - Regno di Ferdinando II, cap. 18, pp. 364-365)
Incipit di Il Conclave di Leone XIII
Il Conclave di Leone XIII sarà dei più memorabili che ricordi la storia della Chiesa: memorabile per condizioni e circostanze storiche del tutto nuove, per la libertà che godette, e anche per i criterii, che suggeriscono la scelta del nuovo pontefice. I padri non furono turbati da interessi politici, o da gare personali e mondane; né l'inframmettenza degli Stati cattolici, aventi il diritto di veto, li distolse dallo scegliere il Papa, che essi credevano più atto al governo della Chiesa. Nessuno di quegli Stati esercitò il suo diritto direttamente, né indirettamente mercé istruzioni ai propri cardinali e diplomatici. Liberissima elezione, quale non vi fu mai, forse, e piena smentita del tradizionale motto "esce cardinale dal Conclave chi vi entra Papa".
Note
Bibliografia
- Raffaele de Cesare, Il Conclave di Leone XIII, S. Lapi Tipografo Editore, Città di Castello, 1888.
- Raffaele de Cesare, La fine di un Regno (Napoli e Sicilia), Parte prima - Regno di Ferdinando II, S. Lapi Tipografo Editore, Città di Castello, 1900.
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