Wild Orchids: differenze tra le versioni
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Qui termina l’album“Wild Orchids” |
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Con questo lavoro Steve Hackett cerca nuove ispirazioni melodiche e compositive, sposandole al suo stile più consolidato. Il risultato è ibrido. Non convince del tutto perché i territori in cui si avventura non sono originali e si richiamano (forse inconsapevolmente) ad |
Con questo lavoro Steve Hackett cerca nuove ispirazioni melodiche e compositive, sposandole al suo stile più consolidato. Il risultato è ibrido. Non convince del tutto perché i territori in cui si avventura non sono originali e si richiamano (forse inconsapevolmente) ad altre notevoli fonti d’ispirazione, che non fanno spiccare il volo a questa nuova fatica discografica. Il disco resta a indiscutibili livelli qualitativi, ma manca il salto verso nuovi orizzonti e il dono di una sintesi stilistica difficile da compiersi, ma che speriamo auspicabile: per traghettare la tradizione del “mito progressive” lungo il terzo millennio dell’epopea del rock. |
Versione delle 11:17, 10 giu 2008
“Wild Orchids” è l’ultima fatica rock di Steve Hackett che propone alcune novità.
Il disco si apre con: “Howl”: l’inizio, dal tono sinfonico sintetico prodotto dalle tastiere è incalzante e drammatico. Promettente esordio.
“The Fundamentals of Brainwashing” viene scandito da un riff ripetitivo, suonato con una sorta di sitar (vero o sintetizzato?), e sostenuto da un ritmo tribal - techno arricchito da divagazioni orientali affascinanti. Forse si protrae eccessivamente.
“She moves in the Memories” è una ballata dolcissima, sognante che ci fa fare un salto nell’infanzia e ci restituisce il compositore che conosciamo con i suoi cori, le arpe, gli arpeggi indovinati. Una sorta di ninna nanna celtica. Una chicca..
“Why”,è un brano ritmato dal sapore orientale con voce recitante, ripetitivo, che involve e dilunga in un hard rock con squarci teatrali operistici.
“Worlwork” intermezzo easy - jazz con voce filtrata, fa da introduzione alla successiva
“Man in The Black Coat”: un’ altro esercizio stilistico impeccabile dell’ ormai consolidato stile hackettiano, una dolce composizione infarcita da cori barocchi nello sfondo, insieme ai flauti le tastiere e le chitarre.
“Ego and Id” è un hard rock con una voce usata in modo poco convincente. Voce che indebolise l’impatto di un brano comunque impreziosito da ottimi lavori alla chitarra solista con uso di tapping, distorsione , wah wah. Dal sapore vagamente pinkfloydiano.
Un’atmosfera blues acustica ci introduce in “To a Close”, una canzone elettrica intimista e crepuscolare, ci ricorda le ultime produzioni dei Dire Straits, con tanto di voce stile knopfleriano. Brano raffinato, ma fuori contesto.
“A Girl Called Lina” è invece un esperimento stilistico che cerca di tenere insieme più anime: il rock orchestrale alanparsoniano e beatlesiano con momenti impressionistici cari al nostro chitarrista compositore. Da ascoltare
Un breve stacco radiofonico parodistico anni ’30 “ Down Street” ci apre le strade a “Set Your Compass”. Lavoro strumentale orchestrale leggiadro e neo romantico con flauto, arpe e orchestra. Una melodia dolce e semplice caratteristica del nostro, che sembra concludere il disco.
Mentre un altro notevole richiamo pinkfloydiano viene suggerito da “Waters of the Wild” , le cui progressioni armoniche la dicono lunga su certe radici che accomunano le ispirazioni del genere rock sinfonico, psichedelico e quant’altro di simile.
E questa volta è veramente l’ultimo brano: “Darknight in Toytown” , dove un breve intro da incubo ci spalanca subito in una chiusura dall’incedere drammatico e inesorabile, condito da incisi elettrici e acustici di pianoforte. Che ci ricorda le ispirazioni epiche di “Shadows of an Hierophant” del suo primo disco.
Qui termina l’album“Wild Orchids” Con questo lavoro Steve Hackett cerca nuove ispirazioni melodiche e compositive, sposandole al suo stile più consolidato. Il risultato è ibrido. Non convince del tutto perché i territori in cui si avventura non sono originali e si richiamano (forse inconsapevolmente) ad altre notevoli fonti d’ispirazione, che non fanno spiccare il volo a questa nuova fatica discografica. Il disco resta a indiscutibili livelli qualitativi, ma manca il salto verso nuovi orizzonti e il dono di una sintesi stilistica difficile da compiersi, ma che speriamo auspicabile: per traghettare la tradizione del “mito progressive” lungo il terzo millennio dell’epopea del rock.